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La pena al malato infettivo a prognosi infausta alla luce delle dottrine assiologiche della pena di Claudio Sarzotti
Premessa teorica: la prospettiva assiologica
Il dibattito sulla questione
della punizione delle azioni illegali commesse da soggetti colpiti dal
virus HIV, sebbene abbia coinvolto molteplici prospettive disciplinari,
presenta a mio avviso una lacuna. Nonostante tale tema sia emerso, ormai
da alcuni anni, come uno dei problemi di più pressante attualità
nell'ambito del diritto penale, esso è stato affrontato, infatti, o dal
punto di vista dei singoli ordinamenti giuridici positivi, o dal punto di
vista empirico, cioè rispetto agli effetti pratici che l'esecuzione della
pena a tali soggetti comporta. Riprendendo una nota distinzione concettuale
nell'ambito del discorso metateorico sulla pena, si potrebbe affermare che
la domanda: "perché punire il malato di Aids?" è stata
coniugata solamente in due dei tre modi astrattamente possibili. Secondo
una prima prospettiva di studio, partendo dai principi generali del
diritto penale positivo riconosciuti da un determinato ordinamento
giuridico, o da leggi ad hoc appositamente emanate, ci si è posti la
domanda se permanga il dovere giuridico di punire le azioni illegali
commesse da un individuo malato di Aids e, quando la risposta sia
positiva, con quali modalità debba avvenire tale punizione. Una seconda
prospettiva di analisi, invece, si è concentrata sulla questione
dell'opportunità, dal punto di vista di politica criminale, di punire
tali individui, discutendo sugli effetti empirici che l'esecuzione della
sanzione penale nei loro confronti comporta, rispetto alle loro condizioni
di salute, all'organizzazione complessiva del sistema penitenziario, alla
funzione deterrente della pena, al pericolo che essi rappresentano per la
sicurezza pubblica, etc.La domanda che, invece, non è stata posta con
sufficiente chiarezza è stata quella del perché si debba (o non si
debba) punire legalmente il malato di Aids. E' stata in altri termini
elusa, o per meglio dire non concettualmente evidenziata, la domanda
filosofica vera e propria, "precisamente [la domanda] di filosofia
morale o politica, che ammette risposte di carattere etico-politico
formulate in forma di proposizioni normative, in quanto tali né vere né
false, ma solo accettabili o inaccettabili come giuste o ingiuste".
Il dibattito sulla pena al malato di Aids si è in tal modo allineato al
percorso contorto del dibattito sulla pena tout court che, contravvenendo
al noto principio meta-logico secondo il quale non si possono derivare
conclusioni prescrittive da premesse aventi carattere descrittivo o
fattuale (c.d. legge di Hume), ha spesso confuso essere e dover
essere.Anche rispetto al tema che si sta trattando si è caduti spesso, o
nella fallacia naturalistica, facendo derivare da premesse
empirico-fattuali conclusioni di carattere normativo e utilizzando
spiegazioni del "fenomeno sanzione penale" come giustificazioni,
o all'inverso, nella fallacia normativistica, che è consistita nel
partire da argomentazioni di carattere assiologico per produrre enunciati
empirico-descrittivi (es. sostenere che la pena dovrebbe prevenire i reati
per concludere che essa effettivamente li previene, anche nel caso dei
malati di Aids).L'obiettivo che qui ci si propone è, quindi, di
analizzare la questione della pena all'individuo colpito dal virus HIV in
una prospettiva assiologica che mantenga un certo distacco da asserzioni
di carattere descrittivo-fenomenico di politica criminale. Occorre
peraltro precisare l'estrema problematicità di tale posizione di partenza
che implica un'accettazione critica del c.d. principio della Grande
Divisione che è stato ampiamente discusso dall'epistemologia
contemporanea. Senza entrare nel merito di un dibattito che non potrebbe
essere riassunto brevemente in questo lavoro, ci si limiterà qui a
sperimentare una prospettiva di filosofia analitica del linguaggio
scientifico che considera quale principale funzione del discorso
filosofico quella di fare chiarezza concettuale nell'uso degli enunciati.
E' stato osservato come una simile analisi formale, in linea di massima,
non possa "fornire contenuti positivi al sapere: il suo compito
appare piuttosto quello di segnare dei confini, di indicare limiti di
possibilità alle varie indagini specifiche". L'indicazione di tali
limiti di possibilità del discorso appare quanto mai utile in ambiti
discorsivi come quelli della giustizia penale che sono percorsi da
molteplici dinamiche di carattere politico, economico e culturale che
spesso distorcono pesantemente un dibattito che voglia essere
tendenzialmente orientato alla comprensione, attraverso accordi
razionalmente motivati circa pretese specifiche di validità normativa.
Nell'ambito del discorso sulla pena tale distorsione si manifesta
soprattutto nella mancata connessione tra i principi etico-giuridici che
fondano la legittimità della sanzione penale e il concreto dispiegarsi
delle norme di settore che il legislatore emana, spesso sull'onda di
emergenze sociali e politiche.In tale mancata connessione, del resto, ha
trovato espressione l'autonomia e la costitutiva eterogeneità del
carcerario rispetto al discorso giuridico dello stato di diritto che
rappresentano certamente gli aspetti più inquietanti e persistenti del
modello punitivo delle nostre società.Per questa ragione il confronto tra
principi etico-giuridici e norme di diritto positivo sul tema
dell'esecuzione della pena a soggetti colpiti dal virus HIV risulta molto
più agevole per quelle normative, di maggiore spessore giuridico, emanate
da alcuni organismi internazionali, segnatamente l'O.M.S. e il Consiglio
d'Europa, che non per le normative elaborate dagli ordinamenti giuridici
statuali. Tali organismi, infatti, hanno prodotto raccomandazioni e
direttive sovranazionali tendenti a ribadire i principi generali che
debbono ispirare l'esecuzione della pena in uno stato democratico di
diritto, cercando di non farsi travolgere dalla logica emergenziale e
disciplinare che ha spesso caratterizzato la reazione dei sistemi
penitenziari al pericolo della diffusione dell'Aids. Il carattere non
cogente di queste direttive e i larghi spazi di discrezionalità che esse
lasciano necessariamente ai legislatori nazionali, indicano come a
tutt'oggi resti assai problematica la possibilità di applicare le
generali categorie giuridiche di tutela dei diritti individuali al
rapporto punitivo di tipo carcerario.Di qui la necessità, quindi, di
enucleare i principali nodi concettuali relativi alla regolamentazione
giuridica della pena carceraria che il fenomeno dell'Aids in carcere ha
sollevato; la situazione del condannato affetto dal virus dell'Aids ha,
infatti, fatto esplodere contraddizioni profonde tra come la nostra
cultura può legittimare teoreticamente l'esecuzione della pena e il
funzionamento di quell'apparato di sapere-potere che è l'istituzione
carceraria. Il caso del condannato-malato di Aids costituisce certamente
un severo banco di prova per tutte le dottrine assiologiche che hanno
inteso argomentare la giustificabilità della sanzione penale comminata
dallo stato.Occorre precisare, tuttavia, come tale ricostruzione
concettuale non abbia la presunzione di essere né normativamente
neutrale, né tesa a proporre una scelta aprioristica a favore del
non-cognitivismo etico; si cercherà, invece, di illustrare, attraverso le
modalità argomentative dell'esperimento mentale (c.d. Gedankenexperiment),
le possibili soluzioni alla questione della legittimità della pena al
malato di Aids che si possono ottenere partendo dai diversi presupposti
delle principali dottrine giustificazioniste della pena, tentando in tal
modo di introdurre elementi di chiarezza nel dibattito. Tale impostazione
non esclude ovviamente altri approcci al tema che intendano ricostruire,
ad esempio, l'uso, spesso ambiguo e apparentemente ricco di contraddizioni
logiche, del linguaggio comune e le strategie con le quali i vari gruppi
sociali ottengono "successo" nei loro atti comunicativi.Fedeltà
al principio dell'indeducibilità dell'essere dal dover essere e
viceversa, non significa inoltre che la questione della pena al malato di
Aids possa essere affrontata da un punto di vista assiologico senza
riferimenti a dati empirici riguardanti il caso da analizzare. La
filosofia analitica del linguaggio normativo, del resto, già da tempo ha
sottolineato come anche le proposizioni prescrittive contengano un
elemento descrittivo, distinguendo di tali proposizioni l'elemento
neustico da quello frastico. I riferimenti empirici, tuttavia, debbono
essere tradotti nei termini propri ad un dialogo che possa assumere la
forma di un confronto normativo.Per effettuare una simile operazione di
traduzione, occorre porsi in una prospettiva, che è tra l'altro tipica
della epistemologia giuridica moderna, che consenta di enunciare il
problema da esaminare in termini di elevata astrattezza e generalità. Per
tale ragione porsi in una prospettiva di riflessione assiologica sul tema
pena-Aids significa, innanzitutto, effettuare un'operazione concettuale di
depurazione degli aspetti emotivi che accompagnano solitamente le
rappresentazioni sociali legate a tale patologia. Le regole
dell'argomentazione normativa per poter essere praticate richiedono un
atteggiamento freddo, nel quale i fenomeni di realtà vengano percepiti
esclusivamente negli elementi per essa rilevanti.Nel nostro caso ciò
significa che gli innumerevoli aspetti etici, sociali e culturali che
compongono un fenomeno complesso come quello dell'Aids vengono ridotti,
rispetto al tema dell'esecuzione della pena, a due soli elementi
essenziali: l'Aids come malattia a prognosi infausta e l'Aids come grave
malattia trasmissibile, conseguentemente in grado di ledere, attraverso il
contagio, diritti di altri soggetti.Questa opera di riduzione effettuata
dall'epistemologia giuridica, consente di rispondere all'esigenza di
astrattezza e di generalità dell'argomentazione del diritto moderno, in
quanto fa emergere, nell'ambito del fenomeno Aids, quegli elementi che si
prestano ad un giudizio di comparabilità con altri fenomeni qualificabili
analogicamente e quindi meritevoli dello stesso trattamento giuridico.
Volendo esemplificare: l'Aids in quanto malattia a prognosi infausta potrà
essere assimilata ad altre malattie dello stesso genere, quali le più
gravi forme tumorali, mentre sotto l'aspetto della trasmissibilità potrà
essere equiparata ad altre gravi malattie infettive, quali l'epatite o la
tubercolosi.Svolta questa premessa di carattere definitorio, si tenterà
di rispondere nei prossimi paragrafi a due questioni principali: in primo
luogo, ci si porrà la domanda se la condizione di malato a prognosi
infausta faccia venir meno il dovere di punire da parte dello stato; in
secondo luogo, ipotizzando una risposta negativa a questa domanda, ci si
chiederà quali sono le differenze nelle modalità di esecuzione della
pena che possono essere giustificate da una simile condizione di malattia. 2. Perché punire il malato infettivo a prognosi infausta? Accettando
le premesse epistemologiche esposte nel paragrafo precedente, si cercherà
ora di rispondere alla domanda se, e attraverso quali argomentazioni, sia
possibile giustificare l'inflizione della pena ad un soggetto affetto da
una grave malattia infettiva a prognosi infausta. In particolare, ci si
occuperà del caso in cui lo stato eserciti la potestà punitiva nei
confronti di tale soggetto, attraverso l'imposizione della sanzione
carceraria.Il fatto che le risposte degli ordinamenti giuridici positivi a
tale quesito siano state per lo più contraddittorie, potrebbe deporre a
favore dell'utilità di affrontare la questione da un punto di vista
assiologico. Come si vedrà nel paragrafo relativo alla normativa
italiana, il legislatore non necessariamente aderisce ad un'unica teoria
della pena, in quanto può concepire la sanzione penale in una prospettiva
polifunzionale. Ciò non significa tuttavia che non esistano limiti logici
oltre i quali la normativa positiva assume caratteri così palesemente
contraddittori da interferire nel processo di interpretazione e di
attuazione del diritto. Di qui l'utilità di un esame dei principi
generali da cui l'ordinamento positivo dovrebbe attingere la propria
legittimità.Prima di entrare nel merito di tale analisi concettuale,
tuttavia, occorre premettere che non verranno presi in considerazione
quegli istituti giuridici, presenti in molti ordinamenti positivi, che,
per ragioni umanitarie, consentono la liberazione anticipata del
condannato nell'imminenza della sua scomparsa, "in modo da poter
morire in condizioni di dignità e libertà". Al cospetto della morte
l'argomentazione giuridica arretra e abbandona il suo accanimento
sistematico; l'imminenza della scomparsa materiale del soggetto lo pone al
di fuori delle regole del gioco giuridico. Ogni considerazione che, dal
punto di vista assiologico, intenda argomentare la legittimità della pena
viene meno in questo caso, per non intaccare quello spazio sacro della
persona al cospetto della morte entro il quale il diritto profano non ha
più nulla da dire. Sappiamo come di fatto questo spazio sia stato talora
negato ai malati di Aids, ma ciò costituisce materia di scandalo morale e
sociale più che di dibattito filosofico-giuridico. Quando si parlerà di
legittimità dell'esecuzione della pena nei confronti di soggetti affetti
da una malattia infettiva e a prognosi infausta come l'Aids, pertanto, si
farà riferimento a situazioni nelle quali il condannato non si trova
nell'imminenza della morte, situazione il cui carattere di eccezionalità
pregiudica ogni considerazione di tipo giuridico-sistematico. 2.1. Il paradigma neo-retributivo o neo-classico: il superamento delle dottrine assolute della pena
Nella
prospettiva di rispondere alla domanda "perché punire una persona
affetta da una malattia infettiva a prognosi infausta?" ricostruendo
le argomentazioni che le principali dottrine assiologiche della pena
possono addurre a proposito di tale questione, occorre accennare
innanzitutto ad una tradizionale e generalissima distinzione nell'ambito
di esse: la suddivisione tra dottrine assolute e dottrine relative della
pena.Per illustrare tale distinzione si utilizza abitualmente un celebre
passo del De Ira di Seneca nel quale si afferma che si può punire quia
peccatum oppure ne peccetur, intendendo con queste espressioni
classificare le dottrine che, nel giustificare la pena, guardano al
passato, concependo la sanzione come assoluta nel senso di fine a se
stessa, retribuzione del "peccato" commesso, e le dottrine che
guardano al futuro, relative in quanto giustificano la pena solamente come
un mezzo per il fine utilitario di prevenire ulteriori violazioni della
legge.E' noto come nel corso dell'ultimo dopoguerra le dottrine assolute
della pena siano state a lungo in posizione minoritaria rispetto alle
varie forme assunte dalle dottrine relativistiche. Negli ultimi due
decenni, tuttavia, anche a causa della difficoltà sempre crescente di
giustificare la sanzione penale in base ad una funzione di prevenzione dei
reati che è parsa sempre più illusoria, si è tornato insistentemente a
parlare di neo-retributivismo e di paradigma neo-classico. Questo
mutamento della cultura giuridica penalistica si è registrato dapprima
nell'ambito anglosassone, ed in seguito anche nell'Europa continentale,
differenziandosi a seconda delle tradizioni culturali e politiche dei
singoli paesi.Il dibattito che si è riacceso tra teorie
assolute-retributive e teorie relative-utilitaristiche ha contribuito
certamente a trasformare entrambi i filoni dottrinali e a rendere in
qualche modo eccessivamente semplificante la tradizionale distinzione; in
modo particolare, il paradigma neo-retributivista ha conosciuto diverse
versioni, la maggior parte delle quali si sono liberate sia del carattere
di conservatorismo politico che ne aveva a lungo segnato gli approdi di
politica criminale, sia del richiamo a principi metafisici ispirati ad
ontologie finalistiche che, in ultima analisi, richiedono una fondazione
extra-mondana della pena, afferente alla sfera religiosa.In tal senso,
anche la tradizionale classificazione delle dottrine retributiviste tra
teorie della retribuzione morale, che privilegiano il carattere afflittivo
e moralmente restaurativo della pena fine a se stessa, e le teorie della
retribuzione giuridica, che invece tendono a sottolineare, nella pena
regolata giuridicamente, gli elementi di garanzia dei diritti individuali
e di uguaglianza dei cittadini al cospetto del potere punitivo dello
stato, può dirsi in parte superata. In altri termini, è possibile
sostenere che le più recenti teorie neo-classiche hanno progressivamente
abbandonato l'antica attenzione all'esigenza di punizione del reo, di
restaurazione dell'ordine violato dal delitto attraverso la sanzione, non
ignorando la distinzione, essenziale per il pensiero laico moderno, tra
ordine morale e ordine giuridico. Di conseguenza, hanno progressivamente
assunto maggiore influenza le teorie della retribuzione giuridica che,
vedendo nella concezione retributiva della pena il modo migliore per
proteggere i diritti individuali della persona e i principi dello stato di
diritto, hanno sottolineato i limiti entro i quali è legittimo da parte
dell'autorità statuale esercitare il diritto/dovere di punire le
violazioni del proprio ordine costituito, nell'ambito di una prospettiva
che sebbene non abbia separato radicalmente la sfera giuridica e la sfera
morale, ne ha colto le insopprimibili peculiarità.Si è assistito,
quindi, ad un progressivo concentrarsi sugli elementi c.d.
"negativi" delle teorie della retribuzione, ovvero della
preoccupazione di analizzare i limiti che l'autorità statuale non deve
oltrepassare nella sua potestà punitiva, e al crescente abbandono degli
aspetti c.d. "positivi", ovvero della proposizione delle
ragioni, molto spesso di carattere ontologico-metafisico, per le quali si
deve punire.Si possono individuare almeno quattro diverse versioni del
filone dottrinale neo-retributivo, versioni che vanno brevemente descritte
non per mero spirito di erudizione, ma perché ognuna di esse influenzerà
la risposta alla domanda da cui si è partiti.La prima di tali versioni,
forse la più conosciuta, è quella che scorge nella pena come
retribuzione il principale mezzo con cui l'ordinamento giuridico può
ristabilire la giusta distribuzione tra i cittadini degli oneri e dei
benefici sociali che il reato ha compromesso. Partendo dall'esigenza di
assicurare una maggiore uniformità giurisprudenziale, compromessa
dall'eccessiva individualizzazione della sanzione penale propugnata dalle
dottrine della pena orientate alla prevenzione speciale o generale, tale
indirizzo dottrinale ha posto l'accento sui criteri di uguaglianza e di
proporzionalità che devono guidare l'attività sanzionatoria. La pena, in
tale prospettiva, si legittima come strumento di giustizia distributiva,
nel senso che rappresenta il contrappeso col quale l'ordinamento giuridico
colpisce l'ingiusto vantaggio che il reo ha tratto dall'azione delittuosa,
ristabilendo l'uguaglianza, per un verso, tra i diversi trasgressori della
legge, per l'altro, tra vittima e autore del reato. Tale contrappeso deve,
quindi, essere esattamente proporzionato alla gravità del danno arrecato
alla vittima del reato o alla collettività e al vantaggio che il reo ha
tratto dalla violazione della legge penale; solo attraverso questo
bilanciamento di interessi è possibile, secondo tale dottrina, stabilire,
in modo equo e proporzionale, l'entità della pena.Non potendo in questa
sede prendere in esame le critiche di eccessivo formalismo e
individualismo che sono state avanzate nei confronti di tale filone di
teoria della pena, si vedrà in seguito come proprio rispetto alla
proporzionalità e all'uguaglianza di trattamento dei rei, l'esecuzione
della pena a soggetto affetto da malattia a prognosi infausta ponga
fondati problemi.Una seconda versione del neo-retributivismo, prendendo le
mosse da una rilettura critica delle teorie della pena della retribuzione
pura di Kant ed Hegel, ha riproposto il concetto di pena retributiva come
strumento per riconoscere al reo la dignità di essere libero e come
necessario passaggio per riottenere il suo riconoscimento sociale,
riconoscimento messo in discussione dalla commissione del reato.Sotto il
profilo della dignità della persona, tale approccio alla pena fonda i
propri presupposti sul principio morale kantiano, secondo il quale ogni
uomo deve essere trattato come un fine in sé, e conseguentemente la pena
non può essere strumentalizzata a fini general-preventivi, e sulla
concezione hegeliana della pena come "negazione della
negazione", secondo la quale "l'illecito penale, a differenza di
quello civile, nega il riconoscimento dell'altrui valore universale in
quanto implica un agire verso l'altro come se non costituisse anch'egli
una 'autocoscienza' libera ed eguale; la condotta criminosa, tuttavia, si
rivela in sé contraddittoria, poiché l'agente, dato il contesto di
uguaglianza del reciproco riconoscersi, ferisce attraverso di essa anche sé
medesimo, come essere libero; la pena rende manifesta simile
contraddizione (Nichtigkeit) e, compensando la perdita di riconoscimento
della vittima, ristabilisce il rapporto di riconoscimento
infranto".Per quanto riguarda il principio dell'uguaglianza, è nota
la rigorosità della celebre affermazione kantiana, secondo la quale anche
se la società civile si sciogliesse con il consenso dei suoi membri,
l'ultimo assassino detenuto in carcere dovrebbe prima essere giustiziato,
di modo che ciascuno riceva ciò che i suoi atti hanno meritato. Questa
affermazione, che sembra suonare come assurdamente crudele, non è che
l'approdo conclusivo di una rigorosa deduzione logica dal principio di
uguaglianza dei consociati davanti al potere punitivo dello stato, la
conclusione che si deve escludere che un individuo, per il solo fatto che
ciò non appaia di qualche utilità sociale, si possa sottrarre alla
sanzione penale.Si innesta qui un tema che risulterà utile per discutere
della pena al malato a prognosi infausta, il tema hegeliano del diritto
del reo alla condanna, fondato sul suo diritto "in quanto uomo a che
la sua volontà non sia considerata per sempre cristallizzata nel male, ma
sempre e comunque recuperabile, appunto attraverso la pena; il diritto di
ogni uomo, anche se reo, a essere ritenuto capace come individualità
spirituale e non meramente naturalistica, di poter volere diversamente da
come effettivamente ha voluto: in breve, di poter riacquistare
l'innocenza".In una concezione retributiva rigorosamente giuridica
della pena, meno segnata dalla concezione hegeliana dello stato come
realizzazione della idea etica, tuttavia non è possibile parlare di un
vero e proprio diritto alla condanna da parte del reo, in quanto nessuno
può essere tenuto a volere liberamente la propria punizione. Soccorre al
proposito ancora una volta la lucida esposizione kantiana, secondo la
quale "la pena è subita da qualcuno non perché egli l'ha voluta, ma
perché egli ha voluto l'azione meritevole di punizione; non è pena
quando a qualcuno accade ciò che vuole, e non è possibile voler essere
punito. [...] Quando io creo contro di me come delinquente una legge
penale, è la mia ragione pura giuridicamente legislatrice che sottopone a
una legge penale me in quanto capace di delitto, e cioè come un'altra
persona". Si dovrebbe quindi parlare più correttamente di un dovere
di punire da parte dello stato come strumento della "ragione pura
giuridicamente legislatrice", piuttosto che di un diritto del reo ad
essere punito.Una terza versione del neo-retributivismo ha posto
l'attenzione sulla funzione simbolica della pena, valorizzando la capacità
che la pena sembrerebbe possedere di esprimere (di qui il termine inglese
expressionism che viene assegnato a tale filone dottrinale) simbolicamente
la condanna sociale della condotta del reo, condotta che ha violato norme
che la collettività ritiene essenziali per il suo mantenimento. In tale
prospettiva, che presenta indubbie affinità con il pensiero di alcuni dei
classici della sociologia del diritto penale come Durkheim e Mead, il
diritto penale non avrebbe in via principale la funzione di eliminare o
ridurre i comportamenti criminali, bensì quella di ribadire
simbolicamente il confine tra lecito e illecito, e conseguentemente di
rispondere a quei sentimenti sociali di condanna e di vendetta che sorgono
come reazioni alle condotte che violano norme penali condivise.Ma se la
funzione della pena, dal punto di vista empirico, è tale, rimangono da
definire le ragioni di carattere assiologico per le quali si deve punire;
su tale questione i fautori della funzione simbolica della pena si
dividono tra coloro che ritengono che la condanna sociale espressa
attraverso la pena dei comportamenti criminali sia giustificabile
solamente nella misura in cui si ottengano degli effettivi benefici
sociali (c.d. extrinsic expressionism), e coloro invece che ritengono che
i valori sociali protetti simbolicamente dal diritto penale sono di tale
natura che essi vanno protetti a prescindere da considerazioni
utilitaristiche, in quanto sono da tutelare di per sé (c.d. intrinsic
expressionism). In tal modo, si è correttamente notato che in ultima
analisi l'extrinsic expressionism risulta essere una variabile riveduta
delle dottrine utilitaristiche della pena, mentre solamente i fautori
dell'intrinsic expressionism possono essere considerati a pieno titolo
come appartenenti al movimento culturale di rinascita delle dottrine
neo-retributive. Nell'ambito di questi ultimi vi sono poi coloro che
ritengono la pena un modo appropriato per esprimere e limitare il
sentimento di condanna che il compimento del crimine desta nella pubblica
opinione, e coloro, invece, per i quali la pena "vindicates the law
which has been broken, reaffirms the right which has been violated, and
demonstrates that the misdeed was indeed a crime".Tali considerazioni
consentono di introdurre l'ultimo approccio alla pena delle dottrine
neo-retributive, approccio che peraltro solo in una versione particolare
può essere considerato propriamente neo-retributivo: la sanzione penale
come principio educativo e comunicativo. Concepire la pena come uno
strumento con il quale, attraverso la sofferenza ad essa legata, vengono
conculcati in colui che li ha violati i valori che la società intende
rispettare, per un verso, si ricollega alle tradizionali teorie
pedagogiche dell'emenda e quindi alla prospettiva delle dottrine
special-preventive che esamineremo in seguito. Per altro verso, tuttavia,
tali teorie neo-retributive prendono le distanze dalle dottrine
dell'emenda, in quanto concepiscono la pena non come uno strumento di
manipolazione del condannato, finalizzata a modificare le sue condotte e i
suoi atteggiamenti futuri verso la legge, ma come un processo di
comunicazione che si indirizza al reo come soggetto responsabile e libero
di volere, nei confronti del quale l'obiettivo non è quello della mera
obbedienza, ma quello di instaurare un dialogo autentico, finalizzato alla
persuasione del condannato. In questa prospettiva, quindi, l'accento non
è posto utilitaristicamente sul comportamento futuro del reo, bensì
sull'interiorizzazione a-finalistica da parte di esso di valori
"liberamente" accettati.Le varie versioni delle dottrine
neo-retributive appena esaminate quali risposte forniscono alla questione
dalla quale si è partiti: "perché punire il malato a prognosi
infausta?"Il fatto che la prospettiva del retributivista non sia, per
definizione, rivolta in via principale al comportamento futuro del
condannato rende in prima approssimazione irrilevante il fatto che le
aspettative di vita del malato a prognosi infausta siano drasticamente
ridotte; è evidente, infatti, che se l'attenzione si focalizza sulle
azioni passate del reo e non su quelle che potrà porre in essere dopo
l'esecuzione della pena, non si riescono a scorgere ragioni di qualche
tipo che inducano a considerare la malattia a prognosi infausta come una
condizione che produca degli effetti sulla legittimità dell'esecuzione
penale. Se questo è vero al momento della commissione del reato, non vi
sono ragioni perché la situazione debba mutare qualora l'infermità
sopraggiunga nel corso dell'esecuzione della condanna.La concezione
retributiva della pena porta, quindi, a delegittimare ipotesi di non
punibilità dell'individuo affetto da malattia a prognosi infausta; per
chi guardi alla pena da un punto di vista giuridico-retributivo non vi
sono ragioni per escludere che anche tale persona possa essere soggetto
passivo del dovere dello stato di punire le violazioni del proprio
ordinamento, qualora ovviamente la condizione di infermità non abbia
intaccato la possibilità di rendere imputabili alla volontà del reo le
azioni commesse.Le ragioni della punibilità potranno, tuttavia, variare
sulla base del filone delle dottrine neo-retributive al quale si decide di
aderire.Secondo la versione neo-classica che concepisce la pena come
strumento di giustizia distributiva, la non punibilità del malato a
prognosi infausta intaccherebbe, in primo luogo, il principio di
uguaglianza dei cittadini davanti alla legge penale, in quanto l'ingiusto
vantaggio che il reo ha ottenuto dall'azione delittuosa non verrebbe
riequilibrato dall'esecuzione della sanzione penale. In secondo luogo,
l'attenzione che tale approccio alla pena comporta rispetto al diritto
della vittima del reato di vedere reintegrato il danno subito dal reato
non solamente nella parte risarcibile monetariamente, ma anche nella parte
per la quale è essenziale la punizione di colui che ha infranto
l'equilibrio della distribuzione dei benefici sociali tra i consociati,
implica necessariamente che anche il malato a prognosi infausta non si
sottragga alla pena. L'evento della morte, che con la malattia incombe
minaccioso sull'esistenza del malato, non esime la gelida razionalità del
calcolo del bilanciamento tra oneri e benefici sociali dal proseguire il
suo cammino. Se tale calcolo sembra sconfinare nella crudeltà, peraltro
conserva il suo valore di modello legittimante, nella misura in cui è in
grado di proporre una pena che non sia strumento di degradazione della
dignità della persona del condannato.E proprio facendo riferimento alla
dignità del condannato, la seconda versione del neo-retributivismo
conduce a sostenere la tesi secondo la quale la non punibilità del malato
a prognosi infausta lederebbe la stessa dignità della persona malata. Se
la pena deve essere considerata la retribuzione della volontà di un
essere che ha liberamente violato la legge penale, risulta evidente che
considerare l'individuo affetto da patologia a prognosi infausta come un
soggetto esente dalla sanzione penale, rappresenta un modo per attenuare
la sua piena dignità di soggetto giuridico. Nell'ipotesi di non punibilità
di tale soggetto, la stessa finalità dell'esecuzione della pena, nuovo
riconoscimento sociale e reintegrazione nella società del reo come
cittadino a pieno titolo, risulterebbe impedita per una categoria
determinata di persone che si vedrebbero, in tale prospettiva,
ingiustamente e arbitrariamente discriminate. Peraltro, come abbiamo
visto, la ricostruzione corretta di tale dottrina non conduce a
considerare la pena come un vero e proprio diritto del condannato;
pertanto in tale prospettiva non potrebbe considerarsi illegittima, né
lederebbe diritti inalienabili dell'individuo, una norma con cui lo stato
decidesse di rinunciare al suo potere punitivo in casi dettagliati e per
motivi eccezionali, nei quali potrebbe rientrare il caso della patologia a
prognosi infausta.Anche la terza versione del neo-retributivismo, vale a
dire quella che pone l'accento sulla valenza simbolico-espressiva della
pena, e in particolare quel filone dottrinale anglosassone chiamato
intrinsic expressionism, perviene alla punibilità del malato a prognosi
infausta. In tale prospettiva, infatti, i sentimenti di reazione e di
vendetta che il reato induce nella comunità dei consociati devono trovare
un compenso espressivo nella pena, a prescindere dalle caratteristiche del
reo. La pena svolgerebbe in tal modo anche la funzione di impedire le
reazioni informali che all'azione delittuosa fanno seguito, anche se
resterebbe da chiedersi se la condizione di malato del soggetto che ha
compiuto il reato, al momento della sua commissione, non possa in qualche
modo attenuare la reazione sociale al delitto.Esaminando, infine, l'ultima
versione del neo-retributivismo si può affermare che anche nella
prospettiva della pena retributiva tesa alla crescita della
consapevolezza, da parte del condannato, dei valori che egli ha negato con
la sua condotta illegale, la punibilità del malato a prognosi infausta è
senza dubbio legittima. Nel suo versante non utilitaristico, infatti, tale
dottrina non concepisce la pena come uno strumento di manipolazione del
condannato, pertanto non si interessa alle sue aspettative di vita futura.
Il fatto che il condannato abbia presumibilmente un periodo di esistenza
non molto lungo dopo l'esecuzione della condanna, non fa venir meno il
carattere rieducativo della pena, in quanto quest'ultima non viene
misurata con riferimento al comportamento futuro del reo, all'obbedienza
che esso mostrerà alle leggi dello stato, bensì in rapporto alla sua
persuasione, alla interiorizzazione di valori sociali che possono essere
vissuti anche nel corso dell'esecuzione della condanna e non hanno
comunque necessità di "misurarsi" con la condizione di libertà. 2.2. Le dottrine utilitaristiche della pena tra prevenzione speciale positiva e prevenzione speciale negativa
La
rinascita delle dottrine retributive verificatasi nel corso dell'ultimo
ventennio non ha fatto venir meno, nell'ambito delle teorie
giustificazioniste della pena, quelle teorie che sono definite relative o
utilitaristiche, in quanto guardano principalmente al ne peccetur. Lo
sviluppo delle teorie neo-retributive ha, tuttavia, in parte riposizionato
anche le teorie della prevenzione, rendendole più attente agli aspetti di
garanzia dei diritti individuali del condannato. Occorre immediatamente
precisare, peraltro, come non sia agevole considerare in un unico blocco
l'insieme di assunti teorici, per certi aspetti eterogenei, che vanno
sotto il nome di teorie utilitaristiche della pena o, come vengono
chiamate nella cultura giuridica anglosassone, le teorie del pensiero
consequentialist.Limitandoci ad un'analisi sintetica dell'argomento è
utile introdurre una prima grande classificazione di queste teorie che
risulta rilevante anche per il nostro tema: la distinzione tra prevenzione
speciale e prevenzione generale. Le dottrine utilitaristiche si possono
distinguere a seconda della sfera che esse considerano oggetto della
funzione preventiva della pena, vale a dire se il ne peccetur venga
riferito alla sola persona del reo o alla generalità dei consociati. Nel
primo caso si parlerà di teorie della prevenzione speciale, nel secondo
di teorie della prevenzione generale.Utilizzando una nota distinzione di
Luigi Ferrajoli, le dottrine della prevenzione possono essere distinte
inoltre attraverso un ulteriore criterio, a seconda che la pena venga
finalizzata a prevenire comportamenti futuri del condannato di tipo
positivo ovvero di tipo meramente negativo. Incrociando questi due criteri
si ottiene una quadripartizione così strutturata:"aa) le dottrine
della prevenzione speciale positiva o della correzione, che assegnano alla
pena la funzione positiva di correggere il reo; ab) le dottrine della
prevenzione speciale negativa o della incapacitazione, che le assegnano la
funzione negativa di eliminare o comunque neutralizzare il reo; ba) le
dottrine della prevenzione generale positiva o dell'integrazione, che le
assegnano la funzione positiva di rafforzare la fedeltà dei consociati
all'ordine costituito; bb) le dottrine della prevenzione generale negativa
o dell'intimidazione, che le assegnano la funzione di dissuadere i
cittadini mediante l'esempio o la minaccia della pena".Tale
distinzione risulta utile al fine di rispondere alla domanda dalla quale
si è partiti, in quanto per le dottrine della prevenzione generale il
tema della pena al malato a prognosi infausta non presenta un interesse di
qualche rilievo e pertanto potranno essere tralasciate nel prosieguo della
trattazione. Per tali dottrine, infatti, sia nella versione positiva che
in quella negativa, risulta rilevante il funzionamento complessivo del
sistema penale, nel senso che l'efficacia general-preventiva della pena va
verificata sull'effetto complessivo che l'esecuzione delle condanne
produce sull'insieme dei consociati. Se ciò è vero, risulta abbastanza
evidente che la punizione, quantitativamente assai poco significativa, di
una categoria poco numerosa di individui come quella dei malati a prognosi
infausta non abbia una grossa incidenza sul funzionamento complessivo del
sistema penale. Non è credibile che si possa ipotizzare che, in caso di
non punibilità dei malati a prognosi infausta, l'opinione pubblica
sarebbe negativamente condizionata nella scelta dei propri comportamenti
illegali. La diffusione, fortunatamente non molto ampia, di tali patologie
e la consueta ridotta capacità di tali malati di compiere azioni
delittuose, attenuano grandemente la rilevanza delle considerazioni
sull'efficacia general-preventiva della pena.Un discorso forse in parte
diverso si potrebbe fare nel caso in cui si consideri, come oggetto della
prevenzione, non la generalità dei consociati, ma una specifica comunità
di cittadini, quale, ad esempio, la comunità dei soggetti infetti dal
virus HIV. Sarebbe possibile sostenere che la condizione di impunibilità
di cui hanno goduto, per un certo periodo di tempo, i cittadini italiani
aventi un valore di linfociti T/CD4 nel sangue pari o inferiore a 100/mmc
abbia vanificato l'efficacia general-preventiva della pena nell'ambito
della comunità dei sieropositivi? Anche in questo caso, tuttavia, il
numero largamente minoritario di persone sieropositive che hanno violato
nuovamente la legge, dimostra come l'assenza di pena introdotta dalla
legge n. 222/93 non abbia intaccato l'efficacia general-preventiva della
sanzione penale, ma semmai che tale legge sembrerebbe aver indebolito la
funzione special-preventiva della pena in alcuni casi specifici, che
peraltro andrebbero empiricamente vagliati.Limitata l'attenzione alle
dottrine special-preventive, occorre proporre una ulteriore distinzione
all'interno di tale ambito teorico. In primo luogo, si deve precisare che
tali dottrine, pur risultando apparentemente antitetiche per i presupposti
antropologici da cui partono, in realtà convergono sul principio per il
quale la pena è giustificabile solo in quanto comporti un mutamento del
comportamento futuro del condannato. A seconda però della concezione
dell'uomo più o meno deterministica adottata, le dottrine
special-preventive concepiscono la pena seguendo due prospettive diverse.a)
Partendo dall'accoglimento del principio del libero arbitrio, un primo
filone delle dottrine special-preventive concepisce la pena come quel male
che il soggetto deve rappresentarsi come conseguenza ineludibile del bene
che pensa di trarre dal delitto. L'uomo libero e calcolatore valuta costi
e benefici delle sue azioni e la pena può dirsi efficacemente preventiva
quando l'individuo si rappresenti il male-sanzione come maggiore del
bene-delitto. La pena in questa prospettiva è il contrappeso che
distoglie l'uomo razionale dal commettere azioni socialmente
indesiderate.Sempre nella prospettiva antropologica del riconoscimento, in
linea di principio, della libertà della creatura umana esiste un altro
filone dottrinale che può essere avvicinato per alcuni aspetti al primo:
si tratta di quelle teorie che rinunciando alla netta separazione tra
diritto e morale di derivazione illuminista, propongono la pena come
medicina dell'anima e come strumento di condizionamento morale del
condannato. Si tratta in particolare delle teorie pedagogiche dell'emenda
che tendono alla rieducazione del condannato, attraverso la pena vista
come processo comunicativo, dottrine delle quali abbiamo già esaminato la
versione neo-retributivista, e che affondano le loro radici nella
tradizione plurisecolare del pensiero giuridico ebraico-cristiano.b)
Prendendo le mosse da una concezione rigidamente deterministica dell'uomo,
è invece possibile concepire la pena come trattamento terapeutico e
correzionale. La pena diventa in tal modo strumento di manipolazione
dell'individuo, in quanto si ritiene suo scopo quello di correggere il
condannato, in misura tale che egli non compia in futuro azioni
anti-sociali. Tutto ciò avendo come prospettiva quella per la quale ogni
violazione dell'ordine sociale abbia alla sua base cause di carattere
patologico, sulle quali è possibile intervenire con la pena, concepita
come uno strumento di difesa della società dal pericolo rappresentato
dalla criminalità. Di tale approccio si sono registrate, nel corso della
storia delle dottrine giustificazioniste, molteplici versioni che si
possono probabilmente collocare intorno a due poli dottrinali: il primo
quello delle c.d. teorie della difesa sociale, il secondo quello delle
teorie risocializzanti della differenziazione penale. Il primo di questi
poli si caratterizza per concentrare la propria attenzione sui fattori
fisio-psicologici che conducono al crimine concepito come fatto
naturalisticamente determinato da prevenire con tecniche terapeutiche (in
primis misure di sicurezza) di carattere medico, psichiatrico,
psico-sociale etc.; il secondo, invece, diversifica i propri obiettivi (incapacitazione,
risocializzazione, intimidazione etc.) a seconda del tipo di delinquente,
proponendo un maggior pragmatismo operativo che conduce ad una estrema
differenziazione delle pene e alla valorizzazione delle pene alternative
alla detenzione. Si tratta di due poli che solo in parte si possono
osservare in una prospettiva di successione cronologica, nel senso che le
tradizionali teorie della difesa sociale sarebbero state abbandonate per
lasciar spazio alle pragmatiche teorie della differenziazione penale;
elementi di "pura" difesa sociale e di determinismo
positivistico, infatti, emergono ancora, a intervalli regolari,
nell'odierno dibattito sulla pena.Le prospettive che ho descritto sub a e
sub b si distinguono, inoltre, per un'ultima caratteristica che risulta
essere molto importante per il nostro tema: la prospettiva a concentra
quasi esclusivamente la propria attenzione sulla prevenzione speciale
positiva, nel senso che per essa la pena ha certamente l'obiettivo di
trasformare in positivo la condotta del condannato, ma deve essere
lasciata a quest'ultimo la libertà di non adeguarsi ai valori che la pena
dovrebbe conculcare; la prospettiva b, invece, sebbene non trascuri di
modificare positivamente il comportamento del delinquente, pone l'accento
sulla prevenzione speciale negativa, nel senso che considera la pena anche
uno strumento di puro contenimento del condannato, il mero costringimento
fisico o psichiatrico dell'individuo irrimediabilmente irrecuperabile, o
la neutralizzazione del soggetto socialmente pericoloso, se necessario
pure in via preventiva, prima che abbia posto in essere il reato.Sia la
prospettiva della pena contrappeso-rieducazione, sia quella della pena
correzione-terapia-contenimento vengono poste seriamente in discussione
dal caso che qui si analizza. Esse, da un lato, sono inclini a rispondere
negativamente alla questione "è legittimo punire la persona malata a
prognosi infausta?", in quanto scarsamente utile da un punto di vista
special-preventivo, ma dall'altro, non potendo limitarsi a prendere atto
dello scacco delle proprie strategie manipolative, tendono a far prevalere
le finalità puramente contenitive e di difesa sociale della pena.Nella
prima prospettiva, e in particolare per il paradigma classico della pena
come contrappeso, l'anomalia posta dal malato a prognosi infausta è
particolarmente evidente. Quale sanzione può essere sufficientemente
minacciosa da poter rappresentare uno strumento di deterrenza nei
confronti di un individuo colpito da una malattia che ne riduce
drasticamente le aspettative di vita? Quale male giuridico può apparire
maggiore del male fisico che incombe su questa persona malata? Se pensiamo
alla situazione, abbastanza frequente, dell'individuo in Aids conclamato,
molto spesso tossicodipendente, abbandonato dalla famiglia e privo di
legami affettivi significativi, come sostenere che la privazione della
libertà determinata dal carcere possa rappresentare per lui un male più
grave della sua già drammatica situazione esistenziale? L'approccio della
pena come contrappeso, per poter funzionare, ha bisogno di individui che
abbiano "qualcosa da perdere". In tale prospettiva, quindi,
diventa alquanto problematico punire con sanzioni giuridiche non corporali
soggetti che, non avendo più nulla da perdere socialmente, si sottraggono
al calcolo costi-benefici tra vantaggi del reato e oneri della pena.La
risposta più coerente, nella prospettiva della pena come contrappeso,
sarebbe dunque la rinuncia a punire; rinuncia che tuttavia non risolve il
problema della difesa che la società deve apprestare nei confronti di
quei soggetti che continuano a delinquere. E' indubbio, infatti, che il
teorico utilitarista non può rinunciare a porsi nella prospettiva della
difesa sociale, interrogandosi su quali strumenti possano essere messi in
atto per impedire che vengano arrecati danni ai beni sociali protetti dal
diritto penale.In tale prospettiva, la tentazione di vedere la pena come
puro strumento di incapacitazione del condannato può rappresentare la
scorciatoia con la quale superare gli inconvenienti pratici, a cui la
teoria sembra non poter far fronte in termini concettuali. Si dovrà forse
punire il reo nella misura in cui lo si reputi socialmente pericoloso,
anche qualora la pena non possa svolgere una qualche funzione deterrente,
se non per gli aspetti meramente coercitivi?Giungendo a questa conclusione
l'approccio utilitarista classico (prospettiva a) sembra congiungersi con
il filone deterministico della prevenzione speciale (prospettiva b),
incentrata sulla capacità del trattamento terapeutico-penitenziario di
correggere la personalità del condannato. La pena, in quest'ultima
accezione, rappresenta infatti un investimento sull'esistenza futura del
reo, sul presupposto che l'intervento istituzionale riconsegni l'individuo
alla sua "normalità" sociale.Che accade a questa volontà di
intervenire sulla personalità del reo quando il futuro di quest'ultimo,
lo spazio della sua esistenza prevedibile, appare tragicamente segnato? Il
teorico della pena come trattamento correzionale guarda a come sarà, a
come dovrà essere, l'uomo liberato dal carcere, trasformato
dall'intervento rieducativo. Ma che rimane di questa strategia
manipolatoria quando il condannato è un individuo malato che, con ogni
probabilità, dopo l'esecuzione della pena, avrà uno spazio pressoché
inesistente di esistenza sociale davanti a sé?La sola risposta
logicamente conseguente, dal punto di vista correzionalistico, è ancora
la non punibilità del reo, la rinuncia al dovere di punire da parte dello
stato. E parimenti anche l'approccio correzionalista deve piegarsi, in
alternativa alla non punibilità, ad una concezione della pena come puro
strumento di contenimento del condannato, mezzo col quale impedire
materialmente all'individuo socialmente pericoloso di compiere altri
reati.Si rivela in tal modo il carattere intrinsecamente autoritario
dell'impostazione correzionalista, che pone in secondo piano i diritti del
condannato e che vede nel soggetto irrecuperabile un'anomalia insuperabile
del proprio paradigma della pena.Ad esiti teorici sostanzialmente identici
portano le dottrine della differenziazione penale, anche se il loro
carattere pragmatico ha consentito ad esse di giungere a conclusioni più
duttili, dal punto di vista operativo di politica criminale. Se sotto
l'aspetto teorico, infatti, le dottrine della differenziazione penale non
dovrebbero condurre a conclusioni diverse da quelle della difesa sociale
rispetto alla domanda sulla legittimità della condanna a persona affetta
da malattia a prognosi infausta, non altrettanto si può affermare dal
punto di vista pratico. E' infatti seguendo il principio della
differenziazione della pena e della soggettivizzazione dei criminali che
è possibile immaginare sanzioni ad hoc per i malati a prognosi infausta
che superino il carattere ugualitario e formalizzato della sanzione
carceraria. Assumono massima rilevanza, in tal modo, le c.d. misure
alternative al carcere che sono state spesso invocate per i soggetti
infetti dal virus HIV, pensate spesso proprio come pene che si adattino
alla situazione sanitaria del condannato e che siano in grado di
conciliare gli aspetti di sicurezza sociale con quelli di umanità
nell'esecuzione penale.Tale impostazione sembra voler superare
pragmaticamente le aporie che il caso del condannato malato a prognosi
infausta fa sorgere nell'ambito delle teorie della differenziazione
penale, senza peraltro riuscire a risolverle teoreticamente. Essa ha
certamente riscontrato un certo successo nell'ambito di molti ordinamenti
giuridici positivi che, rispetto al tema della compatibilità tra
detenzione carceraria e Aids, si sono comportati in modo pragmatico, il più
delle volte regolando la situazione attraverso istituti, come la grazia o
il perdono giudiziale, pensati per fattispecie che per la loro
eccezionalità sfuggono in gran parte ad una piena legittimazione
giuridica.Tuttavia se la domanda rimane quella della legittimità della
punizione al malato a prognosi infausta la prospettiva della
differenziazione delle pene non sa dire altro che, per un verso, tale
soggetto non andrebbe punito, e per altro verso, al fine di tutelare la
sicurezza sociale, occorrerebbe punirlo in maniera diversa dagli altri
delinquenti. Così facendo, la prospettiva della differenziazione penale
supera, senza tematizzare in modo approfondito, la domanda sulla
legittimità della pena al malato a prognosi infausta, concentrando la
propria attenzione su una seconda questione, quella relativa alle modalità
alternative alla detenzione, attraverso le quali è possibile adattare la
sanzione penale alle condizioni di infermità e di pericolosità sociale
del condannato. Ed è proprio nell'ambito di tale questione che queste
dottrine assumono peso rilevante. 3. Modalità di esecuzione della pena e tutela dei diritti del detenuto malato
Trattando
delle dottrine della differenziazione penale siamo giunti ad occuparci
della questione se, una volta ammessa la legittimità dell'esecuzione
della pena a soggetto affetto da patologia a prognosi infausta, la pena in
questi casi debba applicarsi con modalità esecutive diverse da quelle
previste per la generalità dei consociati.A tal proposito il fenomeno
Aids ha posto al sistema carcerario una serie di problemi che hanno
rimesso all'ordine del giorno la questione della definizione dei limiti
giuridici entro i quali il carcere possa ancora essere considerato uno
strumento di pena compatibile con uno stato democratico di diritto.La
concezione moderna della pena carceraria come tecnica privativa
esclusivamente della libertà di movimento dell'individuo, è con ogni
probabilità uno degli assunti più controversi del pensiero penalistico
del nostro secolo. Questo principio di carattere giuridico-formale è
stato il terreno di scontro di quel conflitto inesauribile tra paradigma
giuridico della pena e pratiche di potere e di controllo sociale elaborate
dal sistema penitenziario. Michel Foucault ci ha insegnato come il carcere
rappresenti il settore più oscuro del moderno apparato di giustizia,
"il luogo dove il potere di punire, che non osa più esercitarsi a
viso scoperto, organizza silenziosamente un campo di oggettività in cui
il castigo può funzionare in piena luce come terapeutica". Il
carcere è, al tempo stesso, una delle istituzioni la cui esistenza è più
dettagliatamente regolata da norme giuridiche e l'apparato in cui le
pratiche materiali di gestione degli individui snaturano costantemente
tali regole e le piegano a dinamiche di potere che si sottraggono alla
limpida grammatica del diritto.Tale conflitto tra giuridico e carcerario
è testimoniato anche dalla grande quantità di direttive, raccomandazioni
e dichiarazioni di intenti emanate da molti organismi internazionali sul
tema dei diritti dei detenuti; direttive che si sono costantemente
scontrate con le pratiche carcerarie imperanti nei vari sistemi
penitenziari nazionali.La materia dei detenuti sieropositivi non è
sfuggita a tale regola. Gli organismi internazionali che si sono
pronunciati sulle varie tematiche riguardanti il problema Aids-carcere,
hanno teso a sottolineare il principio di uguaglianza dei diritti
riconosciuti alle persone malate detenute, rispetto a quelli riconosciuti
ai cittadini non sottoposti a restrizione detentiva. Questo principio è
stato ribadito per le politiche generali d'intervento sull'Aids, per la
qualità dei servizi sanitari penitenziari, per le attività di
prevenzione della diffusione del virus attraverso azioni di educazione e
informazione, o attraverso le strategie di riduzione del danno, per le
garanzie di riservatezza e di consenso informato al test sierologico.Il
fatto che le normative internazionali abbiano sentito la necessità di
confermare questi assunti, legati al principio del detenuto come soggetto
giuridico a pieno titolo, non fa che sottolineare come le pratiche
detentive presenti nei sistemi carcerari siano a tutt'oggi alquanto
distanti da un modello giuridico di esercizio della pena.Ma, tornando alla
questione che qui interessa, quali sono le modalità di esecuzione della
pena che, secondo le varie dottrine assiologiche giustificazioniste, sono
legittime quando il condannato sia persona affetta da malattia infettiva a
prognosi infausta?Le dottrine neo-retributive, rispetto a tale questione,
concentrano la loro attenzione sulla precisa quantificazione della
sofferenza inflitta con la sanzione penale, in quanto il focus della
teoria è rivolto al passato, al giusto bilanciamento tra gravità del
reato ed entità afflittiva della pena. In tale prospettiva, il carattere
retributivo-giuridico della pena viene considerato un criterio idoneo non
solamente a determinare, da un punto di vista teorico, i limiti entro i
quali l'autorità punitiva dello stato può legittimamente e doverosamente
esercitarsi, ma anche a fornire i criteri concettuali coi quali verificare
la legittimità delle modalità di esecuzione della pena.Rispetto al tema
dell'esecuzione della pena al malato a prognosi infausta ciò significa
che i principi della proporzionalità e della determinazione certa della
pena, particolarmente enfatizzati dalle dottrine neo-retributive, da un
lato, impongono una punizione del malato proporzionale alle sue
aspettative di vita, dall'altro, comportano che le modalità di esecuzione
della pena non siano tali da colpire il condannato più gravemente solo a
causa del suo stato d'infermità.Per ciò che concerne quest'ultimo
aspetto, per il neo-retributivista la pena del carcere deve consistere
solo ed esclusivamente nella privazione temporanea della libertà di
movimento e non deve quindi sconfinare nella lesione di altri diritti
dell'individuo. Di qui la necessità, che le normative internazionali
hanno sottolineato, di garantire una serie di diritti che la struttura
carceraria è potenzialmente in grado di ledere: il diritto a godere di
un'assistenza sanitaria di livello paritario a quella degli altri
consociati, il diritto a non correre pericoli maggiori di contrarre
malattie contagiose per il fatto di vivere in un "ambiente ad alto
rischio", il diritto a ricevere informazioni e strumenti di
prevenzione contro la diffusione del contagio, il diritto alla
riservatezza e ad un rapporto fiduciario col personale sanitario, il
diritto a non essere discriminati nell'ambito delle attività organizzate
all'interno del carcere, il diritto ad avere una sessualità non coatta
nei limiti consentiti dalle esigenze della sicurezza carceraria, il
diritto ad un sostegno psicologico nei casi in cui si venga a conoscenza
della propria sieropositività nel corso della detenzione.Le dottrine
neo-retributive, quindi, tendono a privilegiare una prospettiva che vede
nella rivendicazione dei diritti del malato-detenuto non una richiesta che
lo stato rinunci alla punizione, bensì un modo per riconfermare il
modello giuridico della pena. Tale modello prevede, infatti, che la pena
resti rigorosamente nei limiti assegnatigli dal diritto, senza che
acquisti un carattere maggiormente afflittivo solo per il fatto che il
condannato abbia contratto una grave malattia. Proprio in quanto il
condannato resta soggetto giuridico a tutti gli effetti, egli mantiene
tutti i diritti compatibili col suo stato di detenzione, e ciò deriva non
già da una paternalistica concessione umanitaria da parte
dell'istituzione punitiva o da una malintesa compassione nei confronti del
detenuto che soffre, ma dallo stesso principio retributivo, secondo il
quale la pena deve essere esattamente quantificata e predeterminata nei
suoi aspetti afflittivi.Se l'approccio neo-retributivista, almeno da un
punto di vista teoretico, sembra giungere a conclusioni soddisfacenti sui
criteri coi quali definire e limitare giuridicamente l'esecuzione della
pena alla persona affetta da patologia a prognosi infausta, non
altrettanto si può affermare per altri elementi della pena, in
particolare per i criteri con i quali stabilire il quantum della sanzione
penale.Da tale punto di vista emerge come decisivo il principio di
proporzionalità, essenziale per una concezione della pena di tipo
retributivo-giuridico, secondo il quale la gravità della pena non deve
essere maggiore della gravità del delitto, principio garantistico che
implica la preventiva quantificazione della sanzione penale. La pena, in
questa prospettiva, deve essere esattamente definita nel suo grado di
afflittività e precisamente quantificata, ciò anche per poter rispondere
al criterio di uguaglianza, essendo la gravità del reato l'unico criterio
col quale è legittimo commisurare la pena.Per rispondere a tali
imperativi le teorie giustificazioniste moderne hanno concepito la pena
come una sanzione formalizzata e tipizzabile, nel senso per il quale essa
deve essere "astratta ed uguale, come tale quantificabile e
misurabile e perciò pre-determinabile legalmente e determinabile
giudizialmente sia nella natura che nella misura". La tipizzazione e
la formalizzazione sono state evidentemente favorite dalle modalità di
esecuzione della pena moderna che sono state teorizzate per lo più come
sanzioni "privative", essendosi abbandonate le pratiche penali
meramente afflittive delle epoche precedenti. Privazione della libertà
nel caso delle pene detentive, privazione della proprietà sui beni nel
caso delle pene patrimoniali, privazione della vita nel caso della pena di
morte.Per quanto riguarda la pena carceraria, privativa della libertà, il
criterio della misurabilità è costituito dal tempo che la sanzione
sottrae all'esistenza libera del condannato, sul presupposto che tale
tempo sia omogeneo e quantificabile oggettivamente per tutti i consociati.
Tale presupposto viene, tuttavia, fortemente messo in forse dal caso del
condannato affetto da malattia a prognosi infausta: come è possibile,
infatti, sostenere che cinque anni di reclusione sottratti alla libera
esistenza di un individuo sieropositivo abbiano lo stesso valore nel caso
di un soggetto le cui aspettative di vita non siano state intaccate da
alcuna malattia? Come preservare in questo caso il principio di
proporzionalità tra gravità del reato e gravità della pena?L'unica
risposta possibile a questi quesiti deve introdurre, anche negli aspetti
di retribuzione giuridica della pena, forti elementi di valutatività
facendo riferimento al c.d. potere connotativo del giudice, intaccando
fortemente tuttavia l'aspirazione delle dottrine neo-retributive di
limitare la discrezionalità dell'interpretazione giudiziale. Tale potere,
di natura essenzialmente equitativa, consiste nella comprensione da parte
del giudice degli elementi del caso concreto che gli consentano di
commisurare la pena, in base a determinati criteri ritenuti rilevanti. Tra
questi criteri, che per loro natura non possono essere del tutto
predeterminati dal diritto positivo e si prestano ad abusi interpretativi,
dovrebbero allora rientrare le condizioni di salute dell'imputato, qualora
egli sia affetto da una patologia che ne riduca le aspettative di vita.
Discorso non diverso si dovrebbe fare quando tale patologia si instauri
nel corso dell'esecuzione della condanna.Ciò che invece non sarebbe
ammesso dagli elementi di retribuzione della pena sarebbe introdurre, nei
criteri equitativi di quantificazione della pena, considerazioni o giudizi
segnati dalla prospettiva di prevenzione o di difesa sociale. Da un punto
di vista retributivo non sarebbe legittimo, in altri termini, quantificare
la pena da infliggere al malato a prognosi infausta in base alle
previsioni esperibili sulla sua capacità di delinquere in futuro, o sulla
sua pericolosità sociale.Rispetto al problema delle modalità punitive
del soggetto affetto dal virus HIV o sieropositivo, l'approccio
utilitaristico ha, invece, maggiori difficoltà a conciliare le proprie
premesse teoriche con la tutela del condannato come soggetto giuridico,
anche se probabilmente si trova in una posizione molto più vicina alla
effettiva reazione istituzionale che l'Aids ha provocato nei vari sistemi
penitenziari.Come già accennato, nell'ambito delle teorie
utilitaristiche, il tema delle modalità dell'esecuzione penale è
particolarmente rilevante per l'approccio che si è concentrato sulla
differenziazione e sulla individualizzazione della pena. Secondo tale
approccio ad ogni condannato spetta una pena diversa, in considerazione
delle sue caratteristiche personali, ed essa va determinata e modulata per
ogni singolo caso nella fase esecutiva. E' evidente come il caso del
detenuto malato di Aids consenta in questa prospettiva di introdurre una
serie di modalità di esecuzione della pena e di gestione della vita
carceraria che rispondono, innanzitutto, ad una logica di contenimento del
rischio della diffusione del contagio e/o della pericolosità sociale del
detenuto.In tale prospettiva, l'elemento empirico della patologia Aids che
viene considerato non è solamente quello della prognosi infausta, ma
anche e soprattutto quello del carattere infettivo della malattia,
potenzialmente in grado di mettere in pericolo la salute pubblica.
Differenziare la pena ha spesso significato, quindi, nel caso dell'Aids, o
utilizzare strumenti sanitari a fini puramente contenitivi, o predisporre
la segregazione in reparti speciali dei soggetti contagiosi, facendo
prevalere, nell'immagine che l'istituzione ha del condannato-malato, gli
aspetti che lo distinguono dagli altri detenuti, rispetto a quelli di
parità di trattamento e di garanzia dei diritti individuali.E' questa una
prospettiva apparentemente dotata di una maggiore pragmaticità, nella
quale si scorge il conflitto tra le ragioni della gestione emergenziale
delle strutture carcerarie e le ragioni dello stato di diritto. Resta da
chiedersi, tuttavia, se l'apparente maggior capacità della pena così
concepita di affrontare il problema immediato della diffusione dell'Aids,
sia effettiva o se rappresenti semplicemente il volto umanitario dietro il
quale si nascondono nuove pratiche di controllo della popolazione
carceraria. E' stata sottolineata, inoltre, da parte di molti studiosi e
da autorevoli organismi internazionali, l'inefficacia di politiche
d'intervento tendenti alla segregazione e alla differenziazione degli
individui malati di Aids o sieropositivi; da più parti è stato
sottolineato, infatti, che tali pratiche non solamente ledono i diritti
dei detenuti malati, ma non sono in grado di limitare la diffusione del
virus, in quanto non fanno leva sulla responsabilizzazione dei soggetti
sieropositivi e diffondono una falsa sicurezza negli operatori
penitenziari e un conseguente calo delle misure precauzionali. Che il
rispetto dei diritti dei detenuti sia, oltre che eticamente giusto, anche
socialmente utile? 4. Brevi considerazioni sulla normativa italiana alla luce dei principi esposti
E' noto come la costituzione repubblicana non abbia indicato una funzione specifica della pena, in quanto "in sede costituente non si volle affrontare ex professo la natura dello scopo e del fondamento della pena, perché non era nelle intenzioni di nessun componente dell'assemblea risolvere in sede legislativa una questione dottrinaria di tal genere, che ha fatto scorrere nei secoli fiumi d'inchiostro, ed ha dato luogo a soluzioni diverse e ad indirizzi dottrinari contrastanti". Il legislatore costituzionale non volle prendere una posizione netta rispetto a tale questione dottrinaria e si limitò, quindi, ad enunciare all'art. 27, terzo comma, il divieto di pene contrarie al senso di umanità e il principio della rieducazione del condannato.La Corte Costituzionale e la dottrina penalistica, nel corso degli ultimi decenni, partendo dal dettato costituzionale, hanno elaborato quella che è stata chiamata una teoria polifunzionale della pena, per la quale sarebbero presenti nel nostro ordinamento una molteplicità di scopi della pena, da quelli di prevenzione speciale e generale a quelli retributivi, da quelli di difesa sociale a quelli più strettamente rieducativi.Questa compresenza di funzioni della pena fa sì che l'ordinamento giuridico italiano possa essere considerato un eccellente banco di prova per verificare la "tenuta" delle varie dottrine assiologiche della sanzione penale rispetto al caso del condannato affetto da malattia a prognosi infausta. Per effettuare una tale verifica, il "caso" italiano diventa ancor più interessante se si considera che il nostro legislatore è stato l'unico ad aver introdotto, come noto, una normativa ad hoc per i soggetti affetti dal virus HIV, stabilendo per una particolare categoria di essi l'incompatibilità assoluta con la sanzione carceraria.Tuttavia, come ha esattamente riconosciuto la Corte Costituzionale, il legislatore italiano ha emanato una normativa che assume i connotati sostanziali dello ius singulare, in quanto ha inteso proteggere il bene della salute carceraria partendo da "un presupposto di fatto non valutabile in astratto: vale a dire l'eccezionale situazione di pericolo per la salute pubblica nel contesto delle carceri dovuta a due fenomeni di "concentrazione" fra loro interagenti, quali sono, da un lato, l'alto numero di detenuti all'interno degli istituti e, dall'altro, la massiccia presenza, fra questi, di soggetti a rischio".Ci troviamo di fronte, quindi, ad una normativa emanata non seguendo definiti e argomentabili principi etico-giuridici di diritto penale, ma sulla base di necessità emergenziali e contingenti dell'amministrazione penitenziaria che hanno prevalso su ogni altro tipo di considerazione giuridica. Prima della legge 222/93 le emergenze erano sostanzialmente due. In primo luogo, molti detenuti malati di Aids morivano in carcere, in quanto una lettura particolarmente restrittiva della normativa codicistica applicabile a tutte le gravi infermità fisiche (art. 147 c. p.) data da alcuni Tribunali di Sorveglianza, non consentiva la scarcerazione che nell'imminenza del decesso. In secondo luogo, la condizione a dir poco deficitaria della situazione sanitaria di molti penitenziari italiani aveva fatto sorgere il timore, all'interno della stessa amministrazione penitenziaria, che il rischio della diffusione del contagio fosse altamente elevato e quindi fosse preferibile per l'istituzione stessa liberarsi di questi detenuti scomodi, piuttosto che adeguare gli standards sanitari al livello che l'emergenza Aids richiedeva. Si è assistito in tal modo ad un contingente e paradossale convergere di interessi tra le associazioni che tutelano i diritti dei detenuti e l'amministrazione penitenziaria e, conseguentemente, all'emanazione di una normativa che rappresenta certamente un esempio di come le argomentazioni meta-teoriche sulla pena vengano spesso superate e stravolte da dinamiche di carattere socio-istituzionale che sembrano imporre le loro ferree logiche di potere.Che cosa rimane, dunque, del discorso assiologico sulla pena? Al teorico della pena che non voglia limitarsi a svolgere l'esegesi del diritto penale positivo, non resta che il silenzio?Proprio la vicenda della normativa italiana su carcere e Aids, tuttavia, sembra suggerire che quando la distanza tra i principi astratti delle dottrine penali e le pratiche di esecuzione della pena si fa troppo grande si assiste ad una sorta di reazione sovrastrutturale che non manca di produrre i suoi effetti anche nei confronti della realtà fenomenica. Tale reazione, nel caso specifico, si è manifestata nella serie alquanto ampia di eccezioni di legittimità costituzionale che la giurisprudenza di merito ha avanzato, e che ha costretto la Corte Costituzionale dapprima ad argomentare, nel modo in cui abbiamo visto, la legittimità della legge 222 e, più recentemente, a rivedere in parte tale impostazione.La dimostrazione della produttività dell'argomentazione giuridica anche in materia di Aids e carcere la si è avuta proprio dalle motivazioni di tali eccezioni di costituzionalità, che hanno ripreso gran parte dei temi derivanti dalle varie dottrine assiologiche della pena. Il carattere polifunzionale della pena nel nostro ordinamento, infatti, ha consentito ai giudici di merito o di sorveglianza di trattare ogni elemento di contraddizione tra impunibilità del condannato malato di Aids e i principi delle teorie giustificazioniste.Tutte le finalità che la Costituzione assegna alla pena sono state considerate obliterate dalla norma che ha introdotto l'irresponsabilità penale del malato di Aids.La finalità di prevenzione generale, in base alla considerazione che "una pena di cui è stabilita l'obbligatoria ineseguibilità, in presenza di predeterminate e prevedibili condizioni tipiche, oggetto di automatico accertamento giudiziale, come nel caso della norma esaminata, non può svolgere alcuna funzione di intimidazione e dissuasione rispetto a possibile futuri comportamenti criminosi, sia nei confronti del concreto destinatario di essa, sia nei confronti degli altri soggetti che si trovano nella medesima situazione".La finalità di difesa sociale, in quanto "la generalità dei beni penalmente protetti risulta così esposta alle possibili offese dei soggetti affetti da Aids conclamata o da grave immunodeficienza, nei cui confronti l'ordinamento giuridico rinunzia sostanzialmente alla forza intimidativa e dissuasiva della pena".La finalità retributiva della pena e il principio della responsabilità penale di tutti i cittadini, "giacché, come è evidente, la rinunzia sine die all'esecuzione di essa lascia sostanzialmente impunito il reato commesso, in un'ottica di deresponsabilizzazione che contraddice il principio sancito dal primo comma dell'art. 27 della Costituzione", nonché il principio di uguaglianza dei consociati, in quanto "non vi è alcuna ragione, né logica né scientifica, per riservare ai soggetti affetti da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria un trattamento, in punto di libertà personale, diverso da quello previsto per i soggetti affetti da patologie altrettanto gravi, irreversibili e ingravescenti, per cui nessuna previsione di carattere generale esclude la possibilità di custodia in carcere".Anche le esigenze di contenimento e di rieducazione della pena sono state indicate come funzioni contraddette dal principio di irresponsabilità penale del malato di Aids, nella misura in cui la sospensione della pena deve essere dichiarata obbligatoriamente dal giudice, "ancorché il condannato sia persona socialmente pericolosa, con conseguente vanificazione della funzione special-preventiva in senso neutralizzativo della pena detentiva; deve sospenderla ancorché il condannato sia bisognevole di trattamento rieducativo penitenziario, con conseguente vanificazione della funzione rieducativa della pena detentiva".Si è ritenuto violato, inoltre, il c.d. principio della differenziazione penale, in quanto il condannato affetto dal virus HIV che pure "è riconducibile ad una varietà e molteplicità di situazioni patologiche, personologiche e criminologiche, tra loro profondamente differenti, meritevoli di diverso trattamento (così, a titolo esemplificativo, dal malato terminale ospedalizzato ridotto all'innocuità dal tipo di malattia opportunistica insediatasi, al soggetto affetto da Aids conclamata cui, invece, la malattia non impedisce la commissione di reati)", deve essere scarcerato automaticamente senza che il Tribunale di Sorveglianza possa prendere in considerazione "se il condannato sia un soggetto socialmente pericoloso o meno, (...) se sia un soggetto rieducato e risocializzato o meno, se l'alternativa al carcere sia una adeguata assistenza sanitaria e un effettivo reinserimento familiare e sociale ovvero il degrado e l'abbandono".Sotto tutti questi profili la giurisprudenza ha dunque cercato di evidenziare le contraddizioni presenti nel nostro ordinamento tra principi penali costituzionali e una normativa emergenziale come la legge 222, concepita per finalità di mera politica carceraria. Paradossalmente, tuttavia, tale giurisprudenza non è sfuggita all'ottica di limitato pragmatismo che parimenti ha guidato l'opera del legislatore, lasciandosi coinvolgere, con ogni probabilità, dal clima di allarme sociale suscitato dai casi di recidiva dei malati scarcerati. Seguendo tale prospettiva, la giurisprudenza ha quindi concentrato la propria attenzione sulle ragioni che spingono a punire il soggetto affetto dal virus HIV, omettendo del tutto quelle argomentazioni che avrebbero condotto alla non punibilità di tali soggetti, motivazioni che, come si è visto, non sono certo del tutto irreperibili, in particolare ponendosi rigorosamente nella logica di alcune delle dottrine relativistiche della pena. In altri termini, anche parte della magistratura è parsa voler seguire una linea apparentemente pragmatica, linea in qualche modo speculare a quella dell'amministrazione penitenziaria, valorizzando al massimo grado la funzione meramente contenitiva della sanzione carceraria.E' indubbio che la detenzione di soggetti potenzialmente infettivi possa porre problemi pratici, soprattutto in situazioni di sovraffollamento e di eccessiva promiscuità, che talora sembrano richiedere misure di assoluta emergenza. Nella risposta a queste difficoltà è parsa, tuttavia, prevalere una logica autoreferenziale dell'istituzione carceraria e di quella giudiziaria, che hanno utilizzato il fenomeno Aids per riconfermare la propria stabilità interna, da un lato, auspicando l'espulsione dal circuito penitenziario dei detenuti affetti dal virus HIV, e dall'altro, ripiegando su una concezione della pena come mero strumento di difesa sociale. In tal modo, il condannato-malato di Aids è stato visto, o come un'entità scomoda da gestire, o come un pericolo per la sicurezza dei cittadini, piuttosto che come un soggetto giuridico responsabile delle proprie azioni e, in quanto dotato di una autonoma capacità di scelta, responsabile penalmente delle proprie azioni. Questa assenza del soggetto detenuto e la rigida chiusura verso il mondo esterno dell'ambiente carcerario hanno rappresentato, tra l'altro, i maggiori ostacoli che le strategie di prevenzione dell'Aids in carcere hanno dovuto affrontare.In modo forse un poco paradossale si potrebbe, quindi, affermare che ribadire, da un lato, la tutela dei diritti del detenuto malato a prognosi infausta e, dall'altro, il dovere sociale di punire equamente e nei limiti strettamente regolati dal diritto tutti i consociati, tenendo conto tuttavia, nel commisurare la pena, delle ridotte aspettative di vita di tale detenuto, sia il modo più idoneo non solo di sostenere le ragioni dello stato di diritto, ma anche di predisporre politiche di contenimento della diffusione dell'Aids efficaci, in quanto fondate sulla responsabilizzazione morale e sociale degli individui colpiti dal virus HIV. Verrebbe ribadita, in tal modo, anche la funzione pratica della riflessione filosofica sulla pena, il cui ruolo primario rimane quello dell'analisi concettuale della strategie argomentative che possono giustificare le diverse modalità punitive, in una prospettiva di critica razionale alle pratiche di potere dominanti all'interno dei sistemi penitenziari.
Bibliografia
La distinzione è stata elaborata da L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, Laterza, 1989, p. 315 ss.Come noto l'Italia è stato l'unico paese ad emanare una normativa specifica sul tema, mentre molti altri ordinamenti giuridici hanno preferito regolamentare la questione facendo riferimento ai principi generali del diritto penale.L. Ferrajoli, op. cit., p. 315.Un esempio tipico di simile fallacia lo si può indicare nella motivazione di alcune sentenze della Corte Costituzionale italiana (la prima delle quali è quella n. 70/1994, pubblicata in La Legislazione Penale, 1994, pp. 303-305) che partendo da premesse di carattere empirico, le attuali condizioni igienico-sanitarie del sistema penitenziario italiano che non sono in grado di garantire che il detenuto malato o sieropositivo non rappresenti un pericolo di contagio per gli altri detenuti e per gli operatori del carcere, è giunta a conclusioni prescrittive, la legittimità della norma che prevedeva la scarcerazione dei detenuti colpiti dal virus HIV. Cfr. il saggio di Massimo Pastore nel presente volume. E' noto come la Grande Divisione tra essere e dover essere, tra fatti e valori, introdotta da Hume sia stata ripresa, e variamente modulata, dal pensiero neopositivista di questo secolo attraverso l'opera di autori come Wittgenstein (del Tractatus), Carnap, Popper, Hare, Poincaré, etc. Per una ricostruzione storica e concettuale di tale processo culturale, cfr. G. Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere dall'essere, Milano, Giuffrè, 1969, p. 31 ss.G. Carcaterra, op. cit., p. 69.Il richiamo è qui all'opera di Jurgen Habermas che, proprio prendendo le mosse dall'analisi del linguaggio avente pretese di validità normativa, è giunto alla proposta di fondare la nozione di razionalità comunicativa. Cfr. J. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo. Razionalità nell'azione e razionalizzazione sociale, Bologna, Il Mulino, 1986, vol. I, p. 378 ss.Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1976, p. 270 ss. Per una ricostruzione del pensiero foucaultiano su questo tema, mi permetto di rinviare al mio saggio "Sapere giuridico tra diritto di sovranità e pratiche disciplinari nel pensiero di Michel Foucault", in Sociologia del Diritto, XVIII, 1991, pp. 43-80.E' appena il caso di ricordare che nelle pagine che seguono non verranno prese in considerazione le c.d. teorie abolizioniste della pena che, auspicando l'eliminazione di qualsiasi forma di diritto penale, non possono che considerare priva di ogni interesse la questione sulla legittimità della pena al malato di Aids. Ci si limiterà quindi a prendere in esame le principali dottrine giustificazioniste della pena.E' stato correttamente osservato come anche il principio della Grande Divisione sia, in ultima analisi, un principio normativo, in quanto "la "legge di Hume" costituisce una direttiva, una norma o una regola che prescrive per ragioni logiche e filosofiche (ed etiche?) che, indipendentemente da ciò che di fatto accade, si debbono mantenere in qualche modo separate e incongiungibili le informazioni fattuali e le valutazioni o decisioni morali" (E. Lecaldano, ""Grande Divisione", "legge di Hume" e ragionamento in morale", Rivista di Filosofia, LXVII, 1976, p. 82).Tale concetto, introdotto in tema di interpretazione della teoria quantistica da W. Heisenberg, è stato proficuamente utilizzato anche nelle discipline filosofico-giuridiche, ad esempio, per ricostruire teoreticamente la nozione di original position nel pensiero di John Rawls. Cfr. E. di Robilant, "Un esperimento mentale", in AA.VV., Le ragioni della giustizia, Torino, Biblioteca della libertà, nn. 65/66, 1977, pp. 167-174.E' questa l'impostazione, ad esempio, della ricostruzione genealogica degli enunciati delle scienze dell'uomo di Michel Foucault o della teoria degli atti linguistici di John Searle. Cfr. H.L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Firenze, Ponte alle Grazie, 1989, p. 68 ss.La distinzione è stata introdotta nel pensiero analitico da R. M. Hare ed in Italia è stata ripresa, per temi più strettamente di filosofia e di sociologia del diritto, da G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, Bologna, Il Mulino, 1974, pp. 329-361. Sul tema, cfr. anche C. Pennisi, "La legittimazione delle norme giuridiche: modelli teorici e sociologia del diritto", Sociologia del Diritto, XIV, 1987, pp. 31-66.Tale prospettiva è quella propria della ragione giuridica occidentale, sul quale si fonda la sfida del moderno stato democratico di diritto di regolare artificialmente (artificial reason) l'esercizio del potere statuale (cfr. L. Ferrajoli, "Il diritto come sistema di garanzie", Ragion Pratica, I, 1993, p. 146). Per un quadro più ampio della disciplina che è stata denominata epistemologia giuridica, cfr.: C. Atias, Epistémologie juridique, Paris, P.U.F., 1985; J. Lenoble, F. Ost, Droit, mythe et raison. Essai sur la dérive mytho-logique de la rationalité juridique, Bruxelles, Fac. Saint-Louis, 1980.Si veda a questo proposito, oltre al lavoro di Anna Rosa Favretto presente in questo volume, il bel saggio di S. Gilman, Immagini della malattia. Dalla follia all'aids, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 337-360, e le riflessioni, ormai classiche, di S. Sontag, L'Aids e le sue metafore, Torino, Einaudi, 1989, nonchè alcune raccolte antologiche relative agli aspetti socio-culturali e politici del fenomeno Aids: P. Aggleton, H. Homans (a cura di), The social aspects of Aids, London, The Falmer Press, 1988; P. Aggleton, P. Davies, G. Hart (a cura di), Aids: individual, cultural and policy dimensions, London, The Falmer Press, 1990.Questa affermazione non intende in alcun modo negare che in una prospettiva più strettamente empirica le rappresentazioni sociali ed altri fattori socio-politici debbano essere analizzati per comprendere i nessi causali che hanno portato, rispetto alla tematica Aids-carcere, a specifiche normative e ai relativi processi di implementazione.Le normative degli ordinamenti giuridici positivi a questo proposito non sono di facile reperibilità. Per quanto riguarda le normative sull'Aids si può fare riferimento ad una raccolta di riferimenti legislativi dell'O.M.S. pubblicata nel giugno 1992 e ad una serie di tabelle riassuntive pubblicate dalla rivista Aids-Forschung (1990, pp. 615-630, 676-686; 1991, pp. 45-54, 100-106, 157-159, 226-227, 338-340, 396, 452, 508, 563-564, 620, 676; 1992, pp. 50-51, 107, 158-159, 219, 276, 331-332, 387-388, 441-442, 498-499).Esempi di tale tipo di norme sono quelli enunciati al punto 3 della "Dichiarazione sulla prevenzione e il controllo dell'Aids nelle carceri" adottata nel novembre 1987 dalla Consulta dell'Organizzazione Mondiale della Sanità o al punto 14 della raccomandazione R 93-6 del 18 ottobre 1993 del Consiglio d'Europa.Il riferimento è ai noti episodi verificatesi nelle carceri italiane prima dell'emanazione della legge n. 222/93, in cui ad alcune persone affette dal virus HIV è stato negato il diritto di morire nella propria abitazione.Si fa solitamente risalire l'emergere di tale mutamento di prospettiva al celebre saggio di Andrew von Hirsch (Doing Justice. The Choice of Punishment, New York, Basik Book, 1976), frutto conclusivo di un lavoro pluriennale del Committee for the Study of Incarcerations che spostò il focus della riflessione sulla pena dal concetto di deterrence alla nozione di just desert (sul punto cfr.: M. R. Gardner, "The Renaissance of Retribution - An Examination of Doing Justice", Wisconsin Law Review, LVI, 1976, pp. 781-815; G. Mannozzi, "Fini della pena e commisurazione finalisticamente orientata: un dibattito inesauribile?", Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, XXXIII, 1990, pp. 1088-1106). Per una ricostruzione delle dottrine neo-retributive o neo-classiche in ambito anglosassone, cfr.: M. Davis, "Recent Work in Punishment Theory", Public Affairs Quarterly, IV, 1990, p. 217 ss.; C.L. Ten, Crime, Guilt and Punishment, Oxford, Clarendon Press, 1987; J. Hampton, "A new Theory of Retribution", in R. G. Frey, C. W. Morris (a cura di), Liability and Responsability, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, p. 377 ss.Per quanto riguarda l'Europa la riformulazione della dottrina retributiva si è avuto principalmente in Germania (cfr. L. Eusebi, "La "nuova" retribuzione. Pena retributiva e teorie preventive", Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, XXVI, 1983, pp. 914-969 e La pena "in crisi". Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, Morcelliana, 1992, p. 67 ss.) e nei paesi scandinavi (cfr. N. Christie, Limits to Pain, Oxford, Martin Robertson, 1981). Per quanto riguarda l'Italia, l'idea retributiva ha stentato a lungo a trovare delle riproposizioni di un certo spessore teorico, anche se non sono mancate lucide esposizioni di tale approccio alla pena (si pensi al pamphlet di V. Mathieu, Perché punire? Il collasso della giustizia penale, Milano, Rusconi, 1978). Più di recente tale dottrina è stata riproposta da F. D'Agostino, La sanzione nell'esperienza giuridica, Torino, Giappichelli, 1989. E' da segnalare inoltre il dibattito, avvenuto all'inizio degli anni Ottanta, a partire da un saggio di Igor Primorac pubblicato sulla principale rivista di filosofia del diritto italiana, a proposito del classico tema retributivo della c.d. lex talionis (cfr.: I. Primorac, "On Some Arguments Against the Retributive Theory of Punishment", Rivista Internazionale Filosofia del Diritto, LVI, 1979, pp. 43-60, e "On Retributivism and the lex talionis", ivi, LXI, 1984, pp. 83- 94; M. H. Mitias, "Is Retributivism Without Lex Talionis?", ivi, LX, 1983, pp. 211-230).Si può fare riferimento, a titolo esemplificativo, ad un autore, non insensibile al pensiero marxista, come Jeffrie G. Murphy (cfr. Retribution, Justice, and Therapy. Essays in the Philosophy of Law, Dordrecht-Boston-London, Reidel, 1979; in collaborazione con J. Hampton, Forgiveness and Mercy, Cambridge, Cambridge University Press, 1988; nonché il numero monografico della rivista Arizona Law Review, "Issues in the philosophy of law: symposium", XXXVII, 1995). Sulla questione della relativa indipendenza della dottrina retributivista da precisi assunti di teoria politica, cfr. M. Davis, "The Relative Independence of Punishment Theory", Law and Philosophy, VII, 1989, pp. 321-350.Un esempio recente di tale riproposizone classificatoria si ha in M. A. Cattaneo, Pena, diritto e dignità umana, Torino, Giappichelli, 1990, p. 93 ss.Si tralascia, in questa sede, l'esame di quelle teorie della retribuzione giuridica, di matrice tedesca, che concepiscono la pena come mero ripristino dell'autorità statale e dell'ordinamento giuridico positivo, messi in pericolo dal delitto. Tali teorie pongono il diritto positivo al di sopra di qualunque considerazione morale e presentano significative affinità con le teorie utilitaristiche che separano radicalmente il diritto dalla morale. Cfr. M. A. Cattaneo, op.cit., p. 96 ss.Cfr. J. G. Murphy, Retribution, Justice..., op. cit., p. 77 ss.Per la distinzione tra versione "positiva" e versione "negativa" della dottrina retributiva, cfr. K. Baier, "The strenghts and limits of the retributive theory of punishment", Philosophic Exchange, II, 1977, pp. 38-65.Per la ricostruzione del dibattito sviluppatosi entro questo filone della dottrina penalistica retributiva che si è ispirata, in massima parte, ad un autore come John Rawls, cfr.: A. Hoekema, "The Right to Punish and the Right to be Punished", in H.G. Blocker, E.H. Smith (a cura di), John Rawls' Theory of Justice. An Introduction, Athens, Ohio University Press, 1980; M. Davis, "How to Make the Punishment Fit Crime", Ethics, XCIII, 1983, pp. 726-752; M.M. Falls, "Retribution, Reciprocity, and Respect for Persons", Law and Philosophy, VI, 1987, pp. 25-51; W. Sadurski, "Theory of Punishment, Social Justice, and Liberal Neutrality", Law and Philosophy, VIII, 1989, pp. 351-373.Per avere un quadro delle principali critiche svolte a tale dottrina, cfr.: L. Eusebi, La pena "in crisi"..., op. cit., p. 78 ss.; R. W. Burgh, "Do the Guilty Deserve to Suffer?", The Journal of Philosophy, LXXIX, 1982, pp. 193-210; A. von Hirsch, "Proportionality in the Philosophy of Punishment: From 'Why Punish?' to 'How Much?'", Criminal Law Forum, I, 1990, pp. 259-290; C.L. Ten, "Positive Retributivism", Social Philosophy and Policy, VII, 1990, in particolare pp. 196-200; R.A. Duff, Trials and Punishment, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, p. 135 ss.A proposito delle riletture della teoria kantiana, cfr.: B. S. Byrd, "Kant's Theory of Punishment: Deterrence in its Threat, Retribution in its Execution", Law and Philosophy, VIII, 1989, pp. 151-200; A. W. Norrie, Law, Ideology and Punishment, Dordrecht-Boston-London, Kluwer Academic, 1991, p. 39 ss.; K.L. Avio, "Economic, Retributive and Contractarian Conceptions of Punishment", Law and Philosophy, XII, 1993, pp. 249-286; J. G. Murphy, op. ult. cit., p. 82 ss. Sul tema cfr. anche la lettura più tradizionale di M. A. Cattaneo, Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano, Giuffrè, 1981. Per ciò che concerne Hegel, cfr.: M.D. Dubber, "Rediscovering Hegel's Theory of Crime and Punishment", Michigan Law Review, XCII, 1994, pp. 1577-1621; A.W. Norrie, op. cit., p. 65 ss.; S. Moccia, "Contributo ad uno studio sulla teoria penale di G.W.F. Hegel", Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, XXVII, 1984, pp. 131-174; J. E. McTaggart, "Hegel's Theory of Punishment", in G. Ezorsky (a cura di), Philosophical Perspectives on Punishment, Albany N.Y., State University of New York Press, 1972, pp. 382-399.M.A. Cattaneo, Pena Diritto..., op. cit., p. 60.L. Eusebi, op. ult. cit., pp. 69-70.F. D'Agostino, op. cit., p. 104.Ciò ovviamente quando per punizione s'intenda una sanzione materiale comminata da un'istituzione temporale, quale può essere un tribunale dello stato. Diversa può essere la prospettiva quando si considerino manifestazioni di autopunizione afferenti alla sfera interiore e/o religiosa dell'individuo (es. varie forme di penitenza religiosa che presuppongono il pentimento del peccatore). Sul tema, cfr. P. Ricoeur, Finitudine e colpa, Bologna, Il Mulino, 1970.M.A. Cattaneo, Dignità umana..., p. 223.L'autore principale che ha contribuito a precisare tale dottrina penalistica è Joel Feinberg (cfr. "The Expressive Function of Punishment", in Doing and Deserving, Princeton, Princeton University Press, 1970, p. 98 ss.). Per avere un quadro del dibattito che le tesi di Feinberg hanno suscitato, cfr.: A.J. Skillen, "How to Say Things with Walls", Philosophy, LV, 1980, pp. 509-523; P.S. Ardal, "Does Anyone Ever Deserve to Suffer?", Queen's Quarterly, XCI, 1984, pp. 241-257; I. Primoratz, "Punishment as Language", Philosophy, LXI, 1989, pp. 187-205.Accenno qui al tema della condivisione delle norme penali lasciando impregiudicata la questione, essenziale e infinitamente dibattuta, della possibilità e, eventualmente, delle modalità attraverso le quali tale condivisione possa essere garantita e possa essere verificata empiricamente. Sulla ripresa della funzione simbolica della pena in ambito più strettamente criminologico, si vedano le interessanti considerazioni di D. Melossi, "Ideologia e diritto penale", Dei Delitti e delle Pene, 2^ serie, I, 1991, pp. 15-34.Cfr. I. Primoratz, op. cit., p. 196 ss. In questo saggio è contenuta anche una chiara definizione delle due tendenze dottrinali dell'expressionism anglosassone.Cfr.: M.S. Moore, "The Moral Worth of Retribution", in F. Schoeman (a cura di), Responsability, Character and Emotions, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, pp. 179-221; J.G. Murphy, J. Hampton, op. cit., p. 15 ss.; J.L. Mackie, "Morality and the Retributive Emotions", Criminal Justice Ethics, I, 1982, pp. 3-44. Vi è da notare come tale posizione dottrinale possieda indubbie affinità con la tesi della funzione della pena come strumento di prevenzione delle reazioni informali al crimine, esposta in Italia da Luigi Ferrajoli che pure rappresenta un convinto assertore dell'utilitarismo penale. Cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione..., op. cit., p. 325 ss.I. Primoratz, op. cit., p. 196. Su questa posizione cfr. anche, J. Hampton, op. cit., p. 388 ss.Per avere un quadro di tale approccio dottrinale, cfr.: H. Morris, "A Paternalistic Theory of Punishment", American Philosophical Quarterly, XVIII, 1981, pp. 263-271; R. Nozick, Philosophical Explanations, Oxford, Oxford University Press, 1981, pp. 363-397; J. Hampton, "The Moral Education Theory of Punishment", Philosophy and Public Affairs, XIII, 1984, pp. 208-238; A. Duff, op. cit., pp. 64-73, 254-262, 268-277.Non può essere sviluppata in questa sede, ma occorre accennare brevemente alla problematicità di tale approccio sia per quanto riguarda la contraddittorietà del voler ottenere persuasione e condivisione di valori attraverso uno strumento necessariamente coercitivo come la pena, sia per il ruolo marcatamente eudemonologico che si verrebbe ad assegnare all'istituzione statale che esegue la sanzione penale. Per tali critiche, cfr.: C. L. Ten, "Positive...", op. cit., pp. 200-208; R. Shafer-Landau, "Can Punishment Morally Educate?", Law and Philosophy, X, 1991, pp. 189-219.E' questo il caso delle "malattie" che incidono direttamente sulla volontà dell'individuo, quali ad esempio la condizione di tossicodipendenza. Tale problema è stato, in Italia, spesso posto in secondo piano nel dibattito sulla tossicodipendenza come fattore di criminalità, ma potrebbe assumere rilevanza anche rispetto al tema Aids-carcere (data l'alta relazione statistica tra infezione da HIV e tossicodipendenza), qualora si ritenesse di superare l'attuale regime del codice penale incentrato sulla fictio iuris della capacità di intendere e di volere del soggetto tossicodipendente. Sul tema, cfr. V. Militello, "Imputabilità ed assunzione di stupefacenti fra codice e riforma", in F. Bricola, G. Insolera (a cura di), La riforma della legislazione penale in materia di stupefacenti, Padova, Cedam, 1991, pp. 139-184; G. Vassalli, "L'imputabilità del tossicodipendente", L'Indice Penale, III, 1986, pp. 537-560; A. Manna, "L'imputabilità del tossicodipendente: rilievi critici", Rivista Italiana di Medicina Legale, VIII, 1986, pp. 1026-1040.Un esempio di tale argomentazione giuridica è rappresentato da quella parte della dottrina italiana che non ha ritenuto applicabile ai malati a prognosi infausta quoad vitam l'art. 147 del codice penale, relativo al rinvio dell'esecuzione della pena, in quanto nel caso di tali patologie verrebbe meno la possibilità di far scontare la pena in una fase successiva dato il probabile esito negativo della malattia stessa. Cfr. V. Manzini, Trattato di diritto penale, Torino, Utet, 1981, vol. III, p. 53. Sul punto, si veda anche C. Crestani, D. Bordignon, "Incompatibilità tra condizioni di salute e stato di detenzione. Aspetti giuridici e medico-legali", Rivista Italiana di Medicina Legale, VIII, 1986, pp. 406-416.Le cronache giornalistiche italiane di questi ultimi mesi sembrano rimandarci peraltro un'immagine diversa, in quanto non solamente le reazioni al reato paiono non attenuarsi nel caso di azioni delittuose commesse da malati di Aids, ma anzi sembrano incattivirsi a causa della legge che ha reso tali individui incompatibili con il carcere, aggiungendo alla persona malata l'odiosa caratteristica dell'intoccabilità. Occorre peraltro aggiungere che, in assenza di precise indagini scientifiche sulle reazioni sociali al reato, è necessario prendere con beneficio d'inventario tali considerazioni.Per avere alcuni esempi di come le dottrine utilitaristiche siano state riproposte, in particolare nella cultura giuridica di stampo anglosassone, in un'ottica più attenta alle garanzie dello stato di diritto, cfr.: N. Walker, Why Punish?, Oxford, Oxford University Press, 1991; D. M. Farrell, "The Justification of General Deterrence", The Philosophical Review, XCIV, 1985, pp. 367-394; C. S. Nino, "A Consensual Theory of Punishment", Philosophy and Public Affairs, XII, 1983, pp. 289-306; A. H. Goldman, "Toward a New Theory of Punishment", Law and Philosophy, I, 1982, pp. 57-76.L. Ferrajoli, op. ult. cit., pp. 250-251. Vi è da ricordare come proprio Ferrajoli abbia definito l'utilitarismo delle dottrine giustificazioniste della pena un "utilitarismo dimezzato", in quanto guarderebbe in via principale alla maggiore utilità della maggioranza dei consociati non devianti e non alla minima sofferenza da infliggere alla minoranza dei devianti.Le uniche statistiche esistenti su questo tema, fornite da associazioni di volontariato, parlano di alcune decine di casi di recidive su un un totale di oltre 2250 scarcerazioni ex legge 222/93 (cfr. V. Agnoletto, "Vittime da punire", Il Manifesto, 10 agosto 1995).E' questa la posizione tradizionalmente attribuita a Beccaria che è stata ripresa di recente, in ambito criminologico, dalle "teorie della scelta razionale". Cfr.: D.B. Cornish, R.V. Clarke (a cura di), The Reasoning Criminal. Rational Choice Perspectives on Offending, New York, Springer Verlag, 1986; L. Berzano, F. Prina, Sociologia della devianza, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995, p. 23 ss.Un esempio di concezione della pena come processo educativo e comunicativo in versione consequentialist, cfr. J. Braithwaite, P. Pettit, Not Just Deserts, Oxford, Oxford University Press, 1990.Tali dottrine si ricollegano in particolare al concetto di poena medicinalis formulata da Platone e ripresa da Tommaso d'Aquino e al concetto, che sottende l'intero arco evolutivo del pensiero ebraico-cristiano sulla pena, della sofferenza come mezzo di espiazione dei peccati e come strumento per il recupero morale del peccatore. Cfr. P. Ricoeur, op. cit., pp. 328-351. Per avere un quadro complessivo delle teorie pedagogiche dell'emenda, cfr. L. Ferrajoli, op. ult. cit., p. 252 ss.; M.A. Cattaneo, Pena Diritto..., p. 162 ss.Possono rientrare in questa categoria la Scuola positiva italiana di Enrico Ferri, o le teorie penalistiche sovietiche di Stucka e Pašukanis, o ancora, in ambiente anglosassone, la dottrina della pena di Barbara Wootton. Per una descrizione di tali teorie mi limito a richiamare i lavori appena citati di Luigi Ferrajoli e Mario A. Cattaneo.Si fa partire usualmente tale filone dottrinale dal c.d. Programma di Marburgo di Franz von Liszt del 1882, dottrina che ebbe grande successo soprattutto nell'ambito della new penology americana nel corso di buona parte del XX secolo. Anche il movimento francese della "Défense Sociale Nouvelle" di Marc Ancel può rientrare in questo filone dottrinale (cfr. F. Cavalla, La pena come problema, Padova, Cedam , 1979).Sul punto riguardante la misura in cui il positivismo condiziona ancora oggi i discorsi sulla criminalità e sulla pena, cfr. A. Ceretti, L'orizzonte artificiale. Problemi epistemologici della criminologia, Padova, Cedam, 1992, p. 295 ss.Su questo ultimo tema, per quanto riguarda l'ambito penalistico anglosassone, cfr.: F. Schoeman, "On Incapacitating the Dangerous", American Philosophical Quarterly, XVI, 1979, pp. 27-65; A.E. Bottom, R. Brownsword, "The Dangerousness Debate after the Floud Report", British Journal of Criminology, XXII, 1982, pp. 229-254; N. Lacey, "Dangerousness and Criminal Justice: The Justification of Preventive Detention", Current Legal Problems, XXXVI, 1983, pp. 31-49.Questo è un appunto al paradigma classico della pena che è già stato avanzato per quanto riguarda il reo diseredato, cfr. A. Cottino, "Introduzione allo studio del diritto e della società", in A. Cottino, F. Prina, C. Sarzotti, Questioni di sociologia del diritto, Torino, Il Segnalibro, 1991, p. 57. Occorre precisare che la discussione qui sostenuta, dato il suo carattere di esperimento mentale, si pone ad un certo grado di astrattezza; in concreto potranno verificarsi casi di persone malate per cui la sanzione penale conserva un effetto deterrente. E' nota, ad esempio (la stampa periodica non ha perso occasione di sottolinearlo con toni spesso allarmistici, soprattutto per quanto riguarda la c.d. banda dell'Aids torinese), la vicenda di persone sieropositive che, dopo l'entrata in vigore della legge 222, hanno compiuto numerosi reati, dichiarando alle forze dell'ordine di polizia nell'immediatezza dell'arresto: "Che mi arrestate a fare? Tanto non mi potete mettere dentro", dimostrando in tal modo di mantenere il timore della sanzione detentiva. Evidentemente, e per fortuna, nella realtà non è facile trovare persone che non hanno nulla da perdere!E' questa ad esempio la posizione di politica criminale autorevolmente sostenuta in Italia da una parte della magistratura di sorveglianza, cfr. A. Margara, "Normativa per i detenuti malati di Aids: è per morire o per vivere?", Questione Giustizia, XIV, 1995, pp. 124-140.Oltre alle soluzioni normative che ho già ricordato alla nota 17, per le politiche di gestione del fenomeno Aids nei vari sistemi penitenziari rimando al saggio di Susanna Ronconi e alla bibliografia ivi citata.La letteratura su questo tema è assai vasta; ai nostri fini è sufficiente richiamarsi, ancora una volta, ad una delle opere di sintesi di maggior valore pubblicate in questi anni, ricchissima di riferimenti bibliografici, e dovuta a Luigi Ferrajoli, op. ult. cit., p. 386 ss.M. Foucault, op. cit., p. 281.Sul punto mi limito a ricordare le interessanti considerazioni di una recente ricerca francese, cfr. G. Benguigui, A. Chauvenet, F. Orlic, "Les Surveillants de prison et la règle", Deviance et Société, XVIII, 1994, pp. 275-295. Per quanto riguarda più specificatamente l'Aids, cfr. P. Thomas, "Aids and detention", paper presentato in Aids and detention, Amsterdam, Eurocaso, 8 febbaio 1991.Per una ricostruzione del contenuto di tali normative cfr., oltre al saggio di Massimo Pastore presente in questo volume, P. Darbéda, "Les directives européennes et internationales sur la lutte contre le VIH/SIDA en milieu pénitentiaire", Revue de Science Criminelle, 1, 1995, pp. 132-140.Cfr. K. Tomasevski, "Aids and prisons", Aids, V, 1991, pp. 245-251.Cfr. K. Tomasevski, Prison health: international standards and national practices in Europe, Helsinki, Forssan Kirjapaino, 1992.Cfr. T. Harding, G. Schaller, HIV/AIDS and prisons: updating and policy review. A survey covering 55 prison systems in 31 countries, Geneva, O.M.S., 1992, pp. 11-12.Cfr. ivi, p. 15 ss.Cfr. P. Cattorini, "Proposte di screening per l'infezione da HIV. Riflessioni etiche preliminari ed analisi della situazione carceraria", in P. Cattorini (a cura di), Aids e situazione carceraria, Padova, Liviana, 1990, pp. 59-77.Gli elementi di retribuzione giuridica consentono, ad esempio, di escludere la legittimità della pena esemplare inflitta all'individuo innocente o della punizione preventiva del soggetto socialmente pericoloso; figure di reato che invece non possono essere del tutto rifiutate da una prospettiva rigorosamente utilitaristica. Il tema è stato ampiamente discusso soprattutto nella letteratura anglosassone, a partire dalle note tesi di Herbert L. A. Hart. Cfr. H.L.A. Hart, Responsabilità e pena. Saggi di filosofia del diritto, Milano, Comunità, 1981, p. 29 ss.; S. Sverdlik, "Punishment", Law and Philosophy, VII, 1988, pp. 179-201; A. Wertheimer, "Deterrence and Retribution", Ethics, LXXXVI, 1976, pp. 181-199; I. Primoratz, op. cit., p. 192 ss.; N. Lacey, State Punishment. Political Principles and Community Values, London-New York, Routledge, 1988, p. 37 ss.Sul punto oltre ai testi di Katarina Tomasevski già citati, cfr. M. Blumberg (a cura di), Aids: the Impact on the Criminal Justice System, London, Merrill, 1990, p. 214 ss.Cfr. T. Harding, "HIV Infection and Aids in the Prison Environment: a Test Case for the Respect of Human Rights", in J. Strang, G. Stimson (a cura di), Aids and Drug Misuse, London-New York, Routledge, 1990, pp. 197-207.Cfr. C. Scorretti, "Sindrome da immunodeficienza acquisita e regime di detenzione", Rivista Italiana di Medicina Legale, VII, 1985, p. 1180.Cfr. C. Sueur, "L'infection par le VIH liée à l'usager de drogue par voie intraveineuse en milieu carcéral", in C.R.I.P.S-Toxibase (a cura di), Sida, toxicomanie: une lecture documentaire, Paris, 1993, pp. 44-47.Questione più complessa è quella relativa alla idoneità del carcere, da un punto di vista fattuale, a poter essere considerato un tipo di pena che incida esclusivamente sul diritto di libertà del condannato; tale questione riconduce peraltro al già ricordato conflitto tra pratiche carcerarie e garanzie giuridiche, rispetto al quale mi limito a richiamare le analisi foucaultiane già citate e alcune recenti letture della situazione italiana: G. A. Mosconi, "Alle radici dell'ambivalenza. Strumentalità e simbolismo del diritto nella recente legislazione penitenziaria italiana", Sociologia del Diritto, XIX, 1992, pp. 23-53; T. Pitch, Responsabilità limitate, Milano, Feltrinelli, 1989; A. Sofri, Le prigioni degli altri, Palermo, Sellerio, 1993, p. 129 ss.L. Ferrajoli, op. ult. cit., p. 386.Occorre precisare come tale ricostruzione della struttura della pena moderna sia la descrizione, da un punto di vista interno, del discorso filosofico-giuridico che si è occupato dei limiti entro i quali si può considerare legittimo l'esercizio del potere punitivo da parte dello stato moderno. Si è parlato in questa prospettiva di "umanizzazione delle pene"; non va dimenticato, tuttavia, come, in una prospettiva esterna di ricostruzione genealogica di questo discorso giuridico, tale espressione debba essere colta in tutta la sua ambiguità.Cfr. L. Ferrajoli, op. ult. cit., p. 400 ss. La giurisprudenza della Cassazione tedesca ha, ad esempio, già avuto modo di considerare le brevi aspettative di vita del condannato come un elemento attraverso il quale commisurare le durata della pena. Cfr. L. Eusebi, op. ult. cit., p. 79, n. 137.Nel nostro ordinamento, ad esempio, l'art. 133 del codice penale ne indica una lunga serie che tuttavia non può dirsi del tutto esaustiva, in quanto il giudice ha una larga discrezionalità nell'interpretare l'ampiezza di tali criteri (si pensi alla nozione di "condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo"). Cfr. G. Vassalli, "La pena in Italia, oggi", in AA.VV., Studi in memoria di Pietro Nuvolone, Milano, Giuffrè, 1991, vol. I, p. 643 ss. Si è visto (cfr. supra saggio di Massimo Pastore) come uno dei motivi di impugnazione della giurisprudenza di merito davanti alla Corte Costituzionale della legge 222 sia stato proprio quello che l'automatica scarcerazione dei detenuti aventi una popolazione linfocitaria di T/CD4 inferiore o pari a 100/mmc avrebbe esautorato, in pratica, il giudice dalla sua attività discrezionale di interpretazione del diritto.E' questo il caso di quei sistemi penitenziari che hanno adottato il c.d. modello autoritario di risposta all'Aids, in contrapposizione con il c.d. modello liberale. Per tale distinzione, cfr. P. Darbéda, "Les prisons face au Sida: vers des normes européennes", Revue de Science Criminelle et de Droit Pénal Comparé, 1990, pp. 821-828.Per avere un quadro sufficientemente completo di tali posizioni, cfr. T. W. Harding, op. ult. cit., passim.G. Micali, "Il fondamento della pena e l'esegesi dell'art. 27 comma 3 della Costituzione", Cassazione Penale, 1991, p. 1168.Cfr. E. Gallo, "L'evoluzione del pensiero della Corte costituzionale in tema di funzione della pena", Giurisprudenza Costituzionale, 1994, p. 3204; M. D'Ambrosio, "L'ordinamento penitenziario alla luce delle moderne teorie sulla funzione della pena", Legalità e Giustizia, 1988, p. 42 ss. La giurisprudenza più recente della Corte (in particolare con la sentenza n. 341 del 25 luglio 1994 pubblicata in Giurisprudenza Costituzionale, 1994, p. 2802 ss.) ha peraltro ribadito il carattere preminente della funzione risocializzante e rieducativa della pena, ponendo in secondo piano quegli elementi di difesa sociale e di prevenzione che fanno correre "il rischio di strumentalizzare l'individuo a fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo all'esemplarità della sanzione". Sulla valorizzazione della funzione rieducativa della pena secondo il dettato costituzionale, cfr. anche A. Margara, "La pena perduta e il carcere ritrovato: riflessione sulla crisi di una delle tante riforme incompiute", Questione Giustizia, XII, 1993, pp. 381-403.Per la ricostruzione di tale vicenda normativa, mi limito qui a richiamare il lavoro di Massimo Pastore pubblicato supra e la bibliografia ivi citata. Un tentativo, peraltro molto sintetico e precedente la legge 222, di applicare al tema della pena al malato di Aids i principi etico-giuridici vigenti nella nostra Costituzione è stato compiuto da S. Cotta, "I detenuti e il problema dell’Aids. Profilo etico-giuridico", in P. Cattorini (a cura di), op. cit., pp. 29-33.Corte Costituzionale, sent. 15 luglio 1994, n. 308, Cassazione Penale, 1994, p. 2896, con nota di A. Vellucci, G. Starnini, S. Farinelli, V. De Donatis.Per una breve ricostruzione di tali emergenze mi permetto di rimandare al mio "Un vuoto da riempire con la ragione", Narcomafie, III/10, nov. 1995, p. 14.Un esauriente campione di tali eccezioni di costituzionalità sono state pubblicate in Questione Giustizia, XIV, 1995, pp. 466-481, con nota di F. Pironti.Il riferimento è qui alle ultime due sentenze della Corte Costituzionale sul tema dell’Aids in carcere (n. 438 e 439 del 18 ottobre 1995, pubblicate in Bollettino delle Farmacodipendenze e dell’Alcoolismo, XVIII, 1995, pp. 116-123). Attraverso tali pronunce la Corte ha confermato che il bene protetto dalla legge 222 è quello della salute del contesto carcerario (oltre che quella del condannato), ma ha ritenuto che l’incompatibilità tra malattia e detenzione vada stabilita, di volta in volta, dal magistrato di sorveglianza sulla base delle effettive condizioni di salute del condannato e in relazione alla qualità delle strutture sanitarie del singolo stabilimento penitenziario.Trib. Sorveglianza Palermo, ord. 13 ottobre 1994, Questione Giustizia, XIV, 1995, p. 471.Trib. Torino, ord. 10 giugno 1995, ivi, p. 478.Trib. Sorveglianza Palermo, cit., p. 472 (il corsivo nella citazione è mio).
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