Passi
verso un ethos condiviso
di
Pier Cesare Bori
Presenterò
qui, nelle sue basi teoriche e nel suo metodo, l'esperienza didattica da me
svolta nella casa circondariale Dozza dall'ottobre del 1998, soprattutto con
stranieri, specialmente di tradizione islamica. Tuttavia molto di quanto dirò
vale esattamente anche per la mia attività di docente e di educatore durante
gli ultimi quindici anni, in università e in altri contesti. Ho infatti
cercato l'esperienza in carcere non come una iniziativa umanitaria, ma come
una verifica di ipotesi culturali e pedagogiche già in precedenza formulate e
messe alla prova. Devo però aggiungere che il lavoro in carcere è stato per
me causa di una straordinaria accelerazione e chiarificazione di molte
riflessioni, e anche questo è motivo di gratitudine verso chi mi ha concesso
di condurre questo esperimento.
Confesso che spesso trovo imbarazzo a spiegare che cosa esattamente insegno in
prigione. Potrei forse dire che insegno "la Regola d'oro", l'antico
principio presente in tante tradizioni, scritte o orali: "non fare ad
altri quello che non vorresti fosse fatto a te". Il punto finale
riguarderà infatti proprio la "Regola aurea" e il suo ruolo
centrale in un ethos condiviso.
Ma ciò che più conta e dà significato alla meta sono i passi che vi portano
(ho sottolineato anche con il titolo di questo intervento il termine
"passo", che contiene in sé l'idea di progredire attraverso una
sequenza di testi): ciò che più conta infatti sono le premesse
antropologiche, per cui da una certa idea di essere umano deriva una determina
idea della sua dignità e della responsabilità.
Vi invito dunque a seguire dunque questi passi lungo un percorso di dieci unità
didattiche. Si tratta di un ragionamento che si svolge attraverso testi di
varie tradizioni: testi non assunti sincretisticamente come autorità della
Tradizione, o storicisticamente secondo una "storia dello spirito",
ma valorizzati singolarmente come fonti di conoscenza sia storica che
filosofico-argomentativa.
1. La lettura e la cura di sé Ogni inizio suppone un rinnovato riferimento ai
testi fondanti della propria cultura. Ma nella situazione multiculturale
(situazione nuova, ma non completamente inedita, si pensi all'epoca
tardo-antica, al Rinascimento, al primo romanticismo germanico) è necessario stabilire una nuova pedagogia dei grandi testi, una nuova
nozione di "classicità" un nuovo canone, comprensivo dei testi fondanti di alcune delle grandi
tradizioni dell'umanità e sempre aperto a nuovi apporti. In concreto, il
gesto primo e fondamentale - il primo passo - è quando, nella biblioteca, si
pone nelle mani e dinanzi agli occhi degli allievi una raccolta comprensiva di
testi platonici, cinesi, indiani, biblici, islamici.
Il testo di base è fornito da Seneca, le prime due lettere a Lucilio.
Prenditi cura di te stesso, dice Seneca, rivendicando il tuo tempo e leggendo
"gli autori più validi", "qualcosa che sia di aiuto contro la
povertà, contro la morte e contro le altre sventure".
2. La fiducia nella conoscenza, la liberazione attraverso il sapere, la
fiducia in se stessi. Il testo fondante è qui Repubblica VII, la caverna, o
anche la prigione. Contro di sofisti, Socrate afferma che:
Se ciò è vero, occorre allora essere convinti che la cultura non è quella
che alcuni proclamano che sia. Sostengono infatti di infondere la scienza in
un'anima in cui la scienza non è presente, come la vista in occhi ciechi...
Mentre questo discorso mostra la presenza nell'anima di ciascuno della potenza
che è l'organo per cui ciascuno apprende; e che, come l'occhio non può
volgersi se non con tutto il corpo dalle tenebre alla luce, così occorre che
quella potenza sia rivoltata insieme con tutta l'anima contro al divenire,
sinché divenga capace di contemplare l'essere e la parte più luminosa di
questo, che noi diciamo il bene(Repubblica 518c-d, tr. mia).
Il testo serve anche a definire il ruolo del "maestro", di colui che
possiede l'"arte di volgere l'anima", come dice Platone, verso la
"luce", nel nostro caso, verso i grandi testi: ruolo fondamentale e
tuttavia strumentale e provvisorio, perché chi insegna non infonde la potenza
conoscitiva, ma può solo risvegliarla e volgerla verso la direzione giusta.
Dunque, questo testo deve suggerire una fondamentale fiducia in se stessi.
3. Il nesso tra eros e bellezza-sapienza. Il testo di riferimento viene ancora
da Platone, anzi da Socrate, anzi da una donna, Diotima.
Nel Simposio, alla retorica che esalta eros come un "gran dio",
Socrate oppone una concezione al tempo stesso realistica e molto alta di eros
che è desiderio, carenza. Eros ha origini basse, comuni (in quanto figlio,
secondo il mito, di Poros e Penìa, cioè di "povertà" e
"sagacia"), ma aspira alla bellezza, e alla "sapienza che è le
cose più belle". Eros non possiede, ma aspira a sapienza e alla
bellezza:
Eros non è mai né povero né ricco, e del resto sta in mezzo tra la sapienza
e l'ignoranza...La sapienza è infatti fra le cose più belle, ed Eros è
amore del bello: sicché di necessità Eros amerà la sapienza, ed essendo
amante della sapienza sarà intermedio tra sapiente e ignorante. (Simposio 204
a-c, tr. S. Marchignoli).
Dunque alla radice stessa dell'essere umano, nella sua istintualità, c'è una
potenza che, rettamente intesa e guidata, cerca una vita "buona e
bella", .
4. Un' idea analoga - dalle emozioni alle virtù - viene suggerita ricorrendo
alla tradizione confuciana dove, in base ad un testo di Mencio ( cavallo tra
IV e III secolo a.C.) , si mostra come un'emozione primaria (la reazione
spontanea di chiunque veda un bambino cadere in un pozzo) possa attingere alla
virtù (nella tradizione confuciana, la benevolenza, e poi il rispetto delle
convenzioni, la giustizia, la sapienza), attraverso l'auto-coltivazione, il
lavoro su se stessi.
5. Il quinto passo si compie lavorando su un testo induista che serve a
delineare l'idea di via spirituale. "Spirituale" è più ampio di
"religioso", e "via" è un percorso che, costituisce una
risposta concreta alla domanda circa il compito spettante ad ogni umano. Il
testo fondante qui è la Bhagavadgîtâ: dalla sua lettura si ricava l'idea di
un itinerario che ciascuno deve compiere, misurandosi con il desiderio (kâma),
un itinerario necessariamente comprensivo di una disciplina etica (karmayoga )
e intellettuale (jñanayoga), cui si aggiunge la dimensione religiosa (bhaktiyoga
) che costituisce - nella mia lettura - una variante possibile, talvolta
vantaggiosa, ma non necessaria, delle prime due.
6. L'idea di pluralità delle vie. Il riferimento importante è qui al primo
straordinario documento di tolleranza e pluralismo nella storia dell'umanità,
gli editti rupestri di Açoka (III secolo a.C.).
Il re Piyadassi caro agli dèi onora tutte le confessioni... non ritiene tanto
importanti i doni o gli onori, quanto che ci sia crescita essenziale per tutte
le confessioni. La crescita essenziale poi è di molte specie; e tuttavia
questa è la sua radice, la moderazione nelle parole: cioè il fatto che
l'onorare la propria confessione o il biasimare la confessione altrui non
avvengano inopportunamente, o avvengano con delicatezza se ne presenta una
qualunque opportunità. Ma ogni occasione è opportuna per onorare la
confessione altrui. ...E' il convenire insieme che è bene, cioè che gli uni
prestino ascolto al dhamma [ la religione, la via spirituale potremmo dire]
degli altri e lo rispettino. Così infatti è il desiderio del caro agli dèi,
che tutte le confessioni coltivino l'istruzione e insegnino ad agire bene
(Editto XII su roccia, tr. di S. Marchignoli).
7. Il settimo passo riguarda la Legge. Qui l'universo religioso biblico ed
islamico si configura essenzialmente come "disciplina dell'azione",
al cui centro sta l'idea del disciplinamento e dell'orientamento del
desiderio. Si muove da un passo del Deuteronomio, il Decalogo, per affermare
che il carattere originale dei monoteismi- la loro forza e il loro limite - è
connesso all’ "ethos profetico", dipende cioè dalla specificità
della funzione profetica, come comunicazione di una volontà trascendente cui
deve corrispondere, da parte di una comunità umana, una prassi etica e
politica.
Si omettono testi del Nuovo Testamento e del Corano per evitare discussioni e
sospetti di proselitismo. Il nostro insegnamento è infatti laico,
filosofico-comparativo, e semmai è volto ad un recupero della propria
tradizione da parte degli allievi: un recupero, certo, in una prospettiva
critica e universalista.
8. Il nesso individuo-comunità: un testo di Al-Fârâbî, La città virtuosa,
(circa 870-950) riprende l'antico tema dell'uomo come animale politico:
Non è possibile che l'uomo attinga quella perfezione per la quale la natura
lo ha predisposto, se non associandosi a una multitudine di altri che
collaborino con lui, ognuno sovvenendo al suo simile con un qualcosa dicui ha
la necessità per sopravvivere.
mentre un brano da Ibn Zafar, scrittore arabo siculo del secolo XII (un testo
di antica ascendenza orientale) fa intuire la tensione tra individuo e comunità
e consente di intuire la differenza tra l'antica concezione organica della
comunità politica e il moderno individualismo.
9. Il nono passo riguarda il nesso religione-filosofia e si compie utilizzando
Averroè (111-1198). Si tratta di considerare religione e sapere scientifico
come due modi per attingere la stessa realtà. La religione ( o meglio, la
profezia) e la filosofia (la sapienza) dicono la stessa verità in due lingue
differenti. "Sappiamo dunque, noi musulmani, in modo definitivo, che la
speculazione dimostrativa (burhân) non conduce a conclusioni diverse da
quelli offerte dalla Legge. Poiché la verità non può contraddire la verità
(inna l-haqqa lâ yudadu l-haqqa) anzi quella testimonia a suo favore".
La relazione tra le due non può essere di subordinazione ("philosophia
ancilla theologiae" oppure, viceversa, la religione come stadio inferiore
della filosofia) , ma di indipendenza e di coesistenza amichevole: "la
sapienza è amica della religione e sua sorella di latte": così appunto
Averroè concludeva il suo piccolo Trattato decisivo. Questi linguaggi sono
diversi, e cioè originari, irriducibili, in modo che non sia lecito e
possibile né risolvere completamente un linguaggio nell'altro né subordinare
un linguaggio all'altro. Questi linguaggi vengono riformati nel caso di
conflitto. In particolare, Ibn Rushd sostiene la necessità
dell'interpretazione allegorica (ta'wîl) nel caso di conflitto tra la
speculazione dimostrativa ( burhân) e il testo religioso: in questo caso
"si richiede l'interpretazione allegorica di questo" (tuliba ta'wîluhu)
( e associo qui l'idea di "docta religio" e di "pia philosophia"
di Marsilio Ficino).
10. L'ultimo passo - che, ripeto, diviene pregnante solo in forza di quelli
precedenti - consiste nella "consegna" della cosiddetta "Regola
aurea" "non fare ad altri quel non vorresti fatto a te",
secondo varie tradizioni. Secondo J. Wattles, autore di un recente e
importante contributo sul tema,
"Agisci con gli altri come vorresti che gli altri agissero con te"
fa parte del linguaggio comune del nostro pianeta, un linguaggio condiviso da
persone che hanno differenti ma convergenti (overlapping) concezioni della
moralità. Solo un principio così flessibile può servire come scala morale
per tutta l'umanità.
Secondo la Dichiarazione per un ethos mondiale
C'è un principio che si trova e ha persistito in molto religioni e tradizioni
etiche dell'umanità per migliaia di anni: "Quello che non vuoi sia fatto
a te, non farlo ad altri". Oppure, in termini positivi: "Quello che
vuoi sia fatto a te, fallo agli altri".
Questa dovrebbe essere la regola irrevocabile, incondizionata per tutti i
campi della vita, per le famiglie e le comunità, per le razze, le nazioni e
le religioni.
La Dichiarazione fa derivare da questo "quattro ampie e antiche
linee di condotta del comportamento umano che si trovano nella maggior parte
delle religioni mondiali":
10. 1 La Regola d'oro, com'è noto, ha un ruolo importante nei Dialoghi
confuciani.
Cigong domandò: "C'è una singola parola che può essere di guida alla
condotta per tutta una vita?" Il maestro risposta: "Ci sarebbe la
parola shu ( ). Non imporre agli altri quel che tu stesso non desideri"
(15, 24)
Una delle sue più chiare enunciazioni suona:
Zigong disse: "Quel che non desidero che gli altri facciano a me, io non
voglio farlo agli altri". "Ancora non sei arrivato a questo (5, 11).
Altrove viene indicato precisamente nella regola il "metodo della
benevolenza": occorre partire dal proprio desiderio per comprendere il
desiderio altrui:
Essere capaci di valutare in base a ciò che è vicino, può dirsi il metodo
della benevolenza (6, 28).
10. 2 La formulazione cristiana è ben nota: "Qualunque cosa volete che
gli uomini facciano a voi, fatelo anche voi a loro" (Mt 7,12= Lc 6, 31
che esalta il contesto teologico). La specificità ebraica e cristiana è
sicuramente nella stretta interdipendenza tra Regola aurea e comandamenti: il
detto di Mt 7, 12 termina con "in questo sta la Legge e i profeti".
Viene inoltre spontaneo il parallelismo con l'altro compendio, circa il
comandamento più grande (Mt 22, 36-40 e paralleli: anche qui l'amore di Dio,
Dt 6, 5, e del prossimo "come se stessi", riassume "la legge e
i profeti").
10. 3 Nella sequenza dei testi abbiamo un detto (hadîth ) della Sunna, la
tradizione del profeta (Bukhari, libro II, "La fede")
Non è credente nessuno di voi, finché non ama per suo fratello quel che ama
per sé" (lâ yu'minu ahadukum hattâ yuhibba li akhihi ma yuhibbu li
nasfihi).
Anche qui si riscontra una specificazione che deriva dal campo teologico: si
tratta di "fratelli", all'interno della fede e della "'umma'
musulmana.
Il principio trova un'ampia ricezione , ad opera dei filosofi: tra i testi che
leggiamo c'è Ibn-Hazm, autore arabo-andaluso (994-1064).
"Non andare in collera", questa parola dell’Inviato di Dio a chi
gli domandava consiglio, come anche il suo precetto di desiderare per gli
altri quel che si desidera per sé stessi, queste parole riassumono tutte le
virtù. Infatti, il divieto della collera implica che l’anima dotata della
capacità di adirarsi si distoglie dalla passione [irascibile] e il
comandamento di desiderare per gli altri quel che si desidera per sé implica
che l’anima si distoglie dalla concupiscenza e afferma l’autorità della
giustizia .
C'è infine Al-Ghazâli, un brano da "O figlio" ( Ayyuha- l-walad ).
Al-Ghazâli è un autore molto importante sotto il profilo educativo (ho
utilizzato questo autore anche per alcune letture durante in recente Ramadan,
in tema di preghiera e di digiuno).
Fa' agli altri quello che vorresti ti fosse fatto perché la fede nell'uomo
non è perfetta se non quando ama per tutti quello che ama per se stesso.
10. 4 Le obiezioni ad un uso transculturale della Regola d'oro vengono
anzitutto da un punto di vista storico-antropologico: esiste un contesto
storico imprescindibile per ciascuna delle formulazioni. Specialmente nella
enunciazione profetica (Nuovo Testamento, il detto di Mohammed) c'è un
sigillo che conferirebbe alla Regola una specificità che resisterebbe ad ogni
tentativo di comparazione. La risposta sta, a mio parere, nella distinzione
tra la forma profetica e contenuto sapienziale: la modalità profetica e
particolaristica dell'enunciazione non può contestare il tendenziale
universalismo sapienziale, mondano, secolare della regola.
La seconda obiezione riguarda il carattere empirico della "Regola
d'oro", e quindi le insufficienti garanzie di imparzialità che essa
offrirebbe: "volere sia fatto a te" (ovvero "come se
stessi", secondo l'altra formula neotestamentaria), "amare per se
stessi" (Bukhari), non sarebbe sufficiente ad assicurare l'universalità
del principio. Alle origini dell'obiezione naturalmente c'è Kant che nella
Fondazione delle metafisica dei costumi ironizza sul "caro sé (das liebe
Selbst) che sempre spunta" e parla del "triviale quod tibi non vis fieri", "che non può
essere affatto una legge universale".
L'obiezione tocca le radici dell'antropologia filosofica, e il nesso tra
desiderio e sapienza, o legge. Se, contro il rigido deontologismo kantiano (e
tuttavia senza propensioni utilitariste), si accetta nel suo senso pieno la
premessa che ho posto, circa la connaturalità tra desiderio e sapienza
(3.1-2) allora viene meno lo sfondo su cui si regge l'obiezione. La direzione
corretta è quella che muove dalla giusta esplicazione del desiderio, per
attingere l'obiettiva universalità della legge.
Qui può venire in aiuto la tradizione confuciana. La Regola viene fatta
consistere da Confucio in due elementi: zhong ( ) e shu ( ) ( Dialoghi 4, 15).
Secondo Q. J. Wang i due elementi di cui la Regola d'oro confuciana si compone (entrambi con la
radicale xin, "mente-cuore"): zhong e shu, contengono
rispettivamente zhong idea di lealtà alla comunità, e quindi di imparzialità,
di equità (nel senso kantiano, potremmo dire) e, shu, l'idea di "cura e
amore corporeo", "bodily or somatic interpersonal care and
love" ( più ampiamente: "caring and loving relationship between 'I'
and and 'you' in 'our' community").
Wang sostiene il primato di shu su zhong nella formulazione confuciana: il
principio è sintesi di due elementi, ma quando si tratta di riassumerlo, si
ricorre a shu, mai a zhong.
A me sembra una buona indicazione: la retta applicazione della regola, vista,
piuttosto che come astratta giustizia, come un muovere da se stessi, dal
riconoscimento del proprio desiderio, per riconoscere e rispettare attorno a sé,
a cerchi concentrici sempre più ampi, gli altri e il loro desiderare uguale e
diverso, talvolta opposto.
Appare qui in tutta evidenza quanto dicevo affermavo all'inizio: ciò che dà
significato alla meta - la Regola d'oro - sono i passi che vi portano. La
presa di contatto con le proprie emozioni, come un materiale delicato ma
prezioso, la disciplina e l'elevazione del desiderio dinanzi a grandi testi e
grandi modelli, la percezione della diversità delle vie, il senso di comune
appartenenza alla società umana, la stima dell'elemento religioso, la
valorizzazione della razionalità, e il "parlare con moderazione"
della propria religione... solo su questo sfondo la Regola si riempie di senso.
Forse a questo punto è possibile rispondere in maniera pienamente convincente
alla domanda: "Che cosa insegni?" Potrei rispondere: la disciplina,
la liberazione e l'innalzamento del desiderio, in sé e negli altri,
attraverso la cultura, nel senso più alto (lettura dei grandi testi e
auto-coltivazione: Bildung). E' la dignità dell'uomo, come viene insegnata
dall'umanesimo.
E' possibile a questo punto rispondere a una seconda domanda, riguardante la
nostra lettura dei classici: "Perché queste cose vengono comprese e
interessano?"
Perché si scopre che si tratta di noi; che parlano di una ricerca, talvolta
in una lotta, che accomuna ognuno che vive.
Pier Cesare Bori
12 marzo 2000
Note:
1. Uso ethos a differenza di etica in base alla seguente
distinzione: ethos significa "l'atteggiamento morale di base [sittliche
Grundhaltung] delle persone, mentre "etica" è la dottrina
(filosofica o teologica) riguardante gli atteggiamenti morali [die Lehre von
den sittilichen Haltungen]": H. Küng- Karl-Joseph Kuschel ed., Erklärung
zum Weltethos. Die Deklaration des Parlamentes der Weltreligionen, Pieper, München-Zürich
1993, p. 68. Su questa "Dichiarazione per un ethos mondiale", v.
sotto, nota 11.
2. Cfr. S. Marchignoli, La Bibbia come progetto. Esplosione
del canone, nuova mitologia, orientalismo in F. Schlegel e nella "Frühromantik"
(1798-1801), in Annali di storia dell'esegesi 8/1(1991), pp. 169-191.
3. Riflessioni interessanti si trovano in M.C. Nussbaum,Coltivare
l'umanità. I classici, il multiculturalismo, l'educazione, tr. it. Carocci,
Roma 1999.
4. Cfr. l'introduzione a P.C. Bori-S. Marchignoli, Per un
percorso etico tra culture. Testi antichi di tradizione scritta, Nuova Italia
scientifica, Roma 1996, con successive edizioni presso Carocci.
5. Per un consenso etico tra culture, 2a edizione, Genova, Marietti, 1995, quarta tesi.
6.Cfr. il mio Universalismo come pluralità delle vie,
Filosofia politica XII/3(1998), 455-468. Reperibile anche in www.spbo.uni.it/pais/bori
7. Cfr. Monoteismo ed ermeneutica: quattro tesi, in Anima e
paura. Studi in onore di Michele Ranchetti, Quodlibet, Macerata 1998,69-78.
Reperibile anche in rete nel sito indicato sopra.
8.La città virtuosa, cap. 26, a cura di M. Campanini, BUR,
1996, p. 205.
9. Uso la traduzione di M. Campanini, Averroè, Trattato
decisivo, BUR, Milano 1994, p. 60 s.
10. Sono le ultime righe di J. Wattles, The Golden Rule,
Oxford University Press, New York-Oxford 1999, p. 189. Wattles documenta anche
la presenza della Regola d'oro nella tradizione greco-romana.
11. Segnalo che talvolta l'enunciato positivo e quello
negativo vengono distinti come "Regola d'oro e "regola
d'argento", come L. R. Kurtz, Le religioni nell'era della globalizzazione,
tr. it., Il Mulino, Bologna 2000, p. 145.
12. Cfr. Il regno-documenti 7/1994, p. 254, che riporta
questo testo approvato alla fine del "Parlamento mondiale delle
religioni", riunitosi a Chicago dal 28 agosto al 4 settembre 1994.
Numerose attestazioni di consenso a questa Dichiarazione sono raccolti da K. Küng
in Ja zum Weltethos. Perspektiven für die Suche nach Orientierung, München-Zürich
1995. Una voce di dissenso: R. Spaemann, Weltethos als "Projekt", in
Merkur 9/10 (1996), pp. 893-904.
13. "1. Impegno per una cultura della non-violenza e del
rispetto per la vita. 2. Impegno per una cultura della solidarietà e un
giusto ordinamento economico. 3 Impegno per una cultura della tolleranza e una
vita di sincerità. 4. Impegno per una cultura di eguali diritti e
collaborazione fra uomini e donne", ivi, pp. 254-6. Küng-Kuschel, Erklärung
cit., si riferisce anche a testi della tradizione giainista (Sutrakritanga, I,
11.33), induista (Mahabharata XIII.114. 8) e buddhista (Samyutta Nikaya V,
353.35-352.2), p. 82. La Regola d'oro è presente anche nelle tradizioni
orali: per esempio: "Il pensiero che si nutre nei riguardi di qualcuno,
è una camera dove ritroveremo noi stessi", cfr. A. Sylla, La philosophie
morale des Wolof, Université de Dakar,1994. Altri esempi in Wattles, The
Golden Rule, cit, p. 9. Il quacchero George Fox intorno al 1680 rilevava la
presenza della Regola d'oro presso gli Indiani d'America. "C'era un
dottore che disputò con noi, ciò che fu di grande utilità e fu l'occasione
di manifestare alla gente molte cose a proposito della Luce e dello Spirito.
Egli negava che fosse presente in tutti, io allora chiamai un indiano (quegli
negava che fosse presente in loro) e gli domandai se, quando eventualmente
mentiva e faceva qualcosa che non avrebbe voluto fosse fatto a lui e
sbagliava, non ci fosse qualcosa in lui che gli diceva che non avrebbe dovuto
fare così e lo rimproverava. Ed egli disse che c'era qualcosa del genere in
lui, quando faceva qualcosa di cui si vergognava. Così svergognai quel
dottore dinanzi al governatore e alla gente" ( (Journal, ed. G.F. Nuttall,
Cambridge 1952, p. 642).
14. Cfr. M.Scarpari, La concezione della natura umana in
Confucio e Mencio, Cafoscarina, Venezia 1991, p. 40 s.
15. Nell'antica Dottrina dei dodici apostoli, la Regola è
posta all'inizio: "Due sono le vie, una della vita e una della morte, e
la differenza è grande fra queste vie. Ora questa è la via della vita:
innanzi tutto amerai Dio che ti ha creato, poi il prossimo come te stesso; e
tutto quello che non vorresti fosse fatto a te, anche tu non farlo agli
altri" (vers. U. Mattioli). E' qui probabile una fonte ebraica. Nel 1648
George Fox, dopo una sua visione mistica del ritorno al Paradiso che gli fa
intuire una possibilità di una nuova umanità, stabilisce la stessa
connessione: amare il prossimo significa fare agli altri quel che si vorrebbe
fatto a noi stessi (Journal, cit. p. 29).
16. Cfr. lo hadîth precedente: "Un tale domandò al
Profeta - Iddio lo benedica e gli dia eterna salute- quale fosse il meglio
dell'Islâm. Rispose: 'Dà da mangiare e dà il saluto a chi conosci e a chi
non conosci'".
17. Ibn Hazm, Epître morale, Kitâb al-akhlâq wa-l-siyar,
n.26, a cura di N. Tomiche, Beyrouth 1961.
18. Lettre au disciple, Ayyahâ-'l-walad, a cura di T.
Sabbagh, Beyrouth 1969, p. 50-53.
19. Per la distinzione tra "profetico e sapienziale",
cfr. Per un consenso etico, cit., terza tesi.
20. Fondazione delle metafisica dei costumi, II, a cura di
A.M. Marietti, BUR, Milano 1995, p. 116 s.
21. Ivi, p. 172 s.
22. Golden Rule and Interpersonal care, Philosophy East and
West 49/4 (1999), pp. 415-338.
23. Ivi, p. 420.
24. In questa direzione mi pare che vada anche P. Ricoeur, Sé
come un altro, tr. it. Milano 1993, quando vede nella Regola d'oro "la
formula di transizione appropriata fra la sollecitudine e il secondo
imperativo kantiano" e cioè tra il rapporto dialogico interpersonale e
la norma per cui la volontà deve agire in modo da considerarsi al tempo
stesso universalmente legislatrice (pp. 319-328).
25. Così si potrebbe anche intendere l'aggiunta di Hillel,
il maestro ebreo, tra la fine del I e l'inizio del II secolo dell'e.v.:
"Ciò che è odioso a te, non farlo al tuo vicino: questa è l'intera
Torah, mentre il resto è commento: va e imparalo"(Shabbat 31a, cfr.
Wattles, cit., p. 48 s.). La Regola - come del resto nel Nuovo Testamento -
non dipende dalla Torah e tuttavia si riempie di senso solo sul suo sfondo.
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