Efficacia
della pena significa reinserimento
di
Alessandro Margara
Cominciamo dai principi, anche se non sono molto di
moda. Va ricordato che la Costituzione attribuisce alla pena in modo
esplicito, all'art. 27, una funzione rieducativa, intesa sempre più
chiaramente come funzione di integrazione o, come anche si dice, di
inclusione sociale. La Corte Costituzionale, in molte delle sue sentenze, ha
affermato: in primo luogo, un vero e proprio diritto del condannato - nei
tempi che la legge ordinaria stabilisce e attraverso la valutazione dei
comportamenti tenuti durante la parte di pena già espiata - a vedere
riesaminato se l'effetto di risocializzazione sia già stato raggiunto in
carcere; nel qual caso, la parte restante della pena deve essere eseguita
all'esterno del carcere, in un regime di misura alternativa alla detenzione,
ovvero di prova controllata; e che, in secondo luogo, questo periodo di
esecuzione della pena fuori dal carcere va considerato come momento di
controllo, ma anche di sostegno, attraverso una apposita organizzazione, per
agevolare l'inserimento sociale del condannato. Questo è dunque il risultato
che la esecuzione della pena deve raggiungere se vuole essere realmente
efficace secondo i principi costituzionali.
Da questo è derivato
l'emergere, accanto all'area della tradizionale esecuzione della pena in
carcere, di un'altra area di esecuzione penale fuori dal carcere: due aree,
quindi, una interna e l'altra esterna, entrambe sedi della esecuzione della
pena. Va aggiunto che l'area penale esterna ha ormai raggiunto dimensioni
significative, rappresentando il 40% dell'area complessiva della esecuzione
della pena, accanto al 60% dell'area penale interna.
Sia la prima che la
seconda area devono necessariamente essere attive, impegnative, efficaci per
il raggiungimento della inclusione sociale del condannato, che è la funzione
che la Costituzione e la legge affidano alla esecuzione della pena.
Si
aprono spazi di intervento a chi voglia suscitare o affiancare questi
processi. Ci deve essere la consapevolezza che il lavoro non è semplice
perché gli spazi sociali in cui ci si muove non sono facili. Non è facile il
carcere, in cui continua a pesare l'ipoteca della sicurezza, che meno gente
vede in giro più è contenta (le eccezioni di alcuni istituti non sono
numerose). Non è facile neanche lo spazio esterno, che è quello sociale più
generale, nel quale l'inclusione dei condannati non suscita particolari
entusiasmi.
Eppure, sia per uno spazio che per l'altro, la partecipazione
del volontariato è molto vivace e riesce a rappresentare un elemento
dialettico nel carcere e fuori, a contraddire le dinamiche negative, che si
oppongono alla inclusione. La scuola, ad esempio (l'attività trattamentale
più cresciuta in carcere negli ultimi anni), è nata in molti casi sullo
sforzo del volontariato e procede ora, per i progetti più rilevanti (i c.d.
poli universitari), anche grazie all'apporto del volontariato. E' vero, poi,
che in carcere ci sono molte iniziative, anche se non sempre continuative:
anche di queste il volontariato è "magna pars".
Lo spazio esterno, per
coloro, cioè, che sono in misura alternativa alla detenzione, richiede la
mobilitazione delle risorse necessarie per rendere possibile quella
inclusione sociale, di cui si è parlato. Anche il tenere legati i vari
interventi, il porli in rete, come si dice, riesce forse di più al
volontariato, che parte da una motivazione più generale di quella che ispira
coloro che rappresentano le singole risorse messe in campo.
Solo una
conclusione: è importante tenere aperta la prospettiva finale della
inclusione, anche agendo nei singoli interventi. E' certo importante
camminare insieme alla persona limitata nelle sue possibilità e nei suoi
diritti in carcere, ma è altrettanto importante e forse decisivo,
affiancarla quando il percorso si sviluppa nella libertà, che è lo spazio
delle difficoltà e degli ostacoli quotidiani, diffusi per tutti, ma in
particolare per quelli che vogliamo chiamare la nostra gente.
Alessandro Margara
Fondazione Michelucci