Newsletter n° 35 di Antigone

 

Newsletter numero 35 dell'Associazione "Antigone"

a cura di Nunzia Bossa e Patrizio Gonnella

 

L’editoriale di Patrizio Gonnella: Per una nuova cultura giuridica

Il Vaso di Pandora: l’Osservatorio regionale dell’Umbria

Approfondimento: I centri di detenzione in Italia

Crisi irachena, intervista a Mauro Palma

Le Iniziative di Antigone, a cura della Redazione

L’Editoriale: per una nuova cultura giuridica, di Patrizio Gonnella

 

Il dibattito politico-culturale successivo all’approvazione dell’indulto è stato un dibattito povero, immiserito da molte falsità. C’è stata la rincorsa dei media a scovare storie di indultati eccellenti, pericolosi, truci, recidivi, violenti, irrecuperabili. Il grande rischio è che quel dibattito vada a condizionare tutte le successive politiche sulla giustizia e sull’esecuzione penale, rendendo oltremodo timorose le forze politiche dell’Unione, in quanto sensibili all’ondata di reazioni negative successive al provvedimento di clemenza. Per questo è una buona notizia leggere che lo scorso 2 ottobre l’intero gruppo di Rifondazione Comunista ha presentato una proposta di legge per l’abolizione dell’ergastolo

Una proposta che ricalca quella del 1998 che aveva superato lo scoglio dell’approvazione in Senato, senza mai, però, essere discussa alla Camera. L’abolizione dell’ergastolo è un segno di civiltà giuridica. Giovani democrazie come quella spagnola e portoghese l’hanno abolito con previsione costituzionale. La pena perpetua si scontra palesemente con la finalità rieducativa che la nostra Costituzione, all’articolo 27, assegna alla pena detentiva. Con un illogico sofisma la Corte Costituzionale ha sostenuto che l’ergastolo è legittimo proprio in quanto nella pratica non viene effettivamente scontato. Si tratta di un ragionamento contraddittorio che è confutabile dal punto di vista teoretico e dal punto di vista empirico. In primo luogo non può mai essere una valutazione di fatto a far decidere circa la costituzionalità di una norma. Il sistema giuridico deve reggersi su architravi di principio, altrimenti basterebbe una maggiore durezza dei giudici di sorveglianza nel concedere i benefici a far venir meno quell’obiezione. Da un punto di vista più strettamente empirico va ricordato che attualmente gli ergastolani sono ben 1262, di cui 29 donne. Grazie all’indulto alcuni di loro potranno, forse, accedere più rapidamente alle misure alternative. I numeri alti non sembrano confermare la tesi secondo cui l’ergastolo nella pratica penitenziaria non esiste.

Giuliano Pisapia è stato incaricato di presiedere la commissione ministeriale di riforma del codice penale. La revisione del sistema sanzionatorio deve essere il primo obiettivo da perseguire. L’abolizione dell’ergastolo potrebbe avere un virtuoso effetto a cascata determinando la riduzione di tutti i massimi edittali. La permanenza della pena dell’ergastolo nel nostro ordinamento giuridico risponde a una esigenza di rassicurazione sociale. Il superamento del codice Rocco, che ha oltre tre quarti di secolo di vita, deve essere un obiettivo politico in cui credere tenacemente. Il tema è oggi ripreso da Rifondazione che senza troppi indugi decide di lanciare, a partire da l’Aquila e con il suo segretario Franco Giordano in prima fila, una campagna per l’abolizione della pena dell’ergastolo. Se di questi temi si riuscisse a parlare senza alzare troppo la voce, evitando cadute demagogiche, confrontandosi su questioni alte di portata giuridico-filosofica, ascoltando le ragioni degli abolizionisti senza gridare al lupo, probabilmente la contrarietà dell’opinione pubblica si assottiglierebbe e si riuscirebbe a decidere senza troppe angosce para-elettorali. Se invece a dominare la scena mediatica resterà, come è accaduto in queste settimane a proposito dell’indulto, il solo Travaglio con i suoi facili discorsi giustizialisti, probabilmente la partita socio-giuridico-culturale potrà dirsi definitivamente perduta.

 

L’Osservatorio Regionale dell’Umbria, di Francesca Mottolese

 

La Giunta Regionale umbra ha approvato il disegno di legge che istituisce la figura del Garante dei diritti dei detenuti. La nostra Carta Costituzionale all’art. 27 così recita: "La detenzione deve tendere alla rieducazione del reo e non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità".

Per rendere praticabile il dettato costituzionale è stata individuata, fra l’altro, la figura del Garante dei diritti dei detenuti e, più in generale, delle persone private della libertà personale. Le funzioni del Garante, in sintesi, consistono: nella vigilanza e nella verifica delle condizioni di detenzione; nell’assicurare una posizione di terzietà e indipendenza rispetto all’Amministrazione Penitenziaria e svolgere un’attività di mediazione fra le istituzioni e le persone che scontano la pena; nella facoltà di rendere pubbliche le condizioni di detenzione e la loro iniquità.

Alcuni esempi di attività possono chiarire l’importanza di tali funzioni: abbreviare i tempi per un ricovero ospedaliero; informare sull’accesso al patrocinio gratuito per i non abbienti; sollecitare la realizzazione dei lavori necessari per migliorare le condizioni igienico-sanitarie dell’istituto; assicurare il rispetto dei diritti previdenziali del detenuto lavorante; garantire il rispetto di livelli adeguati di trattamento; verificare i trattamenti interni e la loro compatibilità con condizioni dignitose e con gli standard europei e la loro fruibilità da parte dei detenuti stranieri.

Con l’approvazione di un apposito d.d.l. la Regione Umbria ha provveduto all’istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. L’iniziativa umbra segue analoghe iniziative da parte di altre Regioni ed Enti Locali, quali il Lazio, la Toscana, la Puglia, la Campania e la Sicilia, nonché dei Comuni di Roma, Firenze, Bologna, Torino, Nuoro, Reggio Calabria e della Provincia di Milano.

Nella Relazione accompagnatoria al provvedimento in oggetto è stata focalizzata la situazione delle carceri umbre (Perugia, Spoleto, Terni e Orvieto) a giugno del 2005, prima dell’indulto: 1.023 detenuti presenti complessivamente, di cui 57 donne. Nel 2005 il totale degli ingressi è stato pari a 1.218, di cui oltre il 50% ha riguardato stranieri.

Il disegno di legge approvato è composto di 11 articoli: il Garante sarà un organo monocratico eletto all’unanimità dal Consiglio Regionale, la cui durata in carica è fissata a cinque anni. Percepirà un compenso pari alla metà dell’indennità dei consiglieri regionali e potrà contare sull’appoggio di un gruppo di lavoro.

Il provvedimento è passato con i voti della maggioranza di centrosinistra. Una votazione resa possibile per il "passo indietro" dell’opposizione che non ha scelto la strada dell’ostruzionismo con emendamenti a raffica, bensì quella dell’applicazione alla lettera del regolamento limitata a interventi e dichiarazioni di voto. Non sono tuttavia mancate obiezioni da parte della destra, incentrate soprattutto, da un lato, sui costi e, dall’altro, su un’argomentazione che vorrebbe il Garante privo ormai di utilità, in una situazione in cui l’indulto avrebbe già migliorato a sufficienza le condizioni della popolazione carceraria. Riguardo a quest’ultimo punto, va sottolineato con forza che il ruolo del Garante non si esaurisce nell’intervenire in situazioni di estremo disagio, ma vuole costituire una garanzia di effettività rispetto ai diritti delle persone private della libertà, nonché evitare, come funzione preventiva, che tali situazioni esplodano, grazie alla pratica della sorveglianza nell’attuazione delle normative di tutela. Del resto, di tali esigenze si è fatto interprete lo stesso Consiglio d’Europa con l’approvazione nel gennaio 2006 delle nuove regole penitenziarie europee, laddove si fa esplicito riferimento alla previsione di istituzioni nazionali e locali di ispezione, supervisione e controllo delle condizioni di detenzione.

 

I centri di detenzione in Italia, allarmante il bilancio

 

"Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti": così recita l’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Il rispetto di questo articolo, che è tra l’altro il punto di partenza della Convenzione Europea per la prevenzione della tortura, è garantito dal sistema di visite effettuate dal CPT (Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti). Le visite delle delegazioni del CPT - composte da membri esperti ed imparziali provenienti da vari ambiti disciplinari - vengono effettuate nei luoghi di detenzione come carceri, centri di detenzione per minori, commissariati di polizia, ospedali psichiatrici, centri di permanenza temporanea e assistenza per stranieri per valutare il livello di trattamento degli individui in stato di fermo, ed eventualmente suggerire agli Stati miglioramenti delle situazioni di detenzione. Nel corso delle visite, che possono essere periodiche ma anche organizzate "ad hoc", i rappresentanti del CPT hanno il diritto di spostarsi all’interno dei luoghi di detenzione senza restrizioni, intrattenendosi con i detenuti, anche senza la presenza di testimoni.

E sotto l’attento esame del Comitato è finita più volte anche l’Italia. L’ultima visita, svolta tra il 21 novembre e il 3 dicembre 2004, ha portato i membri della delegazione europea in molti dei nostri Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza per stranieri (Caltanissetta, Lampedusa, Agrigento e Trapani), in alcuni comandi di polizia (Roma-Termini e Civitavecchia), nelle Questure di Roma e di Verona, nelle carceri di Parma e Verona e all’ospedale "San Giovanni di Dio" di Agrigento.

Alla stazione Termini di Roma, lungo il binario 13, la delegazione del CPT ha trovato un box di poco più di 2 metri quadrati, utilizzato come sala d’attesa per i fermati. Proprio il comando della polizia di Roma Termini è stato teatro di uno dei due "incidenti" menzionati espressamente nel Rapporto del CPT. Nel clima di buona collaborazione riscontrato dal CPT, infatti, sia a livello locale sia nazionale, il personale in servizio a Roma-Termini si è invece particolarmente "distinto" per essersi rifiutato di fornire il proprio nome e codice identificativo, nonché per aver fatto attendere la delegazione del CPT per quasi un’ora, nascondendo la presenza di due detenuti. E a Civitavecchia le cose non sono andate meglio.

In generale, le accuse mosse dai fermati (maltrattamenti e insulti di carattere razzista e xenofobo) e i rimpatri forzati degli stranieri sbarcati a Lampedusa, di cui si legge a più riprese nel Rapporto, non fanno altro che incupire l’immagine democratica del nostro Paese. Un Paese che, secondo il Comitato, non dovrebbe assolutamente permettere il rimpatrio di persone laddove ci sia motivo serio di credere che possano correre reale pericolo di essere sottoposte a tortura, a pene o trattamenti inumani o degradanti.

Vale la pena di ricordare l’episodio del rimpatrio forzato verso la Libia a bordo della nave tedesca "Lydia Oldendorff", avvenuto il 9 ottobre 2004. Circostanza rispetto alla quale il Rapporto parla chiaramente di incidenti dovuti all’uso della violenza da parte dei membri delle forze dell’ordine; incidenti che però il governo italiano nella sua risposta sminuisce del tutto. Nessuna meraviglia, quindi, che lo stesso governo abbia impiegato un anno per concedere l’autorizzazione alla pubblicazione del Rapporto.

Dall’ultimo Rapporto, inoltre, emerge a più riprese anche l’inadeguatezza delle strutture igienico-sanitarie e del sistema di riscaldamento (addirittura in molti casi mancano anche le coperte), oltre alla palese necessità di rafforzare la presenza di personale medico. Innegabili sono le preoccupazioni del Comitato nei confronti del sovraffollamento delle carceri (nel frattempo ridimensionato dal provvedimento di indulto adottato dall’attuale governo n.d.r.) e delle condizioni di detenzione previste dal "regime del 41 bis". Su questo fronte il Rapporto mira ad un miglioramento dei presidi sanitari, degli spazi ricreativi e delle modalità delle visite (almeno due al mese della durata di un’ora ), ma anche ad entrare un po’ di più nella quotidianità del singolo individuo, ad esempio facilitando l’accesso al telefono.

Rispetto ai Centri di Permanenza Temporanea, infine, il Comitato dichiara di non aver ricevuto alcuna palese denuncia di maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine, ma è l’organizzazione complessiva dei luoghi a suscitare il vero allarme. L’assenza di un registro con i dati dei reclusi e il fatto che, al momento della visita, un terzo delle docce del Centro di Lampedusa fossero fuori uso, sono solo due esempi delle carenze riscontrate. Inoltre, molti dei reclusi non sono mai stati adeguatamente informati dei loro diritti nella loro lingua, non essendoci interpreti e mediatori linguistici in numero sufficiente. Quanto alle specifiche realtà visitate, i risultati del Rapporto non sono certo confortanti. In questo quadro va sottolineare un dato positivo: grazie all’intervento e al Rapporto del Comitato che ne denunciava le condizioni di degrado totale, il CPT di Agrigento ha visto una rapida chiusura.

 

Crisi irachena (Intervista a Mauro Palma)

 

Intervista a Mauro Palma, rappresentante italiano nel Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti inumani e degradanti: "La prima battaglia si è persa quando nel nuovo ordinamento iracheno si è prevista la pena di morte. Restringere i valori democratici alla mera possibilità di esercizio elettorale, per altro realizzato in condizioni di occupazione, è pura miopia, se non follia".

 

Il punto sulle difficoltà dell’Europa.

L’Europa indignata dice no alla pena di morte per Saddam Hussein. È "distante dalla nostra tradizione ed etica", afferma perentorio Romano Prodi. Gli fanno eco numerosi esponenti dell’Unione europea, dalla presidenza finlandese al francese Philippe Douste-Blazy, fino a Per Stig Moeller, ministro degli Esteri di un paese, la Danimarca, che ha partecipato alle operazioni in Iraq. Tutti contrari all’esecuzione in nome dei principi fondamentali dell’Unione, sanciti dall’Atto finale del Trattato di Amsterdam in cui è espressamente messo nero su bianco il no comunitario alla pena capitale. Tuttavia, alla luce di quanto avvenuto intorno alla questione negli ultimi tre mesi in Italia e in Europa, lo sdegno dell’Ue appare poco convincente. Ne discutiamo con Mauro Palma, rappresentante italiano del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti inumani e degradanti.

 

In seguito alla campagna dell’associazione Nessuno tocchi Caino e a un voto unanime della Camera dei deputati il 27 luglio scorso, da Roma era partita la proposta di presentare all’Assemblea generale dell’Onu una risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali. Proposta che però si è arenata proprio una volta giunta sul tavolo di Bruxelles. Perché?

La proposta sembra essersi arenata, è vero. Facciamo però un passo indietro: nel 1997 il governo italiano ha ottenuto per la prima volta il consenso della Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani per una risoluzione contro la pena di morte da presentare all’Assemblea generale; risoluzione che dal 1999 in poi è stata presentata anche dall’Unione europea. La linea sin d’allora scelta è stata quella del coinvolgimento europeo su un impegno comune che allora sembrava solido e irreversibile.

Del resto da anni i paesi europei sono tra loro legati dall’impegno abolizionista, in quanto membri del Consiglio d’Europa che pone tale condizione per accettare un paese al proprio interno. E, con la deprecabile esclusione della Bielorussia, che esegue sentenze di morte, ne fanno ormai parte tutti gli altri - ben 47 stati, inclusa la Russia che, proprio per questo, attua una moratoria in attesa di cancellare formalmente la pena capitale dal proprio ordinamento. Per quanto attiene l’Unione poi il bando della pena di morte è incluso nell’Atto finale di Amsterdam.

Dunque, un impegno comune, europeo, per l’estensione dell’area dei paesi abolizionisti assunto sin dal 1999. Che però sembra meno pregnante in questo avvio del XXI secolo: da un lato le dichiarazioni di alcuni governanti, quale il primo ministro polacco, che non nascondono la propria preferenza per la pena di morte, da un altro le cautele di altri, che pur rappresentati di consolidate democrazie, sembrano intimiditi dall’enfasi sulla mutata situazione internazionale dopo il settembre del 2001 e dalla necessità di non irritare l’alleato d’oltreoceano. A tutto ciò si aggiungono anche gli interessi finanziari e commerciali di molti con paesi, quale l’Arabia Saudita, che mantengono ben attiva la pena di morte nel proprio ordinamento.

Si è così determinata una situazione di tiepidezza: si mantiene fermo il principio del rifiuto nel proprio paese, ma non si assume un ruolo propositivo perché altri paesi siano indotti ad assumere anch’essi la linea abolizionista.

Questo spiega alcune timidezze dell’Unione. E spiega perché, per esempio, la Gran Bretagna abbia fatto opposizione alla proposta di una mozione comune da presentare all’Assemblea. Del resto anche nell’immediatezza della notizia della condanna a morte di Saddam Hussein e prima di una correzione di rotta da parte del primo ministro Blair, proprio dalla Gran Bretagna, paese europeo e come tale vincolato a un attivo impegno per l’abolizione, sono venute voci di consenso istituzionale alla sentenza.

In questa fase di oscillazione e tiepidezza, la proposta per una risoluzione all’Assemblea è per ora venuta meno. Se ne parlerà tra un anno, probabilmente. Per ora si è scelta la via di mediazione proposta dalla Francia per una sorta di dichiarazione non vincolante e non strettamente impegnativa piuttosto che quella di una vera e propria risoluzione. Del resto questo scarso risultato è anch’esso un frutto amaro delle attuali procedure all’interno della Ue che si basano sull’unanimità.

 

Martedì si è aperto il secondo processo contro Saddam: quello per i 180 mila curdi uccisi tra il 1987 e il 1988 durante le campagne militari di Anfal. Anche in questo caso la pena di morte è ampiamente prevista. Poi si passerà all’appello per entrambi i procedimenti. Infine, a primavera, presumibilmente l’esecuzione. Possibile non si siano valutate le conseguenze, sul piano politico e su quello della sicurezza, sull’Iraq?

Su questo piano, la prima battaglia si è persa quando nel nuovo ordinamento di un paese che si diceva tornato ad avviarsi verso la democrazia si è prevista la pena di morte. Restringere i valori democratici alla mera possibilità di esercizio elettorale, per altro realizzato in condizioni di occupazione, è pura miopia, se non follia.

Ma, anche al di là di ogni valutazione di principio sull’inaccettabilità della pena di morte, è evidente che il processo avrà effetti sulla situazione interna e certo non nella direzione di diminuire il permanere di una crescente guerra civile interna. Dal punto di vista delle conseguenze sul piano politico e su quello della sicurezza interna, occorre considerare anche i tempi di questa sentenza e quelli della sua esecuzione, qualora sia effettivamente attuata. Un contro è l’immediatezza del rovesciamento di un regime tirannico, che spesso vede l’uccisione del tiranno con consenso popolare, un contro è la sua uccisione dopo anni vissuti nella totale insicurezza, determinata da una guerra imposta dall’esterno e sempre più divenuta conflitto anche interno. Si sono sedimentati odi, ritorsioni e irriducibili inimicizie, mentre è cresciuta la possibilità di avere armi e costruire gruppi armati territorialmente radicati.

In questo contesto l’esecuzione della sentenza rafforzerebbe l’impossibilità di ricostruire un tessuto condiviso nel paese. Non tragga in inganno la reazione relativamente calma e apparentemente poco interessata di larga parte dell’opinione pubblica irachena, così come almeno è stata riportata dalle poche fonti di informazione - quasi nessuna indipendente - ancora presenti nel territorio.

Credo ci siano spazi di margine politico per ottenere da parte dei paesi europei una conversione della sentenza, una volta confermata. L’Europa deve trovare una capacità di parola comune su questo tema, superando le difficoltà interne a cui accennavo, e una capacità di riaffermazione della propria carta di valori comuni - quale è la Convenzione europea per la tutela dei libertà fondamentali e dei diritti dell’uomo - nei confronti dell’alleato americano. In questo senso grande azione può e deve essere svolta dalla Germania nel semestre di sua presidenza che si sta per aprire.

 

Torniamo al processo. Che valutazione ne dai? Si possono invocare i "principi etici dell’Unione" e contemporaneamente permettere un processo "farsa"?

Ho fatto cenno prima alla Convenzione europea sui diritti umani. È tale convenzione a costituire la ratio dell’esistenza stessa del Consiglio d’Europa. Questo è bene ricordarcelo e ricordarlo. Definita e formalizzata nel 1950 e ratificata dagli stati per accedere al Consiglio stesso, essa rappresenta la via europea per rendere effettivo quanto dichiarato nel dicembre 1948 alle Nazioni Unite circa i diritti fondamentali di ogni persona. Quella Dichiarazione universale, infatti, ha un valore etico, non legalmente vincolante, quale lo ha invece una Convenzione, che è un trattato tra Stati. Tra i diritti fondamentali di ogni persona - quale che sia la sua cittadinanza, la sua responsabilità, la sua posizione individuale, sociale, giuridica - è incluso quello di avere un indipendente, rapido e giusto processo che stabilisca la sua responsabilità rispetto alle accuse contro di lui formulate.Un processo equo non è un optional, ma un diritto fondamentale. E la Corte di Strasburgo, che appunto vigila a che la Convenzione sia rispettata, è spesso chiamata a stabilire se un processo completato in uno degli Stati del Consiglio, è stato o meno equo, operando così come il famoso "giudice a Berlino" del mugnaio tedesco che la tradizione letteraria ci ha tramandato come ultima risorsa per ottenere giustizia. Ovviamente questo nel contesto europeo: nessuno strumento è dato alla Corte o ad altri per intervenire sui processi che altrove avvengono. Non ho elementi di diretta conoscenza delle fasi e delle procedure del processo a Saddam e forse sarebbe stato - e sarebbe tuttora - bene avere avuto maggiori sguardi su quanto avveniva in quell’aula. Non posso quindi definirlo a priori come farsa. Resto impressionato dagli attori presenti nella scena processuale: un giudice curdo, un procuratore sciita, gli avvocati dell’imputato sunniti. Una composizione che nel contesto di inasprimento delle lotte religiose se di appartenenza, in corso in Irak, rende il tutto piuttosto caricaturale, se non fosse drammatico. La stessa immagine di Saddam è stata una componente essenziale del processo: da un lato un tribunale che rilanciava l’immagine di se stesso come alta istanza chiamata a giudicare un criminale di guerra e che mantenendo questa sua connotazione voleva rafforzarsi, da un altro un imputato che rilanciava la propria immagine di vecchio capo militare caduto in campo di battaglia.Tutte forzature processuali che portano lontani dall’equità di un processo. Ancora di più quando su tutto ciò vigila, volando al di sopra e roteando come un uccello che sorveglia che tutto vada avanti come dovuto, chi in quel paese ha portato la guerra e nel suo sviluppo ed esito costruisce il proprio consenso in patria. La pronuncia della sentenza a due giorni dalle elezioni di medio termine negli Stati Uniti sono un ulteriore elemento di questa scena processuale.

 

Quali altre strade sarebbero state percorribili?

Non ci sono vie maestre in questo campo. Certo era possibile avere un tribunale internazionale effettivamente indipendente; oppure era possibile avere un tribunale irakeno effettivamente tale, fuori cioè dalle influenze che il periodo di celebrazione del processo e la permanente occupazione del territorio determinano. Certo era possibile avere porte molto più aperte agli osservatori, rendere visibili tutte le procedure, lavorare all’interno di una casa di vetro e non lasciare spazio ad alcuna opacità. Soprattutto era però necessario stabilire prioritariamente l’inaccettabilità della pena di morte e comunque la sua esecuzione. Questa anche per ragioni politiche dettate dalla necessità di diminuire la situazione di crisi e di conflitto interno nel paese. Da più parti si era detto che il processo doveva riunire gli irakeni segnando una svolta comune verso il futuro e chiudendo così con il passato. Questo non è stato: al contrario il processo ha diviso ancora di più e la sentenza pronunciata, qualora effettivamente eseguita, rischia di far diventare irreversibili tali divisioni.

 

Le iniziative di Antigone, a cura della Redazione

 

È in uscita il nuovo Rapporto di Antigone, il IV Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia "Dentro ogni carcere, Antigone nei 208 istituti di pena italiani", a cura di Laura Astarita, Paola Bonatelli, Susanna Marietti, edito da Carocci, 2006.

 

Di seguito la lista delle presentazioni locali del Rapporto:

 

Lunedì 13 novembre ore 9.30

Sede Antigone Bologna

Via San Carlo, 42 – Bologna

 

Lunedì 13 novembre ore 16.00

Aula B2 Facoltà Scienze Politiche

Via del Santo – Padova

 

Lunedì 13 novembre ore 16.00

Sala Consiglio Provinciale di Catanzaro

Piazza Rossi – Catanzaro

 

Lunedì 13 novembre ore 16.30

Ricordi Media Store

Via Cavour, 13 – Palermo

 

Lunedì 13 novembre ore 17.00

Centro San Fedele - Sala della Trasfigurazione

Piazzetta San Fedele 4 – Milano

 

Lunedì 13 novembre ore 17.30

Libreria Montecitorio

Piazza Montecitorio, 59 - Roma

 

Martedì 14 novembre ore 18.45

Libreria Rinascita

Corso Porta Borsari 32 - Verona

 

Venerdì 17 Novembre ore 10.30

Consiglio dell’Ordine degli Avvocati - Palazzo di Giustizia

Corso Vittorio Emanuele 130 - Torino

 

Venerdì 17 novembre ore 17.00

Auditorium Centro Polifunzionale

Provincia di Nuoro

 

Mercoledì 29 novembre ore 17.30

Libreria Feltrinelli

Corso Umberto 5/7 - Pescara

 

 

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