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Il business penitenziario: l’esecuzione penale tra pubblico e privato di Massimo Pavarini
Pisa (Assemblea di Antigone) – Sabato 20 aprile 2002
1]
Un’icona penitenziaria La
crisi della pena moderna è in primo luogo misurabile nel suo grado di
inflazione, esattamente come la moneta. Le
stime ufficiali calcolano che agli inizi del muovo millennio coloro che si
trovavano sul pianeta Terra penalmente privati della libertà (con esclusione
quindi delle diverse forme di detenzione per ragioni politiche e/o belliche)
erano di poco superiori agli otto milioni e settecentomila. Stima deficiente
per difetto. Alcuni Stati non forniscono statistiche aggiornate a questo
proposito: di questi, possiamo per alcuni fondarci solo su informazioni
vecchie di più di dieci anni (ad esempio: la maggior parte degli Stati
caraibici); per altri è prudente sospettare che le informazioni siano "politicamente" edulcorate (ad esempio: Cina, che ci fornisce informazioni
solo sui detenuti definitivi e non su quelli privati della libertà per
ragioni processuali). Per altri ancora è buio completo, in quanto i governi
non forniscono alcun dato (ad esempio: Iugoslavia, Iraq, Laos, Afganistan e
molti stati africani, come Libia, Nigeria, Etiopia, Somalia e Congo). Ma non
solo: la maggior parte degli Stati offre informazioni statistiche solo per
quanto concerne la popolazione penale adulta, ovvero omette di indicare i
tassi di internamento in istituzioni psichiatriche giudiziarie. Altri poi non
prendono in considerazione alcune forme di detenzione "amministrativa" che
in altri contesti normativi sono invece disciplinate penalmente. Forse
pensare a dieci/undici milioni di carcerati ci avvicina, ma temo ancora per
difetto, alla realtà. Ma questo dato - per quanto impressionante - ha un
significato apprezzabile solo a livello di contabilità statistica, in quanto
registra i presenti nelle istituzioni penali normalmente a fine a anno o
comunque a giorno definito. Mediamente gli entrati ogni anno dallo stato di
libertà in una istituzione di detenzione penale sono molto più numerosi,
mediamente più del doppio. Si può azzardare, ancora per difetto: ogni anno
nel mondo, più di 20 milioni di persone conoscono una esperienza detentiva. Bene: se 20 milioni di uomini si danno la mano, creano una fila tanto lunga che sulla linea dell’Equatore possono abbracciare il Mondo. Se a questa fila si aggiungono anche coloro che sono penalmente limitati nella libertà, essa potrebbe abbracciare più volte la Terra. Un gigantesco girotondo, una sorta di ‘giromondo penitenziario’ composto da una colonna umana che solo per sfilare di fronte ad un paziente quanto insonne spettatore impiegherebbe più di due anni.
2]
Lo "spartiacque" penitenziario nel Mondo
Un
primo accorgimento per semplificare e comparare tra loro Paesi con popolazione
diversa è di riferirsi alla percentuale di detenuti su 100.000 abitanti. Se
prendiamo come indice di riferimento il totale mondiale ‘certo’ dei
detenuti presenti giornalmente, cioè quello di otto milioni e settecentomila,
possiamo facilmente calcolare che l’indice mondiale è approssimativamente
di 140 detenuti per 100.000 cittadini del Mondo, al 1 gennaio 2001. In
effetti, come anticipato, abbiamo motivo di supporre che la popolazione
detenuta superi ed abbondantemente i dieci milioni, per cui possiamo
prudentemente correggere la stima dei detenuti giornalieri nel mondo
all’indice ponderato di 160 su 100.000 abitanti. Questo
semplice ed in se inespressivo indice può essere utile per tracciare una
sorta di spartiacque, per segnare quali sono i paesi che si attestano al di
sotto e al di sopra di essa. In
primo luogo prendiamo atto che più dei tre quarti delle nazioni del mondo
registrano un indice di carcerizzazione inferire all’indice ponderato sopra
indicato. Questo
semplice ed in se inespressivo indice può essere utile per tracciare una
sorta di spartiacque e per segnare quindi quali sono i paesi che si attestano
al di sotto e al di sopra di essa. E in ciò possiamo avvalerci delle mappe
che seguono. Mappa
n. 1: Tassi di carcerizzazione nei paesi europei Mappa
n. 2: Tassi di carcerizzazione nei paesi africani Mappa
n. 3: Tassi di carcerizzazione nei paesi del Medio Oriente Mappa
n. 4: Tassi di carcerizzazione nei paesi asiatici Mappa
n. 5: Tassi di carcerizzazione nei paesi del Nord America Mappa
n. 6: Tassi di carcerizzazione nei paesi dell’America Centrale Mappa
n. 7: Tassi di carcerizzazione nei paesi caraibici Mappa
n. 8: Tassi di carcerizzazione nei paesi dell’America Meridionale Mappa
n. 9: Tassi di carcerizzazione nei paesi dell’Oceania Significativamente
l’intera Europa centrale e meridionale si attesta abbondantemente al di
sotto di questo indice, conoscendo variazioni tra i singoli Stati comprese tra
i 78 (vedi Francia) e i 131 (vedi Portogallo), per una media complessiva
intorno ai 87 detenuti su 100.000. Anche altre realtà di così vaste
proporzioni possono vantare una popolazione detenuta relativamente contenuta.
Ad esempio il Sud America e l’Oceania, con una media di circa 110, la
maggior parte dei paesi dell’Africa centrale e occidentale unitamente a
quelli dell’Asia meridionale con una media complessiva di soli 55 (necessita
ricordare a questo proposito che l’India, con circa un miliardo di abitanti,
registra solo un indice di 39 detenuti su 100.000 e la Cina, con un miliardo e
trecento mila cittadini, denuncia un indice di 112). Vediamo
ora quali sono le realtà che si allontano per eccesso dalla media ponderata
nei tassi di carcerizzazione. In primo luogo gli Stati Uniti d’America con
un indice di poco inferiore a 700, cioè quattro volte la media mondiale; a
breve distanza la Russia con un indice di 664 seguita dalla Bielorussa e da
alcune ex repubbliche sovietiche orientali (come il Karzakistan e il
Kirgyzstan) che si attestano intorno ai 500; seguono poi il Sudafrica e a
distanza alcuni piccoli paesi caraibici che si avvicinano ai 300, come
peraltro alcuni paesi del Nord Africa e dell’Asia centrale; ed infine vanno
ricordati i paesi dell’est Europa come la Repubblica Ceca e la Romania che
registrano indici di carcerizzazione superiori ai 200 detenuti su 100.000. Questa
per quanto grossolana divisione del mondo rispetto alla media ponderata dei
tassi di carcerizzazione ad un primo sguardo sembrerebbe essere assai poco
intelligibile, nel senso che è difficile intuire la ragione o le ragioni
esplicative di un ventaglio tanto ampio di differenziazione. Eppure, a ben
riflettere, qualche cosa e di importante questi dati sono in grado di
esprimere anche se non sono sufficienti per suggerirci un’ipotesi
esplicativa pienamente convincente. In
primo luogo queste mappe, in ‘negativo’, dicono qualche cosa. Ci
dimostrano, ad esempio, che non è avvalorata l’ipotesi che mette in
correlazione diretta i tassi di carcerizzazione con alcune variabili
strutturali, quali la densità della popolazione, la composizione demografica
per età, la ricchezza della nazione e il benessere economico dei cittadini. Neppure
le variabili politiche sembrano essere significativamente relazionate ai tassi
di repressione, come i livelli di democrazia, i sistemi di governo e di
rappresentanza, ecc. Ancora.
I sistemi normativi di riferimento non sembrano indicare relazioni
significative con i tassi di carcerizzazione. Ad esempio il Canada e
l’Australia, con tassi che oscillano intorno ai 110 detenuti su 100.000
abitanti, conoscono una tradizione e un sistema di giustizia penale che in
poco differiscono da quelli statunitensi, mentre i livelli di repressione
penale sono di quasi sette volte inferiori. E non diversamente si deve
argomentare per i paesi latini del centro rispetto a quelli del sud
dell’America: nonostante sistemi di giustizia penale assai simili, i paesi
centroamericani spuntano infatti tassi di carcerizzazione mediamente tripli
rispetto a quelli sudamericani. Ed
infine: i tassi di criminalità - per quanto riduttivamente suggeriti da
quelli di delittuosità o criminalità apparente - non sembrano essere in
qualche relazione significativa con quelli di carcerizzazione. Qualche
istruttivo esempio: la Colombia - in assoluto il paese con il più elevato
tasso di omicidi volontari del mondo (le statistiche ufficiali colombiane
registrano per il 2000 un totale di 26.280 omicidi volontari consumati, vale a
dire un indice su 100.000 residenti pari a 73, qualche cosa come venticinque
volte la media europea e dieci volte quella che è registrata nello stesso
anno negli USA) - ha un tasso di detenzione pari a solo 153 detenuti su
100.000 abitanti, come dire pochi punti in più del Portogallo. Ma certo
l’esempio più eclatante è quello offerto dagli USA rispetto ad esempio ad
altri paesi occidentali come quelli europei. Negli Stati Uniti d’America i
tassi di delittuosità sono assai simili a quelli che è possibile, ad
esempio, registrare in Inghilterra o in Germania, con la sola eccezione degli
omicidi da arma da fuoco corta in occasione di rapina, e ciò nonostante la
popolazione detenuta statunitense è sette volta superiore a quella europea.
Peraltro i tassi di delittuosità in USA sono in sensibile recessione negli
ultimi 10 anni, decennio, nel quale la popolazione detenuta è quasi
raddoppiata. In
‘positivo’ possiamo invece ricavare una diversa informazione altrettanto
utile: più di un terzo dell’intera popolazione detenuta mondiale si addensa
in sole due aree (ma originariamente due Stati) - gli Stati Uniti d’America
e le nazioni del vecchio Impero sovietico - vale a dire su un universo sociale
di soli 500 milioni di abitanti. Se escludessimo quindi queste due aree
eccezionali - ma che unitamente rappresentano solo un dodicesimo della
popolazione mondiale - il tasso medio di carcerizzazione del resto del Mondo,
sarebbe significativamente inferire a 100 detenuti su 100.000 abitanti. Non
è questa l’occasione per cercare di spiegare scientificamente
l’eccezionalità americana e delle ex-repubbliche sovietiche per quanto
concerne i tassi di carcerizzazione così fuori dalla norma. Posso solo
ricordare che per quanto concerne gli USA esiste oramai una vastissima
letteratura in merito. Diversamente dicasi per la Russia e alcuni Stati
ex-sovietici, dove non è facile, anche per ragioni linguistiche, consultare
una saggistica scientifica che abbia approfondito la topica in esame.
Recentemente - seguendo le indicazioni offerte da alcuni saggi editi in lingua
inglese - è ragionevole ritenere che questa eccezionalità sia da mettere in
relazione con una costante politico-economica e poi di riflesso culturale che
segna queste realtà geopolitiche fin dai tempi zaristi: il ricorso al lavoro
forzato e di massa come risorsa economica decisiva allo sviluppo economico. La
realtà dei gulag e dei campi di lavoro è sempre stata una presenza costante
degli ultimi tre secoli. Ancora oggi, in Russia, su una popolazione detenuta
di poco superiore al milione, ben 740.000 condannati sono internati in colonie
penali in cui vige il regime del lavoro coatto. 3]
La crescita della popolazione detenuta mondiale nell’ultimo decennio. La
popolazione detenuta è cresciuta nel mondo nella decade degli anni novanta e
sensibilmente. Si legga la tavola che segue: Tab.
1: Crescita percentuale della popolazione detenuta in alcuni paesi nella
decade degli anni novanta
Fonti: WALMSLEY R. [2000]; Word Prison Brief [2001]
La crescita, come è dato vedere, è
presente - con ben poche eccezioni - quasi ovunque nel mondo durante la decade
degli anni novanta. Complessivamente
nei paesi sviluppati la lievitazione degli indici di carcerizzazione
nell’ultimo decennio si è attestata intorno al 40%: nelle Americhe il
fenomeno è stato più radicale (nei sei paesi più popolosi, la crescita è
stata sempre superiore al 60%); in Europa più contenuto, con solo metà dei
paesi che hanno conosciuto incrementi superiori al 40%. Ma se prendiamo in
considerazione i paesi in via di sviluppo - come ad esempio la maggiore parte
di quelli africani ed asiatici - dobbiamo registrare mediamente crescite che
si collocano oltre il 100%. E
questa tendenza alla crescita non sembra affatto essersi esaurita o ridotta.
Se limitiamo la nostra osservazione ai soli ultimi anni della decade passata,
dobbiamo registrare come il trend
di crescita sia più elevato di quello registrato negli anni precedenti. Si
legga a livello esemplificativo la tabella seguente: Tab.
2: Tendenze attuali nella crescita dei tassi di carcerizzazione
Fonte:
WALMSLEY R. [2000]; Word Prison Brief [2001]
E’
quindi doveroso denunciare un deficit teorico
nella ricerca penologica su una questione di decisiva importanza. Voglio dire
che non riuscire a spiegare in termini di plausibilità scientifica perché in
tutto il mondo la popolazione detenuta sia nel breve periodo cresciuta e sia
attualmente in crescita, finisce per inficiare in parte anche i modelli
esplicativi avanzati nei singoli contesti nazionali. Anche
per quanto concerne la crescita della popolazione detenuta nei tempi a noi più
prossimi non è agevole indicare un modello esplicativo unico del fenomeno
stesso, che sia in grado di valere per contesti così diversi tra di loro. Se
infatti per alcune realtà del mondo occidentale (in
primis: USA, Inghilterra) sono state avanzate ipotesi interpretative
sufficientemente soddisfacenti del processo di ri-carceration
- che avrebbe un po’ ovunque nel Primo Mondo della fin
de siecle passe fatto seguito al processo di decarceration
che si era sviluppato dal secondo dopoguerra fino agli inizi degli anni
ottanta - non ci sono evidenze che le medesime possano valere anche per le
restanti nazioni del mondo. 4]
Deficit teorici nei modelli esplicativi in penologia E’
quindi doveroso denunciare un deficit teorico
nella ricerca penologica su una questione di decisiva importanza. Voglio dire
che non riuscire a spiegare in termini di plausibilità scientifica perché in
tutto il mondo la popolazione detenuta sia nel breve periodo cresciuta e sia
attualmente in crescita, finisce per inficiare in parte anche i modelli
esplicativi avanzati nei singoli contesti nazionali. Indichiamo,
sia pure rapsodicamente, le ipotesi interpretative che sono state avanzate per
dare conto dei nuovi processi di ri-carcerizzazione, con l’avvertenza che
esse sono maturate non solo all’interno della cultura criminologica
occidentale, ma con riferimento alle sole realtà di alcuni paesi, in
prevalenza gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra. Fondamentalmente
le ipotesi avanzate sono state tre:
A
prescindere dall’ipotesi esplicativa che può risultare - a seconda delle
opzioni ideologico-politiche o scientifiche - più convincente, non c’è
dubbio che tutte e tre hanno un grado più o meno elevato di plausibilità con
riferimento solo ad alcune realtà nazionali, prevalentemente gli Stati Uniti,
alcuni paesi europei, e pochi altri comunque occidentali, ove effettivamente
è dato registrare negli ultimi vent’anni sia un aumento significativo di
alcune forme di illegalità, sia un cambiamento nelle politiche criminali in
senso più repressivo, sia infine il determinarsi di fenomeni più o meno
diffusi di allarme sociale. La compresenza di tutti questi fenomeni non
consente in linea di massima di verificare in termini funzionali precisi se e
eventualmente come ognuna di queste variabili - aumento della criminalità,
maggiore severità nelle politiche criminali e diffusione dell’allarme
sociale- determini o influenzi la lievitazione nei tassi di carcerizzazione. Anche
i modelli esplicativi offerti dalla c.d. penologia revisionista sviluppatasi
sulla originaria intuizione di Rusche e Kirchheimer non si sono mostrati in
grado di superare questo deficit teorico. Se a volte, per le verità solo in
aree geografiche e per momenti storici definiti, è possibile trovare rapporti
di significatività statistica tra andamento delle condizioni economiche delle
classi subalterne, o meglio, tra ciclo socio-economico e tassi di
carcerizzazione, l’ipotesi esplicativa non può mai dirsi scientificamente
provata, stante che nei momenti di crisi economica sovente aumenta tanto la
criminalità, quanto la severità degli apparati repressivi, quanto il
diffondersi dell’allarme sociale. E poi, se relazioni significative tra
queste variabili possono essere provate in alcune ipotesi storiche e in alcuni
paesi, esse non si sono mostrate valide per altri momenti e in altre realtà
geografiche. Insomma:
all’interno di ogni sistema nazionale e per periodi più o meno limitati, la
ricerca penologica è stata in grado di verificare la significatività di
alcune variabili nei confronti dell’andamento dei tassi di carcerizzazione:
così, a livello solo esemplificativo, esistono serie ricerche che
‘dimostrano’ come l’espandersi del consumo di alcune droghe determini
variazioni nella criminalità e lievitazione dei tassi di carcerizzazione; così
come esistono verifiche empiriche tra andamento dei tassi di omicidi nel tempo
e variazioni della carcerizzazione; ed ancora, altre ricerche mettono in
significativa relazione i tassi di immigrazione con quelli di carcerizzazione;
ecc. Ma ancora una volta: il modello esplicativo adottato che si mostra capace
di spiegare una determinata realtà contingente, non sembra essere in grado di
provare altrettanto in un contesto storico o geografico diverso. Così, sempre
per procedere con esempi, se per l’Italia sembra provato anche nel lungo
periodo che processi di e-migrazione sono stati accompagnati da una riduzione
nei tassi di carcerizzazione, mentre i flussi di im-migrazione sono segnati da
un aumento degli stessi , quanto sta determinandosi oggi in molti paesi del
nord-Africa e di alcuni dell’est-Europa - fortemente caratterizzati da
processi di massa di e-migrazione - non conferma l’assunto, stante che anche
in queste realtà è dato oggi assistere ad una significativa lievitazione
della popolazione detenuta. Il
collega Melossi, in un recente quanto interessante saggio, suggerisce
un’ipotesi esplicativa di tipo culturale per dare conto, ad esempio,
dell’abissale differenza nella repressione penale tra gli USA di fede
protestante ed alcuni paesi occidentali cattolici. E certo l’ipotesi
suggerita è suggestiva per intendere la diversa cultura della
responsabilizzazione e della meritevolezza del castigo in contesti culturali
così diversi. Ma anche questa ipotesi non spiega perché l’Olanda
protestante sia uno dei paesi in assoluto a più basso indice di repressione
penale; ovvero non spiega come il Canada - sotto l’aspetto culturale e
religioso così simile agli USA - registri tassi di carcerizzazione sette
volte più bassi. E viceversa, non si capisce come la cattolicissima Polonia
conosca oggi tassi di carcerizzazione doppi di quelli italiani. Ma
uno sguardo a livello mondiale, ci mostra come i tassi di carcerizzazione
siano lievitati, pur con diverso accento, un po’ ovunque, anche in contesti
nazionali molto distanti - economicamente, politicamente e socialmente - da
quanto occorso in alcuni paesi leader del primo Mondo. E con la sola eccezione
degli USA, la crescita mondiale nei tassi di carcerizzazione ha profondamente
segnato soprattutto i paesi in via di sviluppo. Non
dubito che gli addetti al lavoro (politici, giudici, poliziotti e criminologi
che siano) di ogni singolo paese del mondo potrebbero rispondere alla domanda:
"Perché i tassi di detenzione nel tuo paese sono aumentati in questi ultimi
anni?". Non dico che la risposta sarebbe in grado di soddisfarmi, ma una
risposta comunque mi verrebbe prontamente data. Faccio
tesoro della mia esperienza di docente in alcune università del sud e centro
America. Le risposte che ho ricevuto alla mia domanda, da colleghi e da
professionali, sono sempre state le stesse, le medesime che in verità vengono
offerte in tutto il mondo, a seconda della "visione del mondo"
dell’interrogato: "La criminalità è aumentata", "I governi hanno
adottato politiche più repressive", "La gente ha sempre più paura della
criminalità". Ovvero combinazioni sincretiche di queste tre. Non ho ragione di sospettare che essi mentano, però è singolare che vengano fornite ovunque e sempre le stesse risposte, anche se è difficile accettare che la criminalità sia aumentata ovunque, anche perché esistono elementi di fatto - come i tassi di delittuosità - che ci dicono che ciò non si è in assoluto e sempre verificato; ovvero che ovunque siano state adottate politiche criminali e penali più repressive, perché neppure ciò corrisponde al vero (si veda in questo senso il movimento di riforma per un diritto penale ‘mite’ che ha segnato nelle ultime decadi alcune democrazie europee, come la Spagna, il Portogallo, la Germania e la Francia); e che in tutto il pianeta la gente improvvisamente abbia cominciato all’unisono ad avere sempre più paura del crimine.
5.] Il "Paradiso Europa", non tutto si spiega, ma qualche cosa in più si intende
Anche
in contesti relativamente più circoscritti ed omogenei da un punto di vista
economico, sociale e culturale - come ad esempio quello determinato dai paesi
dell’Unione europea – se sembra difficile avvalersi di un unico modello
esplicativo per comprendere i differenziali di penalità tra le singole realtà
nazionali, è pur vero che alcuni profili sono più facili da intendere. Un dato su cui possiamo, sia pure con estrema prudenza, fare riferimento - se non altro perché ottenuto attraverso indagini condotte simultaneamente e con medesima metodologia - è quello offerto dalle indagine comparate di vittimizzazione. Tab.
n. 3: Vittimizzazione in Europa
FonteVANDIJKJ., MAYHEW P. [1993: 1-49] Come facilmente si evince, almeno per questi 10 stati dell’Unione, il rischio di vittimizzazione si dispiega in un arco relativamente ampio, appunto tra un 15% ad un 30%, come dire che in alcuni paesi dell’Unione (vedi l’Olanda) il rischio di essere vittima di un qualche reato nell’arco di un anno è circa il doppio di quello che è dato correre in un altro paese, sempre dell’Unione (vedi l’Irlanda) . Questa ampia differenza, non viene sempre accuratamente registrata dagli indici ufficiali di delittuosità, i quali infatti tendono ad offrire dell’Europa un’immagine relativamente omogenea, quale effetto determinato da indici differenziati nella propensione denunciataria delle diverse comunità nazionali.
Tab n. 4: Indice denunciatario in alcuni paesi europei
Così
se in Francia, Svezia, Inghilterra, Belgio, circa il 60% dei reati viene dalle
vittime denunciato, in Spagna e Italia, viene denunciato con circa venti punti
Queste informazioni - come anticipato - tendono a registrare quasi esclusivamente la diffusione del crimine opportunista e/o predatorio e la reazione sociale ad esso. Però mi sembrano ugualmente utili, perché è proprio nei confronti del presunto o reale diffondersi di questa illegalità che oggi in Europa si sta diffondendo quel fenomeno di panico o allarme sociale che viene assunto, dal sistema politico, a legittimazione delle c.d. politiche di sicurezza - da quelle di tolleranza zero a quelle di nuova prevenzione integrata e situazionale - ove sovente la costruzione sociale dell’insicurezza tende a orientarsi verso alcune tipologie d’autore, quali gli immigrati extra-comunitari. Ma anche nei confronti dei sentimenti di insicurezza (o insicurezza soggettiva) ampia è la differenziazione tra i paesi dell’Unione.
Fonte: VAN DIJK J.J.M., MAYHEW P. [1993: 1-49]
Certo, come premesso, queste informazione vanno lette con estrema prudenza e forse con un pizzico di sana diffidenza. Però è difficile sottrarsi alla sensazione che la questione criminale - almeno sotto il profilo della delittuosità e della reazione sociale ad essa - registri difformità assai rilevanti tra i 15 membri dell’Unione europea, difformità e differenze quantitative che bisognerà in qualche modo tenere presenti se si vorranno produrre linee di politica criminali comuni. Se si rivolge invece lo sguardo al dato scientificamente più sicuro offerto dai tassi di carcerizzazione in Europa - e quindi si registra l’esito finale del processo di criminalizzazione - l’immagine che se ne ricava è di diverso tipo (anche se pur sempre segnata da ampie differenze). Torniamo quindi alla mappa n. 1 Apprendiamo così alcune informazioni assai interessanti. Per punti:
Pur segnandosi quindi per tassi di carcerizzazione relativamente contenuti, l’Europa dei 15 al suo interno conosce differenze assai significative non sempre proporzionate ai diversi tassi di vittimizzazione. Il Portogallo, l’Inghilterra, la Spagna e l’Italia, registrano tassi di presenza detenuta superiori del 30% a quelli registrati in Finlandia, Svezia, Danimarca, Olanda, e Francia. Esiste pertanto all’interno dei paesi dell’Unione un differenziale repressivo non sempre proporzionato all’entità del fenomeno criminale. Così, a livello esemplificativo, l’Olanda, il paese a più elevato rischio di vittimizzazione in Europa, conosce un tasso di carcerizzazione assai simile a quello che si registra in Irlanda, paese che invece conosce il più basso indice di vittimizzazione. E non sappiamo spiegarci il perché.
Nell’ultimo decennio i tassi di carcerizzazione sono mediamente aumentati in Europa. Una crescita non certo paragonabile a quella occorsa nello stesso decennio negli USA, ma comunque consistente, percentualmente superiore all’ 1% annuo. Ma quanto più rileva, è altro: alcuni paesi hanno conosciuto una crescita assai più consistente di altri. Portogallo, Inghilterra, Spagna e Olanda in 10 anni hanno visto aumentare la loro popolazione di oltre il 30%, mentre altri - come Francia, Finlandia, Danimarca ed Austria - hanno conosciuto invece una diminuzione. Tendenzialmente, con limitate eccezioni, la variazione nel tempo e nello spazio in Europa in questa ultima decade della popolazione cancerizzata sembra rispondere a due distinte variabili: 1. una tendenza favorevole alla omogeneizzazione dei livelli di repressione penale, per cui alcuni paesi che 10 anni fa registravano tassi assai contenuti e inferiori alla media europea (vedi Olanda, Italia, Germania e Belgio) sono cresciuti percentualmente di più di altri paesi che registravano tassi superiori alla media europea (vedi Francia e Austria); 2. i paesi dell’Unione europea che tendenzialmente - con alcune eccezioni - hanno più sofferto del processo di immigrazione extra-comunitaria (vedi Italia, Spagna Grecia e Germania), hanno registrato una crescita nei tassi di carcerizzazione superiore ai paesi che meno sono stati investiti dallo stesso fenomeno, senza che ciò implichi aderire alla ipotesi che i processi di immigrazione clandestina ed irregolare abbiano determinato un aumento della criminalità. L’individuazione di queste due variabili può soddisfare esigenze puramente descrittive, anche se ovviamente è insignificante per rispondere ad interessi esplicativi. In buona sostanza, anche sotto questo diverso profilo non siamo capaci di spiegarci la ragione - il perché - di queste variazioni. Ma il tema dell’immigrazione extra-comunitaria è altamente significativo anche per quanto concerne un diverso profilo. In questa ultima decade, le carceri europee sono sempre più diventate carceri segnate dalla presenza straniera. Il sistema della repressione penale-carceraria nei paesi dell’Unione ha sempre più accentuato una selettività c.d. razziale-etnica nel reclutamento della propria clientela.
Tab. n. 6: Detenuti extra-comunitari in alcuni paesi dell’Unione Europea
1. Percentuale di stranieri extra-comunitari in rapporto alla popolazione locale 2. Percentuale dei detenuti stranieri in rapporto alla popolazione detenuta locale 3. Rapporto tra percentuale dei detenuti stranieri e percentuale di stranieri residenti Oramai
più di un quarto della popolazione detenuta in Europa è costituito da
immigrati a fronte di una presenza straniera residente in Europa che non
supera il 5%, come dire che la selettività penale penitenziaria nei confronti
degli immigrati è perlomeno cinque volte superiore a quella sofferta dalla
popolazione autoctona. Ma per alcuni paesi questo indice di selettività nei
confronti degli stranieri è enormemente più elevato: in Spagna e Grecia è
più di 20 volte e in Italia più di 14.
6.
Torniamo allora ai processi di ri-carcerizzazione presenti oggi in Italia
Posso
capire l’insofferenza che questo mio ragionare è destinato a provocare in
molti. Ben pochi sono infatti disposti ad accettare il costo della repressione
come una calamità naturale, a cui non resta che rassegnarsi. E nel nostro
caso, rassegnarsi equivarrebbe a costruire nuove carceri. Neppure io sono
disposto a rinunciare all’idea che la repressione appartenga alla sfera
della decisione politica. La questione, pertanto, non è se si debba
politicamente reagire a queste tendenze, ma come reagire se si vuole
effettivamente governare i processi inflativi in atto. Mi
rendo nel contempo conto che l’apporto che può fornire la scienza è allo
stato attuale della ricerca assai povero. Voglio ripetermi sul punto che
ritengo essenziale: in assenza di un modello esplicativo convincente che sia
in grado di dare conto del processo "mondiale" di ri-carcerizzazione, le
ipotesi che si possono avanzare in ogni singolo contesto nazionale e
contingentemente a periodi determinati, sono appunto solo ipotesi e nulla di
più. Per
quanto concerne l’attuale situazione italiana la mia ipotesi può essere
sintetizzata in due proposizioni "in negativo" che peraltro ho già
esplicitato in precedenza, e una "in positivo". Quelle
negative recitano: 1. il governo politico della penalità nei fatti non mostra
di esercitarsi efficacemente attraverso la sola leva della penalità in
astratto; 2. la penalità in concreto sembra assai marginalmente condizionata
dall’andamento della criminalità. Più o meno severità nei codici, più o
meno misure alternative nell’ordinamento penitenziario, più o meno
depenalizzazione nelle leggi, tutto ciò non mi sembra possa tradursi
immediatamente in più o meno gente in prigione. Così come variazioni
significative nel tempo dei tassi di criminalità (sia di quella apparente che
di quella "oscura") non risulta determino livelli proporzionati di
repressione. Infine
quella "in positivo" afferma: il processo di ri-carcerizzazione oggi in
Italia è prevalentemente agito del modo in cui il sistema della politica e
della comunicazione sociale traduce ed interpreta i bisogni sociali di
rassicurazione e di integrazione di fronte alla conflittualità. In buona
sostanza, questa tesi vuole indicare il ruolo decisivo del "vocabolario"
che si utilizza nella comunicazione sociale per la produzione di consenso ed
integrazione. Orbene:
se i processi di integrazione e rassicurazione sociale vengono declinati
prevalentemente attraverso il vocabolario punitivo, cioè della censura
sociale attraverso l’esercizio della penalità, il sistema della repressione
corre il rischio di elevare la propria produttività. E certo possibile che
all’interno di questo processo, anche la leva della criminalizzazione
primaria si faccia più severa, ma ciò avviene "conseguentemente" e
all’ "interno" del processo sociale sopra descritto. Così come è
possibile che l’imporsi di un vocabolario punitivo nella comunicazione
sociale, renda più "sensibile" l’opinione pubblica e le agenzie di
controllo sociale nella registrazione dei fatti criminali, determinando una
lievitazione dei tassi di criminalità manifesta, ma anche in questo caso non
è l’aumento della criminalità a determinare l’aumento della repressione,
ma piuttosto l’aumento di questa accompagna coerentemente il prodursi della
domanda sociale di penalità. Ho
maturato la convinzione che in questi ultimi anni in Italia il vocabolario
punitivo sia progressivamente venuto imponendosi nella comunicazione sociale e
politica, sostituendo o comunque relativizzando altri vocabolari, con
l’effetto di produrre coesione sociale nella produzione di maggiore penalità. Ora, le nuove tendenze alla ri-carcerizzazione necessitano di una ri-definizione degli scopi stessi della pena, nel senso che ad una rinnovata produttività carceraria non può che accompagnarsi una nuova cultura penologica, anche se questa emergente narrativa carceraria non sempre è facilmente individuabile.
7.
Anoressia e bulimia
L’ultimo
J. Young dedica alcune pagine interessanti nella descrizione delle differenze
tra società della inclusione e società dell’esclusione, facendo esplicito
riferimento ad una felice intuizione di Levi-Strauss. Da un punto di vista
esterno - ci ricorda il grande antropologo francese - le società sembrano
atteggiarsi in due modi opposti di fronte a chi è "sentito" come
pericoloso: o sviluppando un atteggiamento cannibalesco, cercano di fagocitare
chi è avvertito in termini di ostilità, nella speranza così di
neutralizzarne la pericolosità attraverso l’inclusione nel corpo sociale; o
esasperando le pratiche di vero e proprio rifiuto "atropemico", vomitando
al di fuori di sé tutto ciò che è socialmente sofferto come estraneo. Ma,
come precisa J. Young, ogni società è ugualmente afflitta sia da anoressia
che da bulimia, cioè ogni organizzazione sociale esclude ed include nel
medesimo tempo, determinando contingentemente una soglia di tolleranza, oltre
alla quale non c’è più inclusione ma solo esclusione. Ciò che importa è
riuscire ad intendere ove questa soglia si situa o arretra e perché essa non
riesca ulteriormente ad estendersi. I confini mobili della esclusione/inclusione sono governati da una pluralità di cause e nessun modello esplicativo per quanto complesso è in grado, per ora, di dare conto di tutte e della loro interazione. Qualche cosa però di descrittivo dei modi in cui si costruisce la società dell’esclusione, è possibile invece già da ora conoscere. Vediamo i principali. 8. Da una penologia "dall’alto" ad una "dal basso" Un
dato a cui si presta poca attenzione: il carcere - nella sua bisecolare storia
- è stata prevalentemente egemonizzato da retoriche elitarie, nel senso che
la legittimazione di questa modalità di punire - per ragioni di prevenzione,
sia generale che speciale - è risultata essenzialmente appannaggio di
movimenti culturali e politici minoritari, spesso composti da soli
professionali, animati sovente da intenti progressisti, che hanno espresso
sulla pena e sul carcere un punto di vista di parte. Per quanto di parte e
minoritario all’origine, questo punto di vista si è storicamente imposto
nelle politiche penali e penitenziarie: in alcune realtà - penso agli Stati
Uniti d’America - ciò si è determinato anche attraverso processi di ampia
condivisione democratica; in altre - penso all’Italia - lo stesso si è
realizzato sovente per astuzia giacobina. In
Italia, non mi risulta che nel passato il carcere sia mai stato condiviso da
culture diffuse e popolari. Insomma: il carcere non ha mai avuto
sociologicamente una legittimazione democratica. E neppure, forse, la pena e
il sistema penale nel suo complesso. E difficile pensare che l’idea del
carcere come extrema ratio, ovvero del carcere che rieduca abbia mai potuto
incontrare un consenso sociale diverso da quello guadagnato all’epoca del
Beccaria dalla proposta di abolire la pena di morte. Ma
ciò vale per il passato. Nel presente, le cose stanno cambiando. La
topica carceraria vive oggigiorno la singolare avventura di essere
diversamente intesa e spiegata. Quantomeno due distinte retoriche leggono la
sua presenza. La
prima - oggi in crisi - è quella appunto elitaria, di carattere
prevalentemente progressista; la seconda - oggi in forte crescita - è invece
più vicina al modo di intendere della maggioranza, apparentemente più
democratica, certamente più populista. La
prima lettura - si è detto - è oggi fortemente in crisi, anche perché non
riesce ad uscire da un stato di depressione profonda. Essa si esprime
prevalentemente sulle riviste scientifiche, nel linguaggio della
giurisprudenza nella voce di chi ha responsabilità istituzionali. Questa
narrativa penologica oggi sopravvive raccontando la propria nevrosi: il
lamento di fronte ad una pena che nei fatti non è come avrebbe dovuto essere.
Da qui il palese imbarazzo di fronte a qualche cosa che sempre più appare
come scandaloso. Non solo - e forse non tanto - perché il carcere "non
funziona", quanto piuttosto perché la pena carceraria si è storicamente
imposta nell’illusione delle sue incontestabili virtù. E nella fede in
queste, si è edificato l’intero sistema della giustizia criminale e la sua
legittimazione. E’ difficile immaginare di potere fare a meno del carcere al
di fuori di un’idea diversa di giustizia penale. L’invenzione
penitenziaria, infatti, si celebra nella sua presunta capacità di dare piena
soddisfazione alle necessità di un sistema moderno di giustizia penale, cioè
ad una giustizia uguale, mite ed utile. Constatare che a fronte di questi fini
ideali della pena, le funzioni materiali del carcere sono invece quelle
determinate dalla produzione e riproduzione della diseguaglianza sociale,
attraverso l’irrogazione di una violenza segnata da elementi irriducibili di
crudeltà e con effetti di elevata nocività sociale, induce al pessimismo
penologico, ulteriormente esasperato dalla constatazione di non possedere
alcuna strategia valida per un effettivo contenimento o abolizione di questa
modalità di infliggere la pena, sempre che si convenga sulle necessità e/o
opportunità, presenti e future, di un sistema legale di penalità. Il
secondo discorso penologico - oggi in forte crescita - non mostra alcun
imbarazzo di fronte al carcere. Esso è certo della utilità della pena
detentiva, anche se invoca modalità nuove di applicazione della stessa.
Questa "nuova" idea di penalità appare sovente rozza nelle sue estreme
semplificazioni e comunque non ama celebrarsi in discorsi accademici. Essa si
esprime nei discorsi della gente. E parla direttamente alla gente nelle parole
dei politici prevalentemente attraverso i mezzi di comunicazione di massa; ma
si diffonde e finisce per articolarsi in topiche che trovano - o cercano di
trovare - anche una loro legittimazione scientifica. E ovviamente non manca
chi si cimenti scientificamente nell’impresa. Si sta diffondendo oggi una
cultura postmoderna e populista della pena, che pone, forse per la prima
volta, la questione di una penalità socialmente condivisa "dal basso". Credo
che per un complesso di ragioni comprensibili, ma difficilmente
giustificabili, in Italia la cultura scientifica presti poca attenzione a
questa nuova cultura della penalità legittimata "dal basso", di cui è
imprudente dire che sia sempre "di destra".
9.
"Economie dell’eccesso" e
castighi smodati
La
filosofia della penalità moderna si è fondata su una "economia della
parsimonia". Un esercizio del castigo vincolato a criteri tanto di
autolimitazione sistemica (quelli garantistici della "pena minima") che di
limitazione extra-sistemica (quelli finalistici della "pena utile"). Come
dire che anche la sofferenza legale moderna deve sottostare alla logica del
risparmio e dell’investimento. E in ciò forse si coglie l’elemento più
radicale di contrapposizione con la pena pre-moderna, quella - come ci insegna
Foucault - segnata appunto dalle virtù diseconomiche della magnificenza,
dell’ostentazione e della dissipazione. Possiamo
interrogarci se la penalità nella post-modernità - nonostante l’enfasi
posta sui valori della razionalità burocratica, della efficienza e del
calcolo - finisca per dovere fare affidamento ad una "economia
dell’eccesso" dei castighi , insomma ad una penalità squisitamente
espressiva. L’ipotesi
è suggestiva e su essa merita riflettere. In
effetti - e con ciò ritorno a quanto accennato in precedenza - quanto oggi
sembra potersi cogliere come elemento nuovo è la perdita progressiva di peso
delle élite intellettuali a favore di quelle politiche sulla cultura della
penalità. E nei sistemi democratici, forse per la prima volta la penalità
diventa oggetto significativo (in alcuni casi persino il principale) dello
scambio politico tra elettori ed eletti, tra opinione pubblica e sistema della
politica. E in ciò forse è possibile cogliere un profilo di
democratizzazione della politica criminale, sia pure nel senso nuovo offerto
dalla "democrazia d’opinione". Ma
ciò su cui non si è sufficientemente riflettuto sono le precondizioni
materiali che hanno reso possibile questo processo di emergenza di una domanda
di penalità "così come la vuole l’opinione pubblica", a cui in qualche
modo il sistema della politica è oggi costretto a dare una qualche risposta. I
cittadini delle democrazie occidentali debbono confrontarsi con una esperienza
nuova - soprattutto se consideriamo i livelli di sicurezza dalla criminalità
nella seconda parte del XX secolo - che si può ritenere strutturale ai nuovi
processi di globalizzazione: il rischio da criminalità si sta diffondendo
(nel senso di "spalmando") ed espone oramai la maggioranza dei cittadini e
reiteratamente all’esperienza vittimologica. La nostre società sono e
sempre più saranno high crime societes, ove il rischio criminale per
attentati alla proprietà non sarà più ristretto a pochi - in buona
sostanza, come nel passato, ai membri della uperclass - ma esteso alla
maggioranza dei consociati. Le politiche di "legge ed ordine" e "zero tollerance" si iscrivono pertanto all’interno di un orizzonte miope di riproposizione di vecchie ricette a nuovi problemi. In assenza di una cultura adeguata per una società ad elevato rischio criminale si finisce per rispondere ai diffusi rischi criminali con lo strumento della penalità diffusa. Ma la scorciatoia repressiva presto si mostra illusoria: per quanto si possano elevare i tassi di carcerizzazione e penalità essi si mostreranno sempre inadeguati e per difetto a quelli della criminalità di massa, come abbiamo potuto intendere nell’analisi critica delle strategie della incapacitazione selettiva. Da qui il rischio che la penalità sfugga progressivamente ad ogni finalismo utilitarista e ad ogni criterio razionale, per celebrarsi unicamente in una dimensione espressiva. E diventare pertanto smodata. Un eccesso di penalità, in un primo momento, a fronte di un eccesso di criminalità; una penalità simbolica (come la pena di morte, ovvero pene detentive draconiane in carceri di massima sicurezza) - in una seconda fase - di fronte all’amara constatazione che più penalità non produce più sicurezza dalla criminalità.
10.
La pena "fondamentalista" e le emozioni collettive
E’
interessate notare come la deriva obbligata verso una penalità smodata
finisca per liberare la stessa giustificazione della pena da ogni solido
ancoraggio a rigorose valutazioni tecnocratiche; essa finisce per essere di
nuovo attratta verso un oceano di giustificazioni ideologiche. Si
pensi, ad esempio, alla ripresa delle teorie neo-retribuzionistiche; esse, in
termini per la verità alquanto semplicistici, si richiamano al vecchio
arsenale giustificativo della meritevolezza della pena, che, con riferimento
esplicito al comune sentire della gente, afferma l’esistenza di un referente
sicuro - per quanto storicamente e culturalmente determinato - sul fondamento
del quale è possibile determinare la pena in concreto come quella socialmente
meritata. Ma il riferimento ad un concetto di meritevolezza non viene più
operato nella prospettiva di porre dei limiti al potere discrezionale nella
commisurazione della pena, quanto di agganciare questa al public panic. Tentativi
apparentemente più seducenti, ma sostanzialmente identici nelle conseguenze,
sono quelli oggi particolarmente apprezzati dalla dottrina penalistica di
formazione tedesca che teorizzano - in ossequio alle teorie luhmaniane - una
funzione di "pedagogia sociale" alla pena.
Questi approcci utilizzano nello specifico della giustificazione della
pena la concezione del diritto come strumento di stabilizzazione del sistema
sociale, di orientamento dell’azione e di istituzionalizzazione delle
aspettative. Al centro dell’attenzione è in particolare il concetto della
fiducia istituzionale, intesa come forma di integrazione sociale che, nei
sistemi complessi, sostituisce le forme spontanee di affidamento reciproco
degli individui nelle comunità elementari. La reazione punitiva alla
violazione della norma avrà, in questa teoria, la sola funzione di
ristabilire la fiducia e di prevenire gli effetti negativi che la violazione
di norme produce per la integrazione sociale. Ne consegue che si punisce non
per retribuire un male con un altro equivalente male, e neppure per dissuadere
i potenziali violatori a non delinquere; si punisce perché attraverso la pena
si esercita la funzione primaria che è quella di consolidare la fedeltà vuoi
nei confronti del diritto, vuoi nei confronti dell’organizzazione sociale da
parte della maggioranza. La
giustificazione del diritto di punire ritorna così alla sua primitiva
origine, a quella fase che precedette la rottura imposta dalla modernità, cioè
ad una penalità liberata nei suoi contenuti e nelle sue forme da ogni vincolo
razionale. Una sorta di regresso, quindi, ad una "penologia
fondamentalista".
11.
Il business penitenziario…quale scandalo? Non
ho elementi sufficienti per riconoscere una "chiara" tendenza italiana
alla privatizzazione del controllo sociale penale sul modello appunto
suggerito dalla letteratura penologica internazionale con riguardo prevalente
a quanto occorso nelle ultime due decadi negli USA e solo in parte in
Inghilterra. Qualche sospetto sì, ma appunto solo qualche sospetto. E il
tempo come sempre sarà anche su questo punto galantuomo. Mi
sembra invece, più plausibile, sostenere che un’ipotesi di privatizzazione
nelle politiche penal-penitenziarie sarebbe comunque uno scenario di sviluppo
coerente alle tendenze in atto e precedentemente descritte. Ma altri scenari
sono altrettanto possibili ed alcuni anche altrettanto coerenti. Insomma: se è ancora incerto se mai il mercato privato in Italia assumerà (o conquisterà) in parte compiti di governo della penalità, quello che risulta invece abbastanza certo è la condizione che precede e determina un eventuale interesse privato alle politiche di gestione della penalità, vale a dire la crescita economica esponenziale dei costi che necessariamente accompagna e sempre più accompagnerà i processi di ricarcerizzazione. Mi spiego: in termini di bilancio, sempre più risorse verranno liberate dai settori tradizionali del welfare state per essere utilizzati nei comparti propri di un nascente prison state. Insomma, si stanno determinando le condizioni materiali per il business, anche se solo nominalmente sarà un nuovo business. A ben riflettere, almeno in Italia già da tempo il governo della problematicità sociale è prevalentemente un affare egemonizzato dall’imprenditorietà privata. Anziani, tossicodipendenti, homeless, sofferenti psichici e altre forme di marginalità sociale sono già da tempo oggetto di una imprenditorialità, certo "sociale", ma alla fin fine capace di produrre anche profitto. Se il to care è stato l’affare d’oro dell’era del
welfare state, l’imprenditorialità capace di fornire know how in tema di
controllo e sorveglianza può ragionevolmente aspirare a fare buon affari
nell’era del prison state. Questa prospettiva è meno scandalosa di quanto
apparentemente si creda. Non suoni stupidamente provocatorio: ma se ci siamo "fidati" del privato nella produzione di servizi tanto "delicati" quali fare uscire i nostri giovani dal tunnel della droga, assistere i nostri vecchi inabili, curare i nostri sofferenti psichiatrici, ecc., perché non dovremmo fidarci nell’assegnare al privato quote significative di controllo e sorveglianza dei nostri trouble-makers?
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