In giro per il mondo

 

In giro per il mondo,

di Susanna Marietti

 

Afghanistan

 

Inutile raccontare le ben note condizioni di segregazione e discriminazione nelle quali vivevano le donne afghane sotto il regime talebano. Un episodio per tutti: il 25 febbraio 2001, a Kandahar, dopo il via libera del mullah Omar, due donne che avevano tradito i rispettivi mariti sono state lapidate in piazza davanti a migliaia di persone, affinché la loro morte servisse da monito.

Dieci uomini che avevano tradito le loro mogli hanno ricevuto, invece, 39 frustate a testa. Ma anche le prigioni del Panshir, dove sono rinchiusi molti taleban, fanno registrare alcuni dati. Nell’agosto del 2001, il carcere di Du How - uno dei più grandi della regione, considerato una prigione modello - ospitava nelle sue nove celle, di circa dieci metri per quattro, 293 taleban e 19 stranieri, molti dei quali, carenti di conoscenze altolocate, vi abitavano da anni dimenticati dal mondo.

Nello scenario della guerra, è impossibile non ricordare il massacro di prigionieri avvenuto a Mazar-i-Sharif tra 24 e il 27 novembre 2001. Dopo la resa di Kunduz, i prigionieri - taleban, afghani e stranieri - erano stati trasferiti nella fortezza di Qalai Janghi, alle porte della città. È qui che un ammutinamento viene stroncato con uno sterminio dalle truppe del comandante Dostum, custodi del carcere. Oltre 600 sono i morti: dalla prima all’ultima delle persone rinchiuse nella fortezza. Perdono la vita anche un agente della Cia - Johnny Spann, 32 anni, il primo statunitense morto durante i combattimenti in Afghanistan - e una quarantina di militari dell’Alleanza del Nord. Le televisioni di tutto il mondo mostrano le immagini della strage. Cadaveri irriconoscibili sparsi ovunque.

La maggior parte dei prigionieri, bombardati dall’aviazione e mitragliati dagli elicotteri, hanno trovato la morte sotto le macerie. Altri, che tentavano di uscire dalla fortezza, sono stati abbattuti appena all’esterno. Alcune testimonianze hanno parlato di numerosi cadaveri con le mani legate, prigionieri uccisi probabilmente - nonostante Dostum abbia negato che ciò sia potuto succedere dopo che si erano arresi. Amnesty International ha sollecitato un’ inchiesta volta a chiarire il ruolo giocato dai consiglieri anglo-americani di CIA e SAS presenti sul luogo dell’eccidio. Vi si è opposto però fermamente il presidente Bush: l’intervento militare a Mazar-i-Sharif, ha motivato, va considerato come un atto di guerra, e in quanto tale non è da sottoporre a una simile indagine.

 

Australia

 

La linea dura del governo guidato dal conservatore John Howard nell’affrontare il problema dei profughi ha effetti tangibili nei centri di detenzione. Nel gennaio 2002, una rivolta pacifica rende drammatiche le condizioni di vita nel centro di Woomera, nel cuore del deserto, dove la temperatura sfiora i 40° C. Vi sono rinchiuse 800 persone, principalmente rifugiati afghani, i quali aspettano da mesi che la loro richiesta di asilo politico venga presa in esame.

Alla caduta del regime talebano, infatti, Howard ha deciso di bloccare le domande di accoglienza e puntare invece sul rimpatrio. Grazie a un provvedimento del ministro per l’immigrazione Philip Ruddock, il governo non è ritenuto responsabile per l’eventuale morte di qualche profugo. Inizia uno sciopero della fame che coinvolge 180 persone (ma fonti interne al centro ne contano 370), tra cui !4 donne e 5 bambini. In 35 si cuciono le labbra in segno di protesta. Alcuni tentano il suicidio e minacciano di mutilarsi. "Aiutateci a uscire da questo inferno", dice un messaggio fatto filtrare all’esterno. Anche in altri centri del paese si comincia a rifiutare il cibo, e poco alla volta i rifugiati iniziano a conquistare il sostegno della popolazione contro la politica condotta da Howard. E ancora fresco il ricordo della crisi internazionale sfiorata l’estate precedente, quando il governo si rifiutò di prestare aiuto a profughi afghani ancorati al largo delle COste australiane a bordo di un mercantile. Soltanto la mediazione dell’ONU convinse Howard ad adottare un atteggiamento più morbido.

 

Austria

 

Nell’estate del 2001, trapelano notizie sulla drammatica situazione che si vive nel carcere di Treims. A seguito di ben sei suicidi all’interno dell’istituto, la tensione raggiunge livelli altissimi. I detenuti cominciano uno sciopero della fame. La posta è sotto censura, le notizie all’esterno giungono frammentarie. Si sa poco anche delle condizioni di vita che hanno condotto i sei uomini ad impiccarsi.

 

Brasile

 

Nel febbraio del 2001, nel carcere di Carandirù (Stato di San Paolo), scoppia un’enorme rivolta messa in piedi dal PCC, il Primeiro Comando da Capital, una potente organizzazione di fuorilegge che controlla la gran parte dei penitenziari brasiliani e che si sta ora costituendo come partito politico sulla piattaforma di riformare il sistema penale. Utilizzando cellulari clonati, si danno ordini di insurrezione a 29 penitenziari sparsi in tutto il paese. Decine di migliaia di detenuti prendono in ostaggio 13.000 persone, guardie carcerarie, ma soprattutto donne e bambini, parenti degli stessi carcerati. Dopo 27 ore di assedio la rivolta viene domata, e subito le autorità annunciano che entro un anno la struttura penitenziaria verrà demolita. Sono 19 i morti che rimangono sul tappeto.

Una delle vittime è stata decapitata, un altro cadavere è rinvenuto in un bidone dei rifiuti con ferite di arma da taglio e segni di strangolamento. La televisione ha mostrato tre detenuti disarmati colpiti da agenti di polizia che hanno sparato da un muro sovrastante il carcere. La rivolta termina con un migliaio di carcerati seduti in fila nel cortile della prigione, denudati e con i polsi legati.

Altre insurrezioni, che fanno alzare il numero dei morti, scoppiano nei mesi seguenti in vari istituti del paese. L’11 marzo 2001, ad esempio, nel carcere minorile di Maceio, durante una rivolta scoppiata a causa di voci non confermate su dei possibili aumenti di pena, quattro detenuti sono stati uccisi da alcuni compagni. Un altro episodio: in aprile, in una prigione di Cuiaba, i 368 detenuti prendono in ostaggio 120 visitatori per protestare contro le torture subite e il sovraffollamento (l’istituto non porrebbe ospitare più di 200 persone).

Pochi mesi dopo, domenica 8 luglio 2001, in uno scenario cinematografico evadono da Carandirù 105 detenuti, utilizzando un tunnel di 13 metri scavato da complici esterni che si fingevano operai della rete fognaria. È la terza evasione di massa registrata dall’istituto nel corso dell’ultimo anno. La prigione di Carandirù è la più grande dell’America Latina, ospitando più di 7.000 detenuti, il doppio della capienza prevista. Nonostante la legge prescriva un minimo di sei metri quadri per detenuto, qui si vive in 22 centimetri e si dorme appesi alle sbarre, circostanza che ha valso ai rinchiusi il soprannome di morsegos (pipistrel1i). Nel nono padiglione, il più malfamato, la carnagione degli abitanti assume un colorito giallastro a causa delle condizioni di vita al limite della sopravvivenza, che prevedono la vista della luce solare per sole due ore settimanali.

La situazione del sovraffollamento è drammatica in tutto il paese, i commissariati di polizia sono ormai trasformati in autentiche prigioni dove le condizioni sono forse peggiori che negli istituti. In questi ultimi, le torture sono all’ordine del giorno (la più praticata è l’utilizzo di scariche elettriche agli organi genitali).

Il 2 ottobre del 1992, a seguito di un’insurrezione a Carandirù, la polizia militare, agli ordini del colonnello Ubiratan Guimaràes, entrò nel penitenziario uccidendo più di cento detenuti che già avevano dichiarato la propria resa. Soltanto nell’estate del 2001 il colonnello venne condannato a 632 anni di carcere. Ma solo pochi giorni dopo, giusto all’indomani della grande evasione, avendo fatto ricorso contro la sentenza, Guimaràes ha potuto sfilare di fronte al governatore, tra gli applausi della folla, nel corso dei festeggiamenti per l’anniversario della rivoluzione costituzionalista.

Il 2001 si chiude con un bagno di sangue nel carcere di massima sicurezza di Urso Branco, a Porto Velo, nel nord del paese: il 30 dicembre, almeno 45 sono i detenuti che perdono la vita a seguito di una rivolta sedata dalle forze dell’ordine. La polizia - che parlò di un’orgia di violenza, con corpi mutilati ammonticchiati nelle celle - ha dichiarato che i morti sono stati provocati da combattimenti tra bande rivali.

Segnaliamo infine che, a partire dal 18 novembre 2001, le visite intime che i detenuti potevano ricevere da parte di mogli, mariti e conviventi, sempre comunque di sesso opposto, sono state aperte ai conviventi del medesimo sesso nel caso di coppie omosessuali (per usufruire di questa possibilità, essi dovranno dimostrare di non essere portatori di malattie il cui contagio avviene per via sessuale, prima fra tutte l’AIDS). La sperimentazione riguarda per il momento due penitenziari di Rio. Il potere giudiziario brasiliano ha deciso infatti di accogliere il suggerimento delle associazioni Grupo Gay Atoba e Grupo Gay de Bahia, associazioni molto agguerrite che raccolgono oltre mezzo milione di omosessuali. Si calcola che circa 1.800 saranno i detenuti, di entrambi i sessi, interessati da questa prima fase del provvedimento.

 

Canada

 

A seguito di vari episodi criminali che negli ultimi anni hanno visto come protagonisti dei giovani, si stanno irrigidendo nel paese le misure contro la devianza minorile. Dal 2001 - ma è solo un primo passo - i minorenni non sono più giudicati da un tribunale apposito bensì da quello che giudica gli adulti. Una paradossale vicenda rende ben conto del clima che si respira: un ragazzo di 16 anni - difficile provenienza familiare, qualche problema con le materie scolastiche, qualche lite con i compagni - in un tema per il suo insegnante di recitazione descrive un mondo immaginario nel quale gli sarebbe piaciuto dare fuoco alla scuola per vendicarsi delle prepotenze subite dalle quali l’istituzione non sa proteggerlo.

L’insegnante, letto il racconto, gli consiglia di trovarsi un avvocato. Viene a sapere che altri studenti hanno ricevuto minacce dal ragazzo, avvisa il direttore, il quale chiama a propria volta la polizia. Il 18 dicembre del 2000 il ragazzo viene arrestato. Egli si difende affermando di aver scritto un tema di pura immaginazione e di non aver mai pensato seriamente a danneggiare la scuola. Gli investigatori perquisiscono la sua casa ma non trovano alcun materiale pericoloso. La vicenda desta il clamore dell’opinione pubblica e dopo 32 giorni di prigione - Natale, Capodanno e sedicesimo compleanno compresi, il ragazzo viene rimesso in libertà. Il 29 gennaio 2001, il festival internazionale degli scrittori di Ottawa organizza una serata in difesa della libertà di espressione invitando il ragazzo a leggere sul palco il tema incriminato.

 

Cambogia

 

Nelle carceri costruite dai colonialisti francesi in Cambogia, ex khmer rossi e detenuti comuni vivono in condizioni di vita impossibili. Istituti fatiscenti abbandonati a loro stessi, teatri di continui episodi di tortura messi in atto da poliziotti impuniti. Un paese senza legge, dove spesso viene a mancare qualsiasi forma di assistenza legale. A niente possono i condannati contro le decisioni di giudici corrotti. Nelle diciotto carceri cambogiane, nei dieci centri di riabilitazione e nei cinque istituti non ufficiali, sopravvivono uomini seminudi e malnutriti, ammassati l’uno sull’altro in stanzoni ammuffiti o sotto tettoie che dovrebbero riparare dai diluvi monsonici. Un detenuto su dieci è malato di AIDS, l’assistenza medica è spesso inesistente. Un inferno, contro il quale a poco valgono le lotte delle associazioni dei diritti umani, il monitoraggio dei quali è ancora in Cambogia un compito troppo pericoloso.

 

Cile

 

Il primo giorno dell’anno 2001, tre detenuti minorenni trovano la morte in un rogo provocato nel carcere di San Bernardo, vicino a Santiago, dai reclusi ammutinati per protestare contro i maltrattamenti subiti.

 

Cina

 

Il 18 aprile 2001, una donna è stata condannata a morte per aver venduto del materiale esplosivo a un uomo che un mese prima se ne era servito per vendicarsi di alcuni parenti facendo saltare in aria quattro appartamenti di una cittadina vicina e provocando una strage. La donna, di un villaggio a 200 miglia da Pechino, alla morte del marito avvenuta due anni prima, aveva cominciato - assieme a un conoscente del villaggio, anch’egli poi condannato alla pena capitale - a fabbricare esplosivo casalingo da vendere alle numerose cave della zona. Con due figlie da sfamare, ed ignara che un tale commercio necessitasse un’apposita licenza, ella si adoperava come poteva per provvedere ai bisogni della famiglia. Essendole stata richiesta una quantità di esplosivo del tutto compatibile con le esigenze di una cava, non aveva minimamente sospettato le intenzioni dell’acquirente. Al processo, durato meno di un’ora, si difese facendo presente la sua ignoranza in proposito e ricorrendo in appello, ricorso che venne rigettato dopo soli pochi giorni. I due, assieme all’attentatore, sono stati uccisi con un colpo di pistola alla testa.

La loro storia è emblematica del modo di funzionare della giustizia penale in Cina, dove le sentenze sono spesso basate sulle conseguenze di un reato piuttosto che sulle azioni stesse o sulle buone o cattive intenzioni del reo. Il codice penale, inoltre, lascia alle corti ampia discrezionalità di giudizio, cosicché la maggiore o minore severità delle sentenze dipende in larga misura dal clima politico del momento e dal tipo di reati che di volta in volta si sceglie di perseguire come obiettivo primario. Sono attualmente 68 i reati punibili con la pena di morte, 28 dei quali sono reati non violenti, come ad esempio la frode fiscale. Il numero delle condanne a morte annuali è superiore a quello del resto del mondo messo insieme. Per chi scampa alla pena capitale, la vita carceraria è comunque durissima.

Nell’ottobre del 2000, Abduhelil Abdulrnejit, leader dell’insurrezione degli Uiguri - etnia di religione musulmana che chiede l’indipendenza della regione del Xinjiang - sarebbe stato torturato fino alla morte nel centro di detenzione Chapchal Su. Le fonti ufficiali parlarono di polmonite. Nel luglio 2001, quattordici detenuti membri del Falung Gong - setta religiosa di ispirazione buddhista - si sono suicidati in un campo di lavoro nel nord della Cina, impiccandosi con delle lenzuola. Nel dicembre dell’anno precedente, Arnnesty International aveva denunciato la morte di almeno 77 membri della setta, tra i quali 42 donne, avvenuta durante la loro detenzione o subito dopo la messa in libertà, a partire dal luglio del 1999, data della messa fuorilegge del movimento. Molti di loro sarebbero morti a seguito di torture, o delle lesioni riportate a causa dell’intubazione, mentre subivano l’alimentazione forzata durante lo sciopero della fame. Segnaliamo infine le svariate detenzioni di membri del Partito democratico, fondato nel 1998 e clandestino.

 

Colombia

 

Il 2 e 3 luglio 2001, nel corso di una violenta rivolta nel carcere La Modelo di Bogotà - già teatro di sanguinose sommosse negli anni passati - dieci detenuti perdono la vita e altri quindici rimangono feriti. Il 4 luglio le autorità colombiane instaurano lo stato di emergenza in tutte le carceri del paese. Il provvedimento, che dovrà durare per tre mesi, sospende un certo numero di garanzie tutelate dalla legge. Esso prevede, tra le altre cose, che i responsabili dell’INPEC (Istituto nazionale penitenziario) possano tradurre i detenuti considerati pericolosi da una prigione all’altra senza previo parere del giudice, e lascia ai dirigenti delle carceri la libertà di modificare i regolamenti interni degli istituti.

 

Egitto

 

Nel dicembre del 2000 il Centro islamico di osservazione di Londra denuncia l’uccisione di un detenuto islamico nel carcere Tora del Cairo. L’uomo, di 37 anni, sarebbe morto a seguito delle torture fisiche e mentali subite in prigione. Arnnesty International accusa l’Egitto di praticare la tortura con sistematicità nelle carceri del paese, nonché di detenere senza accuse né processo migliaia di sospetti simpatizzanti dei gruppi islamisti messi fuori legge.

 

Filippine

 

Il 6 novembre 2000, un gruppo di circa 100 guerriglieri del principale movimento islamico filippino (il Moro, che si batte per la creazione di uno Stato indipendente islamico nel sud del paese) attacca con granate e mitragliatrici la prigione di Generale Santos, liberando 68 detenuti. Uno dei prigionieri rimane ucciso, tre guardie e due civili vengono feriti. Il 2 marzo 2001, sessantuno detenuti evadono dal carcere di Agusan del Sur. I fuggiaschi utilizzano uno strettissimo tunnel, che permette il passaggio di una sola persona alla volta. La fuga viene scoperta e alcuni evasi rimangono uccisi dagli agenti carcerari.

 

Francia

 

A seguito della pubblicazione, nel gennaio 2000, del clamoroso libro-testimonianza di Veronique Vasseur, direttore sanitario della Sante, una delle prigioni più vecchie di Parigi - libro che in pochi mesi vende più di 150.000 copie - prende il via un’inchiesta parlamentare sulle carceri del paese. Trenta deputati di tutti i partiti intraprendono una vera e propria ricerca sul campo, che li porta a visitare i 187 istituti penitenziari nei quali a quella data vivevano 53.000 detenuti. Si scopre un mondo dove non regna il diritto bensì il sopruso e la sopraffazione. Le denunce della Vasseur hanno scioccato l’opinione pubblica e imbarazzato i politici, che durante le loro visite si trovano adesso di fronte a scenari inimmaginabili che confermano appieno i racconti del libro.

Parlamentari di ogni tendenza politica restano inorriditi davanti alla sporcizia, alla violenza, alla promiscuità, al rumore da bolgia infernale di cui riferiscono al rientro da alcuni penitenziari. In altri, invece, le condizioni di vita risultano ben migliori. Nei 187 istituti penitenziari francesi, infatti, sono in vigore 187 regolamenti differenti, secondo il principio della totale discrezionalità del direttore. La vita quotidiana del carcere è plasmata quasi interamente sulla sua personalità. Un capitolo particolarmente doloroso risulta essere quello delle prigioni minorili, che ospitano un numero sempre crescente di detenuti e dove la violenza è all’ordine del giorno. Il 5 luglio 2000 vengono presentati i risultati dell’inchiesta, in calce ai quali il Parlamento si impegna a ripensare a fondo i criteri di interpretazione della pena.

Nel marzo 2001, una serie di episodi di malfunzionamento si trasformano in tragedia. Michel Lestage, 58 anni, viene arrestato per scontare un residuo di pena di due giorni, avendo scontato la parte principale durante il periodo di carcerazione preventiva. Per residui di tempo così corti, l’uso è quello di evitare una nuova carcerazione. Ma Lestage viene invece rinchiuso nell’istituto di Bordeax-Gradignan (Gironde), egli viene affiancato come compagno di cella Guislain Yakoro, 23 anni, un detenuto psicotico affetto da una grave forma di delirio paranoico, già protagonista di aggressioni violente all’interno di quella stessa prigione. Le condizioni di Yakoro, riconosciuto in seguito penalmente irresponsabile del suo crimine, sono incompatibili con il regime carcerario. Egli avrebbe comunque dovuto essere destinato ad una cella singola, sotto continua sorveglianza del personale addetto.

La sera del 15 marzo, Yakoro, armato di un arnese di ferro da lui stesso confezionato e sfuggito ad ogni controllo, sgozza il suo occasionale compagno. Il corpo di Lestage, nonostante le ronde notturne, non viene rinvenuto che la mattina seguente, immerso in una pozza di sangue. Il decesso si sarebbe forse potuto evitare qualora i soccorsi fossero stati tempestivi.

Il numero delle persone che vengono incarcerate pur soffrendo di problemi psichiatrici è in continua crescita, e raggiunge oramai il 10% del totale di coloro che entrano in prigione. L’aumento degli episodi di autolesionismo testimonia la gravità di questa situazione. Negli ultimi venti anni, il numero dei detenuti che si sono tolti la vita è quasi triplicato: si passa dai 39 del 1980 ai 104 del 2001. La politica di prevenzione dei suicidi messa in pratica dall’amministrazione penitenziaria francese raccomanda "l’attenta osservazione del detenuto", "la buona circolazione delle informazioni" e "una perfetta collaborazione di personale di sorveglianza, medici ed educatori". Se in alcuni istituti si cominciano a vedere dei buoni risultati in questa direzione, in altri, come è il caso della Gironde, la collaborazione risulta essere del tutto inesistente.

Nel luglio 2001, un violento intervento della polizia nel carcere di Grasse mette a ferro e fuoco la prigione. Più di duecento uomini delle forze dell’ordine fanno irruzione nel penitenziario per reprimere una protesta dei detenuti contro le condizioni di vita nell’istituto, fatta esplodere dal drammatico episodio della morte di un ragazzo, soffocato dai fumi tossici sprigionati dal materasso cui aveva dato fuoco in un momento di disperazione. Dieci feriti, di cui uno grave, e l’infermeria in fiamme sono, tra l’altro, ciò che rimane sul campo di battaglia.

 

Giappone

 

Nei primi mesi del 2001 filtrano alcune notizie sulle procedure silenziose portate avanti dal governo giapponese nei confronti dei condannati alla pena capitale. La scoperta è di una delegazione del Consiglio d’Europa, la prima commissione straniera ammessa ad avere colloqui con le autorità del Giappone. La pratica di raffinata crudeltà che viene alla luce prevede che il condannato non sappia in anticipo quando arriverà il proprio turno per il patibolo, né che lo sappiano familiari, avvocati, parlamento e opinione pubblica. Dopo anni e anni di tortura quotidiana, che le autorità indicano come "pace dello spirito", la sentenza di morte viene eseguita all’improvviso. L’impiccagione - quando non risulta fallimentare, costringendo il boia a strozzare con le proprie mani il mal capitato - prevede in media ventitré minuti di agonia.

Il presidente della commissione, il finlandese Gunnar Jansson, si è sentito rispondere di no dal ministro della Giustizia giapponese Masahiko Komura alle richieste di abolizione della pena di morte (perché l’80% dell’opinione pubblica la vuole conservare), di moratoria delle esecuzioni (perché sarebbe illogica), di poter visitare i detenuti nel braccio della morte (perché disturberebbe la loro pace interiore). Il 23 febbraio 2001, un condannato alla pena capitale di 46 anni, detenuto nel carcere di Fukuoka, è riuscito nel proprio intento di suicidarsi. È solo il secondo caso negli ultimi trent’anni. Le autorità giapponesi, infatti, stanno attentissime a che i condannati non possano togliersi da soli quella vita che è esclusiva proprietà del boia di Stato!

 

Gran Bretagna

 

Nel gennaio 2001, due ex detenuti dell’Ira - l’uno condannato a 15 anni di carcere per possesso di esplosivo, l’altro riconosciuto innocente e liberato dopo aver trascorso in prigione 16 anni - e un detenuto comune fanno causa al ministro degli Interni britannico, chiedendo un alto risarcimento in denaro per i maltrattamenti ricevuti a seguito di un fallito tentativo di fuga dalla prigione di massima sicurezza di Whitemoor. Due di loro hanno poi vinto la causa.

Nel febbraio 2001, Sir David Ramsbotham, allora ispettore capo delle carceri, scrive una durissima lettera al ministro dell’Interno a seguito dell’ispezione condotta dallo stesso Ramsbotham al carcere minorile di Stoke Heath. L’istituto viene indicato come non sicuro per i ragazzi che vi sono ospitati, i quali presentavano evidenti segni di violenze. L’ispettore denuncia i metodi di controllo e immobilizzazione utilizzati dagli agenti carcerari, nonché la totale mancanza di attività costruttive della quale soffrono i giovani detenuti.

Il rapporto in questione fa seguito a numerosi altri che Sir Ramsbotham ha redatto sulle carceri del paese, volti a rilevare le condizioni insostenibili nelle quali versano gli istituti. Si parla di numerosi episodi di violenza, di abuso di potere da parte delle guardie carcerarie e di pesante razzismo nei confronti dei detenuti di colore. Ricordiamo inoltre lo scandalo destato dal carcere femminile londinese di Holloway, dove le detenute venivano costrette a partorire incatenate al letto con mani e piedi.

Nel gennaio 2002, la nuova ispettrice delle carceri Anne Owers compie una visita a sorpresa nella prigione di Dartmoor. Il suo rapporto è durissimo. Si parla di metodi di punizione che sembrano fermi a duecento anni or sono, detenuti terrorizzati dalle minacce degli agenti e rinchiusi in gabbie che sarebbero "ben più appropriate per animali pericolosi".

La scoperta più scioccante, riferisce la Owers, è quella delle gabbie di granito - che un ordine arrivato nei mesi precedenti imponeva di chiudere - nelle quali continuano a venire rinchiusi i detenuti depressi o che minacciano il suicidio. La prima conseguenza del rapporto è stata la sostituzione del direttore dell’istituto. Per quanto riguarda le carceri minorili in particolare, sotto il governo conservatore esse erano divenute delle prigioni di massima sicurezza, nelle quali la violenza era all’ordine del giorno. Il partito laburista aveva a quel tempo promesso che si sarebbe impegnato in una completa revisione degli istituti esistenti, e che mai ne avrebbe edificati di nuovi. Una volta al governo, però, Blair e i suoi hanno invece costruito nuove carceri minorili, dandole in gestione ai privati.

È significativo che, tra gli Stati dell’Europa occidentale, l’uso che la Gran Bretagna fa della prigione sia secondo solamente al Portogallo. All’inizio del 2002, erano quasi 67.000 le persone detenute nelle prigioni inglesi, delle quali oltre 10.500 di età compresa tra i 15 e i 21 anni. È stato stimato, inoltre, che il 60% dei detenuti, una volta espiata la pena, torna a commettere nuovi crimini. Per fare fronte a questa situazione, il primo febbraio 2002 il ministro degli Interni David Blunkett ha presentato un piano di riforma del sistema carcerario secondo le seguenti due direttive: da una parte, sentenze più pesanti rispetto al passato ai condannati per reati violenti e, dall’altra, possibilità di lasciare il carcere nei giorni lavorativi per le migliaia di condannati per reati minori. Questi ultimi, che rientreranno comunque in cella durante i fine settimana e i giorni festivi, indosseranno braccialetti elettronici oppure saranno controllati attraverso speciali dispositivi di riconoscimento vocale. La nuova legislazione antiterrorismo proposta dal governo di Blair dopo l’11 settembre 2001, e non ancora definitivamente approvata, prevede: detenzione senza processo per gli individui sospetti, congelamento dei beni per gli stessi, introduzione dell’incitamento all’odio religioso tra i reati penali.

 

Indonesia

 

Il 14 marzo 2001, la polizia interviene nel carcere di massima sicurezza di Cipinang (Giakarta), dove era in corso una protesta dei detenuti contro il trasferimento di una cinquantina di compagni ad altre prigioni. L’istituto di Cipinang, con una capienza di 1.800 persone, ne ospitava allora 2.300. I rivoltosi misero a fuoco tre edifici, tra i quali uno dell’amministrazione dove tutti i documenti e i registri andarono bruciati. li bilancio dell’intervento della polizia fu di un morto e quattro feriti.

 

Iran

 

Nel febbraio 2001, sei giovani fra i 18 e i 27 anni vengono condannati ad un totale di 1.175 frustate per aver avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio e per aver consumato dell’alcol. La punizione è così ripartita: ciascuno dei condannati riceverà 99 frustate per il sesso proibito e 80 per l’alcol. Tre di loro che, ubriachi, avevano picchiato un vicino di casa e rotto i vetri delle finestre dell’ufficio di polizia dove erano stati rinchiusi saranno sottoposti ad altre 101 frustate complessive.

Nell’ottobre 2001, una donna, condannata tra il disprezzo generale per adulterio e per aver ucciso il marito insieme al proprio amante, è stata lapidata nella prigione di Evin a Teheran, teatro di varie impiccagioni nel corso dell’anno. Al complice, perdonato dai familiari della vittima, è stata inflitta una pena di dieci anni di reclusione. A Karaj, una città poco distante dalla capitale, una ragazza di 17 anni ha ricevuto cento frustate per essere scappata di casa ed aver avuto rapporti sessuali al di fuori del matrimonio.

 

Kenya

 

Alla fine del 2000, nel carcere di Nyeri, a circa cento chilometri da Nairobi, vengono trovati morti sei detenuti, ufficialmente uccisi durante un tentativo di fuga. Da perizie mediche successive viene fuori che gli uomini sono morti a seguito di percosse, ma subito la verità viene messa a tacere.

Il primo ottobre del 2001, in alcune celle insanguinate di un commissariato alla periferia di Nairobi, vengono rinvenuti sei cadaveri, con arti fracassati e sintomi di soffocamento. Altre 18 persone risultano ferite. La polizia parla inizialmente di una rissa fra reclusi, ma le indagini scoprono che si è trattato di un pestaggio condotto dagli agenti con premeditazione. Gli abitanti della zona sono concordi nel riferire due ore di grida disperate udite la sera innanzi provenire dal commissariato. Un mese prima, nel medesimo posto di polizia, un altro recluso era stato trovato morto in circostanze analoghe.

 

Messico

 

Nell’ottobre del 2001, quattordici boss del narcotraffico rinchiusi nel carcere di massima sicurezza La Palma, a 70 chilometri da Città del Messico, iniziano uno sciopero della fame per protestare contro le loro condizioni di detenzione e il rigido isolamento. Essi firmano un documento nel quale denunciano violazioni di diritti umani. Alcuni arrivano a cucirsi le labbra in segno di protesta. Qualche mese prima, una rete televisiva aveva mandato in onda delle riprese effettuate all’interno delle celle all’insaputa dei reclusi che ne erano protagonisti, provocando la protesta immediata delle associazioni per i diritti umani e dei familiari. Nelle immagini si vedevano anche rapporti sessuali tra i detenuti.

 

Nigeria

 

Una diciassettenne che aveva avuto rapporti sessuali extraconiugali viene condannata da un tribunale islamico a 180 frustate. La pena viene sospesa a causa della gravidanza della ragazza, e diviene esecutiva nel dicembre del 2000, a parto avvenuto.

 

Norvegia

 

Nel 1993 un uomo, allora ventinovenne, viene arrestato per traffico di stupefacenti. Di origine colombiana, era stato chiamato in causa da un connazionale. Trascorre quasi quattro anni in carcere prima di venire riconosciuto innocente. Nel marzo del 2001, ottiene dalla Corte Suprema un risarcimento record: quasi 800 milioni di lire, da sommarsi al denaro già versato alla moglie e ai figli per i danni subiti a causa dell’errore giudiziario.

 

Perù

 

Il primo febbraio 2001, il carcere Canto Grande di Lima è teatro di un’enorme rivolta che coinvolge circa 700 detenuti, organizzata per far sapere che il leader di Sendero Luminoso, Abimael Guzman, è in sciopero della fame. I rivoltosi, che prendono il controllo di tetti, cortili e corridoi dell’istituto, manifestano in solidarietà con Guzman Iparraguirre che, dal carcere di massima sicurezza di El Callao nel quale si trova dal 1992, chiede un incontro con il ministro della Giustizia.

 

Russia

 

Superando il milione di detenuti, le carceri russe sono tra le più affollate del mondo. Il parlamento di Mosca, non riuscendo a mettere in pratica una politica più accorta e a lungo respiro, si vede costretto a votare un provvedimento di amnistia ogni paio d’anni, con l’unico scopo effettivo di svuotare le carceri. Amnistie generalizzate si sono viste nel 1995, 1997, 1999, 2000.

 

Turchia

 

Il 19 dicembre 2000, un violento intervento militare che interessa 20 carceri turche lascia sul campo 30 detenuti morti e almeno 15 scomparsi. Il governo inneggia orgoglioso al trionfo della legalità contro il DHKP - C (Fronte rivoluzionario popolare di liberazione), un’organizzazione di estrema sinistra dichiarata fuori legge dallo Stato turco.

Nel mese di ottobre era cominciata un’estesa mobilitazione, con uno sciopero della fame ad oltranza intrapreso da centinaia di detenuti, per protestare contro le condizioni disumane del sistema penitenziario turco, che vede i reclusi vittime di continui abusi e a volte confinati nel più assoluto isolamento, situazione che frequentemente conduce alla pazzia. In particolare, la protesta si rivolgeva contro l’apertura di nuove carceri a celle singole denominate "F" (le cosiddette "bare"), con le quali il governo turco mette in pratica il proprio piano di segregazione dei prigionieri politici, ufficialmente per evitare assembramenti pericolosi ma secondo i detenuti per lasciare mano libera agli abusi delle guardie carcerarie.

Di quei drammatici quattro giorni del dicembre seguente si hanno resoconti molto divergenti. Le forze dell’ordine sostengono di non avere utilizzato metodi violenti più di quanto fosse strettamente necessario: via dal carcere Bayrampasa di Istanbul arrivano i racconti di alcuni detenuti, raccolti dai loro avvocati e resi noti. Le forze dell’ordine, si dice, hanno cominciato a sparare nei dormitori intimando la resa. «Altrimenti vi ammazziamo tutti», urlavano. E i detenuti rispondevano, tra slogan e insulti, che potevano pure ammazzarli ma che mai si sarebbero arresi. Dopo gli spari - è uno dei racconti pervenuti - i militari hanno cominciato a lanciare lacrimogeni insieme ad altri tipi di bombe, ed infine, con degli strumenti incendiari, hanno appiccato le fiamme fra le quali molti reclusi hanno trovato la morte. Letti e lenzuola prendono fuoco assieme ai capelli, respirare diventa impossibile, ma in quelle condizioni uscire dai dormitori barricati è un’impresa disperata. «i soldati avevano i cannoni ad acqua», racconta un sopravvissuto, «se avessero voluto avrebbero potuto spegnere il fuoco. Tutto ciò che facevano era guardare». La versione del governo è tutt’altra: ci sono le prove, si afferma, che i capi del DHKP – C abbiano dato istruzione di suicidarsi nel caso di una vicina resa. I detenuti si sarebbero dati fuoco da soli per eseguire l’ordine. Alcuni agenti raccontano che i capi del movimento cospargevano gli altri militanti di liquido infiammabile e accendevano il fuoco con le loro mani.

A seguito dell’operazione e del trasferimento in nuove carceri di massima sicurezza di un gran numero di detenuti, il ministro della Giustizia Sami Turk ha dichiarato che, ora che le organizzazioni terroristiche erano state battute, sarebbero state adottate le misure necessarie per garantire il rispetto dei diritti umani di tutti i detenuti. Ma associazioni a tutela dei diritti umani, tra le quali Amnesty International e Human Rights Watch, hanno espresso preoccupazione per la situazione, affermando che le carceri turche non si avvicinano sotto alcun aspetto agli standard internazionali. Denunce di abusi sono continuate a piovere. È stato raccontato, ad esempio, che i prigionieri che si rifiutavano di cantare l’inno nazionale venivano brutalmente percossi o che durante i trasferimenti si assisteva facilmente a pestaggi.

Il ministro della Giustizia ha promesso di investigare su questi episodi, ma si è rifiutato di discuterne con gli attivisti dei diritti umani - ai quali è stato intimato che la critica delle carceri speciali avrebbe potuto costituire un crimine - rispondendo negativamente alle loro richieste di visitare le nuove prigioni. I medici hanno dichiarato che è stata loro negata la possibilità di effettuare le autopsie sui corpi dei defunti.

Nel giugno del 2001, una donna che lavorava come guardia carceraria in Turchia e che è fuggita dal suo paese, ha denunciato a Bruxelles una serie di episodi agghiaccianti. Durante gli scontri di dicembre, ha affermato Yildis Ercan, sono state utilizzate tonnellate di armi chimiche, tra le quali bombe al gas nervino. Prigionieri ricoverati in ospedale con i corpi bruciati e i vestiti intatti ne erano una prova. Poco prima dell’eccidio, la Ercan, assieme agli altri dipendenti del carcere, erano stati fatti allontanare con la forza dal luogo della battaglia, ma anche al rientro l’odore del gas era talmente forte che si era dovuto ricorrere alle maschere. Le fonti ufficiali parlavano allora di poche persone che ancora continuavano lo sciopero della fame intrapreso nell’ottobre dell’anno precedente, mentre sarebbero state oltre 250 tra prigionieri e loro parenti (il 18 gennaio 2001, varie associazioni per i diritti umani affermarono in una conferenza stampa tenuta a Roma che i detenuti partecipanti allo sciopero della fame avevano superato le due migliaia). Per nasconderne la presenza, ha affermato la donna, lo Stato ricoverava gli ammalati per astinenza, sottoponendoli a iniezioni in grado di ridurre le persone allo stato vegetativo, danneggiando il cervello e facendo perdere la memoria.

Lo sciopero della fame continua tuttora, e sempre più persone si sono unite alla protesta contro il regime di segregazione nelle "bare". Il bilancio è drammatico: decine di morti (l’8 gennaio 2002 si contava la 45° vittima, deceduta dopo aver digiunato per 222 giorni consecutivi) e un numero imprecisato di persone vittime di danni irreversibili nel fisico o nella mente. Le associazioni per i diritti umani hanno denunciato continui casi molto seri di tortura, nonché di accesso al tribunale o all’ospedale negato, di visite di legali o di familiari impedite, di detenuti incatenati al letto nonostante avessero perduto le proprie facoltà mentali a causa del prolungato digiuno.

Un’ultima segnalazione: come denunciato dall’Associazione turca per i diritti umani (IHD), nelle carceri del paese alloggerebbero bambini e ragazzi (dai nove anni in su), con condanne pendenti fino a cinque anni di reclusione, arrestati per aver gridato slogan a sostegno dei curdi e della loro lotta.

 

USA

 

IL dramma delle carceri statunitensi e dei loro bracci della morte è noto a tutti. Qui ci limitiamo a raccontare brevemente quale è stata la risposta giudiziaria dell’amministrazione Bush agli attentati contro New York e Washington. All’indomani dell’11 settembre 2001, gli avvocati del Dipartimento di Giustizia hanno stilato un documento nel quale si leggeva che gli Stati Uniti stanno affrontando un conflitto armato di portata tale da giustificare l’attribuzione di poteri straordinari al presidente (che se ne è servito in primo luogo per ordinare i bombardamenti sull’Afghanistan). Qualche settimana più tardi, questi poteri straordinari sono stati estesi fino a comprendere la possibilità da parte di Bush di servirsi di tribunali militari per i processi ai terroristi.

Prerogativa di questi tribunali, composti da giurati militari nominati dal segretario alla Difesa, è che per infliggere una condanna, anche quella capitale, non è necessaria una prova di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, né l’unanimità dei giurati, ma soltanto una maggioranza dei due terzi. Sono inoltre ammissibili prove che dai processi ordinari vengono escluse. Gli accusati vengono privati della presunzione di innocenza, del diritto di scegliersi un avvocato e del diritto di appello. Questi processi sommari possono essere segreti, e le udienze possono celebrarsi in qualsiasi luogo. Soltanto cittadini stranieri, anche se in possesso della greencard, possono essere processati da una corte militare: per i terroristi americani il processo è quello ordinario.

Già un paio di mesi dopo gli attentati, erano più di mille le persone incarcerate con questa procedura. Nessuna notizia ufficiale sulla loro sorte. Trapelavano informazioni sul fatto che molti di loro sarebbero stati rinchiusi in carceri di massima sicurezza, in isolamento e senza poter comunicare con gli avvocati. Altre 5.000 persone erano ricercate per ordine del Dipartimento della Giustizia, che manteneva il segreto più completo sugli arresti, sugli interrogatori e sui luoghi di detenzione. Si trattava di uomini di età compresa fra i 18 e i 33 anni, entrati negli Stati Uniti dall’inizio del 2000 in poi con visti turistici, per studio o per affari, sui quali pendeva anche solo un sospetto di avere qualche collegamento con i terroristi. Le autorità si rifiutavano di rendere noti i nomi o i paesi di provenienza.

Le critiche interne a una tale gestione dell’emergenza sono piovute da ogni parte: associazioni, giornali, politici, studiosi - spesso sostenitori dell’amministrazione in carica - hanno espresso con forza il loro sdegno per le retate segrete indiscriminate organizzate da Bush, per le detenzioni senza garanzie e per la discriminazione nei confronti dei cittadini non americani. Personalità politiche e gente comune hanno manifestato spavento e sorpresa per il fatto che gli Stati Uniti potessero arrivare a violare a tal punto le procedure costituzionali, disconoscendo il basilare diritto ad un equo processo. Molti parlamentari si sono detti allarmati dalla mancanza di criteri giuridici con i quali procedere nella lotta al terrorismo, e dalla totale discrezionalità che il presidente si è attribuito di decidere chi processare e con quali metodi. Ma la risposta dell’amministrazione Bush alle critiche ricevute è stata lapidaria: gli stranieri sospettati di avere legami con i terroristi non si meritano le medesime tutele costituzionali dei cittadini statunitensi.

Alla caduta del loro regime in Afghanistan, i taleban fatti prigionieri dai soldati americani sono stati amano a mano trasportati nel campo di sicurezza X Rays di Guantanamo, a Cuba. Alla fine del gennaio 2002 erano già 158 gli uomini detenuti nella base navale sulla costa sud occidentale dell’isola, dal 1903 sotto l’amministrazione degli Stati Uniti. Le 160 celle che, assieme a quattro torri di controllo, un gabbiotto per la polizia militare, una piccola infermeria da campo e una trentina di latrine portatili, compongono il campo sono situate nella zona più arida della base, dove in alcune ore del giorno la temperatura raggiunge i 40°.

I prigionieri vi arrivano incappucciati e con i tappi nelle orecchie, mani e piedi ammanettati alla cintura. Così come scendono dall’aereo rimangono durante tutta la durata del controllo d’ingresso - circa due ore - dopo il quale vengono loro consegnati alcuni oggetti per l’igiene personale, privati di qualsiasi cosa potrebbe venire utilizzata come corpo contundente. Ed è proprio per motivi igienici, spiegano i militari a capo dell’accampamento, che prima di partire dall’Afghanistan le teste dei prigionieri sono state rapate a zero e le loro famose barbe tagliate. Essi ricevono tre pasti al giorno, almeno uno dei quali è caldo e tutti e tre rispettano i precetti musulmani. Trascorrono sdraiati quasi l’intera giornata. Su loro richiesta, vengono scortati alle latrine o alle docce da due soldati. Le celle hanno l’aspetto di gabbie: due metri per due, un tetto di compensato e nessuna parete, se non per del filo di ferro che gira loro attorno. In caso di maltempo, i detenuti del campo X Rays restano in totale balìa delle intemperie.

La mancanza di pareti fa sì che i prigionieri possano essere guardati a vista ventiquattr’ore su ventiquattro, come se davvero si trovassero costantemente sotto una macchina a raggi X. Di giorno, la luce del sole è sufficiente allo scopo; al calar della sera, vengono accesi 16 potentissimi fasci di luce. Questi rimangono in funzione fino alla mattina seguente, dando l’impressione che la notte non sia mai scesa sulle celle. Le guardie devono avere una visione totale di quello che fanno i prigionieri. Ad esse non è permesso parlare con loro, se non per ascoltare la richiesta di venire condotti alle latrine o alle docce e rispondere loro in un secco tono di comando. In particolare, non possono fornire ai prigionieri informazioni sul luogo nel quale si trovano. Essi, tuttavia, non ne sono completamente all’oscuro: alloro arrivo hanno infatti potuto spedire un biglietto alle famiglie con l’indicazione di essere in una base navale americana nella baia di Guantanamo. Se poi non sanno dove si trovi sono fatti loro, dicono i militari. Il presidente Bush, dopo varie pressioni internazionali, decide l’applicazione della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. Non viene concesso tale status a coloro i quali sono definiti combattenti irregolari, ossia i membri non afghani di Al Qaeda.

 

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