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Il carcere non è un centro di permanenza temporanea! di Emilio Santoro (docente Università di Firenze)
Il numero dei migranti nelle carceri italiane sta aumentando rapidamente: nelle carceri delle grandi città si arriva a percentuali che spesso superano il 50% dei detenuti. Questo aumento avviene a dispetto di tutti i tentativi (vedi espulsione come pena alternativa introdotta dalle Bossi-Fini) di espellere i migranti soggetti a pena. Questo andamento non è sorprendente dato che la stessa Bossi-Fini, sanzionando penalmente la violazione dell’ordine ad allontanarsi dal territorio e prevedendo l’arresto in flagranza per chi si trova in violazione di un tale ordine sul territorio dello Stato, configura il carcere come un evento normale per coloro che sono costretti dalla stessa legge (data l’assoluta implausibilità ed inumanità sia della stipulazione di un contratto di lavoro a distanza che dell’idea di un radicamento sul territorio italiano limitato al periodo di lavoro) a vivere da "clandestini". Il dato su cui in questa sede mi preme mettere l’accento è però rappresentato dal fatto che sempre più il carcere viene configurato dal legislatore come un centro di permanenza temporanea, cioè come un luogo in cui il migrante (anche se era regolare) soggiorna in attesa dell’esecuzione dell’espulsione. La Bossi-Fini mira infatti a rendere praticamente impossibile che un migrante passato dal carcere possa riprendere la sua vita normale sul territorio italiano, possa reinserirsi socialmente. La previsione che debba essere espulso infatti chiunque sia entrato in carcere per uno dei delitti previsti dall’art. 380, comma primo e secondo, c.p.p. nonché per qualsiasi reato attinente la droga esclude in partenza la possibilità che un migrante possa riprendere la sua vita sul territorio italiano da regolare: anche se ha rubato una mela (cosa per cui si va in carcere non solo nei film e nelle storielle ma anche nella civile Italia, dove il furto non aggravato non esiste più, ... naturalmente solo se si è migranti!). Questa decisione del legislatore è assolutamente incostituzionale perché da un lato svuota di ogni contenuto il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione che vuole che la pena tende a "alla rieducazione del condannato", cioè, secondo l’interpretazione ormai canonica, della Corte Costituzionale al suo reinserimento sociale. La sistematica prospettiva di essere espulso impedisce sicuramente alla pena di aver qualsiasi effetto "rieducativo-reinseritivo" e crea una intollerabile disparità di trattamento tra migranti e cittadini italiani, ma soprattutto snatura il carcere. Da luogo in cui viene praticato un intervento sociale di tipo reinseritivo questo si trasforma in un contenitore di carne umana destinata all’espulsione. Chiunque abbia a cuore le sorti della pena detentiva italiana, oltre che quelle dei migranti, non può che opporsi con forza ad una tale tendenza. In attesa che questa mutazione genetica della pena detentiva sia sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale (il magistrato di sorveglianza di Alessandria ha già rimesso al giudizio della Corte la norma relativa all’espulsione come pena alternativa). Si deve trovare una strada per sabotare sistematicamente il disegno che vuole snaturare le carceri italiane. Le modalità con cui farlo che finora siamo riusciti ad individuare sono tre: 1) opporre all’esecuzione dell’espulsione amministrativa l’esecuzione della pena pecuniaria; 2) opporre all’esecuzione dell’espulsione amministrativa l’esecuzione della misura di sicurezza (questa strategia ha delle controindicazioni) 3) opporre al diniego del permesso di soggiorno la non retroattività della norma della Bossi-Fini che individua i reati di cui all’art. 380, primo e secondo comma, c.p.p., nonché i reati attinenti agli stupefacenti come ostativi al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno. Le prime due strategie sono meramente dilatorie, ma sono fondamentali per prendere tempo dato che i ricorsi contro i provvedimenti di espulsione non hanno effetti sospensivi. Il momento in cui è più facile sollevare le opposizioni è quello del giudizio di convalida dell’internamento nei Centri di permanenza temporanei. Anche la mera dilazione dell’espulsione ha effetti importanti specialmente se si protrae per cinque anni. In questo caso infatti si mette il migrante (non dichiarato recidivo) in condizione di chiedere la riabilitazione che dovrebbe eliminare tutti gli ostacoli di natura penale posti dalla Bossi-Fini alla sua regolarizzazione. Tentativo di costruzione di un percorso costituzionalmente legittimo per i migranti ex-detenuti (a dispetto della Bossi-Fini!).
1) Sul pagamento delle pene pecuniarie.
La scelta di esercitare o meno la potestà punitiva da parte dello Stato non può essere rimessa alla discrezionalità della pubblica amministrazione né tanto meno può dipendere da criteri quali la personalità del soggetto passivo. Bensì tale scelta è di prioritaria spettanza del legislatore il quale nel perseguimento dell'interesse pubblico, valutati gli interessi in gioco, può anche optare per una rinunzia all'esercizio della potestà punitiva solo in casi eccezionali che come tali devono essere espressamente indicati. In mancanza di una specifica indicazione in tal senso nessuna deroga è ammessa all'obbligatorietà dell'esercizio della potestà punitiva. Si ricorda che la pena pecuniaria non è una pena residuale rispetto a quella detentiva, essendo la pena pecuniaria sanzione penale principale così come quella detentiva e non pena accessoria. In base all’art. 742 c.p.p. soltanto la presenza di accordi internazionali, intercorrenti tra gli Stati interessati, autorizza il Ministro di Grazia e Giustizia a domandare l’esecuzione delle sentenze penali all’estero o ad acconsentirvi quando essa è richiesta dallo Stato estero. Non risulta che l’Italia abbia stipulato accordi in questa materia (esecuzioni delle pene pecuniarie) con alcun paese. Peraltro il migrante può chiedere la conversione di una delle sue pene pecuniarie nella misura della libertà controllata. Ottenuta la suddetta conversione, ci troveremmo di fronte ad una misura restrittiva della libertà personale la cui esecuzione all’estero necessiterebbe in ogni caso del consenso dell’interessato, come precisato dall’art. 742, comma 2, del codice di procedura penale. Un altro argomento a sostegno della tesi che la pena pecuniaria osti all’espulsione amministrativa è offerto dall’aggiunta di un comma 1 bis all’art. 15 del T.U. operato dalla legge 189/2002. Infatti, in tale comma 1 bis dell’art. 15 si prevede che l’espulsione come misura di sicurezza vada effettuata subito dopo la cessazione del periodo di custodia cautelare o di detenzione e, quindi, prima dell’esecuzione della pena pecuniaria. Una disposizione di tal genere non è prevista per la espulsione amministrativa. Perciò, il legislatore della legge 189/2002, nel pronunciarsi su quali forme di espulsione sono immediatamente eseguibili al momento della scarcerazione, ha inteso riferirsi solo alla espulsione prevista come misura di sicurezza. Se ne desume che, per quanto riguarda l’espulsione amministrativa, il legislatore abbia inteso lasciare immutata la disciplina prevista all’art. 742 c.p.p. e a ribadire il principio per cui prima si esegue tutta la pena (compresa quella pecuniaria) e solo successivamente si può procedere all’espulsione. Altrimenti, avrebbe dovuto affermare che tanto l’espulsione misura di sicurezza che l’espulsione amministrativa si eseguono immediatamente dopo la scarcerazione. A questi motivi si deve aggiungere che esiste un diritto del migrante a estinguere anche la pena pecuniaria, mediante la sua rateizzazione o la sua conversione in libertà controllata, se non ha fondi sufficienti per estinguerla in una unica soluzione, cosa che non accade mai. (Ricordiamo che il nuovo Testo Unico in materia di spese di giustizia stabilisce all’art. 238, comma 4, in merito all’esecuzione delle pene pecuniarie ed in particolare per la loro conversione, che "alla scadenza del termine fissato per l’adempimento, anche rateizzato, è ordinata la conversione, dell’intero o del residuo". Una norma di questo tipo non lascia spazio alcuno alla possibilità che sul nostro territorio permangano soggetti in stato di insolvenza permanente. Infatti l’estinzione della pena pecuniaria, che è come detto pena principale e non accessoria, è a norma dell’art. 179 c.p. precondizione per l’ottenimento della riabilitazione. Impedire l’esecuzione della pena pecuniaria vorrebbe dire discriminare il migrante ed impedirgli il conseguimento della riabilitazione. Fino a quando non si saranno ottenute sufficienti pronunce giudiziarie che affermano l’ineffettuabilità dell’espulsione amministrativa prima dell’esecuzione della pecuniaria conviene che il migrante detenuto chieda prima della conclusione della reclusione la conversione della pena pecuniaria in libertà controllata. In questo modo si rendono più forti le garanzie contro la sua espulsione, dato che come ricordato il secondo comma dell’art. 742 relativo all’esecuzione delle pene limitative della libertà all’estero richiede espressamente il consenso del soggetto interessato. Una volta consolidato il principio della non eseguibilità dell’espulsione amministrativa prima dell’esecuzione della pena pecuniaria (ammesso e non concesso che si riesca a consolidarlo) allora al migrante conviene chiedere la sua rateizzazione, che gli concede un lungo periodo di regolarità: è in esecuzione pena finché paga le rate della pena pecuniaria e quindi come tutti i soggetti in esecuzione pena ha diritto a lavorare e ad avere l’assistenza sanitaria, oltre che a non essere espulso.
2) Concorrenza tra misura di sicurezza ed espulsione come misura amministrativa
Preliminarmente vi è da dire che la giurisprudenza della Corte Costituzionale (fra cui la sentenza n. 175/1971, Pres. Branca, Rel. Mortati, in Giurisprudenza Costituzionale, Repertorio, 1971, p. 53 ss.) afferma che non appartiene alla discrezionalità del legislatore concedere o meno la possibilità di ottenere il riconoscimento della completa innocenza da parte dell’imputato. Esiste un interesse morale ad una sentenza di assoluzione con formula piena che non può venire soppresso ad libitum dal legislatore. Per analogia si può affermare che esiste un uguale interesse a veder rivista la propria pericolosità da parte del soggetto al momento in cui finisce di scontare la pena detentiva. Quando l’art. 13 del Testo unico in materia di immigrazione, come modificato dalla legge 189/2002, prevede la richiesta di nulla osta all’autorità giudiziaria prevede che questa possa negarlo in presenza di inderogabili esigenze processuali, tali esigenze vanno valutate, a dispetto di una sbrigativa sentenza della Corte di Cassazione, anche nell’interesse della parte accusata o, nel caso di procedimento di sorveglianza, condannata, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione (Giusto processo). Quindi, quando in sentenza esiste una misura di sicurezza, prima di eseguire l’espulsione amministrativa deve essere quantomeno richiesto il nulla osta al magistrato di sorveglianza che deve rivedere la pericolosità. Il magistrato di sorveglianza dovrebbe negare il nulla osta a tutela dell’interesse del detenuto a vedersi dichiarare non pericoloso o a vedersi commutare la misura di sicurezza dell’espulsione (eventualmente sia questa la misura di sicurezza prevista dalla sentenza) in una misura di sicurezza come quella della libertà vigilata che consenta ad un certo punto di avere una decisione che dichiara il soggetto non più pericoloso. Una tale decisione può essere fondamentale infatti al fine di un suo reingresso nell’Unione Europea decorso il periodo di interdizione al reingresso. Merita anche di essere sottolineato che quando il detenuto ha problemi di natura psichica, caso ormai non infrequente dato che il carcere si sta sempre più delineando come mero raccoglitore dei soggetti che disturbano, passando le esigenze di tutela della salute degli individui in secondo piano rispetto a mitizzate esigenze di sicurezza, la misura di sicurezza della libertà vigilata si può configurare come intervento terapeutico essenziale previsto dall’art. 35 del T.U. al comma 3 anche a vantaggio del cittadino straniero comunque presente sul territorio nazionale. Inoltre, tale intervento curativo risulta conforme alla Risoluzione O.N.U. del 30 agosto 1955 (regole minime per il trattamento dei detenuti) in cui all’art. 83 si considera desiderabile che il trattamento psichiatrico sia continuato, se sia necessario, dopo la liberazione del detenuto e sia assicurata un’assistenza sociale post-penitenziaria a carattere psichiatrico. Analogamente, le regole penitenziarie europee contenute nella Raccomandazione del Consiglio dei Ministri della Comunità Europea del 12 febbraio 1987 prevedono al punto 100.4 che sia assicurata al detenuto alienato psichico, dopo la dimissione, la continuità dell’assistenza psichiatrica. E’ evidente che questo percorso deve essere tracciato con l’assistenza del personale dell’area trattamentale dell’amministrazione penitenziaria e dei CSSA. Esso è infatti assolutamente impercorribile senza tutta una serie di relazioni e un programma che solo questo personale può predisporre. La strada della richiesta di conversione della misura di sicurezza dell’espulsione nella misura di sicurezza della libertà vigilata, anche quando supportata dal personale dell’amministrazione penitenziaria, è comunque molto complessa perché non è chiaro se la misura di sicurezza della libertà vigilata osta all’espulsione amministrativa. La materia è regolata dall’art. 200 c.p. che all’ultimo comma, statuisce che "l’applicazione di misure di sicurezza allo straniero non impedisce l’espulsione di lui dal territorio dello Stato, a norma delle leggi di pubblica sicurezza". Le norme a cui il predetto articolo fa riferimento (art. 151 del Testo unico delle leggi di Pubblica sicurezza) sono state abrogate dall’art. 46 della legge n. 40 del 1998, poi confluita nel Testo Unico in materia di immigrazione, D.L.vo 286/1998. Considerare che con questa abrogazione il rinvio dell’art 200 c.p. vada ritenuto implicitamente riferito alle nuove norme sull’espulsione dello straniero (che hanno sostituito quelle previste dalle leggi di pubblica sicurezza) appare problematico sotto il profilo della lettera del testo dell’art. 200 c.p. e del principio di legalità che regola la materia delle misure di sicurezza. In primo luogo l'attribuzione di norma di pubblica sicurezza al Testo Unico in materia di immigrazione (D. L.gvo 286/98) appare contraria alla ratio dello stesso testo unico oltre che all’intenzione del legislatore. Il dibattito parlamentare e le relazione che accompagnano la presentazione del progetto che diverrà la legge n. 40 del 1998, poi confluita nel decreto legislativo n. 286 del 1998, testimoniano la volontà del legislatore di pervenire attraverso una regolamentazione organica dello status dei migranti al superamento della logica di pubblica sicurezza che aveva segnato la natura dei precedenti interventi legislativi in tema d’immigrazione. Basti qui menzionare le due relazioni. In quella alla Camera del Governo si parla di un testo normativo caratterizzato «da una visione responsabile e solidale dei problemi del mondo anche a noi vicino, da una preoccupazione di pace e giustizia, da una scelta di cooperazione euromediterranea», connotazione che non sembra certo quella di una "legge di pubblica sicurezza". Si dice che la norma mira a «disciplinare l’immigrazione e insieme, anche se non in modo esaustivo, la condizione dello straniero», per la quale si sottolinea «la necessità di definire ormai un quadro normativo, certo, generale e unitario»: appare molto problematico classificare come "legge di pubblica di sicurezza" un testo mirante a regolare lo status delle persone! Infine si afferma che «l’intento del Governo è quello di varare una legge quadro capace di reggere alla prevedibile evoluzione del fenomeno - dell’immigrazione - nei prossimi anni». Questa chiara definizione di legge quadro regolante lo status dei migranti sembra chiarire in modo esplicito che non siamo di fronte ad una "legge di pubblica sicurezza". Concetti analoghi sono ribaditi nella relazione del Senatore Guerzoni, al Senato: qui si parla di una legge mirante a dare "una visione unitaria della materia" dell’immigrazione e capace di intervenire "su tutta la condizione dello straniero in Italia". Appare quindi confermata la volontà di superare un’impostazione parziale come è quella delle "leggi di pubblica sicurezza" che si occupano di un solo aspetto, appunto la "pubblica sicurezza" che ha caratterizzato la normativa in materia di stranieri fino alla legge Martelli. Del resto ad escludere la caratterizzazione della legge n. 40 del 1998 come "legge di pubblica sicurezza" dovrebbe bastare il Titolo V della stessa legge che disciplina il godimento dei cosiddetti "diritti civili" o "diritti di cittadinanza" per straniero presente sul territorio italiano. Se si esclude che il T.U. del 1998 sia una "legge di pubblica sicurezza" allora la misura di sicurezza dovrebbe ostare, per il principio di legalità che governa la materia delle misure di sicurezza, all’espulsione amministrativa. Infatti nel secondo comma dell’art. 200 c.p.p., concernente la normativa che deve regolare l’applicazione della misura di sicurezza viene adottata dal legislatore una tecnica di redazione normativa rispondente ad una visione di "proiezione verso il futuro", si afferma che "se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo dell’esecuzione". Viceversa nel quarto ed ultimo comma dell’art. 200 c.p., come già ricordato, si legge che "l’applicazione di misure di sicurezza allo straniero non impedisce l’espulsione di lui dal territorio dello Stato, a norma delle leggi di pubblica sicurezza". In tal caso la tecnica di redazione normativa è stata quella di un rinvio ad una specifica categoria di disposizioni legislative. Agli effetti pratici, con la precisazione finale di tale ultimo comma, il risultato che si ottiene, conformemente al principio di legalità, è che solo il ristretto ambito delle espulsioni a norma delle leggi di pubblica sicurezza prevale sulla misura di sicurezza applicata allo straniero, non le espulsioni disciplinate da leggi di diversa natura, non le espulsioni amministrative in genere. Appare irrilevante l’argomento per cui quella prevista dalle leggi di pubblica sicurezza era l’unica forma di espulsione dello straniero esistente al momento della redazione della norma (e quindi l’unico rinvio possibile ad una normativa sull’espulsione). Se il legislatore avesse realmente voluto far prevalere qualsiasi tipo di espulsione amministrativa sulla misura di sicurezza non avrebbe avuto necessità di aggiungere la stringente precisazione finale "a norma delle leggi di pubblica sicurezza". Sarebbe stato sufficiente, omettere questa precisazione o, adottare anche in tale ultimo comma la già citata tecnica di "proiezione verso il futuro" scrivendo (o riscrivendo) nella precisazione finale, "disposta a norma delle leggi in vigore al tempo dell’esecuzione", esattamente come nel secondo comma. Ancora il legislatore avrebbe potuto utilizzare un inciso differente, come "per motivi di pubblica sicurezza", capace di ricomprendere anche espulsioni previste da leggi non specificatamente di pubblica sicurezza, ma comunque attinenti a questa materia. Peraltro, anche se il legislatore avesse adottato tale ultima formula, rimarrebbe dubbia la possibilità di considerare l’espulsione disposta dalla prefettura come una espulsione per motivi di pubblica sicurezza, dato che l’art. 13 del decreto legislativo n. 286 del 1998, qualifica come espulsione effettuata "per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato" solo quella regolata dal primo comma e quindi disposta dal Ministro dell’interno e non quelle regolate dalle lettere a, b, c, del secondo comma, disposte dal Prefetto. Annullare la distinzione operata consapevolmente dal legislatore tra il secondo ed il quarto comma dell’art. 200 c.p. configurerebbe un’arbitraria violazione del principio di legalità delle misure di sicurezza facendo risultare privo di coerenza sistematica l’assetto dei rapporti tra misure di sicurezza e le varie espulsioni presenti nel nostro panorama legislativo. 3) Sulla non retroattività della Bossi-Fini
Riteniamo che sia sostenibile che le norme che sanciscono il divieto di rilasciare o rinnovare il permesso di soggiorno al migrante che ha compiuto un reato di cui all’art. 380, primo e secondo comma, c.p.p. o un reato previsto dal T.U. sugli stupefacenti e non solo al migrante ritenuto pericoloso, come sanciva la normativa previgente, non possano essere applicate a quei soggetti che hanno cominciato, in corso di esecuzione pena, il percorso risocializzante prima dell’entrata in vigore della Bossi-Fini. La sostituzione operata da quest’ultima legge compromette infatti i percorsi di reinserimento sociale già avviati, si pensi solo al soggetto che sta lavorando in affidamento (casomai dopo un periodo di formazione) . La Corte Costituzionale ha sancito questo principio per soggetti molto più pericolosi dei migranti che hanno compiuto un reato, casomai di scarso allarme sociale dato che l’ostatività riguarda anche reati in cui l’arresto in flagranza è facoltativo, come gli autori di reati di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario: quindi condannati per associazione mafiosa, omicidio, rapina aggravata eccetera. In questo senso, pur senza riferimento alla giurisprudenza della Corte Costituzionale sull’art. 4 bis ordinamento penitenziario, ma apparentemente ad esclusiva tutela dell’affidamento fatto sulla situazione giuridica esistente, va una recente ordinanza del TAR Toscana (119/2003) che ha ritenuto di sospendere l’esecuzione del provvedimento di diniego del provvedimento di rinnovo del permesso di soggiorno disposto in conseguenza dell’applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 c.p.p., anche questa fattispecie aggiunta dalla legge Bossi-Fini ai motivi che impediscono il rinnovo del permesso di soggiorno. Nel disporre la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato il TAR osserva che la norma "non sembra applicabile retroattivamente ad accordi precedentemente conclusi dall’imputato confidando negli effetti della sentenza previsti dall’art. 445 c.p.p.". Merita di essere sottolineato che quest’ultimo percorso delineato può trovare un ostacolo insuperabile nella dichiarazione di pericolosità. E’ quindi fondamentale per chi vuol provare a restare in Italia non per un periodo di tempo breve, puntare sulla pena pecuniaria per ostacolare l’espulsione e non sulla conversione della misura di sicurezza. E’ interesse di chi vuol far valere la non retroattività della Bossi-Fini ottenere la revoca della misura di sicurezza, che implica la dichiarazione di non pericolosità, non la sua sostituzione con la libertà vigilata, che implica che il soggetto sia ancora considerato pericoloso.
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