Newsletter n° 37 di "Antigone"

 

Newsletter numero 37 dell'Associazione "Antigone"

a cura di Nunzia Bossa e Patrizio Gonnella

 

L’editoriale di Patrizio Gonnella: Prigionieri lo si è a vita

Legge quadro sul carcere della Regione Lazio, di Patrizio Gonnella

Il Vaso di Pandora: Donne e bambini in carcere

L’Osservatorio parlamentare, a cura di Francesca D’Elia

Recensioni: "Viaggio nelle carceri italiane", di Sara Capogrossi Colognesi

Intervista a Luigi Manconi, di Fabio Amato

Brev,i a cura della Redazione

Iniziative, a cura della Redazione

L’Editoriale: Prigionieri lo si è a vita, di Patrizio Gonnella

 

Prigionieri lo si è a vita. Le polemiche contro la partecipazione di Adriano Sofri all’assise dei Ds sono indecorose e assomigliano alle polemiche contro l’indulto, ambedue accomunate da una sub-cultura illiberale che serpeggia a sinistra. Siamo il paese del piagnisteo. Stiamo approssimandoci a diventare il paese della vendetta. Siamo un paese dove l’unico battitore libero che interviene mandando fendenti giustizialisti a destra e a manca è Marco Travaglio.

A favore di Sofri parlano solo gli amici. Gli altri tacciono. La vicenda Sofri - a cui vorrebbe essere tolta la parola, e al massimo restituita in modo generoso e clemente la libertà - è trattata come un qualsiasi fatto di cronaca. I prigionieri non devono fare politica. In Italia i prigionieri condannati, e finanche gli ex prigionieri, fino ad avvenuta riabilitazione (lunga, incerta e costosa), non possono votare e non possono essere votati. Il caso Sofri è un caso di democrazia e giustizia.

"Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". Così recita l’articolo 27 della Costituzione. Un assunto che dai cultori della certezza della pena viene interpretato, anche a sinistra, riduttivamente e assistenzialmente. Come se riguardasse solo coloro che aspirano a fare i camerieri o gli addetti alle pulizie.

Se sei invece uno che scrive, pensa o interviene nel dibattito politico allora non hai diritti da accampare. La democrazia è anche questo. Si sprecano parole sulla democrazia e poi quando in un’assemblea per far nascere un partito democratico e non un movimento di guerriglia rivoluzionario interviene uno che trentacinque anni fa avrebbe commesso un delitto politico (mentre lui stesso, con molti altri, si sono battuti a difesa della sua innocenza) allora la parola passa ai parenti delle vittime e ai giudici, indissolubilmente d’accordo nel ricordare sentenze che vorrebbero indelebili nella storia. La Carta costituzionale, nel frattempo, diventa carta straccia.

I Ds e tutti i politici che hanno difeso la partecipazione di Adriano Sofri alla loro iniziativa sono ben più lungimiranti della grande folla di intellettuali silenti, pronti solo a denunciare inciuci o lassismi. La memoria - individuale e collettiva - si difende espandendo la partecipazione democratica e rafforzando il senso di giustizia. Non penso che Sofri, dopo tutta la galera fatta, abbia ambizioni presidenziali. Se così fosse, però, bisognerebbe consentirglielo.

La privazione della libertà è già di per sé una pena difficile da sopportare. I diritti politici vanno garantiti. Non c’è risocializzazione che tenga se non vi è inclusione democratica. Noi da alcuni anni proponiamo una revisione della norma sulla interdizione dei pubblici uffici. Giuliano Pisapia (Prc), oggi alla guida della Commissione di riforma del codice penale, aveva firmato una Proposta di legge in tal senso. Ora ci attendiamo che chi ha invitato Adriano Sofri, insieme a tutte le forze di sinistra, colgano questa occasione per uscire dalla difesa e trasformare la storia di Sofri in una battaglia di democrazia e giustizia, volando alto e senza farsi impigliare nelle maglie scontate del giustizialismo imperante.

 

Legge quadro sul carcere della Regione Lazio, di Patrizio Gonnella

 

Arriva nei prossimi giorni in Aula al Consiglio Regionale del Lazio la proposta di legge recante interventi a sostegno dei diritti della popolazione detenuta, primo firmatario il consigliere e assessore al Bilancio Luigi Nieri (PRC), già approvata nelle Commissioni competenti.

La Pdl (n. 11 del 28.6.2005) mira a dare sistematicità agli interventi della Regione in ambito carcerario per quanto riguarda gli aspetti di sua competenza, vale a dire la sanità, il lavoro e il trattamento. Qualora la legge venisse votata, la Regione Lazio confermerebbe la propria attenzione all’universo penitenziario, già dimostrata con l’introduzione, prima Regione in Italia, della figura del Garante dei diritti dei detenuti.

Il testo si articola in quattro parti, la prima delle quali contiene i principi generali cui esso è ispirato, impegnando la Regione a una produzione normativa atta a rendere effettivo il rispetto dei diritti dei detenuti, nonché all’adozione di misure per la creazione di un sistema integrato di welfare per le persone in esecuzione penale.

La seconda parte concerne il problema del diritto alla salute, che la riforma Bindi del 1999 - che prevedeva il passaggio della medicina penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale e che non è mai stata attuata - intendeva garantire attraverso un’universalità di prestazione che si rivolgesse tanto al cittadino libero quanto a quello detenuto. Un decreto del 2000 individuava nel Lazio una delle tre Regioni in cui sperimentare il trasferimento completo delle funzioni sanitarie al servizio pubblico, ma negli anni passati non è stato dato alcun seguito a tale indicazione. La proposta in oggetto prevede ora che la Regione - attraverso appositi progetti obiettivo triennali, realizzati in seguito a una mappatura di bisogni effettuata da una preposta Commissione consiliare - si faccia carico di organizzare l’assistenza sanitaria presso le carceri, dando un ruolo diretto ai servizi sanitari regionali e integrando con proprie risorse umane quelle dell’amministrazione penitenziaria. In ogni istituto che ospiti più di cento detenuti, la ASL competente è impegnata a creare un proprio dipartimento, che garantisca, tra le altre cose, l’assistenza per le tossicodipendenze, un servizio di psichiatria, uno di psicologia, uno di medicina del lavoro. Particolare attenzione è prestata ai detenuti che hanno appena fatto ingresso in carcere, tra cui si conta il maggior numero di suicidi, nonché agli stranieri, per i quali la Regione offre agli operatori sanitari un servizio di mediazione culturale. La Pdl-Nieri istituisce nel bilancio regionale un apposito capitolo di spesa per il servizio sanitario penitenziario.

La terza parte si propone di migliorare l’accesso al lavoro della popolazione detenuta e in esecuzione penale esterna. Dopo una ricognizione dei bisogni formativi e delle offerte lavorative di mercato, la Regione è impegnata a redigere il piano annuale per la formazione professionale nelle carceri, a dettare agli enti locali le linee guida operative in materia di lavoro e formazione professionale delle persone in esecuzione penale, ad aiutare l’imprenditorialità di queste ultime, a favorirne l’accesso al lavoro attraverso misure di defiscalizzazione per chi assume persone detenute o ex detenute.

L’ultima parte della proposta di legge si concentra sul cosiddetto trattamento penitenziario. La Regione si fa carico di sopperire temporaneamente alle gravi carenze di operatori dell’area trattamentale riscontrabili nelle carceri laziali disponendo finanziamenti ai Comuni per l’assunzione, per un periodo di tre anni, di educatori, mediatori culturali, psicologi, assistenti sociali. Inoltre, attraverso un tavolo interassessorile appositamente istituito, la Regione intende migliorare il trattamento intra ed extra murario, tanto potenziando la rete sociale regionale così da favorire un maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione, quanto potenziando le attività culturali interne, l’offerta educativa (in particolare attraverso la creazione di poli universitari in carcere), l’offerta sportiva.

 

Donne e bambini in carcere: pdl nazionale e prassi locali

 

Il primo dato che colpisce parlando di donne e criminalità è rappresentato dal basso numero di reati commesso dalle stesse rispetto agli uomini e la conseguente minor presenza femminile negli istituti di pena - in media, in Italia come nel resto d’Europa, rappresentano il 4,5% della intera popolazione carceraria. In presenza di questi dati si deve registrare una tendenza delle istituzioni, ma anche degli studiosi, a trascurare un ambito - la detenzione femminile - che non sembra suscitare particolare allarme sociale.

Le carceri italiane esclusivamente femminili sono sette: Trani, Pozzuoli, Rebibbia, Perugia, Empoli, Genova e Venezia, ma in esse è recluso meno di un terzo del totale delle detenute.

Tutte le altre, il 65,5%, sono disperse in 62 piccole sezioni femminili di carceri maschili, dove possono trovarsi anche meno di dieci donne. Che cosa avviene in questi istituti dove le donne rappresentano una esigua minoranza?

Ad Avellino, ad esempio, prima dell’approvazione del provvedimento di indulto vi erano, su una popolazione media complessiva di 375 detenuti, 25 detenute in una piccola sezione distaccata. Ora, considerando la ristrettezza dei fondi destinati alle attività trattamentali finalizzate al reinserimento sociale dei/lle detenuti/e (istruzione, formazione professionale, etc) è intuibile che la maggior parte degli stessi sono destinati ai reclusi piuttosto che alle recluse. Avviene così, ad esempio, che mentre nella sezione maschile sono presenti la scuola elementare, media e geometra, al femminile è possibile frequentare la sola scuola elementare; ancora, mentre al maschile si svolge un corso di teatro, uno di filosofia e vi è una biblioteca, al femminile non si svolge nessuna attività significativa e lo spazio adibito a biblioteca non ha neanche un libro; discorso analogo si ripropone a proposito delle attività di formazione professionale.

Tale stato dell’arte, lungi dall’essere una peculiarità avellinese, caratterizza l’intero contesto nazionale, proprio a causa del numero limitato delle detenute e della loro dispersione in 62 mini sezioni (che possono ospitare anche solo 2 detenute) ubicate in strutture maschili.

Nelle carceri invece destinate esclusivamente alle detenute notiamo che - per motivi diametralmente opposti, ossia a causa del sovraffollamento, avviene ugualmente che le attività trattamentali finalizzate al reinserimento sociale delle detenute risultano essere insufficienti.

Prendiamo il caso di un altro istituto di pena campano, il carcere di Pozzuoli, dove su una capienza regolamentare di 90 detenute erano presenti in media, prima dell’approvazione del provvedimento dell’indulto, 180 ristrette: in questo carcere i problemi maggiori erano quindi costituiti evidentemente dalla mancanza di condizioni di vita minime - ed accettabili in un paese che ama definirsi democratico - piuttosto che dalla assenza di attività trattamentali significative.

Per avere un’idea di cosa significhi un istituto femminile sovraffollato, si riporta la denuncia del Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Roma che riguarda donne e bambini detenuti nella sezione di Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia femminile. "Quattro madri in attesa di giudizio definitivo, quattro bambini e un’altra detenuta dividono qui la stessa cella; di giorno, per ricavare un po’ di spazio per passare, i lettini dei bambini vengono spostati nel corridoio della sezione, la sera, anche quel minimo spazio scompare, si diventa in troppi, l’ansia e la promiscuità crescono e i bambini le subiscono". I bambini in carcere!? Si, anche i bambini sono in carcere.

Le donne, in attesa di giudizio o in esecuzione pena, possono finire dentro con i propri bambini. Una misura adottata al fine di evitare il dramma della separazione tra madre detenuta e figlio in tenera età; una misura che però crea l’aberrazione della detenzione di piccoli innocenti, abituati a vedere il cielo a scacchi, dietro le sbarre. Bambini che quando mi è capitato di entrare in carcere sono scoppiati a piangere, perché non abituati a vedere facce nuove o persone di sesso maschile.

Grazie all’indulto i bambini nelle carceri italiane sono diminuiti del 45% (negli ultimi 5 anni la media giornaliera è stata di 60 piccoli ristretti). Ma di bambini in carcere non ne vorremmo vedere nemmeno uno. La legge 40/2001 prospetta una serie di misure volte a far evitare il carcere alle detenute madri e ai propri bambini, ma è stata largamente disapplicata dai giudici e presenta dei limiti nell’accesso ai benefici soprattutto per chi è in attesa di giudizio. E, al solito, le mamme straniere, non avendo un abitazione dove scontare gli arresti domiciliari, finiscono dentro con il proprio piccolo (o in gravidanza) anche per il furto di un telefonino. Evidentemente nel nostro stato democratico un telefonino vale quanto la libertà di un bambino!

Per ovviare a questo dramma è attualmente in discussione alla Camera una proposta di legge dal titolo "Disposizioni per la tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori". Punto centrale è la realizzazione di case-famiglia protette per tutti quei casi in cui non siano possibili misure di sospensione o comunque alternative alla carcerazione. Il progetto di legge elimina qualsivoglia valutazione discrezionale da parte del giudice disponendo la custodia in case famiglia protette di madri con prole di età inferiore ai dieci anni ed eliminando gli ostacoli all’applicazione della detenzione domiciliare (costituiti principalmente dal giudizio prognostico sulla commissione di nuovi reati). Viene inoltre prevista un’ulteriore ipotesi di permesso che autorizza la detenuta ad accompagnare il figlio all’ospedale in caso di ricovero del bambino al pronto soccorso e di soggiornare presso la struttura ospedaliera per tutto il periodo della degenza. Pensate che allo stato attuale quando un piccolo ristretto deve essere ricoverato viene portato in ospedale da un agente e lì è lasciato da solo: le madri dovrebbero essere con i propri figli, ma il permesso del giudice a volte arriva troppo tardi.

Sul piano delle prassi locali, è da segnalare la coraggiosa iniziativa della Provincia di Milano, dove è sorto un Istituto a custodia attenuata per madri che anticipa il disegno di legge (anche a Roma ne sta nascendo uno).

Ma aldilà del fermento normativo e delle buone prassi locali menzionate, lo stato di detenzione delle detenute e dei loro bambini risulta piuttosto variegata di città in città. Da un lavoro intitolato Donne in prigione -curato da Laura Astarita e Marina Graziosi e pubblicato nel volume "Antigone in carcere", a cura di G. Mosconi e C. Sarzotti, Carocci Editore, 2004 - risulta, ad esempio, che nella città di Roma esiste una convenzione con il Comune capitolino grazie alla quale ogni mattina i figli delle detenute di Rebibbia femminile che acconsentono, vengono portati agli asili nido presenti nel territorio; questo carcere, inoltre, beneficia dell’attività di una intensa rete di volontariato, che, tra le altre cose, ogni sabato accompagna i bambini in giro per la città, in gita, al mare o in montagna, offrendo loro una giornata di "vita fuori", di "normalità". Anche a Torino è stata stilata una convenzione con il Comune, grazie alla quale i bambini, 3 volte la settimana, frequentano gli asili nido comunali; in più, una volta la settimana, le educatrici dei nido esterni possono entrare in carcere. L’esistenza di convenzioni con gli enti locali per poter far frequentare gli asili nido esterni è stata riscontrata anche nelle città di Firenze, Perugia e Venezia. Al contrario, nel carcere di Avellino non esiste né la possibilità di far frequentare asili esterni ai piccoli ristretti, né vi è un’associazione che accompagna sistematicamente i bambini fuori dalla struttura penitenziaria. Quindi, nonostante l’esistenza di un nido ben attrezzato e l’impegno profuso dalla direzione dell’istituto e da parte di diversi attori della società civile irpina, vi è l’improcrastinabile esigenza di un intervento delle istituzioni locali e la dimostrazione che anche nell’ambito della detenzione di categorie di soggetti vulnerabili, quali donne e bambini, esistono discriminazioni ulteriori per chi finisce in un istituto piuttosto che un altro.

Per questo ordine di ragioni si auspica che il disegno di legge sopra menzionato venga immediatamente incardinato nell’agenda dei lavori parlamentari e che sia seguito da un regolamento esecutivo che assicuri una custodia ridotta al minimo indispensabile e con la individuazione di sistemi di sicurezza "non invasivi" rispettosi dei diritti dei piccoli innocenti, creando una omologazione verso l’alto del trattamento in esecuzione pena delle detenute madri e dei loro bambini. Per contattare l’Osservatorio Regionale della Campania: osservatoriocampania@associazioneantigone.it

 

Osservatorio Parlamentare, a cura di Francesca D’Elia

 

Respinta la pregiudiziale al testo sull’istituzione di una Commissione nazionale per la tutela dei diritti umani e del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale: prosegue in Aula l’esame del testo

L’Assemblea di Montecitorio ha ripreso l’esame, iniziato in data 12 dicembre 2006, del testo unificato delle proposte di legge recante "Istituzione della Commissione nazionale per la promozione e la tutela dei diritti umani e del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale" (Atto Camera 626 ed abb.).

Respinta la pregiudiziale presentata dall’opposizione (a prima firma Maroni), l’Assemblea ha trattato parte del testo. In data 7 febbraio, è stato approvato un emendamento presentato da AN concernente la riduzione da 8 a 4 dei componenti della Commissione per i diritti umani. Determinanti per l’esito i 14 voti dell’Italia dei valori e il sì di Enrico Buemi (Rnp). Due gli astenuti nelle fila dell’Unione. Va segnalato che, rispetto agli altri Paesi europei che hanno istituito la Commissione in oggetto, quella del nostro Paese avrebbe il numero più basso di componenti. Approvato anche un emendamento che introduce il principio della parità di donne e uomini nel numero dei componenti della Commissione. Quattro anni di carcere a chi rifiuta accertamenti invasivi della libertà personale: tre proposte di legge all’esame della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati

Tre proposte di legge - primi firmatari: l’on. Contento (A.C. 782), l’on. Ascierto (A.C. 809), il Ministro Mastella (A.C. 1967)- hanno subito un’accelerata nell’esame da parte della Commissione Giustizia di Montecitorio. Le proposte riprendono una sentenza della Corte costituzionale (sent. n. 238 del 9 luglio 1996) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 224 del codice di procedura penale «nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei "casi" e nei "modi" dalla legge», affermando che il giudice non avrebbe potuto disporre rilievi peritali di tal genere fino a quando il legislatore non fosse intervenuto ad individuare i tipi di misure restrittive della libertà personale che possono essere disposte a fini processuali, nonché a precisare i casi e i modi in cui le stesse possono essere adottate. Il testo base adottato dalla Commissione è quello proposto dall’on. Contento (Alleanza Nazionale), e che riprende in buona parte quello già presentato nella scorsa legislatura a firma dell’on. Onnis, dello steso gruppo parlamentare.

Il testo prevede che il giudice, anche d’ufficio, possa disporre accertamenti peritali consistenti in atti idonei ad incidere sulla libertà della persona anche nei confronti di chi non vi acconsenta (ammesso solo se non vi sia sospetto che l’atto possa nuocere alla salute della persona) e che, in caso di mancata comparizione senza che venga addotto un legittimo impedimento, si possa disporre l’accompagnamento coattivo della persona nella struttura "pubblica o privata" , dove sarà trattenuta, anche contro la sua volontà, per il tempo strettamente necessario.

Viene anche introdotto (nel Titolo III, Dei delitti contro l’amministrazione della Giustizia, Capo I, Dei delitti contro l’attività giudiziaria) l’art. 373 bis c.p. concernente il delitto concernente il "rifiuto di collaborazione nell’esecuzione di una perizia o consulenza tecnica", per il quale si prevede la condanna fino a quattro anni di reclusione per chi, senza giustificato motivo, si rifiuti di collaborare all’esecuzione dell’atto indispensabile per lo svolgimento di una perizia, in caso nei suoi riguardi sia stato disposto l’accompagnamento coattivo.

L’articolo 5 del testo prevede inoltre l’istituzione di apposite banche dati per la raccolta e la gestione del materiale biologico ai fini dell’analisi e confronto del DNA. Punto che verrebbe disciplinato tramite un regolamento del Ministro della Giustizia, sentito il Garante per la protezione dei dati personali. La prossima settimana verranno esaminate le proposte di modifica al testo, presentate in misura massiccia anche dal relatore, l’on. Palomba, Italia dei Valori.

 

Viaggio nelle carceri italiane, di Sara Capogrossi Colognesi

 

È in libreria il quarto Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia, frutto del lavoro di monitoraggio diretto delle carceri effettuato negli ultimi due anni dall’Osservatorio dell’associazione. È l’ultimo libro del pre-indulto e il primo del post-indulto, questo volumetto agile dalla struttura anomala rispetto agli studi più tradizionali sul sistema penitenziario. Come già il titolo si propone di evidenziare, il cuore del Rapporto è costituito da 208 descrizioni, brevi ma essenziali, delle 208 carceri italiane. L’effetto sinottico che ne deriva è impressionante. 208 fotografie che, giustapposte l’una all’altra, lasciano emergere le incongruenze della pena detentiva, quelle quotidiane e quelle strutturali, quelle teoriche e quelle di prassi, quelle politiche e quelle amministrative.

"Quando lo scatto riesce", leggiamo nella quarta di copertina, "la fotografia non è mai muta ripetizione della realtà, né tuttavia interpretazione verbosa e ingombrante". E le fotografie che l’associazione Antigone ha scattato, nell’intento che persegue da anni di aprire agli sguardi esterni un’istituzione che crede invece di vivere della sua propria chiusura, descrivono la realtà della vita carceraria senza però meramente ripeterla e sottrarsi a un punto di vista. Emerge senza forzatura verbosa e ingombrante una lettura del sistema, che appare dalle schede come un sistema frammentato e schizofrenico, dove la qualità della vita dipende quasi del tutto dall’iniziativa di chi gestisce il singolo istituto, e dove a distanza di pochi chilometri possiamo trovare situazioni capovolte.

L’Italia carceraria è un paese a macchia di leopardo. A Spoleto "quasi tutti i detenuti lavorano", mentre a Orvieto "vi è un unico corso di scuola media"; a Padova Due Palazzi "sono in funzione 2 biblioteche, 1 teatro, 1 palestra, 1 campo interno da pallacanestro. Le attività sono numerose, oltre una ventina le associazioni e cooperative che collaborano alla vita detentiva, con attività didattiche, formative, lavorazioni", mentre nella limitrofa Padova Circondariale "gli spazi comuni interni scarseggiano: l’area con biblioteca è inagibile perché ci piove dentro [...]. Questa realtà nel 2005 ha fatto registrare 3 suicidi"; a Milano Bollate si assiste a "una fucina di attività, supportate da cooperative ed enti istituzionali locali", mentre a Busto Arsizio "i detenuti passano molto tempo chiusi in cella, escono per l’ora d’aria"; a Empoli "la struttura è accogliente e ben arredata"; a Roma Regina Coeli "la struttura è in pessime condizioni, in 2 sezioni manca il riscaldamento [...], i detenuti sono chiusi tutto il giorno, non c’è area verde e i passeggi sono angusti spazi in cemento e senza protezione dalle intemperie, la qualità del cibo è scarsa, è quasi del tutto assente il supporto psicologico e non adeguata l’attività del Sert interno".

Non sorprende quindi che ci siano detenuti che si fanno arrestare appositamente in una determinata città perché sanno che lì si sta meglio, che è più facile accedere alle misure alternative, che non ci sono le "squadrette notturne". Tutto è nelle mani della cultura democratica del direttore, del culto della legalità che ha il comandante di reparto, del numero degli educatori e degli assistenti sociali a disposizione, dell’impegno profuso da enti locali, terzo settore e volontariato del territorio. È mancata negli ultimi anni una direzione strategica. Da poche settimane è stato nominato il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. A lui è affidato il compito di restituire dignità e logica al sistema. Il volume di Antigone potrà essere per lui un utile guida lungo il suo viaggio nelle patrie galere. Dentro ogni carcere, a cura di Laura Astarita, Paola Bonatelli, Susanna Marietti, Carocci 2006 pagg. 208, euro 18.

 

"Ai critici dico: grazie all’indulto la riforma è più vicina"

Intervista a Luigi Manconi con Fabio Amato

 

L’indulto ha ridotto il sovraffollamento, e nondimeno è un sistema carcerario frammentato e distorto quello fotografato dal 4° rapporto dell’associazione Antigone. Il "prima" e il "dopo" la clemenza del Parlamento, infatti, non modificano la situazione strutturale dei 208 penitenziari italiani, laddove le condizioni di disparità sono così forti da "consigliare" di farsi arrestare in un luogo piuttosto che in un altro e il rischio dei soprusi documentato e presente. Soprattutto resta il timore che le carceri escano dalla vita pubblica, per ritornarvi solo quando un altro provvedimento si renderà urgente. Due o tre anni al massimo - dicono da Antigone - se il governo in cui siede anche il sottosegretario alla Giustizia, Luigi Manconi, non troverà soluzioni: dalla condizione strutturale dei penitenziari fino alla sospirata riforma del codice penale.

 

Sottosegretario Manconi, a distanza di mesi l’indulto è il primo passo per una vera riforma del sistema carcerario?

Ritengo l’indulto un provvedimento non solo opportuno, ma sacrosanto. Penso che la clemenza non neghi e nemmeno contraddica la giustizia, ma ne costituisca la fibra morale. In una situazione abnorme non funziona né il sistema delle pene né quello della giustizia. Poi c’è anche la questione umanitaria. Carceri come quelle che c’erano fino al 31 luglio sono luoghi invivibili non solo per chi sconta la pena ma per chi deve svolgere una attività professionale, dal direttore fino al volontario.

 

I detrattori hanno accusato il governo di avere approvato la legge per "lavarsi la coscienza". Anche nel rapporto di Antigone questa possibilità ritorna come timore che, una volta svuotate, le carceri possano rimanere abbandonate a loro stesse...

Guai a pensarlo. Certamente l’indulto non risolve i problemi, ma senza l’indulto i problemi non possono essere risolti. Continuiamo a ripeterlo, io personalmente l’ho detto anche all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Torino: se non sapremo intervenire su immigrazione, sostanze stupefacenti e recidiva, l’indulto verrà vanificato. Svilupperà invece tutte le sue grandi potenzialità positive nel momento in cui avremo arrestato quel meccanismo di riproduzione fatale dell’affollamento.

 

Bossi-Fini, Fini-Giovanardi e ex-Cirielli: anche Antigone punta il dito su queste tre leggi come il segnale più forte di una fase "punitiva". È una fase finita?

Siamo nella fase più avanzata per superare queste leggi. Per quanto riguarda la legge sull’immigrazione mi auguro che sia questione breve, e lo stesso vale per la legge sugli stupefacenti, su cui si sta operando virtuosamente. E così anche per la ex-Cirielli.

 

Dal rapporto emerge chiaramente la frammentazione del nostro sistema carcerario. Non esiste un trattamento minimo condiviso, ma una serie di estremi, in prevalenza verso il basso, molto disomogenei.

È così, e gli interventi necessari sono tanti. Come politica del ministero ci stiamo concentrando in particolare - non esclusivamente, sia chiaro - sulla razionalizzazione dei circuiti. Per capirci: dentro la popolazione detenuta la prima grande ripartizione è tra condannati e in attesa di giudizio. Ma questa ripartizione elementare non viene rispettata. Quindi si trovano spesso insieme o accanto, e sottoposti a regimi non troppo differenti. E questa è solo la cosa più banale. Esiste ad esempio una categoria "giovani adulti" - dai 18 ai 24 anni - che dovrebbe essere distinta, ma questo succede solo in poche circostanze. Pensiamo ai tossicodipendenti: dentro il carcere ci sono detenuti di accertata pericolosità sociale. Ma infinitamente più detenuti di alcuna pericolosità. Ora, per i primi esiste il circuito del 41bis o di alta sorveglianza. Ma non esiste un circuito per chi è di zero pericolosità sociale. La vera riforma del carcere è questa: far sì che vi siano dei circuiti non discriminatori, dove chi ha bisogno di una custodia "attenuatissima" e di un trattamento "intensissimo" possa averli.

 

Si è fatto qualcosa in questo senso?

Dobbiamo lavorare perché siano rafforzate e non vadano ad esaurirsi le colonie. O perché le esperienze, come quella che sta nascendo a Milano di una casa famiglia per detenute con figli da zero a tre anni, siano ripetute ove necessario. E quindi vi siano luoghi che somiglino pochissimo al carcere e molto più a strutture di tutela per donne con figli.

 

Questa riorganizzazione è sostenibile dal punto di vista economico?

Oggi soprattutto dopo l’indulto è assolutamente realizzabile. Non esiste un grande problema economico su queste cose, ma nel territorio. Cosa non semplice, sia chiaro, perché esiste un grande problema di distribuzione del personale. Una volta che saranno realizzate le nuove carceri che si devono realizzare, il resto delle risorse non deve andare ad immaginare chissà quante nuove strutture. Bensì a manutenzione, ristrutturazione, e riorganizzazione degli spazi esistenti.

 

Il rapporto fotografa veri e propri paradossi: la maggior parte dei detenuti viene del sud, eppure le carceri affollate sono quelle del nord.

"Paradossalmente" parla delle carceri del Nord dove sempre "paradossalmente" non vogliono andare gli agenti, perché sono nati e cresciuti nel Sud. Il problema non sono solo i costi economici: sono costi di organizzazione, di relazione sindacale, di amministrazione di un enorme apparato.

 

È un problema di tutta l’Europa oppure crede che l’Italia abbia delle criticità specifiche?

Non amo queste valutazioni, comunque credo che ci collochiamo in una situazione intermedia per quanto riguarda la vivibilità del sistema carcerario. Più basso per quanto riguarda l’esecuzione delle pene. Da molti anni, purtroppo, continuo a ritenere che nella cosiddetta patria del diritto domini una mentalità condivisa che ha una idea altamente vendicativo-afflittiva della pena. E che in termini di senso comune l’idea di una sanzione diversa dalla cella chiusa fatichi ad affermarsi, laddove in altri paesi c’è maggiore disponibilità ad una "fantasia" che, salvaguardando la sanzione, non la fissi nella detenzione all’interno di una cella.

 

Perché esiste questa diversa percezione sociale?

In Italia dominano due subculture. Una di radice socialista e una di radice cattolica. Entrambe non hanno al proprio interno una forte dimensione libertaria, bensì un intreccio complesso, in termini religiosi tra severità e misericordia; in termini laici tra rigidità e clemenza. Il rapporto all’interno di queste coppie di termini è spesso impazzito, dove l’esercizio della clemenza passa attraverso un’idea molto sacrificale della sanzione. Si ritiene che le due subculture siano culture del perdono: è sbagliato. Sono due culture della indulgenza come conseguenza della sofferenza.

 

Laddove la cultura è più laica, meno ideologica o religiosa, è più facile arrivare ad una riabilitazione fattiva?

La riparazione passa sempre per la mortificazione. Quasi che l’offeso rivendichi l’umiliazione dell’offensore. Questa è una pulsione naturale, ma non una pulsione che lo stato debba soddisfare. Quando si chiede al familiare della vittima "lei perdona?" si commette un pazzesco errore e si alimenta questo equivoco, perché certo un perdono concesso in alcune circostanze può avere una funzione profetica straordinaria, ma quando si chiede alla povera vittima si trasforma un atto secolare, civile, in un rito religioso, o psicologico, o in una terapia.

 

Ha un che di inquisitorio...

Il fondo è inquisitorio, perché se io mi dichiaro responsabile di un reato mi sto dichiarando debitore verso lo Stato, ma non un mostro. Posso esserlo oppure no, ma quello che conta non è la mostruosità, bensì l’atto compiuto che infrange la legge e rompe il legame sociale. Per ripristinare quel legame è prevista una sanzione. Può essere una multa, può essere un divieto...

 

... ma non mortificante

Le faccio un esempio che ogni volta suscita ilarità, ma mi auguro e credo che si andrà anche a questo, in una riforma del codice penale italiano: il "detenuto" il lunedì mattina inizia la settimana, va al lavoro... Solo il sabato mattina si presenta al carcere, e ne esce il lunedì mattina per riprendere l’attività lavorativa. Questa proposta fa ridere, ma già è una soluzione applicata in qualche paese del Nord Europa, ed è civilissima, è saggia, è efficace: sconto una sanzione senza che questa rompa il mio rapporto con il mondo. Il contrario esatto di ciò che oggi è preteso essere efficace

 

Brevi, a cura della Redazione

 

Commissione di indagine sui CPT

 

La commissione De Mistura ha reso pubbliche le conclusioni della sua indagine sui Centri di permanenza temporanea e su quelli di identificazione e di assistenza previsti per i migranti sul suolo italiano.

 

Campagna nazionale: visite negli istituti di pena

 

In attesa del rinnovo delle autorizzazioni ministeriali relative all’ingresso negli istituti di pena dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione di Antigone, l’associazione aderisce alla campagna di visite in carcere lanciata dal PRC. La campagna, su scala nazionale, prevede una serie di visite negli istituti di pena dal 15 febbraio al 15 agosto 2007. Lo scopo delle visite è di verificare le condizioni di detenzione, con particolare attenzione allo stato di attuazione delle prescrizioni impartite dal regolamento D.P.R. 230/2000.

 

Segnaliamo

 

La relazione sulla visita al CPT di Ponte Galeria (Rm), del Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Roma, a cura di Fabio Baglioni e Simona Filippi.

 

Iniziative, a cura della Redazione

 

Venerdì 23 marzo 2007, ore 9.30-14.00 a Roma presso la Camera dei Deputati, Sala del Refettorio, Via del Seminario, 76 si terrà il convegno Mediare, non punire. Per una giustizia riparativa.

 

Introduce

Beppe Mosconi

 

Relazioni

Louk Hulsman

Eligio Resta

Jacques Faget

 

Tavola rotonda con

Francesca Vianello, Carlo Fiorio, Alberto Maritati, Sergio Moccia, Patrizia Ciardiello, Maria Pia Giuffrida

 

Coordina

Patrizio Gonnella

 

N.B. Programma provvisorio. Per aggiornamenti consultare il sito dell’associazione nelle prossime settimane.

 

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