Carcere
    e Aids tra norma giuridica e pratiche carcerarie
     
    Da
    tempo sappiamo che il carcere rappresenta la zona più buia dell'apparato di
    giustizia, "il luogo dove il potere di punire, che non osa più
    esercitarsi a viso scoperto, organizza silenziosamente un campo di
    oggettività in cui il castigo può funzionare in piena luce come
    terapeutica" [M. Foucault, 1976, 281].
    Del resto non è nemmeno indispensabile rileggere Michel Foucault per
    constatare come il giuridico e il carcerario parlino spesso linguaggi
    inconciliabili, in un dissidio estenuante nel quale il carcerario si rifiuta
    spesso alla limpida grammatica della legge.
    A questa impressione di incomunicabilità non sfugge la normativa oggetto
    del presente articolo, quella relativa alla detenzione in carcere di
    individui affetti dal virus HIV o sieropositivi. L'esame della letteratura
    esistente sul tema e della situazione dei vari ordinamenti giuridici dei
    paesi europei ed extra-europei ha, infatti, mostrato come esista la tendenza
    a regolare tale fenomeno attraverso norme di carattere amministrativo e
    regolamentare, emanate per lo più da organismi ministeriali; norme il cui
    carattere di piena giuridicità è certamente molto attenuato [P. Thomas,
    1992].
    In questa prospettiva va guardata anche la distinzione, spesso citata, tra
    modelli di gestione autoritaria e modelli di gestione liberale del fenomeno
    Aids in carcere. I primi sarebbero caratterizzati dall'obbligatorietà del
    test sierologico, dall'isolamento dei detenuti sieropositivi, dalle
    restrizioni nell'accesso al lavoro interno e ad altre attività comuni, dal
    rifiuto di consentire in carcere la distribuzione di preservativi e di
    materiale disinfettante per le siringhe; i secondi invece si distinguono per
    il fatto di richiedere il consenso informato al test, per l'adozione di
    misure di prevenzione, di sostegno psico-sociale ai detenuti malati e di
    strategie di riduzione del danno [P. Darbeda, 1990].
    Tale distinzione, tuttavia, non riguarda precise opzioni di politica del
    diritto penitenziario, esplicitate in testi legislativi aperti al pubblico
    dibattito, nella serrata dialettica coi principi generali dell'ordinamento
    giuridico. Si tratta per lo più della ricostruzione, da parte dei
    ricercatori, delle prassi penitenziarie instaurate dagli apparati
    governativi competenti nella gestione degli istituti carcerari, sulla base
    di regolamenti amministrativi interni.
    Ricostruzione che, tra l'altro, ha spesso dovuto subire le difficoltà di
    realizzazione delle ricerche sociologiche nell'ambito della struttura chiusa
    del carcere e, nell'ambito dei modelli indicati, ha sottolineato la presenza
    di non poche incertezze ed oscillazioni, quasi sempre espressione di
    necessità immediate della gestione disciplinare dell'istituzione
    carceraria, più che di maturate decisioni sui principi giuridici che devono
    guidare il potere punitivo dello stato.
    In ciò ha trovato espressione, per l'ennesima volta, quell'autonomia e
    quella costitutiva eterogeneità del carcerario rispetto al discorso
    giuridico dello stato di diritto, che già Foucault denunciava e che
    rappresenta certamente uno degli aspetti più inquietanti e persistenti del
    modello punitivo delle nostre società.
    Per questa ragione il confronto tra principi etico-giuridici e norme di
    diritto positivo sul tema dell'esecuzione della pena a soggetti colpiti dal
    virus HIV risulta molto più agevole per quelle normative, di maggiore
    spessore giuridico, emanate da alcuni organismi internazionali, segnatamente
    l'O.M.S. e il Consiglio d'Europa, che non per le normative elaborate dagli
    ordinamenti giuridici statuali. Tali organismi, infatti, hanno emanato
    raccomandazioni e direttive sovranazionali tendenti a ribadire i principi
    generali che debbono ispirare l'esecuzione della pena in uno stato
    democratico di diritto, cercando di non farsi travolgere dalla logica
    emergenziale e disciplinare che ha spesso caratterizzato la reazione dei
    sistemi penitenziari al pericolo della diffusione dell'Aids.
    Il carattere non cogente di queste direttive e i larghi spazi di
    discrezionalità che esse lasciano necessariamente ai legislatori nazionali,
    indicano come a tutt'oggi resti assai problematica la possibilità di
    applicare le generali categorie giuridiche di tutela dei diritti individuali
    al rapporto punitivo di tipo carcerario.
    Obiettivo del presente articolo sarà, quindi, quello di enucleare i
    principali nodi concettuali relativi alla regolamentazione giuridica della
    pena carceraria che il fenomeno dell'Aids in carcere ha sollevato; la
    situazione del condannato affetto dal virus dell'Aids ha, infatti, fatto
    esplodere contraddizioni profonde tra come la nostra cultura può
    legittimare teoreticamente l'esecuzione della pena e il funzionamento di
    quell'apparato di sapere-potere che è l'istituzione carceraria. Tali
    contraddizioni sono state affrontate dai sistemi penitenziari nazionali
    cercando di rimuovere tali nodi, senza peraltro riuscire a conciliare
    l'aspetto etico-retributivo della pena con l'approccio correzionalista del
    carcere.
    Non sarà possibile affrontare nel breve spazio di queste pagine l'intera
    tematica qui sollevata. In questa sede si è scelto di limitare l'analisi ad
    alcuni punti. A questo scopo l'analisi si articolerà in due parti. Nella
    prima verranno esposti i nodi concettuali delle teorie giustificazioniste
    della pena che vengono messi in discussione da una situazione nella quale il
    soggetto passivo della pena sia affetto da una malattia a prognosi infausta
    e trasmissibile come l'Aids. Tali nodi ruotano intorno a due domande
    essenziali, a cui è possibile rispondere in modo diverso a seconda di come
    si legittimi il potere punitivo dello stato: il condannato affetto da
    malattia a prognosi infausta deve essere punito ugualmente per i suoi reati?
    E se sì, deve essere punito con modalità diverse dagli altri consociati?
    Nella seconda parte, invece, si tratterà più specificatamente del tema
    dell'isolamento carcerario del detenuto affetto dalla sindrome HIV o
    sieropositivo, mettendo a confronto i dati esistenti sulle principali prassi
    penitenziarie esistenti nel mondo occidentale con le raccomandazioni
    internazionali in tema di tutela dei diritti umani.
     
    
    Premessa epistemologico-giuridica: definizione della patologia Aids
    
    Una delle categorie fondamentali dell'epistemologia giuridica
    moderna è quella di pensare il diritto come un sistema di norme che
    consistono in proposizioni prescrittive aventi un elevato grado di
    astrattezza e di generalità. Per tale ragione porsi in una prospettiva di
    riflessione giuridica sul tema Aids-carcere significa, in primo luogo,
    effettuare un'operazione concettuale di depurazione degli aspetti emotivi
    che accompagnano solitamente le rappresentazioni sociali legate ad una
    malattia come l'Aids. Le regole dell'argomentazione giuridica per poter
    essere praticate richiedono un atteggiamento freddo, nel quale i fenomeni di
    realtà vengano percepiti esclusivamente negli elementi per essa rilevanti.
    Nel nostro caso ciò significa che gli innumerevoli aspetti etici, sociali e
    culturali che compongono un fenomeno complesso come quello dell'Aids vengono
    ridotti dal filtro giuridico, rispetto al tema dell'esecuzione della pena, a
    due soli elementi essenziali: l'Aids come malattia a prognosi infausta e
    l'Aids come grave malattia trasmissibile, conseguentemente in grado di
    ledere interessi essenziali di natura pubblica.
    Questa opera di riduzione effettuata dall'epistemologia giuridica, consente
    di rispondere all'esigenza di astrattezza e di generalità
    dell'argomentazione del diritto moderno, in quanto fa emergere, nell'ambito
    del fenomeno Aids, quegli elementi che si prestano ad un giudizio di
    comparabilità con altri fenomeni qualificabili analogicamente e quindi
    meritevoli dello stesso trattamento giuridico. Volendo esemplificare: l'Aids
    in quanto malattia a prognosi infausta potrà essere assimilata ad altre
    malattie dello stesso genere, quali le più gravi forme tumorali, mentre
    sotto l'aspetto della trasmissibilità potrà essere equiparata ad altre
    gravi malattie infettive, quali l'epatite o la tubercolosi.
    Fatta questa premessa di carattere definitorio risponderemo nei prossimi
    paragrafi alle due questioni accennate in precedenza: in primo luogo, ci
    porremo la domanda se la condizione di malato a prognosi infausta faccia
    venir meno il dovere di punire da parte dello stato; in secondo luogo,
    ipotizzando una risposta negativa a questa domanda, ci chiederemo quali sono
    le differenze nelle modalità di esecuzione della pena che possono essere
    legittimate da una simile condizione di malattia.
     
    
    Legittimità della pena e malattia a prognosi infausta
    
    Se le premesse dell'argomentazione giuridica dalle quali occorre
    partire sono quelle viste nel paragrafo precedente, occorre chiedersi quali
    conseguenze comporta, al fine della legittimità giuridica dell'esecuzione
    della pena, il fatto che il soggetto condannato sia affetto da una grave
    malattia infettiva a prognosi infausta. E' legittima la potestà punitiva
    dello stato nei confronti di tale soggetto, quando essa si eserciti
    attraverso l'imposizione della sanzione carceraria?
    Le risposte che gli ordinamenti giuridici positivi hanno dato a questi
    quesiti sono state per lo più contraddittorie , in quanto per lo più non
    hanno saputo conciliare la concezione della pena come retribuzione giuridica
    del reato, con la concezione della pena come mezzo di difesa sociale e di
    correzione del condannato.
    Prima di entrare nel merito dell'analisi di questa contraddizione
    concettuale occorre premettere che non verranno presi in considerazione
    quegli istituti giuridici, presenti in molti ordinamenti positivi, che, per
    ragioni umanitarie, consentono la liberazione anticipata del condannato
    nell'imminenza della sua scomparsa, "in modo da poter morire in
    condizioni di dignità e libertà" (punto 3 della "Dichiarazione
    sulla prevenzione e il controllo dell'Aids nelle carceri" adottata nel
    novembre 1987 dalla Consulta dell'Organizzazione Mondiale della Sanità).
    Al cospetto della morte l'argomentazione giuridica arretra e abbandona il
    suo accanimento sistematico; l'imminenza della scomparsa materiale del
    soggetto lo pone al di fuori delle regole del gioco giuridico. Ogni
    considerazione retributiva o di difesa sociale viene meno in questo caso,
    per non intaccare quello spazio sacro della persona al cospetto della morte
    entro il quale il diritto profano non ha più nulla da dire. Sappiamo come
    di fatto questo spazio sia stato talora negato ai malati di Aids , ma ciò
    costituisce materia di scandalo morale e sociale più che di dibattito
    filosofico-giuridico.
    Quando si parlerà di legittimità dell'esecuzione della pena nei confronti
    di soggetti affetti da malattie a prognosi infausta si farà, quindi,
    riferimento a situazioni nelle quali il detenuto non si trova nell'imminenza
    della morte, situazione il cui carattere di eccezionalità pregiudica ogni
    considerazione di tipo giuridico-sistematico.
     
    Aids e carcere: gli aspetti di retribuzione giuridica
    della pena
    
    Passiamo ora ad esaminare le argomentazioni che la moderna
    scienza giuridica penalistica è in grado di elaborare, rispetto alla
    questione della legittimità della pena nei confronti di un individuo che
    sia affetto da malattia a prognosi infausta.
    Per una prospettiva di questo genere è necessario fare riferimento alla
    doppia valenza che il concetto di pena ha assunto nelle tradizionali analisi
    delle teorie giustificazioniste. Diremo subito che il caso del
    condannato-malato a prognosi infausta costituisce certamente un severo banco
    di prova, sia per la valenza giuridico-retributiva della pena, sia per i
    suoi elementi di prevenzione speciale e di correzione del condannato, nonchè
    di difesa sociale.
    Scusandoci col lettore per la brevità con cui dovremo trattare questioni di
    teoria della pena assai complesse, occorre spiegare in primo luogo a che
    cosa si fa riferimento con l'espressione valenza retributivo-giuridica della
    pena. Le teorie retributiviste sono tradizionalmente suddivise in teorie
    della retribuzione morale, che privilegiano il carattere afflittivo e
    moralmente restaurativo della pena fine a se stessa, e le teorie della
    retribuzione giuridica, che invece tendono a sottolineare nella pena
    regolata giuridicamente gli elementi di garanzia dei diritti individuali e
    di uguaglianza dei cittadini al cospetto del potere punitivo dello stato [M.
    Cattaneo, 1990, 93 e ss.].
    In altri termini le teorie della retribuzione morale concentrano la loro
    attenzione sull'esigenza di punizione del reo, di restaurazione dell'ordine
    violato dal delitto attraverso la sanzione, spesso ponendo in secondo piano
    la distinzione, fondamentale per il pensiero moderno, tra ordine morale e
    ordine giuridico.
    Al contrario le teorie della retribuzione giuridica vedono nella concezione
    retributiva della pena l'unico modo per proteggere i diritti individuali
    della persona e i principi dello stato di diritto, sottolineando i limiti
    entro i quali è legittimo da parte dell'autorità statuale esercitare il
    diritto/dovere di punire le violazioni del suo ordine costituito,
    nell'ambito di una prospettiva che sebbene non separi radicalmente la sfera
    giuridica e la sfera morale, ne coglie le insopprimibili peculiarità [J.
    Murphy, 1979, 77 e ss.].
    Seguendo una nota classificazione della scienza giuridica penalistica, le
    teorie della retribuzione morale sono definite "positive", in
    quanto si preoccupano maggiormente delle ragioni per le quali si deve
    punire, mentre le teorie della retribuzione giuridica vengono dette
    "negative", in quanto si pongono l'obiettivo di analizzare i
    limiti che l'autorità statuale non deve oltrepassare nella sua potestà
    punitiva [K. Baier, 1977, 38 e ss.].
    Per tutte queste ragioni gli aspetti di retribuzione giuridica sono ancora
    oggi presenti nella concezione della pena dello stato democratico di
    diritto, a differenza di quelli di mera retribuzione morale.
    Che la pena sia la retribuzione, regolata giuridicamente, della violazione
    di una norma penale è un principio che, a molti autori, è parso idoneo non
    solamente a determinare, da un punto di vista teorico, i limiti entro i
    quali l'autorità punitiva dello stato moderno può legittimamente e
    doverosamente esercitarsi , ma anche a fornire i criteri concettuali coi
    quali verificare la legittimità delle modalità di esecuzione della pena.
    Rispetto al tema che ci riguarda gli aspetti retributivi della pena portano
    senza dubbio a delegittimare ipotesi di non punibilità dell'individuo
    affetto da malattia a prognosi infausta, non solamente perchè simili
    ipotesi sarebbero in contraddizione col principio di uguaglianza dei
    cittadini davanti alla legge penale, ma soprattutto perchè lederebbero la
    stessa dignità della persona malata.
    Sotto il profilo della dignità della persona un approccio retributivista
    non può infatti esimersi dal partire dai presupposti, classicamente
    attribuiti a Kant, secondo i quali ogni uomo deve essere trattato come un
    fine in sè e ogni uomo, per essere tale, deve poter rispondere, moralmente
    e giuridicamente, delle azioni delle quali sia considerato responsabile [M.
    Cattaneo, 1981, 270 e ss.].
    Se questi sono i principi non eludibili della pena come retribuzione del
    male commesso, risulta evidente che considerare l'individuo affetto da
    patologia a prognosi infausta come un soggetto esente dalla sanzione penale,
    rappresenti un modo per attenuare la sua piena dignità di soggetto
    giuridico. Per chi guardi alla pena da un punto di vista
    giuridico-retributivo non vi sono ragioni per escludere che anche il malato
    a prognosi infausta possa essere soggetto passivo del dovere dello stato di
    punire le violazioni del proprio ordinamento, qualora ovviamente la
    condizione di infermità non abbia intaccato la possibilità di rendere
    imputabili alla volontà del reo le azioni commesse .
    Se questo è vero al momento della commissione del reato, non vi sono
    ragioni perchè la situazione debba mutare qualora l'infermità sopraggiunga
    nel corso dell'esecuzione della condanna.
    L'evento della morte, che con la malattia sembra incombere più minaccioso
    sull'esistenza del malato, non esime la gelida razionalità del ragionamento
    giuridico dal proseguire il suo cammino . Il discorso giuridico, che sembra
    talvolta sconfinare nella crudeltà, peraltro conserva il suo valore di
    modello legittimante, nella misura in cui è in grado di proporre una pena
    che non sia strumento di degradazione della dignità della persona.
    Per quanto riguarda il principio dell'uguaglianza è nota la rigorosità
    della celebre affermazione kantiana, secondo la quale anche se la società
    civile si sciogliesse con il consenso dei suoi membri, l'ultimo assassino
    detenuto in carcere dovrebbe prima essere giustiziato, di modo che ciascuno
    riceva ciò che i suoi atti hanno meritato [J. Murphy, 1979, 82 e ss.].
    Questa affermazione, che all'orecchio di oggi può suonare come assurdamente
    crudele, non è che il frutto del lavorio instancabile del ragionamento
    giuridico che deduce logicamente dal principio di uguaglianza dei consociati
    davanti al potere punitivo dello stato, la conclusione che si deve
    escludere, in linea di principio, che un individuo per il solo fatto che ciò
    non appaia di qualche utilità sociale, si possa sottrarre alla sanzione
    penale. Al giurista retributivista non può e non deve interessare se la
    punizione del malato a prognosi infausta possa apparire inutile da un punto
    di vista sociale; la funzione della pena è quella di ricostruire il patto
    sinallagmatico tra stato e cittadino leso dalla commissione del reato, patto
    verso il quale tutti i soggetti giuridici sono uguali.
    In modo apparentemente paradossale Hegel ha parlato a questo proposito di un
    diritto del reo alla condanna, fondato sul suo diritto "in quanto uomo
    a che la sua volontà non sia considerata per sempre cristallizzata nel
    male, ma sempre e comunque recuperabile, appunto attraverso la pena; il
    diritto di ogni uomo, anche se reo, a essere ritenuto capace come
    individualità spirituale e non meramente naturalistica, di poter volere
    diversamente da come effettivamente ha voluto: in breve, di poter
    riacquistare l'innocenza" [F. D'Agostino, 1989, 104].
    In una concezione retributiva rigorosamente giuridica della pena, meno
    segnata dalla concezione hegeliana dello stato come luogo della moralità,
    tuttavia non è possibile parlare di un vero e proprio diritto alla condanna
    da parte del reo, in quanto nessuno può essere tenuto a volere liberamente
    la propria punizione .
    Soccorre al proposito ancora una volta la lucida esposizione kantiana,
    secondo la quale "la pena è subita da qualcuno non perchè egli l'ha
    voluta, ma perchè egli ha voluto l'azione meritevole di punizione; non è
    pena quando a qualcuno accade ciò che vuole, e non è possibile voler
    essere punito. [...] Quando io creo contro di me come delinquente una legge
    penale, è la mia ragione pura giuridicamente legislatrice che sottopone a
    una legge penale me in quanto capace di delitto, e cioè come un'altra
    persona" [M. Cattaneo, 1981, 223].
    Si dovrebbe quindi parlare più correttamente di un dovere di punire da
    parte dello stato come strumento della "ragione pura giuridicamente
    legislatrice", piuttosto che di un diritto del reo ad essere punito.
    Anche se l'approccio retributivista alla pena non sembra subire colpi
    rispetto al principio secondo il quale anche il malato a prognosi infausta
    è tenuto a subire le conseguenze giuridiche delle proprie azioni, ciò non
    significa che non esistano altri punti sui quali gli aspetti
    retributivo-giuridici della pena vengono duramente messi in discussione.
    In particolare vorremmo soffermarci sul principio, centrale per una
    concezione della pena di tipo retributivo-giuridico, secondo il quale la
    gravità della pena non deve essere maggiore della gravità del delitto,
    principio garantistico che implica la preventiva quantificazione della
    sanzione penale. La pena, in questa prospettiva, deve essere esattamente
    definita nel suo grado di afflittività e precisamente quantificata, ciò
    anche per poter rispondere al criterio di eguaglianza, essendo la gravità
    del reato l'unico criterio col quale è legittimo commisurare la pena.
    Per rispondere a tali imperativi le teorie giustificazioniste moderne hanno
    concepito la pena come una sanzione formalizzata e tipizzabile, nel senso
    per il quale essa deve essere "astratta ed uguale, come tale
    quantificabile e misurabile e perciò pre-determinabile legalmente e
    determinabile giudizialmente sia nella natura che nella misura" [L.
    Ferrajoli, 1989, 386].
    La tipizzazione e la formalizzazione sono state evidentemente favorite dalle
    modalità di esecuzione della pena moderna che sono state teorizzate per lo
    più come sanzioni "privative", essendosi abbandonate le pratiche
    penali meramente afflittive delle epoche precedenti. Privazione della libertà
    nel caso delle pene detentive, privazione della proprietà sui beni nel caso
    delle pene patrimoniali, privazione della vita nel caso della pena di morte
    .
    Per quanto riguarda la pena carceraria, privativa della libertà, il
    criterio della misurabilità è costituito dal tempo che la sanzione sottrae
    all'esistenza libera del condannato, sul presupposto che tale tempo sia
    omogeneo e quantificabile oggettivamente per tutti i consociati. Tale
    presupposto viene tuttavia fortemente messo in forse dal caso del condannato
    affetto da malattia a prognosi infausta: come è possibile sostenere che
    cinque anni di reclusione sottratti alla libera esistenza di un individuo
    sieropositivo abbiano lo stesso valore nel caso di un soggetto le cui
    aspettative di vita non siano state intaccate da alcuna malattia? Come
    preservare in questo caso il principio di proporzionalità tra gravità del
    reato e gravità della pena?
    L'unica risposta possibile a questi quesiti deve introdurre, anche negli
    aspetti di retribuzione giuridica della pena, forti elementi di valutatività
    facendo riferimento al c.d. potere connotativo del giudice [L. Ferrajoli,
    1989, 400 e ss.]. Tale potere, di natura essenzialmente equitativa, consiste
    nella comprensione da parte del giudice degli elementi del caso concreto che
    gli consentano di commisurare la pena, in base a determinati criteri
    ritenuti rilevanti per tale quantificazione. Tra questi criteri, che per
    loro natura non possono essere del tutto predeterminati dal diritto
    positivo, potrebbero allora rientrare le condizioni di salute dell'imputato,
    qualora egli sia affetto da una patologia che ne riduca le aspettative di
    vita. Discorso non diverso si dovrebbe fare quando tale patologia si
    instauri nel corso dell'esecuzione della condanna.
    Ciò che invece non sarebbe ammesso dagli elementi di retribuzione della
    pena sarebbe introdurre, nei criteri equitativi di quantificazione della
    pena, considerazioni o giudizi segnati dalla prospettiva di prevenzione o di
    difesa sociale. Da un punto di vista retributivo non sarebbe legittimo, in
    altri termini, quantificare la pena da infliggere al malato a prognosi
    infausta in base alle previsioni esperibili sulla sua capacità di
    delinquere in futuro, o sulla sua pericolosità sociale.
     
    Aids-carcere: la pena come strumento di prevenzione e di contenimento
    
    Le ultime considerazioni ci offrono l'opportunità di passare
    all'analisi degli aspetti di prevenzione e di difesa sociale che certamente
    sono presenti, con minore o maggiore rilevanza a seconda dei vari contesti
    nazionali, nella odierna cultura giuridica della pena.
    Occorre immediatamente precisare come non sia agevole considerare in un
    unico blocco un insieme di assunti teorici per certi aspetti eterogenei.
    Riducendo al massimo il discorso è possibile affermare che gli elementi di
    prevenzione e di difesa sociale della pena moderna ruotano intorno a due
    assunti fondamentali che, pur risultando apparentemente antitetici per i
    presupposti antropologici da cui partono, in realtà convergono sul
    principio per il quale la pena è giusta solo in quanto comporti un
    mutamento del comportamento futuro del condannato.
    A seconda della concezione dell'uomo più o meno deterministica adottata, la
    pena come strumento di prevenzione e di difesa sociale viene vista da due
    angolature diverse.
    a) Sotto un primo profilo la pena è quel male che il soggetto deve
    rappresentarsi come conseguenza ineludibile del bene che pensa di trarre dal
    delitto. L'uomo libero e calcolatore valuta costi e benefici delle sue
    azioni e la pena può dirsi efficacemente preventiva quando l'individuo si
    rappresenti il male-sanzione come maggiore del bene-delitto [A. Cottino,
    1991, 56]. La pena in questa prospettiva è il contrappeso che distoglie
    l'uomo razionale dal commettere azioni socialmente indesiderate.
    b) Prendendo le mosse da una concezione rigidamente deterministica
    dell'uomo, è invece possibile concepire la pena come trattamento
    terapeutico e correzionale, oppure come mero strumento di controllo
    contenitivo del condannato (le due ipotesi evidentemente non si escludono).
    La pena diventa in tal modo strumento di manipolazione dell'individuo, in
    quanto si ritiene suo scopo quello di correggere il condannato, in misura
    tale che egli non compia più in futuro azioni anti-sociali. Tutto ciò
    avendo come prospettiva quella per la quale ogni violazione dell'ordine
    sociale abbia alla sua base cause patologiche, che devono essere ricondotte
    alla normalità.
    Sia la concezione della pena contrappeso, sia quella della pena
    correzione-terapia vengono poste seriamente in discussione dal fenomeno
    della condanna del malato a prognosi infausta.
    Nell'ambito degli aspetti che privilegiano la pena come un contrappeso
    l'anomalia posta dal malato a prognosi infausta è particolarmente evidente.
    Quale sanzione può essere sufficientemente minacciosa da poter
    rappresentare un mezzo di deterrenza nei confronti di un individuo colpito
    da una malattia che ne riduce drasticamente le aspettative di vita? Quale
    male giuridico può apparire maggiore del male fisico che incombe su questo
    malato? Se pensiamo alla situazione dell'individuo in Aids conclamato, molte
    volte tossicodipendente, che finisce in carcere, come sostenere che la pena
    possa rappresentare per lui un male più grave della sua già drammatica
    situazione esistenziale?
    La risposta più logica, nella prospettiva della pena come contrappeso,
    sarebbe dunque la rinuncia a punire; rinuncia che tuttavia non risolve il
    problema della difesa che la società deve apprestare nei confronti di quei
    soggetti che pongono in essere comportamenti antisociali. Come ci si dovrà
    comportare nel caso dell'individuo che, non avendo più nulla da perdere,
    viola senza alcuna remora le norme penali?
    In questo frangente, la tentazione di vedere la pena come puro strumento di
    incapacitazione del condannato può rappresentare la scorciatoia con la
    quale superare gli inconvenienti pratici, a cui la teoria sembra non poter
    far fronte in termini concettuali. Si dovrà forse punire il reo in quanto
    socialmente pericoloso, anche qualora la pena non possa svolgere la sua
    funzione deterrente, se non per gli aspetti meramente coercitivi?
    A difficoltà non meno gravi, tuttavia, vanno incontro gli elementi
    correzionalistici della pena, incentrati sulla capacità del trattamento
    terapeutico-penitenziario di correggere la personalità del condannato. La
    pena, in questa accezione, rappresenta un investimento sull'esistenza futura
    del reo, sul presupposto che l'intervento istituzionale riconsegni
    l'individuo alla sua "normalità" sociale.
    Che accade a questa volontà di intervenire sulla personalità del reo
    quando il futuro di quest'ultimo, lo spazio della sua esistenza prevedibile,
    appare tragicamente segnato? Il teorico della pena come trattamento
    correzionale guarda a come sarà, a come dovrà essere, l'uomo liberato dal
    carcere così come trasformato dall'intervento rieducativo. Ma che rimane di
    questa strategia manipolatoria quando il condannato è un individuo malato
    che, con ogni probabilità, se la pena verrà eseguita, avrà uno spazio
    pressochè inesistente di esistenza sociale davanti a sè?
    La sola risposta logicamente conseguente, dal punto di vista
    correzionalistico, è la non punibilità del reo, la rinuncia al dovere di
    punire da parte dello stato? Oppure anche l'approccio correzionalista deve
    piegarsi ad una concezione della pena come puro strumento di contenimento
    del condannato, mezzo col quale impedire materialmente all'individuo
    socialmente pericoloso di compiere altri reati?
    Le aporie che il caso del condannato malato a prognosi infausta fa sorgere
    nell'ambito delle teorie giustificazioniste della pena sono, dunque, di
    grossa portata. Non a caso gli ordinamenti giuridici positivi, rispetto al
    tema della compatibilità tra detenzione carceraria e questa situazione di
    malattia (in particolare l'Aids), si sono comportati in modo pragmatico, il
    più delle volte regolando la situazione attraverso istituti, come la grazia
    o il perdono giudiziale, pensati per fattispecie che per la loro
    eccezionalità sfuggono in gran parte ad una piena legittimazione giuridica
    .
    Il segno probabilmente di come il caso qui studiato possa rappresentare una
    sorta di anomalia nel paradigma giuridico della pena moderna.
    3.
    Modalità di esecuzione della pena e tutela dei diritti del detenuto malato
    Esaminate le ragioni che l'argomentazione giuridica è in grado
    di mettere in campo per legittimare la somministrazione della pena al
    condannato anche se affetto da una malattia a prognosi infausta come l'Aids,
    è possibile affrontare la questione se, in questi casi, la pena debba
    applicarsi con modalità esecutive diverse da quelle previste per la
    generalità dei consociati.
    A tal proposito il fenomeno Aids ha posto al sistema carcerario una serie di
    problemi che hanno rimesso all'ordine del giorno la questione della
    definizione dei limiti giuridici entro i quali il carcere possa ancora
    essere considerato uno strumento di pena compatibile con uno stato
    democratico di diritto.
    La concezione moderna della pena carceraria come tecnica privativa della
    sola libertà di movimento dell'individuo, è evidentemente uno degli
    assunti più controversi del pensiero penalistico del nostro secolo . Questo
    principio di carattere giuridico-formale è stato il terreno di scontro di
    quel conflitto inesauribile tra paradigma giuridico della pena e pratiche di
    potere e di controllo sociale elaborate dal sistema penitenziario, di cui si
    è fatto cenno nel primo paragrafo. E' un tema molto vasto e molto complesso
    che verrà qui affrontato solo limitatamente agli aspetti che il fenomeno
    Aids ha rimesso al centro della riflessione sulla pena.
    Gli organismi internazionali che si sono pronunciati sulle varie tematiche
    riguardanti il problema Aids-carcere , hanno teso a sottolineare il
    principio di eguaglianza dei diritti riconosciuti ai soggetti malati
    detenuti, rispetto a quelli riconosciuti ai cittadini non sottoposti a
    restrizione detentiva. Questo principio è stato ribadito per le politiche
    generali d'intervento sull'Aids [K. Tomasevski, 1991, 245], per la qualità
    dei servizi sanitari penitenziari [K. Tomasevski, 1992], per le attività di
    prevenzione della diffusione del virus attraverso azioni di educazione e
    informazione [T.W. Harding-G. Schaller, 1992, 11-12], o attraverso le
    strategie di riduzione del danno [ibidem, 15 e ss.], per le garanzie di
    riservatezza e di consenso informato al test sierologico [P. Cattorini,
    1989].
    Da un punto di vista empirico, il fatto che le normative internazionali
    abbiano sentito la necessità di confermare questi assunti, legati al
    principio del detenuto come soggetto giuridico a pieno titolo, non fa che
    sottolineare come le pratiche detentive presenti nei sistemi carcerari siano
    a tutt'oggi alquanto distanti da un modello giuridico di esercizio della
    pena.
    Nella prospettiva, invece, di una teoria della pena le direttive degli
    organismi internazionali sembrano propendere per una concezione che faccia
    prevalere gli aspetti di retribuzione giuridica del potere punitivo dello
    stato; retribuzione regolata e rigidamente quantificata nelle modalità
    afflittive.
    Al proposito sembra di poter affermare, infatti, che gli stessi principi
    della proporzionalità e della determinazione certa della pena, tipici della
    pena come retribuzione giuridica, mentre, da un lato, impongono una
    punizione del malato proporzionale alle sue aspettative di vita, dall'altro,
    comportano che le modalità di esecuzione della pena non siano tali da
    colpire il condannato più gravemente solo a causa del suo stato d'infermità.
    Se la pena del carcere deve consistere solo ed esclusivamente nella
    privazione temporanea della libertà di movimento, essa non deve sconfinare
    nella lesione di altri diritti dell'individuo. Di qui la necessità, che le
    normative internazionali hanno sottolineato, di garantire una serie di
    diritti che la struttura carceraria è potenzialmente in grado di ledere: il
    diritto a godere di un'assistenza sanitaria di livello paritario a quella
    degli altri consociati [M. Blumberg, 1990, 214-217], il diritto a non
    correre pericoli maggiori di contrarre malattie contagiose per il fatto di
    vivere in un "ambiente ad alto rischio" [H. Kiessl, 1992], il
    diritto a ricevere informazioni e strumenti di prevenzione contro la
    diffusione del contagio, il diritto alla riservatezza e ad un rapporto
    fiduciario col personale sanitario [T.Harding, 1990a], il diritto a non
    essere discriminati nell'ambito delle attività organizzate all'interno del
    carcere [C. Scorretti, 1985, 1180], il diritto ad avere una sessualità non
    coatta nei limiti consentiti dalle esigenze della sicurezza carceraria, il
    diritto ad un sostegno psicologico nei casi di sieropositività [C. Sueur,
    1993, 44-47].
    Gli elementi di retribuzione giuridica della pena tendono a privilegiare una
    prospettiva che vede nella rivendicazione dei diritti del malato-detenuto
    non una richiesta che lo stato rinunci alla punizione, bensì un modo per
    riconfermare il modello giuridico della pena. Tale modello prevede, infatti,
    che la pena resti rigorosamente nei limiti assegnatigli dal diritto, senza
    che acquisti un carattere maggiormente afflittivo solo per il fatto che il
    condannato abbia contratto una grave malattia. Proprio in quanto il
    condannato resta soggetto giuridico a tutti gli effetti, egli mantiene tutti
    i diritti compatibili col suo stato di detenzione, e ciò deriva non già da
    una paternalistica concessione umanitaria da parte dell'istituzione punitiva
    o da una malintesa compassione nei confronti del detenuto che soffre, ma
    dallo stesso principio retributivo, secondo il quale la pena deve essere
    esattamente quantificata e predeterminata nei suoi aspetti afflittivi.
    Questione più complessa è quella relativa alla idoneità del carcere, da
    un punto di vista fattuale, a poter essere considerato un tipo di pena che
    incida esclusivamente sul diritto di libertà del condannato; questione a
    cui non si può che accennare in questa sede, in quanto mette in gioco
    l'intera prospettiva della funzione politica e sociale del sistema
    penitenziario moderno .
    Sul problema delle modalità punitive del soggetto affetto dal virus HIV o
    sieropositivo l'approccio correzionalistico e di difesa sociale ha, invece,
    maggiori difficoltà a conciliarsi con le direttive emanate a carattere
    internazionale, anche se probabilmente si trova in una posizione molto più
    vicina alla effettiva reazione istituzionale che l'Aids ha provocato nei
    vari sistemi penitenziari [M. Blumberg, 1990 e saggio successivo di
    S.Ronconi-S. Ferazzi].
    E' noto come uno degli assunti teorico-operativi di questo approccio sia
    quello della differenziazione e della individualizzazione della pena. Ad
    ogni condannato spetta una pena diversa, a seconda delle sue caratteristiche
    personali, ed essa va determinata e modulata per ogni singolo caso nella
    fase esecutiva [L. Ferrajoli, 1989, 258 e ss.].
    E' evidente come il caso del detenuto malato di Aids consenta in questa
    prospettiva di introdurre una serie di modalità di esecuzione della pena e
    di gestione della vita carceraria che rispondono, in primo luogo, ad una
    logica di contenimento del rischio della diffusione del contagio e/o della
    pericolosità sociale del detenuto.
    Differenziare la pena ha spesso significato nel caso dell'Aids, o utilizzare
    strumenti sanitari a fini puramente contenitivi, o predisporre la
    segregazione in reparti speciali dei soggetti contagiosi , facendo
    prevalere, nell'immagine che l'istituzione ha del condannato-malato, gli
    aspetti che lo distinguono dagli altri detenuti, rispetto a quelli di parità
    di trattamento e di garanzia dei diritti individuali.
    E' questa una prospettiva apparentemente dotata di una maggiore pragmaticità,
    nella quale si scorge il conflitto tra le ragioni della gestione
    emergenziale delle strutture carcerarie e le ragioni dello stato di diritto.
    Resta da chiedersi, tuttavia, se l'apparente maggior capacità della pena
    così concepita di affrontare il problema immediato della diffusione
    dell'Aids, sia effettiva o se rappresenti semplicemente la facciata
    umanitaria dietro la quale si nascondono nuove pratiche di controllo della
    popolazione carceraria.
    Come si vedrà meglio nella seconda parte di questo articolo, infatti, molti
    studiosi e autorevoli organismi internazionali hanno sostenuto l'inefficacia
    di politiche d'intervento che tendino alla segregazione e alla
    differenziazione degli individui malati di Aids o sieropositivi [T. Harding,
    1990a]. E' indubbio che la detenzione di soggetti potenzialmente infettivi
    possa porre problemi pratici, soprattutto in situazioni di sovraffollamento
    e di eccessiva promiscuità, che talora sembrano richiedere misure di
    assoluta emergenza.
    Nella risposta a queste difficoltà è parsa, tuttavia, prevalere una logica
    autoreferenziale dell'istituzione carceraria, che ha utilizzato il fenomeno
    Aids per riconfermare la propria stabilità interna, o attraverso la
    gestione autoritaria dei detenuti affetti dal virus HIV, o attraverso, è il
    caso probabilmente dell'Italia, la loro espulsione dal circuito
    penitenziario. Il detenuto è stato visto, in questa prospettiva, più come
    un'entità scomoda da gestire, piuttosto che come un soggetto giuridico
    responsabile delle proprie azioni e dotato di una autonoma capacità di
    scelta. Questa assenza del soggetto detenuto e la rigida chiusura verso il
    mondo esterno dell'ambiente carcerario rappresentano, tra l'altro, i
    maggiori ostacoli che le strategie di prevenzione dell'Aids hanno dovuto
    affrontare.
    In modo forse un poco paradossale si potrebbe, quindi, affermare che
    ribadire, da un lato, la tutela dei diritti individuali del detenuto e,
    dall'altro, il dovere sociale di punire equamente tutti i consociati, come
    soggetti giuridici responsabili delle proprie azioni, sia il modo più
    idoneo non solo di sostenere le ragioni dello stato di diritto, ma anche di
    predisporre politiche di contenimento della diffusione dell'Aids efficaci,
    in quanto fondate sulla responsabilizzazione morale e sociale degli
    individui colpiti dal virus HIV.
    Verrebbe ribadita, in tal modo, anche la funzione pratica della riflessione
    filosofica sulla pena, il cui ruolo primario rimane quello dell'analisi
    concettuale della strategie argomentative che possono giustificare le
    diverse modalità punitive, in una prospettiva di critica razionale alle
    pratiche di potere dominanti all'interno dei sistemi penitenziari.
     
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    * La prima parte dell'articolo è stata scritta da Claudio Sarzotti, mentre
    l'elaborazione della seconda parte va attribuita a Bruno Magliona.-
    L'intera prima parte di questo articolo presuppone che si assuma la
    prospettiva epistemologica della ragione giuridica occidentale, sul quale si
    fonda la sfida del moderno stato democratico di diritto di regolare
    artificialmente (artificial reason) l'esercizio del potere statuale [L.
    Ferrajoli, 1993, 146]. Per un quadro più ampio della disciplina che è
    stata denominata epistemologia giuridica cfr.[C. Atias 1985; J. Lenoble-F.
    Ost, 1980].
    Si veda a questo proposito il bel saggio, recentemente tradotto in italiano,
    di Sander Gilman [1993, 337-360], e le riflessioni, ormai classiche, di
    Susan Sontag [1989], nonchè i volumi pubblicati dalla Falmer Press sugli
    aspetti socio-culturali e politici del fenomeno Aids [P. Aggleton- H. Homans,
    1988; P. Aggleton- P. Davies- G. Hart, 1990].
    Questa affermazione non intende in alcun modo negare che in una prospettiva
    più rigidamente empirica le rappresentazioni sociali ed altri fattori
    socio-politici debbano essere analizzati per comprendere i nessi causali che
    hanno portato, rispetto alla tematica Aids, a specifiche normative e a
    specifici processi di implementazione.
    Le normative degli ordinamenti giuridici positivi a questo proposito non
    sono di facile reperibilità. Per quanto riguarda le normative sull'Aids si
    può fare riferimento ad una raccolta di riferimenti legislativi dell'O.M.S.
    pubblicata nel giugno 1992 e ad una serie di tabelle riassuntive pubblicate
    dalla rivista "Aids-Forschung" (1990, pp. 615-630, 676-686; 1991,
    pp. 45-54, 100-106, 157-159, 226-227, 338-340, 396, 452, 508, 563-564, 620,
    676; 1992, pp. 50-51, 107, 158-159, 219, 276, 331-332, 387-388, 441-442,
    498-499). 
    Occorre peraltro ricordare che tali raccolte molto raramente citano
    normative specifiche sul tema Aids-carcere.
    Il riferimento è ai noti episodi verificatesi nelle carceri italiane prima
    dell'emanazione della legge n. 222/93, in cui ad alcune persone affette dal
    virus HIV è stato negato il diritto di morire nella propria abitazione.
    Non adopero questa espressione nel suo senso più comune di scienza che
    studia il diritto penale positivo, bensì come disciplina meta-giuridica che
    ha come suo oggetto la produzione di argomenti giuridici nel campo del
    diritto penale, così come esperibili nel contesto spazio-temporale della
    modernità dell'Occidente ebraico-cristiano. In questa prospettiva la
    scienza giuridica appartiene, a pieno titolo, al novero delle scienze umane,
    in contrapposizione alla dogmatica giuridica che rappresenta l'aspetto
    meramente tecnologico dell'esperienza giuridica [P. Amselek, 1964, 361 e
    ss.]. Per la ripresa della scienza giuridica come pratica dell'argomentare
    si veda anche la nuova retorica elaborata da Chaim Perelman [1966].
    Tralasciamo di occuparci in questa sede di quelle teorie della retribuzione
    giuridica che concepiscono la pena come mero ripristino dell'autorità
    statale e dell'ordinamento giuridico positivo, messi in pericolo dal
    delitto. Tali teorie pongono il diritto positivo al di sopra di qualunque
    considerazione morale e presentano significative affinità con le teorie
    utilitaristiche che separano radicalmente il diritto dalla morale [Von
    Beling, 1978].
    Gli elementi di retribuzione giuridica consentono ad esempio di escludere la
    legittimità della pena esemplare inflitta all'individuo innocente o della
    punizione preventiva del soggetto socialmente pericoloso; figure di reato
    che invece non possono essere del tutto rifiutate da una prospettiva
    rigorosamente utilitaristica [A. Duff, 1993, 56-64].
    E' questo il caso delle "malattie" che incidono direttamente sulla
    volontà dell'individuo, quali ad esempio la condizione di
    tossicodipendenza. Tale problema è stato, in Italia, spesso posto in
    secondo piano nel dibattito sulla tossicodipendenza come fattore di
    criminalità , ma potrebbe assumere rilevanza anche rispetto al tema
    Aids-carcere (data l'alta correlazione statistica tra Aids e
    tossicodipendenza), qualora si ritenesse di superare l'attuale regime del
    codice penale incentrato sulla fictio iuris della capacità di intendere e
    di volere del soggetto tossicodipendente [V. Militello, 1991; S. Vassalli,
    1986; A. Manna, 1986]
    Per avere un esempio di un'argomentazione giuridica di questo tenore si
    pensi a quella parte della dottrina giuridica italiana che non ha ritenuto
    applicabile ai malati a prognosi infausta quoad vitam l'art. 147 del codice
    penale, relativo al rinvio dell'esecuzione della pena, in quanto sarebbe
    venuto meno, in tal caso, l'imperativo categorico di punire le violazioni
    dell'ordine costituito [Manzini, 1981, III, 53]. Sul tema si veda anche [C.
    Crestani- D. Bordignon, 1986].
    Ciò ovviamente quando per punizione s'intenda una sanzione materiale
    comminata da un'istituzione temporale, quale può essere un tribunale dello
    stato. Diversa può essere la prospettiva quando si considerino
    manifestazioni di autopunizione afferenti alla sfera interiore e/o religiosa
    dell'individuo (es. varie forme di penitenza religiosa che presuppongono il
    pentimento del peccatore). Sul tema cfr. P. Ricoeur [1970].
    Occorre precisare come tale ricostruzione della struttura della pena moderna
    sia la descrizione, da un punto di vista interno, del discorso
    filosofico-giuridico che si è occupato dei limiti entro i quali si può
    considerare legittimo l'esercizio del potere punitivo da parte dello stato
    moderno. Si è parlato in questa prospettiva di "umanizzazione delle
    pene"; non va dimenticato, tuttavia, come, in una prospettiva esterna
    di ricostruzione genealogica di questo discorso giuridico, tale espressione
    debba essere colta in tutta la sua ambiguità. Su tale tema rimangono
    insuperate, per acutezza e ampiezza di prospettiva, le pagine di Michel
    Foucault [C. Sarzotti, 1991].
    Nel nostro ordinamento, ad esempio, l'art. 133 del codice penale ne indica
    una lunga serie che tuttavia non può dirsi del tutto esaustiva, in quanto
    il giudice ha una larga discrezionalità nell'interpretare l'ampiezza di
    tali criteri (si pensi alla nozione di "condizioni di vita individuale,
    familiare e sociale del reo").
    Non è certo agevole, nè risolvibile in questa sede, individuare la
    tendenza prevalente nella cultura penalistica italiana, sulla quale è
    sufficiente rimandare alle pagine riassuntive del dibattito di questi anni
    di Luigi Ferrajoli e alla bibliografia ivi citata [1989, 719-888]. Per
    quanto riguarda la situazione europea è noto come l'approccio
    neo-retributivista sia, ormai da alcuni anni, preponderante nelle culture
    scandinave [N. Christie, 1985, 55 e ss.], e abbia avuto una notevole ripresa
    nell'ambito della cultura giuridica anglosassone (si veda la recente
    raccolta di saggi curata da Antony Duff [1993, 3-129]).
    Siamo debitori, per questa riflessione, alle considerazioni sull'efficacia
    deterrente della sanzione penale nel caso del consumatore tossicodipendente,
    svolte da Livio Pepino nel corso di un seminario tenutosi alla Camera Penale
    di Torino nella primavera del 1993.
    Non si creda che questo sia un mero caso di scuola. E' nota la vicenda (la
    stampa periodica non ha perso occasione per sottolinearlo con toni spesso
    allarmistici) di un malato di Aids torinese che, in seguito alla
    legislazione italiana di incompatibilità tra Aids e detenzione, ha compiuto
    una cospicua serie di reati, dichiarando alle forze dell'ordine di polizia
    nell'immediatezza dell'arresto: "Che mi arrestate a fare? Tanto non mi
    potete mettere dentro". Questo caso ha inoltre avuto un esito
    drammatico con la morte del suo principale protagonista che, secondo notizie
    apparse sui quotidiani, sarebbe stata provocata dalle percosse ricevute, da
    parte di alcuni agenti di polizia, in occasione dell'ennesimo arresto (le
    circostanze del fatto sono attualmente al vaglio della magistratura).
    Per l'Aids sono prevalse per lo più soluzioni giurisprudenziali che hanno
    utilizzato istituti previsti dagli ordinamenti penali e penitenziari dei
    vari paesi [T. Harding, 1990b, tav. 6]. Il legislatore italiano risulta
    essere l'unico che abbia sancito espressamente l'incompatibilità tra
    detenzione e malattia Aids modificando, con la legge n. 222/93, appositi
    articoli del codice penale (art. 146) e di quello di procedura (art.
    286-bis). Tale legge, tuttavia, non ha mancato di sollevare perplessità di
    legittimità costituzionale, risolte dalla Corte Costituzionale con una
    recentissima sentenza che, secondo indiscrezioni giornalistiche, avrebbe
    sancito la legittimità della normativa precisando peraltro alcuni principi
    d'interpretazione sistematica di rilevante entità (estendibilità della
    legge ad altre patologie a prognosi infausta e predisposizione di interventi
    di contenimento per i soggetti malati).
    La letteratura su questo tema è assai vasta; ai nostri fini è sufficiente
    richiamarsi, ancora una volta, ad una delle opere di sintesi di maggior
    valore pubblicate in questi anni, ricchissima di riferimenti bibliografici,
    e dovuta a Luigi Ferrajoli [1989, 386 e ss.].
    Per quanto riguarda la situazione europea è possibile, a tal proposito,
    fare riferimento soprattutto al Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa
    (Raccomandazione n. R(87) 25 del 12 febbraio 1987 e n. R (89) 14 del 24
    ottobre 1989) e all'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa
    (Raccomandazione n. 1080/88 del 30 giugno 1988 e n. 1116/89 del 29 settembre
    1989).
    Mi limito a richiamare le analisi foucaultiane già ricordate in precedenza
    e, rispetto alla situazione italiana, le recenti analisi di Giuseppe Mosconi
    [1992] e di Tamar Pitch [1989].
    E' questo il caso di quei sistemi penitenziari che hanno adottato il modello
    autoritario di risposta all'Aids di cui si faceva cenno all'inizio [P.
    Darbeda, 1990].
    Si vedano a questo proposito le considerazioni svolte da Susanna Ronconi e
    Silvia Ferazzi nel saggio successivo.