Business penitenziario

 

Il business penitenziario:

l’esecuzione penale tra pubblico e privato

di Massimo Pavarini

 

Pisa (Assemblea di Antigone) – Sabato 20 aprile 2002

 

1] Un’icona penitenziaria e qualche breve calcolo 

La crisi della pena moderna è in primo luogo misurabile nel suo grado di inflazione, esattamente come la moneta.

Le stime ufficiali calcolano che agli inizi del muovo millennio coloro che si trovavano sul pianeta Terra penalmente privati della libertà (con esclusione quindi delle diverse forme di detenzione per ragioni politiche e/o belliche) erano di poco superiori agli otto milioni e settecentomila. Stima deficiente per difetto. Alcuni Stati non forniscono statistiche aggiornate a questo proposito: di questi, possiamo per alcuni fondarci solo su informazioni vecchie di più di dieci anni (ad esempio: la maggior parte degli Stati caraibici); per altri è prudente sospettare che le informazioni siano "politicamente" edulcorate (ad esempio: Cina, che ci fornisce informazioni solo sui detenuti definitivi e non su quelli privati della libertà per ragioni processuali). Per altri ancora è buio completo, in quanto i governi non forniscono alcun dato (ad esempio: Iugoslavia, Iraq, Laos, Afganistan e molti stati africani, come Libia, Nigeria, Etiopia, Somalia e Congo). Ma non solo: la maggior parte degli Stati offre informazioni statistiche solo per quanto concerne la popolazione penale adulta, ovvero omette di indicare i tassi di internamento in istituzioni psichiatriche giudiziarie. Altri poi non prendono in considerazione alcune forme di detenzione "amministrativa" che in altri contesti normativi sono invece disciplinate penalmente.

Forse pensare a dieci/undici milioni di carcerati ci avvicina, ma temo ancora per difetto, alla realtà. Ma questo dato - per quanto impressionante - ha un significato apprezzabile solo a livello di contabilità statistica, in quanto registra i presenti nelle istituzioni penali normalmente a fine a anno o comunque a giorno definito. Mediamente gli entrati ogni anno dallo stato di libertà in una istituzione di detenzione penale sono molto più numerosi, mediamente più del doppio. Si può azzardare, ancora per difetto: ogni anno nel mondo, più di 20 milioni di persone conoscono una esperienza detentiva.

Bene: se 20 milioni di uomini si danno la mano, creano una fila tanto lunga che sulla linea dell’Equatore possono abbracciare il Mondo. Se a questa fila si aggiungono anche coloro che sono penalmente limitati nella libertà, essa potrebbe abbracciare più volte la Terra. Un gigantesco girotondo, una sorta di ‘giromondo penitenziario’ composto da una colonna umana che solo per sfilare di fronte ad un paziente quanto insonne spettatore impiegherebbe più di due anni.

 

2] Lo "spartiacque" penitenziario nel Mondo  

Un primo accorgimento per semplificare e comparare tra loro Paesi con popolazione diversa è di riferirsi alla percentuale di detenuti su 100.000 abitanti. Se prendiamo come indice di riferimento il totale mondiale ‘certo’ dei detenuti presenti giornalmente, cioè quello di otto milioni e settecentomila, possiamo facilmente calcolare che l’indice mondiale è approssimativamente di 140 detenuti per 100.000 cittadini del Mondo, al 1 gennaio 2001. In effetti, come anticipato, abbiamo motivo di supporre che la popolazione detenuta superi ed abbondantemente i dieci milioni, per cui possiamo prudentemente correggere la stima dei detenuti giornalieri nel mondo all’indice ponderato di 160 su 100.000 abitanti.

Questo semplice ed in se inespressivo indice può essere utile per tracciare una sorta di spartiacque, per segnare quali sono i paesi che si attestano al di sotto e al di sopra di essa.

In primo luogo prendiamo atto che più dei tre quarti delle nazioni del mondo registrano un indice di carcerizzazione inferire all’indice ponderato sopra indicato.

Questo semplice ed in se inespressivo indice può essere utile per tracciare una sorta di spartiacque e per segnare quindi quali sono i paesi che si attestano al di sotto e al di sopra di essa. E in ciò possiamo avvalerci delle mappe che seguono.

Mappa n. 1: Tassi di carcerizzazione nei paesi europei

Mappa n. 2: Tassi di carcerizzazione nei paesi africani

Mappa n. 3: Tassi di carcerizzazione nei paesi del Medio Oriente

Mappa n. 4: Tassi di carcerizzazione nei paesi asiatici

Mappa n. 5: Tassi di carcerizzazione nei paesi del Nord America

Mappa n. 6: Tassi di carcerizzazione nei paesi dell’America Centrale

Mappa n. 7: Tassi di carcerizzazione nei paesi caraibici

Mappa n. 8: Tassi di carcerizzazione nei paesi dell’America Meridionale

Mappa n. 9: Tassi di carcerizzazione nei paesi dell’Oceania

Significativamente l’intera Europa centrale e meridionale si attesta abbondantemente al di sotto di questo indice, conoscendo variazioni tra i singoli Stati comprese tra i 78 (vedi Francia) e i 131 (vedi Portogallo), per una media complessiva intorno ai 87 detenuti su 100.000. Anche altre realtà di così vaste proporzioni possono vantare una popolazione detenuta relativamente contenuta. Ad esempio il Sud America e l’Oceania, con una media di circa 110, la maggior parte dei paesi dell’Africa centrale e occidentale unitamente a quelli dell’Asia meridionale con una media complessiva di soli 55 (necessita ricordare a questo proposito che l’India, con circa un miliardo di abitanti, registra solo un indice di 39 detenuti su 100.000 e la Cina, con un miliardo e trecento mila cittadini, denuncia un indice di 112).

Vediamo ora quali sono le realtà che si allontano per eccesso dalla media ponderata nei tassi di carcerizzazione. In primo luogo gli Stati Uniti d’America con un indice di poco inferiore a 700, cioè quattro volte la media mondiale; a breve distanza la Russia con un indice di 664 seguita dalla Bielorussa e da alcune ex repubbliche sovietiche orientali (come il Karzakistan e il Kirgyzstan) che si attestano intorno ai 500; seguono poi il Sudafrica e a distanza alcuni piccoli paesi caraibici che si avvicinano ai 300, come peraltro alcuni paesi del Nord Africa e dell’Asia centrale; ed infine vanno ricordati i paesi dell’est Europa come la Repubblica Ceca e la Romania che registrano indici di carcerizzazione superiori ai 200 detenuti su 100.000.

Questa per quanto grossolana divisione del mondo rispetto alla media ponderata dei tassi di carcerizzazione ad un primo sguardo sembrerebbe essere assai poco intelligibile, nel senso che è difficile intuire la ragione o le ragioni esplicative di un ventaglio tanto ampio di differenziazione. Eppure, a ben riflettere, qualche cosa e di importante questi dati sono in grado di esprimere anche se non sono sufficienti per suggerirci un’ipotesi esplicativa pienamente convincente.

In primo luogo queste mappe, in ‘negativo’, dicono qualche cosa.

Ci dimostrano, ad esempio, che non è avvalorata l’ipotesi che mette in correlazione diretta i tassi di carcerizzazione con alcune variabili strutturali, quali la densità della popolazione, la composizione demografica per età, la ricchezza della nazione e il benessere economico dei cittadini.

Neppure le variabili politiche sembrano essere significativamente relazionate ai tassi di repressione, come i livelli di democrazia, i sistemi di governo e di rappresentanza, ecc.

Ancora. I sistemi normativi di riferimento non sembrano indicare relazioni significative con i tassi di carcerizzazione. Ad esempio il Canada e l’Australia, con tassi che oscillano intorno ai 110 detenuti su 100.000 abitanti, conoscono una tradizione e un sistema di giustizia penale che in poco differiscono da quelli statunitensi, mentre i livelli di repressione penale sono di quasi sette volte inferiori. E non diversamente si deve argomentare per i paesi latini del centro rispetto a quelli del sud dell’America: nonostante sistemi di giustizia penale assai simili, i paesi centroamericani spuntano infatti tassi di carcerizzazione mediamente tripli rispetto a quelli sudamericani.

Ed infine: i tassi di criminalità - per quanto riduttivamente suggeriti da quelli di delittuosità o criminalità apparente - non sembrano essere in qualche relazione significativa con quelli di carcerizzazione. Qualche istruttivo esempio: la Colombia - in assoluto il paese con il più elevato tasso di omicidi volontari del mondo (le statistiche ufficiali colombiane registrano per il 2000 un totale di 26.280 omicidi volontari consumati, vale a dire un indice su 100.000 residenti pari a 73, qualche cosa come venticinque volte la media europea e dieci volte quella che è registrata nello stesso anno negli USA) - ha un tasso di detenzione pari a solo 153 detenuti su 100.000 abitanti, come dire pochi punti in più del Portogallo. Ma certo l’esempio più eclatante è quello offerto dagli USA rispetto ad esempio ad altri paesi occidentali come quelli europei. Negli Stati Uniti d’America i tassi di delittuosità sono assai simili a quelli che è possibile, ad esempio, registrare in Inghilterra o in Germania, con la sola eccezione degli omicidi da arma da fuoco corta in occasione di rapina, e ciò nonostante la popolazione detenuta statunitense è sette volta superiore a quella europea. Peraltro i tassi di delittuosità in USA sono in sensibile recessione negli ultimi 10 anni, decennio, nel quale la popolazione detenuta è quasi raddoppiata.

In ‘positivo’ possiamo invece ricavare una diversa informazione altrettanto utile: più di un terzo dell’intera popolazione detenuta mondiale si addensa in sole due aree (ma originariamente due Stati) - gli Stati Uniti d’America e le nazioni del vecchio Impero sovietico - vale a dire su un universo sociale di soli 500 milioni di abitanti. Se escludessimo quindi queste due aree eccezionali - ma che unitamente rappresentano solo un dodicesimo della popolazione mondiale - il tasso medio di carcerizzazione del resto del Mondo, sarebbe significativamente inferire a 100 detenuti su 100.000 abitanti.

Non è questa l’occasione per cercare di spiegare scientificamente l’eccezionalità americana e delle ex-repubbliche sovietiche per quanto concerne i tassi di carcerizzazione così fuori dalla norma. Posso solo ricordare che per quanto concerne gli USA esiste oramai una vastissima letteratura in merito. Diversamente dicasi per la Russia e alcuni Stati ex-sovietici, dove non è facile, anche per ragioni linguistiche, consultare una saggistica scientifica che abbia approfondito la topica in esame. Recentemente - seguendo le indicazioni offerte da alcuni saggi editi in lingua inglese - è ragionevole ritenere che questa eccezionalità sia da mettere in relazione con una costante politico-economica e poi di riflesso culturale che segna queste realtà geopolitiche fin dai tempi zaristi: il ricorso al lavoro forzato e di massa come risorsa economica decisiva allo sviluppo economico. La realtà dei gulag e dei campi di lavoro è sempre stata una presenza costante degli ultimi tre secoli. Ancora oggi, in Russia, su una popolazione detenuta di poco superiore al milione, ben 740.000 condannati sono internati in colonie penali in cui vige il regime del lavoro coatto.

3] La crescita della popolazione detenuta mondiale nell’ultimo decennio.

La popolazione detenuta è cresciuta nel mondo nella decade degli anni novanta e sensibilmente. Si legga la tavola che segue:

 Tab. 1: Crescita percentuale della popolazione detenuta in alcuni paesi nella decade degli anni novanta

 

EUROPA OVEST

 

Olanda          9%

EUROPA CENTRALE E DELL’EST

Bielorussa  345%

Italia           53%

Rep.Ceca   282%

Grecia         47%

Romania   100%

Portogallo    46%

Ucraina        81%

Germania    40%

Bulgaria     62%

Turchia       40%

Lituania       61%

Inghilterra    40%

Russia          44%

Irlanda         39%

Slovenia       44%

Spagna        34%

Croazia        32%

Belgio          27%

Ungheria      23%

Svizzera      24%

Polonia        13%

Norvegia     19%

Estonia          3%

Francia        13%

Moldavia    -17%

Austria        12%

Macedonia  20%

Danimarca     8%

Slovenia     -23%

Svezia            0%

 

Finlandia    -17%

 

ALTRI STATI

Australia      51%

AMERICHE

N. Zelanda   38%

 

Sudafrica     33%

Argentina     83%

Giappone       9%

Brasile         70%

 

Colombia     70%

 

USA             62%

 

Messico       60%  

 

                       Fonti: WALMSLEY R. [2000]; Word Prison Brief [2001]  

La crescita, come è dato vedere, è presente - con ben poche eccezioni - quasi ovunque nel mondo durante la decade degli anni novanta.

Complessivamente nei paesi sviluppati la lievitazione degli indici di carcerizzazione nell’ultimo decennio si è attestata intorno al 40%: nelle Americhe il fenomeno è stato più radicale (nei sei paesi più popolosi, la crescita è stata sempre superiore al 60%); in Europa più contenuto, con solo metà dei paesi che hanno conosciuto incrementi superiori al 40%. Ma se prendiamo in considerazione i paesi in via di sviluppo - come ad esempio la maggiore parte di quelli africani ed asiatici - dobbiamo registrare mediamente crescite che si collocano oltre il 100%.

E questa tendenza alla crescita non sembra affatto essersi esaurita o ridotta. Se limitiamo la nostra osservazione ai soli ultimi anni della decade passata, dobbiamo registrare come il trend di crescita sia più elevato di quello registrato negli anni precedenti. Si legga a livello esemplificativo la tabella seguente:

Tab. 2: Tendenze attuali nella crescita dei tassi di carcerizzazione

 

AFRICA

Ghana                 35% [dal 1996 al 1999]

Benin                  26% [dal 1999 al 2000]

Tanzania             20% [dal 1998 al2000]

Sudafrica            14% [dal 1997 al 1999]

 

AMERICHE

Costa Rica          55% [dal 1996 al 1999]

Messico              35% [dal 1996 al 1999]

R. Domenicana  28% [dal 1997 al 1999]

Brasile                16% [dal 1997 al 1999]

USA                   12% [dal 1997 al 2000]

 

EUROPA

Slovenia             51% [dal 1997 al 2000]

Grecia                44% [dal 1997 al 2000]

Polonia               25% [dal 1999 al 2000]

Croazia               24% [dal 1997 al 2000]

Irlanda                22% [dal 1997 al 2000]

Turchia               21% [dal 1997 al 2000]

 

ASIA

Tailandia            57% [dal 1997 al 2000]

Cambogia           32% [dal 1997 al 2000]

Indonesia            28% [dal 1997 al 2000]

Giappone            14% [dal 1997 al 2000]

 

                          Fonte: WALMSLEY R. [2000]; Word Prison Brief [2001]

 

E’ quindi doveroso denunciare un deficit teorico nella ricerca penologica su una questione di decisiva importanza. Voglio dire che non riuscire a spiegare in termini di plausibilità scientifica perché in tutto il mondo la popolazione detenuta sia nel breve periodo cresciuta e sia attualmente in crescita, finisce per inficiare in parte anche i modelli esplicativi avanzati nei singoli contesti nazionali.

Anche per quanto concerne la crescita della popolazione detenuta nei tempi a noi più prossimi non è agevole indicare un modello esplicativo unico del fenomeno stesso, che sia in grado di valere per contesti così diversi tra di loro.

Se infatti per alcune realtà del mondo occidentale (in primis: USA, Inghilterra) sono state avanzate ipotesi interpretative sufficientemente soddisfacenti del processo di ri-carceration - che avrebbe un po’ ovunque nel Primo Mondo della fin de siecle passe fatto seguito al processo di decarceration che si era sviluppato dal secondo dopoguerra fino agli inizi degli anni ottanta - non ci sono evidenze che le medesime possano valere anche per le restanti nazioni del mondo.

4] Deficit teorici nei modelli esplicativi in penologia

E’ quindi doveroso denunciare un deficit teorico nella ricerca penologica su una questione di decisiva importanza. Voglio dire che non riuscire a spiegare in termini di plausibilità scientifica perché in tutto il mondo la popolazione detenuta sia nel breve periodo cresciuta e sia attualmente in crescita, finisce per inficiare in parte anche i modelli esplicativi avanzati nei singoli contesti nazionali.

Indichiamo, sia pure rapsodicamente, le ipotesi interpretative che sono state avanzate per dare conto dei nuovi processi di ri-carcerizzazione, con l’avvertenza che esse sono maturate non solo all’interno della cultura criminologica occidentale, ma con riferimento alle sole realtà di alcuni paesi, in prevalenza gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra.

Fondamentalmente le ipotesi avanzate sono state tre:

  1. I tassi di carcerizzazione sono aumentati perché è aumentata la criminalità a fare corso dagli anni settanta/ottanta. L’aumento della criminalità - in particolare se non prevalentemente quella di massa e di natura predatoria - viene messa in relazione, più o meno diretta, con distinti fenomeni, quali la crisi dei sistemi di welfare, la lievitazione degli indici di disoccupazione, l’inasprimento dei sentimenti di deprivazione relativa da parte dei ceti marginalizzati, la politica di criminalizzazione della droga e l’intensificarsi dei flussi migratori.

  2. La popolazione detenuta è cresciuta come conseguenza di politiche criminali più repressive. Si tratta prevalentemente delle politiche criminali espresse dai governi conservatori negli anni 80 e 90 in USA e in Inghilterra. Ma non esclusivamente: ad esempio la politica criminale dell’attuale governo laburista inglese da quelle precedenti conservatrici non si differenzia in alcun modo. E lo stesso può dirsi anche della ‘lotta al crimine’ sviluppata nell’America democratica e clintoniana rispetto a quella precedente repubblicana. Tutte queste politiche si sono contrapposte a quelle tradizionalmente favorevoli alla cultura e alle prassi special-preventive, per una esplicita adesione alle ideologie neo-retribuzionistiche e di incapacitazione della pena, favorendo in questo modo una lievitazione della repressione penale anche in assenza di una significativa variazione negli indici di delittuosità.

  3.  Nell’ultimo ventennio del secolo passato si è progressivamente diffuso nella società civile un sentimento di insicurezza sociale che ha finto per tradursi in una domanda di maggiore severità a cui il sistema penale ha finito per rispondere elevando la soglia di repressione. Se all’origine di questa ondata di panico sociale sicuritario vengono individuati - pur attribuendo ad essi pesi specifici diversi - vuoi l’aumento della criminalità predatoria, vuoi le cause che sono alla base dell’aumento della stessa (vale a dire la crisi delle politiche assistenziali, l’aumento della disoccupazione, ecc.), si conviene che l’aumento dei tassi di carcerizzazione può comprendersi come effetto di una determinata costruzione sociale della questione criminale all’interno della quale un ruolo fondamentale hanno sia i mezzi di comunicazione di massa, sia il sistema della politica tout-cour .

A prescindere dall’ipotesi esplicativa che può risultare - a seconda delle opzioni ideologico-politiche o scientifiche - più convincente, non c’è dubbio che tutte e tre hanno un grado più o meno elevato di plausibilità con riferimento solo ad alcune realtà nazionali, prevalentemente gli Stati Uniti, alcuni paesi europei, e pochi altri comunque occidentali, ove effettivamente è dato registrare negli ultimi vent’anni sia un aumento significativo di alcune forme di illegalità, sia un cambiamento nelle politiche criminali in senso più repressivo, sia infine il determinarsi di fenomeni più o meno diffusi di allarme sociale. La compresenza di tutti questi fenomeni non consente in linea di massima di verificare in termini funzionali precisi se e eventualmente come ognuna di queste variabili - aumento della criminalità, maggiore severità nelle politiche criminali e diffusione dell’allarme sociale- determini o influenzi la lievitazione nei tassi di carcerizzazione.

Anche i modelli esplicativi offerti dalla c.d. penologia revisionista sviluppatasi sulla originaria intuizione di Rusche e Kirchheimer non si sono mostrati in grado di superare questo deficit teorico. Se a volte, per le verità solo in aree geografiche e per momenti storici definiti, è possibile trovare rapporti di significatività statistica tra andamento delle condizioni economiche delle classi subalterne, o meglio, tra ciclo socio-economico e tassi di carcerizzazione, l’ipotesi esplicativa non può mai dirsi scientificamente provata, stante che nei momenti di crisi economica sovente aumenta tanto la criminalità, quanto la severità degli apparati repressivi, quanto il diffondersi dell’allarme sociale. E poi, se relazioni significative tra queste variabili possono essere provate in alcune ipotesi storiche e in alcuni paesi, esse non si sono mostrate valide per altri momenti e in altre realtà geografiche.

Insomma: all’interno di ogni sistema nazionale e per periodi più o meno limitati, la ricerca penologica è stata in grado di verificare la significatività di alcune variabili nei confronti dell’andamento dei tassi di carcerizzazione: così, a livello solo esemplificativo, esistono serie ricerche che ‘dimostrano’ come l’espandersi del consumo di alcune droghe determini variazioni nella criminalità e lievitazione dei tassi di carcerizzazione; così come esistono verifiche empiriche tra andamento dei tassi di omicidi nel tempo e variazioni della carcerizzazione; ed ancora, altre ricerche mettono in significativa relazione i tassi di immigrazione con quelli di carcerizzazione; ecc. Ma ancora una volta: il modello esplicativo adottato che si mostra capace di spiegare una determinata realtà contingente, non sembra essere in grado di provare altrettanto in un contesto storico o geografico diverso. Così, sempre per procedere con esempi, se per l’Italia sembra provato anche nel lungo periodo che processi di e-migrazione sono stati accompagnati da una riduzione nei tassi di carcerizzazione, mentre i flussi di im-migrazione sono segnati da un aumento degli stessi , quanto sta determinandosi oggi in molti paesi del nord-Africa e di alcuni dell’est-Europa - fortemente caratterizzati da processi di massa di e-migrazione - non conferma l’assunto, stante che anche in queste realtà è dato oggi assistere ad una significativa lievitazione della popolazione detenuta.

Il collega Melossi, in un recente quanto interessante saggio, suggerisce un’ipotesi esplicativa di tipo culturale per dare conto, ad esempio, dell’abissale differenza nella repressione penale tra gli USA di fede protestante ed alcuni paesi occidentali cattolici. E certo l’ipotesi suggerita è suggestiva per intendere la diversa cultura della responsabilizzazione e della meritevolezza del castigo in contesti culturali così diversi. Ma anche questa ipotesi non spiega perché l’Olanda protestante sia uno dei paesi in assoluto a più basso indice di repressione penale; ovvero non spiega come il Canada - sotto l’aspetto culturale e religioso così simile agli USA - registri tassi di carcerizzazione sette volte più bassi. E viceversa, non si capisce come la cattolicissima Polonia conosca oggi tassi di carcerizzazione doppi di quelli italiani.

Ma uno sguardo a livello mondiale, ci mostra come i tassi di carcerizzazione siano lievitati, pur con diverso accento, un po’ ovunque, anche in contesti nazionali molto distanti - economicamente, politicamente e socialmente - da quanto occorso in alcuni paesi leader del primo Mondo. E con la sola eccezione degli USA, la crescita mondiale nei tassi di carcerizzazione ha profondamente segnato soprattutto i paesi in via di sviluppo.

Non dubito che gli addetti al lavoro (politici, giudici, poliziotti e criminologi che siano) di ogni singolo paese del mondo potrebbero rispondere alla domanda: "Perché i tassi di detenzione nel tuo paese sono aumentati in questi ultimi anni?". Non dico che la risposta sarebbe in grado di soddisfarmi, ma una risposta comunque mi verrebbe prontamente data.

Faccio tesoro della mia esperienza di docente in alcune università del sud e centro America. Le risposte che ho ricevuto alla mia domanda, da colleghi e da professionali, sono sempre state le stesse, le medesime che in verità vengono offerte in tutto il mondo, a seconda della "visione del mondo" dell’interrogato: "La criminalità è aumentata", "I governi hanno adottato politiche più repressive", "La gente ha sempre più paura della criminalità". Ovvero combinazioni sincretiche di queste tre.

Non ho ragione di sospettare che essi mentano, però è singolare che vengano fornite ovunque e sempre le stesse risposte, anche se è difficile accettare che la criminalità sia aumentata ovunque, anche perché esistono elementi di fatto - come i tassi di delittuosità - che ci dicono che ciò non si è in assoluto e sempre verificato; ovvero che ovunque siano state adottate politiche criminali e penali più repressive, perché neppure ciò corrisponde al vero (si veda in questo senso il movimento di riforma per un diritto penale ‘mite’ che ha segnato nelle ultime decadi alcune democrazie europee, come la Spagna, il Portogallo, la Germania e la Francia); e che in tutto il pianeta la gente improvvisamente abbia cominciato all’unisono ad avere sempre più paura del crimine.

 

5.] Il "Paradiso Europa", non tutto si spiega, ma qualche cosa in più si intende

 

Anche in contesti relativamente più circoscritti ed omogenei da un punto di vista economico, sociale e culturale - come ad esempio quello determinato dai paesi dell’Unione europea – se sembra difficile avvalersi di un unico modello esplicativo per comprendere i differenziali di penalità tra le singole realtà nazionali, è pur vero che alcuni profili sono più facili da intendere.

Un dato su cui possiamo, sia pure con estrema prudenza, fare riferimento - se non altro perché ottenuto attraverso indagini condotte simultaneamente e con medesima metodologia - è quello offerto dalle indagine comparate di vittimizzazione.

 Tab. n. 3: Vittimizzazione in Europa

 

27.5 – 30.0%

Paesi Bassi

 

 

22.5 – 24.9%

Inghilterra

Italia

Spagna

20.0 – 22.4%

Germania

Svezia

EUROPA

17.5 – 19.9%

Francia

Belgio

Finlandia

15.0 – 17.4%

Irlanda

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         

 

 

 

FonteVANDIJKJ., MAYHEW P. [1993: 1-49]

Come facilmente si evince, almeno per questi 10 stati dell’Unione, il rischio di vittimizzazione si dispiega in un arco relativamente ampio, appunto tra un 15% ad un 30%, come dire che in alcuni paesi dell’Unione (vedi l’Olanda) il rischio di essere vittima di un qualche reato nell’arco di un anno è circa il doppio di quello che è dato correre in un altro paese, sempre dell’Unione (vedi l’Irlanda) .

Questa ampia differenza, non viene sempre accuratamente registrata dagli indici ufficiali di delittuosità, i quali infatti tendono ad offrire dell’Europa un’immagine relativamente omogenea, quale effetto determinato da indici differenziati nella propensione denunciataria delle diverse comunità nazionali.

 

Tab n. 4: Indice denunciatario in alcuni paesi europei

EUROPA

48.7%

Francia

60.8%

Svezia

58.8%

Inghilterra

58.7%

Belgio

58.3%

Olanda

54.7%

Germania

48.0%

Irlanda

45.8%

Finlandia

40.4%

Italia

41.1%

Spagna

31.4%

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Così se in Francia, Svezia, Inghilterra, Belgio, circa il 60% dei reati viene dalle vittime denunciato, in Spagna e Italia, viene denunciato con circa venti punti percentuali in meno.

Queste informazioni - come anticipato - tendono a registrare quasi esclusivamente la diffusione del crimine opportunista e/o predatorio e la reazione sociale ad esso. Però mi sembrano ugualmente utili, perché è proprio nei confronti del presunto o reale diffondersi di questa illegalità che oggi in Europa si sta diffondendo quel fenomeno di panico o allarme sociale che viene assunto, dal sistema politico, a legittimazione delle c.d. politiche di sicurezza - da quelle di tolleranza zero a quelle di nuova prevenzione integrata e situazionale - ove sovente la costruzione sociale dell’insicurezza tende a orientarsi verso alcune tipologie d’autore, quali gli immigrati extra-comunitari.

Ma anche nei confronti dei sentimenti di insicurezza (o insicurezza soggettiva) ampia è la differenziazione tra i paesi dell’Unione.

  Tab. n. 5: Insicurezza soggettiva in alcuni paesi europei

 

EUROPA

30.3%

Italia

35.1%

Inghilterra

33.0%

Olanda

21.1%

Belgio

19.6%

Germania

19.6%

Francia

17.9%

Finlandia

17.8%

Spagna

13.5%

Svezia

13.3%

 

 

 

 

 

 

 

 

                      

 

 

 

 

Fonte: VAN DIJK J.J.M., MAYHEW P. [1993: 1-49]  

  L’Italia e l’Inghilterra, ad esempio, sono i paesi ove circa un terzo dei cittadini dichiara di sentirsi insicuri e nei centri metropolitani questo indice supera il 45%; mentre in Svezia, Spagna, Finlandia, Francia Germania e Belgio solo un cittadino su cinque manifesta preoccupazione di essere vittima di un delitto.

Certo, come premesso, queste informazione vanno lette con estrema prudenza e forse con un pizzico di sana diffidenza. Però è difficile sottrarsi alla sensazione che la questione criminale - almeno sotto il profilo della delittuosità e della reazione sociale ad essa - registri difformità assai rilevanti tra i 15 membri dell’Unione europea, difformità e differenze quantitative che bisognerà in qualche modo tenere presenti se si vorranno produrre linee di politica criminali comuni.

Se si rivolge invece lo sguardo al dato scientificamente più sicuro offerto dai tassi di carcerizzazione in Europa - e quindi si registra l’esito finale del processo di criminalizzazione - l’immagine che se ne ricava è di diverso tipo (anche se pur sempre segnata da ampie differenze). Torniamo quindi alla mappa n. 1

Apprendiamo così alcune informazioni assai interessanti. Per punti:

 

Pur segnandosi quindi per tassi di carcerizzazione relativamente contenuti, l’Europa dei 15 al suo interno conosce differenze assai significative non sempre proporzionate ai diversi tassi di vittimizzazione. Il Portogallo, l’Inghilterra, la Spagna e l’Italia, registrano tassi di presenza detenuta superiori del 30% a quelli registrati in Finlandia, Svezia, Danimarca, Olanda, e Francia. Esiste pertanto all’interno dei paesi dell’Unione un differenziale repressivo non sempre proporzionato all’entità del fenomeno criminale. Così, a livello esemplificativo, l’Olanda, il paese a più elevato rischio di vittimizzazione in Europa, conosce un tasso di carcerizzazione assai simile a quello che si registra in Irlanda, paese che invece conosce il più basso indice di vittimizzazione. E non sappiamo spiegarci il perché.

 

Nell’ultimo decennio i tassi di carcerizzazione sono mediamente aumentati in Europa. Una crescita non certo paragonabile a quella occorsa nello stesso decennio negli USA, ma comunque consistente, percentualmente superiore all’ 1% annuo. Ma quanto più rileva, è altro: alcuni paesi hanno conosciuto una crescita assai più consistente di altri. Portogallo, Inghilterra, Spagna e Olanda in 10 anni hanno visto aumentare la loro popolazione di oltre il 30%, mentre altri - come Francia, Finlandia, Danimarca ed Austria - hanno conosciuto invece una diminuzione. Tendenzialmente, con limitate eccezioni, la variazione nel tempo e nello spazio in Europa in questa ultima decade della popolazione cancerizzata sembra rispondere a due distinte variabili: 1. una tendenza favorevole alla omogeneizzazione dei livelli di repressione penale, per cui alcuni paesi che 10 anni fa registravano tassi assai contenuti e inferiori alla media europea (vedi Olanda, Italia, Germania e Belgio) sono cresciuti percentualmente di più di altri paesi che registravano tassi superiori alla media europea (vedi Francia e Austria); 2. i paesi dell’Unione europea che tendenzialmente - con alcune eccezioni - hanno più sofferto del processo di immigrazione extra-comunitaria (vedi Italia, Spagna Grecia e Germania), hanno registrato una crescita nei tassi di carcerizzazione superiore ai paesi che meno sono stati investiti dallo stesso fenomeno, senza che ciò implichi aderire alla ipotesi che i processi di immigrazione clandestina ed irregolare abbiano determinato un aumento della criminalità. L’individuazione di queste due variabili può soddisfare esigenze puramente descrittive, anche se ovviamente è insignificante per rispondere ad interessi esplicativi. In buona sostanza, anche sotto questo diverso profilo non siamo capaci di spiegarci la ragione - il perché - di queste variazioni.

Ma il tema dell’immigrazione extra-comunitaria è altamente significativo anche per quanto concerne un diverso profilo. In questa ultima decade, le carceri europee sono sempre più diventate carceri segnate dalla presenza straniera. Il sistema della repressione penale-carceraria nei paesi dell’Unione ha sempre più accentuato una selettività c.d. razziale-etnica nel reclutamento della propria clientela.

 

Tab. n. 6: Detenuti extra-comunitari in alcuni paesi dell’Unione Europea

 

AUSTRIA

7.6/9.0

28.2

3.7

BELGIO

3.5/9.0

36.0

10.3

FINLANDIA

1.1/1.4

4.7

4.2

FRANCIA

4.3/7.0

25.8

6.0

GERMANIA

6.5/8.9

34.1

5.2

GRECIA

2.6/2.9

45.2

17.3

IRLANDA

0.9/3.2

7.5

8.3

ITALIA

1.7/2.0

24.2

14.2

PAESI BASSI

3.1/4.4

32.7

10.5

PORTOGALLO

1.4/1.7

10.7

7.6

REGNO UNITO

2.0/3.4

7.8

3.7

SPAGNA

0.7/1.3

17.8

25.4

SVEZIA

4.3/6.0

26.6

6.1

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Percentuale di stranieri extra-comunitari in rapporto alla popolazione locale

2. Percentuale dei detenuti stranieri in rapporto alla popolazione detenuta locale

3. Rapporto tra percentuale dei detenuti stranieri e percentuale di stranieri residenti

Oramai più di un quarto della popolazione detenuta in Europa è costituito da immigrati a fronte di una presenza straniera residente in Europa che non supera il 5%, come dire che la selettività penale penitenziaria nei confronti degli immigrati è perlomeno cinque volte superiore a quella sofferta dalla popolazione autoctona. Ma per alcuni paesi questo indice di selettività nei confronti degli stranieri è enormemente più elevato: in Spagna e Grecia è più di 20 volte e in Italia più di 14. 

 

6. Torniamo allora ai processi di ri-carcerizzazione presenti oggi in Italia   

Posso capire l’insofferenza che questo mio ragionare è destinato a provocare in molti. Ben pochi sono infatti disposti ad accettare il costo della repressione come una calamità naturale, a cui non resta che rassegnarsi. E nel nostro caso, rassegnarsi equivarrebbe a costruire nuove carceri. Neppure io sono disposto a rinunciare all’idea che la repressione appartenga alla sfera della decisione politica. La questione, pertanto, non è se si debba politicamente reagire a queste tendenze, ma come reagire se si vuole effettivamente governare i processi inflativi in atto.

Mi rendo nel contempo conto che l’apporto che può fornire la scienza è allo stato attuale della ricerca assai povero. Voglio ripetermi sul punto che ritengo essenziale: in assenza di un modello esplicativo convincente che sia in grado di dare conto del processo "mondiale" di ri-carcerizzazione, le ipotesi che si possono avanzare in ogni singolo contesto nazionale e contingentemente a periodi determinati, sono appunto solo ipotesi e nulla di più.

Per quanto concerne l’attuale situazione italiana la mia ipotesi può essere sintetizzata in due proposizioni "in negativo" che peraltro ho già esplicitato in precedenza, e una "in positivo".

Quelle negative recitano: 1. il governo politico della penalità nei fatti non mostra di esercitarsi efficacemente attraverso la sola leva della penalità in astratto; 2. la penalità in concreto sembra assai marginalmente condizionata dall’andamento della criminalità. Più o meno severità nei codici, più o meno misure alternative nell’ordinamento penitenziario, più o meno depenalizzazione nelle leggi, tutto ciò non mi sembra possa tradursi immediatamente in più o meno gente in prigione. Così come variazioni significative nel tempo dei tassi di criminalità (sia di quella apparente che di quella "oscura") non risulta determino livelli proporzionati di repressione.

Infine quella "in positivo" afferma: il processo di ri-carcerizzazione oggi in Italia è prevalentemente agito del modo in cui il sistema della politica e della comunicazione sociale traduce ed interpreta i bisogni sociali di rassicurazione e di integrazione di fronte alla conflittualità. In buona sostanza, questa tesi vuole indicare il ruolo decisivo del "vocabolario" che si utilizza nella comunicazione sociale per la produzione di consenso ed integrazione.

Orbene: se i processi di integrazione e rassicurazione sociale vengono declinati prevalentemente attraverso il vocabolario punitivo, cioè della censura sociale attraverso l’esercizio della penalità, il sistema della repressione corre il rischio di elevare la propria produttività. E certo possibile che all’interno di questo processo, anche la leva della criminalizzazione primaria si faccia più severa, ma ciò avviene "conseguentemente" e all’ "interno" del processo sociale sopra descritto. Così come è possibile che l’imporsi di un vocabolario punitivo nella comunicazione sociale, renda più "sensibile" l’opinione pubblica e le agenzie di controllo sociale nella registrazione dei fatti criminali, determinando una lievitazione dei tassi di criminalità manifesta, ma anche in questo caso non è l’aumento della criminalità a determinare l’aumento della repressione, ma piuttosto l’aumento di questa accompagna coerentemente il prodursi della domanda sociale di penalità.

Ho maturato la convinzione che in questi ultimi anni in Italia il vocabolario punitivo sia progressivamente venuto imponendosi nella comunicazione sociale e politica, sostituendo o comunque relativizzando altri vocabolari, con l’effetto di produrre coesione sociale nella produzione di maggiore penalità.

Ora, le nuove tendenze alla ri-carcerizzazione necessitano di una ri-definizione degli scopi stessi della pena, nel senso che ad una rinnovata produttività carceraria non può che accompagnarsi una nuova cultura penologica, anche se questa emergente narrativa carceraria non sempre è facilmente individuabile. 

 

7. Anoressia e bulimia    

L’ultimo J. Young dedica alcune pagine interessanti nella descrizione delle differenze tra società della inclusione e società dell’esclusione, facendo esplicito riferimento ad una felice intuizione di Levi-Strauss. Da un punto di vista esterno - ci ricorda il grande antropologo francese - le società sembrano atteggiarsi in due modi opposti di fronte a chi è "sentito" come pericoloso: o sviluppando un atteggiamento cannibalesco, cercano di fagocitare chi è avvertito in termini di ostilità, nella speranza così di neutralizzarne la pericolosità attraverso l’inclusione nel corpo sociale; o esasperando le pratiche di vero e proprio rifiuto "atropemico", vomitando al di fuori di sé tutto ciò che è socialmente sofferto come estraneo.

Ma, come precisa J. Young, ogni società è ugualmente afflitta sia da anoressia che da bulimia, cioè ogni organizzazione sociale esclude ed include nel medesimo tempo, determinando contingentemente una soglia di tolleranza, oltre alla quale non c’è più inclusione ma solo esclusione. Ciò che importa è riuscire ad intendere ove questa soglia si situa o arretra e perché essa non riesca ulteriormente ad estendersi.

I confini mobili della esclusione/inclusione sono governati da una pluralità di cause e nessun modello esplicativo per quanto complesso è in grado, per ora, di dare conto di tutte e della loro interazione. Qualche cosa però di descrittivo dei modi in cui si costruisce la società dell’esclusione, è possibile invece già da ora conoscere.  Vediamo i principali.

 

8. Da una penologia "dall’alto" ad una "dal basso"

 

Un dato a cui si presta poca attenzione: il carcere - nella sua bisecolare storia - è stata prevalentemente egemonizzato da retoriche elitarie, nel senso che la legittimazione di questa modalità di punire - per ragioni di prevenzione, sia generale che speciale - è risultata essenzialmente appannaggio di movimenti culturali e politici minoritari, spesso composti da soli professionali, animati sovente da intenti progressisti, che hanno espresso sulla pena e sul carcere un punto di vista di parte. Per quanto di parte e minoritario all’origine, questo punto di vista si è storicamente imposto nelle politiche penali e penitenziarie: in alcune realtà - penso agli Stati Uniti d’America - ciò si è determinato anche attraverso processi di ampia condivisione democratica; in altre - penso all’Italia - lo stesso si è realizzato sovente per astuzia giacobina.

In Italia, non mi risulta che nel passato il carcere sia mai stato condiviso da culture diffuse e popolari. Insomma: il carcere non ha mai avuto sociologicamente una legittimazione democratica. E neppure, forse, la pena e il sistema penale nel suo complesso. E difficile pensare che l’idea del carcere come extrema ratio, ovvero del carcere che rieduca abbia mai potuto incontrare un consenso sociale diverso da quello guadagnato all’epoca del Beccaria dalla proposta di abolire la pena di morte.

Ma ciò vale per il passato. Nel presente, le cose stanno cambiando.

La topica carceraria vive oggigiorno la singolare avventura di essere diversamente intesa e spiegata. Quantomeno due distinte retoriche leggono la sua presenza.

La prima - oggi in crisi - è quella appunto elitaria, di carattere prevalentemente progressista; la seconda - oggi in forte crescita - è invece più vicina al modo di intendere della maggioranza, apparentemente più democratica, certamente più populista.

La prima lettura - si è detto - è oggi fortemente in crisi, anche perché non riesce ad uscire da un stato di depressione profonda. Essa si esprime prevalentemente sulle riviste scientifiche, nel linguaggio della giurisprudenza nella voce di chi ha responsabilità istituzionali. Questa narrativa penologica oggi sopravvive raccontando la propria nevrosi: il lamento di fronte ad una pena che nei fatti non è come avrebbe dovuto essere. Da qui il palese imbarazzo di fronte a qualche cosa che sempre più appare come scandaloso. Non solo - e forse non tanto - perché il carcere "non funziona", quanto piuttosto perché la pena carceraria si è storicamente imposta nell’illusione delle sue incontestabili virtù. E nella fede in queste, si è edificato l’intero sistema della giustizia criminale e la sua legittimazione. E’ difficile immaginare di potere fare a meno del carcere al di fuori di un’idea diversa di giustizia penale. L’invenzione penitenziaria, infatti, si celebra nella sua presunta capacità di dare piena soddisfazione alle necessità di un sistema moderno di giustizia penale, cioè ad una giustizia uguale, mite ed utile. Constatare che a fronte di questi fini ideali della pena, le funzioni materiali del carcere sono invece quelle determinate dalla produzione e riproduzione della diseguaglianza sociale, attraverso l’irrogazione di una violenza segnata da elementi irriducibili di crudeltà e con effetti di elevata nocività sociale, induce al pessimismo penologico, ulteriormente esasperato dalla constatazione di non possedere alcuna strategia valida per un effettivo contenimento o abolizione di questa modalità di infliggere la pena, sempre che si convenga sulle necessità e/o opportunità, presenti e future, di un sistema legale di penalità.

Il secondo discorso penologico - oggi in forte crescita - non mostra alcun imbarazzo di fronte al carcere. Esso è certo della utilità della pena detentiva, anche se invoca modalità nuove di applicazione della stessa. Questa "nuova" idea di penalità appare sovente rozza nelle sue estreme semplificazioni e comunque non ama celebrarsi in discorsi accademici. Essa si esprime nei discorsi della gente. E parla direttamente alla gente nelle parole dei politici prevalentemente attraverso i mezzi di comunicazione di massa; ma si diffonde e finisce per articolarsi in topiche che trovano - o cercano di trovare - anche una loro legittimazione scientifica. E ovviamente non manca chi si cimenti scientificamente nell’impresa. Si sta diffondendo oggi una cultura postmoderna e populista della pena, che pone, forse per la prima volta, la questione di una penalità socialmente condivisa "dal basso".

Credo che per un complesso di ragioni comprensibili, ma difficilmente giustificabili, in Italia la cultura scientifica presti poca attenzione a questa nuova cultura della penalità legittimata "dal basso", di cui è imprudente dire che sia sempre "di destra".   

9. "Economie dell’eccesso" e castighi smodati   

La filosofia della penalità moderna si è fondata su una "economia della parsimonia". Un esercizio del castigo vincolato a criteri tanto di autolimitazione sistemica (quelli garantistici della "pena minima") che di limitazione extra-sistemica (quelli finalistici della "pena utile"). Come dire che anche la sofferenza legale moderna deve sottostare alla logica del risparmio e dell’investimento. E in ciò forse si coglie l’elemento più radicale di contrapposizione con la pena pre-moderna, quella - come ci insegna Foucault - segnata appunto dalle virtù diseconomiche della magnificenza, dell’ostentazione e della dissipazione.

Possiamo interrogarci se la penalità nella post-modernità - nonostante l’enfasi posta sui valori della razionalità burocratica, della efficienza e del calcolo - finisca per dovere fare affidamento ad una "economia dell’eccesso" dei castighi , insomma ad una penalità squisitamente espressiva.

L’ipotesi è suggestiva e su essa merita riflettere.

In effetti - e con ciò ritorno a quanto accennato in precedenza - quanto oggi sembra potersi cogliere come elemento nuovo è la perdita progressiva di peso delle élite intellettuali a favore di quelle politiche sulla cultura della penalità. E nei sistemi democratici, forse per la prima volta la penalità diventa oggetto significativo (in alcuni casi persino il principale) dello scambio politico tra elettori ed eletti, tra opinione pubblica e sistema della politica. E in ciò forse è possibile cogliere un profilo di democratizzazione della politica criminale, sia pure nel senso nuovo offerto dalla "democrazia d’opinione".

Ma ciò su cui non si è sufficientemente riflettuto sono le precondizioni materiali che hanno reso possibile questo processo di emergenza di una domanda di penalità "così come la vuole l’opinione pubblica", a cui in qualche modo il sistema della politica è oggi costretto a dare una qualche risposta.

I cittadini delle democrazie occidentali debbono confrontarsi con una esperienza nuova - soprattutto se consideriamo i livelli di sicurezza dalla criminalità nella seconda parte del XX secolo - che si può ritenere strutturale ai nuovi processi di globalizzazione: il rischio da criminalità si sta diffondendo (nel senso di "spalmando") ed espone oramai la maggioranza dei cittadini e reiteratamente all’esperienza vittimologica. La nostre società sono e sempre più saranno high crime societes, ove il rischio criminale per attentati alla proprietà non sarà più ristretto a pochi - in buona sostanza, come nel passato, ai membri della uperclass - ma esteso alla maggioranza dei consociati.

Le politiche di "legge ed ordine" e "zero tollerance" si iscrivono pertanto all’interno di un orizzonte miope di riproposizione di vecchie ricette a nuovi problemi. In assenza di una cultura adeguata per una società ad elevato rischio criminale si finisce per rispondere ai diffusi rischi criminali con lo strumento della penalità diffusa. Ma la scorciatoia repressiva presto si mostra illusoria: per quanto si possano elevare i tassi di carcerizzazione e penalità essi si mostreranno sempre inadeguati e per difetto a quelli della criminalità di massa, come abbiamo potuto intendere nell’analisi critica delle strategie della incapacitazione selettiva. Da qui il rischio che la penalità sfugga progressivamente ad ogni finalismo utilitarista e ad ogni criterio razionale, per celebrarsi unicamente in una dimensione espressiva. E diventare pertanto smodata. Un eccesso di penalità, in un primo momento, a fronte di un eccesso di criminalità; una penalità simbolica (come la pena di morte, ovvero pene detentive draconiane in carceri di massima sicurezza) - in una seconda fase - di fronte all’amara constatazione che più penalità non produce più sicurezza dalla criminalità.

 

10. La pena "fondamentalista" e le emozioni collettive   

E’ interessate notare come la deriva obbligata verso una penalità smodata finisca per liberare la stessa giustificazione della pena da ogni solido ancoraggio a rigorose valutazioni tecnocratiche; essa finisce per essere di nuovo attratta verso un oceano di giustificazioni ideologiche.

Si pensi, ad esempio, alla ripresa delle teorie neo-retribuzionistiche; esse, in termini per la verità alquanto semplicistici, si richiamano al vecchio arsenale giustificativo della meritevolezza della pena, che, con riferimento esplicito al comune sentire della gente, afferma l’esistenza di un referente sicuro - per quanto storicamente e culturalmente determinato - sul fondamento del quale è possibile determinare la pena in concreto come quella socialmente meritata. Ma il riferimento ad un concetto di meritevolezza non viene più operato nella prospettiva di porre dei limiti al potere discrezionale nella commisurazione della pena, quanto di agganciare questa al public panic.

Tentativi apparentemente più seducenti, ma sostanzialmente identici nelle conseguenze, sono quelli oggi particolarmente apprezzati dalla dottrina penalistica di formazione tedesca che teorizzano - in ossequio alle teorie luhmaniane - una funzione di "pedagogia sociale" alla pena. Questi approcci utilizzano nello specifico della giustificazione della pena la concezione del diritto come strumento di stabilizzazione del sistema sociale, di orientamento dell’azione e di istituzionalizzazione delle aspettative. Al centro dell’attenzione è in particolare il concetto della fiducia istituzionale, intesa come forma di integrazione sociale che, nei sistemi complessi, sostituisce le forme spontanee di affidamento reciproco degli individui nelle comunità elementari. La reazione punitiva alla violazione della norma avrà, in questa teoria, la sola funzione di ristabilire la fiducia e di prevenire gli effetti negativi che la violazione di norme produce per la integrazione sociale. Ne consegue che si punisce non per retribuire un male con un altro equivalente male, e neppure per dissuadere i potenziali violatori a non delinquere; si punisce perché attraverso la pena si esercita la funzione primaria che è quella di consolidare la fedeltà vuoi nei confronti del diritto, vuoi nei confronti dell’organizzazione sociale da parte della maggioranza.

La giustificazione del diritto di punire ritorna così alla sua primitiva origine, a quella fase che precedette la rottura imposta dalla modernità, cioè ad una penalità liberata nei suoi contenuti e nelle sue forme da ogni vincolo razionale. Una sorta di regresso, quindi, ad una "penologia fondamentalista".  

 11. Il business penitenziario…quale scandalo?

 Non ho elementi sufficienti per riconoscere una "chiara" tendenza italiana alla privatizzazione del controllo sociale penale sul modello appunto suggerito dalla letteratura penologica internazionale con riguardo prevalente a quanto occorso nelle ultime due decadi negli USA e solo in parte in Inghilterra. Qualche sospetto sì, ma appunto solo qualche sospetto. E il tempo come sempre sarà anche su questo punto galantuomo.

Mi sembra invece, più plausibile, sostenere che un’ipotesi di privatizzazione nelle politiche penal-penitenziarie sarebbe comunque uno scenario di sviluppo coerente alle tendenze in atto e precedentemente descritte. Ma altri scenari sono altrettanto possibili ed alcuni anche altrettanto coerenti.

Insomma: se è ancora incerto se mai il mercato privato in Italia assumerà (o conquisterà) in parte compiti di governo della penalità, quello che risulta invece abbastanza certo è la condizione che precede e determina un eventuale interesse privato alle politiche di gestione della penalità, vale a dire la crescita economica esponenziale dei costi che necessariamente accompagna e sempre più accompagnerà i processi di ricarcerizzazione. Mi spiego: in termini di bilancio, sempre più risorse verranno liberate dai settori tradizionali del welfare state per essere utilizzati nei comparti propri di un nascente prison state. Insomma, si stanno determinando le condizioni materiali per il business, anche se solo nominalmente sarà un nuovo business. A ben riflettere, almeno in Italia già da tempo il governo della problematicità sociale è prevalentemente un affare egemonizzato dall’imprenditorietà privata. Anziani, tossicodipendenti, homeless, sofferenti psichici e altre forme di marginalità sociale sono già da tempo oggetto di una imprenditorialità, certo "sociale", ma alla fin fine capace di produrre anche profitto.

Se il to care è stato l’affare d’oro dell’era del welfare state, l’imprenditorialità capace di fornire know how in tema di controllo e sorveglianza può ragionevolmente aspirare a fare buon affari nell’era del prison state. Questa prospettiva è meno scandalosa di quanto apparentemente si creda.

Non suoni stupidamente provocatorio: ma se ci siamo "fidati" del privato nella produzione di servizi tanto "delicati" quali fare uscire i nostri giovani dal tunnel della droga, assistere i nostri vecchi inabili, curare i nostri sofferenti psichiatrici, ecc., perché non dovremmo fidarci nell’assegnare al privato quote significative di controllo e sorveglianza dei nostri trouble-makers?

 

 

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