Prefazione

 

Prefazione al "Rapporto sulle carceri" dell'Associazione Antigone

di Mauro Palma

 

Il fratello del filosofo Jeremy Bentham aveva progettato una Casa d’ispezione particolare: un edificio circolare con la residenza dell’ispettore al centro, posto in modo tale da poter sorvegliare cosa avvenisse all’interno di ciascuno degli ambienti che si aprivano lungo la circonferenza. L’originalità del progetto aveva poi spinto il filosofo a proporlo come schema per costruire edifici adibiti a particolari funzioni, quelle di «punire i criminali, incalliti, sorvegliare i pazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare gli oziosi»; non solo, ma anche di «mantenere gli indigenti, guarire i malati, istruire quelli che vogliono entrare nei vari settori dell’industria o fornire l’istruzione alle future generazioni».

La sua proposta, espressa in forma di lettera nel 1787, consiste nel prevedere un edificio, il Panopticon, il cui scopo è «tanto più perfettamente raggiunto se gli individui che devono essere controllati saranno il più assiduamente possibile sotto gli occhi delle persone che devono controllarli». È il paradigma del controllo occhiuto in una società razionalmente disciplinare in cui l’assoluta visibilità - o quanto meno la sensazione di essere sotto continua vigilanza - è condizione essenziale per l’esecuzione della propria funzione regolativa. Non è soltanto una sorta di modello architettonico - a cui pur si rifarà molta progettazione penitenziaria - ma una metafora della stessa funzione punitiva.

Sarà Michel Foucault a evidenziare la teatralità insita nel progetto, a cogliere l’elemento scenico di tante piccole gabbie in cui «ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile»: è quasi un’eco che da queste note ci rinvia alle gabbie del nostro oggi. Vedere senza interruzione, rovesciando due dei tre capisaldi su cui era organizzata l’antica "segreta": non si è più né nascosti né privi della luce. Resta il terzo: si è rinchiusi. E ciascuno, rinchiuso, è reso visibile al sorvegliante, non agli altri perché impedito da muri laterali, ed è la coscienza della propria visibilità ad assicurare il funzionamento del potere: una somma di individualità visibili a chi sorveglia, ma impossibilitate a costruire collettività e, quindi, atomizzate e continuamente de-individualizzate.

Questo mondo del continuo vedere può a sua volta essere visto? Qual è la sua possibilità di essere osservato dall’esterno la sua visibilità? E quali meccanismi induce nel suo funzionamento la percezione di essere a sua volta visto, controllato, guardato?

Nelle diverse risposte a questi interrogativi risiede forse il passaggio da istituzioni segregativi di mero contenimento e strettamente retributive, la cui finalità è restituire all’autore un male simmetrico a quello prodotto, a istituzioni segregative che individuano una qualche utilità nella propria funzione, ponendosi comunque l’obiettivo di riannodare i fili che la commissione di un reato ha reciso.

Le prime hanno desiderio di vedere, ma non hanno necessità di essere viste, le seconde hanno bisogno di sguardi a esse esterni perché è proprio nel rapporto con il "fuori" che realizzano la propria funzione.

Osservare dall’esterno il sistema penitenziario in uno stato democratico ancor più nel nostro caso, in cui la finalità non strettamente reclusoria, bensì rieducativa, è sancita dalla stessa carta costituzionale - vuol dire svolgere un’azione in tre differenti direzioni: esercitare una forma di monitoraggio e controllo democratico su un’istituzione che condensa nel suo funzionamento più parametri di lettura del livello di civiltà del corpo sociale; fornire un aiuto a chi in vario modo agisce all’interno del "microcosmo" rappresentato da ogni istituzione totale e che, per dare senso alla propria quotidianità, ha bisogno del punto di vista esterno; rendere visibile a una più ampia platea sociale il mondo del rimosso, del relegato ai margini di una periferia cittadina, sociale, mentale, rinchiuso in un impossibile vaso di Pandora rappresentato dalle mura di una prigione.

Proprio da questa trasparenza può crescere una cultura della tutela dei diritti che accomuni chi opera all’interno di queste istituzioni a chi lavora in altri settori e a chi nelle stesse istituzioni sconta una pena. La cultura dei diritti ha bisogno di una "non-opacità"; ha bisogno di molti osservatori, in una sorta di gioco speculare in cui la sorveglianza totale trova un proprio contrappeso nello sguardo sociale sul sistema.

Del resto la relazione tra osservatore e osservato non è così asimmetrica come può sembrare a una prima frettolosa analisi: sono le stesse scienze del Novecento ad averci insegnato che non si può osservare qualcosa senza evitare di interagire con quanto si osserva, di modificarlo con la stessa attività osservativa. Così è nella fisica contemporanea e così lo è ancor più nei sistemi relazionali complessi: osservare il sistema penitenziario è già agire in esso; è dare un contributo alla sua evoluzione, individuare una direzione alla sua azione; è anche aprirlo all’esterno.

Per questo Antigone ha sempre pensato al proprio Osservatorio sulle condizioni di detenzione in modo non disgiunto dalla propria azione per una trasformazione del carcere: non come un censimento statistico, ma come la formulazione di alcune chiavi di lettura attraverso cui individuare punti critici, elementi di crisi, situazioni in grado di evolvere negativamente, esperienze positive che possano essere generalizzate.

I dati del carcere odierno, la sua costante crescita, la sua composizione sociale, l’opacità verso l’esterno che sembra oggi contraddistinguerlo, la difficoltà di ritrovare in esso il senso del dettato costituzionale non spingono all’ottimismo. Come non spingono all’ottimismo, oggi, in Europa le "fotografie" delle molte e crescenti situazioni nelle quali la libertà viene, per vari motivi, sottratta.

Tuttavia proprio queste nubi di pessimismo portano a ritenere fondamentale la costruzione di continue osservazioni e analisi che tengano vivo lo sguardo su questo luogo panoptico che, nella volontà di vedere, spesso non si rende a sua volta visibile. Uno sguardo di osservazione e anche di aiuto.

 

Mauro Palma

Presidente onorario di Antigone

Componente italiano del Comitato europeo per la prevenzione della tortura

 

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