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Tendenze dell’esecuzione penale di Stefano Anastasia
Improvvisamente, qualche anno fa, uno squarcio ha rotto il velo che protegge (ben più fermamente delle alte mura a ciò destinate) l’opacità del carcere. Era una brutta storia, di aggressione e violenze, in cui guardie e ladri s’eran cambiati divisa. E nel cambio le guardie non si limitavano a trafugare illegittimamente, come fanno i ladri e la gran parte degli ospiti delle patrie galere, ma menavano, eccome se menavano! Lo scandalo nazionale diede modo di far conoscere lo stato delle nostre prigioni, le loro condizioni di degrado, la sofferenza di coloro che vi sono rinchiusi. Per qualche mese si parlò della necessità di riformarle, o almeno di ridurne le inumane condizioni di sovraffollamento. Poi, come usa, la notizia si consumò e orientamenti di segno opposto (non certo di istigazione alla violenza, ma di nuovo investimento sulle capacità di contenimento degli istituti penitenziari) si fecero strada in vista di una importante scadenza elettorale. Da allora, il carcere è tornato nell’oblio. Gli istituti e le vite quotidiane di coloro che vi sono rinchiusi versano nelle condizioni di sempre; il sovraffollamento non è diminuito, anzi è aumentato. Ma nessuno più se ne cura. Come se nulla fosse. In attesa di un nuovo scandalo. Quanti echi sono le persone detenute nelle carceri italiane (la «criminalità punita», dice Massimo Pavarini, alludendo alla resa di un sistema e ad una selettività che non si risolve nelle astratte minacce di pena e nei giudizi di innocenza o colpevolezza); come e perché il carcere e la più vasta area del controllo penale continua a crescere in questo spicchio di mondo a cui apparteniamo; quali i limiti che inducono al fallimento i timidi tentativi riformistici che di tanto in tanto vengono proposti per ridurre il carico di sofferenze che il carcere porta con sé. Questi sono i tarli che ci rodono nel nostro impegno sui temi della pena e del carcere. Di queste cose cercheranno di trattare sommariamente le pagine che seguono, piccola introduzione alla ricchezza di informazioni e di argomentazioni che sono nei capitoli seguenti e che costituiscono il risultato dell’impari sforzo dell’Osservatorio di Antigone sull’esecuzione penale e le condizioni di detenzione e delle persone che vi hanno dedicato generosamente parte preziosa del loro tempo.
1 La popolazione detenuta in Italia
Il 31 dicembre del 2001 erano detenute nelle carceri italiane 55.275 persone. Dal maggio 2001 la popolazione detenuta è rimasta stabilmente sopra il gradino dei 55.000 detenuti, dopo qualche mese a quota 54.000 e un intero anno (il 2000) in cui si è aggirata intorno alle 53.000 unità. Niente a che vedere con l’incremento vertiginoso del 1999 49.000 detenuti a gennaio, 50.000 a marzo, 51.000 ad agosto, 52.000 a settembre, 53.000 a novembre), ma il tasso di detenzione - dopo un anno di stasi - ha ripreso a salire. Per ritrovare dimensioni maggiori nelle presenze in carcere in Italia bisogna risalire fino agli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, quando la popolazione detenuta declinò rapidamente dai 73.818 detenuti del 31 dicembre del 1945 ai 58.402 del 1949. Gli anni Cinquanta hanno poi visto affermarsi la tendenza deflativa nella popolazione detenuta che ci ha accompagnato fino agli anni Settanta. Nella prima metà degli anni Ottanta le presenze in carcere a fine anno tornano a superare le 40.000 unità e solo nel 1993 varcano la soglia delle 50.000. Viceversa, il numero degli ingressi in carcere sembra essere in via di contenimento. Nell’ultimo decennio, il boom degli ingressi in carcere è nel biennio 1993-94, a ridosso del primo sfondamento della soglia delle 50.000 presenze. Da allora gli ingressi sono più contenuti, nonostante il sovraffollamento abbia preso a marciare a ritmi sostenuti.
2 La macchina della giustizia: caratteristiche giuridiche della popolazione detenuta
Al primo luglio 2001 i condannati definitivi costituivano il 55,25 % della popolazione detenuta. Il 2,30 % era soggetto a misura di internamento, mentre il restante 42,45 % era in attesa di giudizio. Nell’ambito dei detenuti in attesa di giudizio, la componente di gran lunga più rilevante è quella in attesa del primo giudizio (12.907, pari al 22,75 % del totale della popolazione detenuta); a quella data gli appellanti erano il 14,08 % e i ricorrenti in cassazione il 5,62 %. Caratteristica tipica del sistema penale italiano è questa grande incidenza della detenzione inattesa del processo. I valori attuali sono assolutamente nella norma, posto che almeno a decorrere dal 1956 raramente i condannati definitivi hanno superato la metà del complesso dei detenuti e quando la percentuale degli imputati si è abbassata al 30-40 % del complesso della popolazione detenuta è stato in correlazione ad alti tassi di internamento. Da registrare è al contrario un leggero aumento dei detenuti definitivi, che si accompagna a un più marcato decremento dei detenuti in attesa di primo giudizio e a un leggero incremento, viceversa, degli appellanti e dei ricorrenti in Cassazione. Nel rilevamento dell’Amministrazione penitenziaria del 31 dicembre 2001, relativo ai reati ascritti alla popolazione detenuta, la principale ragione di detenzione risultava essere la violazione delle norme contro il patrimonio, che ricorreva 42.900 volte e che incideva nella misura del 25,13 % sul totale dei reati ascritti alla popolazione detenuta. Seguono la violazione delle norme del testo unico sulle sostanze stupefacenti (20,91 % sul totale dei reati ascritti) e la violazione delle norme a tutela dell’ordine pubblico (14,99 % sul totale dei reati ascritti) . Infine, i reati contro la persona ricorrono 23.849 volte, per una incidenza del 13,97 % sul totale dei reati ascritti. Vale la pena notare la irrilevanza delle variazioni percentuali relative ai reati ascritti alla popolazione detenuta tra il dicembre 1999 e il dicembre 2001: nonostante il turn-over incessante, nonostante il gran numero di reati previsti dall’ordinamento a cui conseguirebbe la pena detentiva, in carcere ci si va per una decina di tipologie di reati commessi in violazione dei dieci comandamenti laici a cui si affida la nostra società. Tra i condannati definitivi, al primo luglio 2001, 9.860, pari al 31,46 % del totale risultava condannato a una pena uguale o inferiore a tre anni; 6.818, pari al 21,73 % del totale, erano i condannati definitivi a pena compresa tra i tre e i cinque anni; 7.464 i condannati a pene tra i cinque e i dieci anni (il 23,81 % del totale); 4401 i condannati a pene tra i dieci e i vent’anni (il 14,04 % del totale); 1.984 a pene temporanee superiori ai vent’anni (6,33 %) e 828 i condannati definitivi all’ergastolo (il 2,64 % del totale). A contestare la presunta automaticità delle misure alternative alla detenzione, e quindi il presunto lassismo penitenziario che ne deriverebbe, si prestano i dati relativi alla durata della pena residua dei 31.347 condannati definitivi al primo luglio 2001. Ben 9.601 detenuti (il 30,63 % del totale dei definitivi) erano ameno di un anno dal fine pena; in tutto erano il 62,07 % dei condannati definitivi, quelli con un residuo pena inferiore ai tre anni che costituisce la precondizione generale per accedere alla più diffusa delle alternative al carcere, l’affidamento in prova al servizio sociale. Conclusivamente si può dire che le variabili giuridiche della popolazione detenuta riflettono abbastanza fedelmente alcune caratteristiche tipiche del nostro sistema di giustizia penale, del funzionamento della sua macchina, a partire dalla lunghezza dei procedimenti e dalla enorme incidenza dei detenuti in attesa di giudizio sul complesso della popolazione detenuta per arrivare all’ancora scarso affidamento sulle alternative alla detenzione testimoniato da quella maggioranza di potenziali beneficiari che riempiono le carceri italiane.
3 La discarica sociale: caratteristiche extragiuridiche della popolazione detenuta
Nei capitoli successivi saranno affrontate dettagliatamente alcune condizioni soggettive della popolazione detenuta, dalla differenza di genere, alle icone della detenzione di fine secolo (stranieri, tossicodipendenti, sieropositivi e malati di AIDS) e ai mutamenti della composizione della popolazione minorile sotto controllo penale. Vale però la pena di soffermarsi, in una introduzione di carattere generale, su quelle caratteristiche socioanagrafiche della popolazione detenuta che nel recente dibattito sul sovraffollamento penitenziario hanno fatto parlare del carcere come di una "discarica sociale". In effetti la valutazione impressionistica cui operatori e osservatori attingevano nel ricorrere alla definizione di discarica sociale trova significative conferme nell’analisi della composizione della popolazione detenuta; conferme che superano le classificazioni note e "visibili" (tossicodipendenza e immigrazione) e muovono dall’estrazione sociale, dai percorsi formativi, dalle esperienze professionali e, complessivamente, dal grado di inserimento sociale predetentivo. 876 erano al primo luglio del 2001 gli analfabeti in carcere; 4. 682 i detenuti privi di titolo di studio e 16.793 avevano solo la licenza elementare. In totale, sui 48.029 detenuti di cui si conosceva il grado d’istruzione, il 39,39 % non aveva assolto all’obbligo scolastico. 21.115 erano i detenuti con licenza di scuola media inferiore, 1.942 con diploma di scuola professionale, 2.145 con diploma di scuola media superiore e 476 con la laurea. Sul versante lavorativo, 14.165 erano gli occupati prima dell’arresto, contro i 15.595 disoccupati e 1.636 in cerca di prima occupazione. Degli altri, a parte le "casalinghe" (373), gli studenti 429), i "ritirati dal lavoro" (355) e i militari di leva (13), non si ha alcuna notizia relativa alloro inserimento nel mercato del lavoro. Anche se in rami d’attività diversi e abbastanza equamente distribuiti (5.731 nei servizi, 3.929 nell’industria, 3.226 nel commercio, 2.640 nell’agricoltura ecc.), dei detenuti impegnati professionalmente prima della detenzione, 12.721 (il 71,50 % ) ricoprivano la mansione di operaio, 2.262 erano lavoratori in proprio o coadiuvanti, 1436 i liberi professionisti, 828 gli imprenditori e 544 i dirigenti o gli impiegati. Al primo luglio 2001, il 41,15 % delle donne detenute e il 29,62 % degli uomini erano nati all’estero. Ma il Sud del mondo in carcere continua ad essere un’appendice del Sud d’Italia: il primo luglio 2001 il 45,24 % della popolazione detenuta era originaria delle quattro principali regioni meridionali, 8.576 i campani, 8.336 i siciliani, 5.261 i pugliesi e 3.495 i calabresi. Dalle restanti sedici regioni italiane provenivano 13.974 detenuti, pari al 24,63 % della intera popolazione detenuta. Ciò che continua a non quadrare con l’immagine della "discarica sociale" è la distribuzione per fasce d’età della popolazione detenuta: ai vecchi continuano ad essere preferiti i giovani, con una dissipazione di risorse produttive che riecheggia il marxiano esercito di riserva. I "giovani adulti" detenuti, tra i 18 e i 20 anni, sono il 2,87 % del totale. Tra i 21 e i 29 anni vi sono 15.833 detenuti, pari al 27,99 % dei detenuti. 20.876 sono i detenuti fra i 30 e i 39 anni d’età (36,79 % del totale). La curva della popolazione detenuta comincia a decrescere con la fascia dei quarantenni, che vede 11.733 persone detenute, pari al 20,68 % del totale della popolazione detenuta. 6476 sono i detenuti che hanno più di 49 anni d’età (11,41 % del totale) e 241 ultrasettantenni.
4 L’esecuzione penale esterna
Nel corso del 2001 i Centri di Servizio Sociale del ministero della Giustizia hanno seguito 44.607 casi di misure alternative alla detenzione (26.352 affidamenti in prova, 3.597 detenuti in semilibertà, 11.506 casi di detenzione domiciliare, 1.936 persone in libertà vigilata e 1.216 soggette a sanzioni sostitutive) . Anche qui siamo in presenza di un aumento rilevante del controllo penale, particolarmente significativo nel medio periodo, più incerto negli ultimi anni: se dal 1991 al 2001 i casi presi in carico annualmente dai CSSA si sono quintuplicati, occorre sottolineare che il 1999 ha segnato una battuta d’arresto significativa nella diffusione delle alternative al carcere. Già l’anno precedente la grande avanzata delle misure alternative alla detenzione si era inceppata ( 23.426 casi pervenuti a fronte dei 24.968 del 1997), ma il conto complessivo dei casi seguiti (casi pervenuti nel corso dell’anno e casi in carico al suo inizio) risultava ancora maggiore di quello dell’anno precedente (39.406 casi seguiti a fronte dei 38.162 del 1997). Ma nel 1999 la drastica riduzione dei casi pervenuti (19.767) produce una flessione anche sui casi complessivamente seguiti (38.741). Il 2000 e il 2001, viceversa, registrano una ripresa delle alternative alla detenzione che sono già tornati al massimo storico della loro diffusione, sia in termine di concessioni nel corso dell’anno, che di casi seguiti dai CSSA nel corso di un anno. Merita infine di essere segnalato il costante incremento della detenzione domiciliare, su cui torneremo più avanti. Anche negli anni bui delle alternative questa misura ha continuato a crescere nel numero di applicazioni e, nonostante la ripresa nelle concessioni di affidamenti in prova e delle semilibertà, non accenna a contenere il suo peso specifico nella distribuzione delle alternative alla detenzione. Concludendo sull’Italia, le tendenze che le statistiche penitenziarie .confermano sono quelle ad una progressiva espansione del sistema dell’esecuzione penale, sia sotto il versante della popolazione detenuta sia sotto quello dell’esecuzione penale esterna. Sommando l’uno all’altro, l’area del controllo penale è a livelli inediti nella storia dell’Italia repubblicana. La crescita delle alternative alla detenzione, pur incerta negli ultimi anni, si accompagna all’espansione del carcere, non la contiene.
5 Europa e America
Già nel primo Rapporto di Antigone sull’esecuzione penale e le condizioni di detenzione, Massimo Pavarini ci ammoniva dal decontestualizzare la crescita della popolazione sotto controllo penale in Italia. E in effetti la tendenza all’espansione del controllo penale in Italia si inserisce in un generale livellamento verso l’alto dei tassi di detenzione nella gran parte dei paesi europei. Nel decennio 1991-2000, gran parte dei paesi dell’Unione europea registrano incrementi significativi, superiori alle 10 unità, del tasso di detenzione. Si va dal record portoghese, che passa da 82 a 147 detenuti per 100.000 abitanti nel 1998 (ultimo dato disponibile), agli incrementi notevoli dell’Olanda (+ 46), dell’Italia (+ 37), di Inghilterra e Galles (+ 33), della Grecia (+ 27), del Belgio (+ 25), della Scozia (+ 24), della Spagna (+ 22), della Germania (+ 18) e dell’Irlanda ( + 16). Nelle maglie dell’espansione del controllo penale, e specificamente carcerario, cadono dunque gran parte dei paesi europei, da quelli mediterranei fino all’Olanda che Christie ancora nel 1993 citava tra i casi esemplari di un uso limitato della carcerazione. Ma è l’America «il paese che fa tendenza», scrive ancora Christie. Gli Stati Uniti infatti già negli anni Settanta hanno visto invertire la rotta del sistema penale e rilanciare alla grande «l’industria del controllo del crimine», fino ad arrivare in cima alla speciale classifica mondiale dei tassi di detenzione. Secondo Loic Wacquant, l’evoluzione del sistema penale negli Stati Uniti è caratterizzata da cinque tendenze di fondo: l’espansione verticale del sistema;l’estensione orizzontale del controllo penale; l’avvento del «big government» penitenziario; la rinascita e la prosperità dell’industria privata dell’incarcerazione e infine la politica penitenziaria di affirmative action.
Il rapporto percentuale degli adulti sotto controllo penale rispetto al totale della popolazione statunitense è del 2,8 %, che diventa del 4,9 % tra i maschi e del 9 % tra la popolazione di colore. Se 944 sono i detenuti ogni 100.000 abitanti di sesso maschile e di pelle bianca, 6.607 sono i detenuti ogni 100.000 abitanti di eguale sesso, ma di pelle nera; così come se le donne bianche detenute ogni 100.000 sono 73, quelle di colore sono 474 ogni 100.000. Queste tendenze, rileva Wacquant, sono in via di recepimento in Europa, nel passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale.
6 Politiche
Di fronte a queste tendenze, l’insuccesso di alcuni tentativi riformistici, finalizzati alla riduzione del ricorso alla pena detentiva, appare l’esito scontato delle imprese impossibili; ma contro ogni catastrofismo, procediamo con ordine e cerchiamo di leggere le politiche penali e penitenziarie italiane degli ultimi anni in questo quadro più ampio, per capire cosa ha un futuro e cosa ha bisogno di un mutamento di quadro per un futuro possibile. Al di là delle migliori intenzioni, le politiche penitenziarie degli ultimi anni in Italia hanno seguito due filoni, uno di riduzione del ricorso alla pena detentiva, l’altro di miglioramento delle sue condizioni di esecuzione. Da una parte vi sono il potenziamento delle modalità di accesso all’affidamento in prova al servizio sociale previsto dalla legge Simeone - Saraceni e le leggi per le alternative al carcere per i malati di AIDS e per le detenute madri; dall’altra la riforma dell’assistenza sanitaria in carcere, il nuovo regolamento penitenziario e la legge per l’aumento delle opportunità lavorative in carcere. n nostro primo bilancio è il bilancio di un duplice fallimento. Sul primo versante - al di là delle polemiche che hanno accompagnato l’approvazione e la prima applicazione della legge Simeone - Saraceni, culminate nella cancellazione dell’obbligo di notifica in mano propria del condannato della opportunità di richiedere l’accesso all’affidamento in prova prima che la sentenza di condanna a pena detentiva abbia esecuzione - la separazione delle politiche penali dalle politiche penitenziarie ha fatto sì che esso si riducesse alla previsione di misure atte a soddisfare diritti fondamentali di persone comunque implicate nella detenzione (dai soggetti gravemente malati cui si rivolgeva la legge su AIDS e carcere, ai figli delle donne in stato di detenzione). Senza entrare nel merito dei loro esiti non ottimali - anche in ragione della scarsa considerazione che nella nostra cultura politica e giuridica hanno i diritti fondamentali della persona, sempre compensabili con (e quindi sempre limitabili da) astratti diritti alla sicurezza della collettività - ci basta qui rilevare che esse non hanno voluto e potuto intaccare la centralità della pena detentiva, limitandosi a intervenire su aree marginali della sua applicazione con opzioni di buon senso. La partita della riduzione del carcere ad extrema ratio dell’intervento penale si è viceversa consumata nella schizofrenica tendenza di una politica criminale stretta tra una Commissione ministeriale che indicava il potenziamento delle pene alternative come linea di riforma del codice penale e la proliferazione di nuove fattispecie di reato e di innalzamento delle pene detentive nella legislazione ordinaria. In questo modo, è chiaro, la crescita delle alternative al carcere non ha potuto e non può che essere un contributo all’espansione dell’area del controllo penale, senza che ne siano intaccate dimensioni e qualità. Sull’altro versante, quello relativo alle condizioni di vita in carcere e alle sue riforme non attuate, una lettura superficiale consente già di individuarne le ragioni di fondo nel fittizio investimento che su di esse è stato fatto: mutare le condizioni di abitabilità delle strutture penitenziarie o assicurare standard di assistenza sanitaria paragonabili a quelli offerti alla generalità della popolazione a costo zero, senza stanziare fondi a favore dell’una e dell’altra impresa, ne rende non aleatorio il successo, ma certo il fallimento. Ciò detto, a questa lettura di buon senso ne è sottesa un’altra, che dà conto dell’intelligenza di chi ha varato simili riforme senza sostenerle finanziariamente: al fondo, qualsivoglia riforma delle condizioni di esecuzione della pena non può consentirle di sfuggire alla sua dimensione afflittiva e la dimensione afflittiva della pena detentiva non riesce ad essere contenuta nella mera privazione della libertà, essendo ad essa connessa una lunga serie di privazioni esplicitamente previste normativamente, ovvero connaturate alla sua esecuzione all’interno di una istituzione totale, le cui necessità di governo travalicano direi quasi programmaticamente i bisogni di coloro che vi sono costretti. Se e nella misura in cui le politiche penitenziarie non intervengano sugli orientamenti di politica criminale, esse non possono che ridursi a gestire il traffico di esseri umani che sono destinati agli istituti di pena. In questo senso credo che sia utile assumere nella giusta dimensione la rilevanza di pratiche embrionali nel nostro ordinamento e che viceversa in altri paesi del nostro spicchio di mondo hanno un loro relativo consolidamento. Il braccialetto elettronico e la privatizzazione di componenti (strutture, lavorazioni, moduli trattamentali ecc.) del sistema di esecuzione penale, rispondono infatti alla necessità di rendere praticabile l’incremento di scala nella produzione di controllo penale. Sia il braccialetto elettronico che il coinvolgimento di attori privati nel sistema di esecuzione penale si presentano (possono presentarsi - per esempio nel caso italiano dell’affidamento in prova di condannati tossicodipendenti a strutture del privato-sociale) come forme di riduzione del carcere, ma - in assenza di politiche realmente deflative - non ne sono altro che variabili modulari, dotate della necessaria flessibilità di risposta alla domanda di penalità e all’andamento del controllo penale. In assenza di politiche volte alla riduzione della domanda di penalità e alla domanda di carcere, le alternative al carcere finiscono per essere alternative alla libertà per chi sta fuori di esso più che alternative alla detenzione per chi vi sta dentro. In altri termini, la sperimentazione di forme di controllo elettronico sul territorio, così come il coinvolgimento di privati nella esecuzione penale, rispondono a necessità obiettive di gestione di una massa crescente di persone soggette a controllo penale, cui la vecchia struttura carcerocentrica e statalista non dà più efficaci risposte. Se dunque il carcere è impossibile da contenere nella sua illuministica promessa di luogo meramente privativo della libertà e irriformabile, essendo a esso connessa una funzione di produzione di deficit in capo a chi vi viene rinchiuso che lo rende inaccettabile rispetto agli standard della vita quotidiana al di fuori di esso, alla sua progressiva riduzione bisogna rivolgersi per trovare alternative al grande imprigionamento cui stiamo assistendo.
7 Parole d’ordine, fantasmi e strumenti
Il grande imprigionamento italiano ha una parola d’ordine, alcune figure di riferimento e uno strumentario penalistico consolidato. Si tratta anche in questo caso di parole, figure e strumentario che varcano i confini nazionali, producendo gli esiti analoghi lungo l’asse atlantico che abbiamo visto. La parola d’ordine è quella sicurezza su cui si giocano destini ed equilibri politici dei governi nazionali nel mondo occidentale. Il lettore italiano ha presente lo svolgimento dell’ultima campagna elettorale nazionale e la rincorsa reciproca delle due coalizioni contrapposte nel conseguimento del più alto tasso di credibilità nella promozione di adeguate politiche sulla sicurezza. Ma il dibattito nostrano, e soprattutto la centralità della parola d’ordine "sicurezza", ha avuto echi analoghi e conseguenze allarmanti nella campagna presidenziale francese, mentre ricordiamo che il leader laburista Tony Blair è stato l’inventore dello slogan più amato in materia dalle forze della sinistra europea e americana: «duri con il crimine, duri contro le cause del crimine». La parola d’ordine della sicurezza, come ogni parola d’ordine che si rispetti, interpreta un sentimento diffuso, gli offre una risposta simbolica e, ciò facendo, ne semplifica la complessità, traducendosi in slogan che si vorrebbe in se rassicurante. Torneremo più avanti sulla questione della sicurezza e, soprattutto sul suo opposto che la rende così fascinosa. Ci basta in questa sede sottolinearne la funzione ideologica che essa ha assunto, giustificatrice di ogni promessa di impegno contro il crimine o contro le cause del crimine. Dietro di essa vi è un mare di opzioni politiche, ma per poter accedere ad esse, per potersi confrontare su di esse, come a un posto di blocco in terre di confine, bisogna conoscere e pronunciare la parola d’ordine richiesta. Migranti, tossici e minori sono i fantasmi e i motori del grande imprigionamento. La penologia attuariale insegna a selezionare i soggetti a rischio di devianza come destinatari delle politiche di controllo penale. Nel tramonto di ogni finalismo penalistico, il controllo penale attuariale mutua dalla scienza assicurativa i criteri per l’individuazione dei fattori di rischio e vi applica i tradizionali strumenti di incapacitazione, insieme con i più moderni ritrovati tecnologici. Migranti, tossici e minori non sono figure dell’esclusione sociale più di quanto non siano figure dell’estraneità: figure in cui la nostra società non ama riconoscersi, da cui si sente minacciata; figure da neutralizzare con gli strumenti del controllo penale. Wacquant dedica gran parte del suo lavoro alla carcerizzazione dei neri in America, così come alla detenzione degli stranieri in Europa e alla criminalizzazione del consumo di droghe come fattore di selezione dei destinatari del controllo penale. Come è noto, in Italia questi fenomeni hanno assunto dimensioni macroscopiche negli ultimi dieci anni. Ma ora anche qui da noi comincia a sentirsi la pressione per una nuova fonte di rischio da mettere sotto controllo. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia si sono infatti progressivamente diffuse misure di controllo del comportamento dei minori che cominciano ad affacciarsi anche da noi: dopo le prime proposte sull’abbassamento della soglia di imputabilità dei minori, si è giunti a un disegno di legge governativo che intende destinarli quanto prima alle carceri per adulti, levando o riducendo gli sconti di pena che l’ordinamento oggi riserva loro in ossequio alla lettera e allo spirito della Costituzione, mentre, in attesa del coprifuoco, comincia a diffondersi l’idea della videosorveglianza nelle scuole. Lo strumentario del nuovo controllo penale si basa sui ritrovati delle nuove tecnologie e della esternalizzazione del controllo penale, insieme con il tradizionalissimo affidamento sulla durezza della pena. Nel disincanto indotto dalla crisi dei fondamenti del diritto penale, torna con l’amministrativizzazione del controllo penale una durezza di tipo retributivo che si contenta di rendere male per male nella comminazione della pena. Crescono le pene e cresce l’affidamento sulla minaccia della pena detentiva. Ultimo ritrovato è la californiana "three strikes law", di cui viene minacciata l’importazione in Italia.
8 Alternative
Loic Wacquant sembra attribuire principalmente alla responsabilità di potenti think tanks angloamericani l’importazione in Europa dello Stato penale statunitense. E cita in proposito protagonisti e documenti dell’invasione. Non v’è dubbio che una leadership vi sia, nell’espansione del controllo penale così come nella diffusione dell’ideologia e delle politiche neoliberiste, ma questo non può liberarci dalle nostre responsabilità. L’ordito del potere, quale che esso sia, non basta a giustificare l’affermarsi di tendenze così diffuse e profonde nel nostro mondo. C’è una domanda, di carcere e di pena, che va indagata e capita, per essere decostruita e non assecondata. Nella domanda di penalità, variabile tutt’altro che secondaria nella determinazione delle forme e dei livelli effettivi del controllo penale, entra in campo la corpo sa consistenza di quegli immateriali sentimenti di insicurezza che determinano fantasmi, parole d’ordine e politiche concrete del grande imprigionamento. Quella che si riversa sul sistema penale è una penuria sociale di sicurezza ontologica indotta dai processi di sradicamento della società postmoderna, e ad essa occorre rispondere. Come scrive Alessandro Baratta al modello dominante del diritto alla sicurezza, fondato sulla esclusione sociale e sulla riduzione della domanda di sicurezza alla domanda di pena e di sicurezza contro la criminalità, occorre contrapporre il modello della sicurezza dei diritti, fondato sull’inclusione sociale, su politiche democratiche, dirette all’empowerment degli esclusi, sulla decostruzione della domanda di pena nell’opinione pubblica e sulla ricostruzione della domanda di sicurezza come domanda di sicurezza di tutti i diritti. Un simile impegno non è impegno tecnico o per specialisti; non si limita a un lavorio di competenze giuridiche e penalistiche, se anche lo presuppone; un simile impegno è un impegno civile e politico all’altezza delle sfide del nostro tempo, della grande trasformazione indotta dalla globalizzazione nelle istituzioni e nella vita di ciascuno e ciascuna di noi. Questo libro vuole essere un piccolo contributo in questa direzione.
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