Marco Paggi, dell'A.S.G.I.

 

Considerazioni dell’Avvocato Marco Paggi sulle ultime
novità in materia di normative sull'immigrazione

 

Anzitutto, non c’è alcuna novità sulla ventilata possibilità di una sanatoria, che, come di è detto in ambienti governativi, potrebbe forse essere approvata per le cosiddette badanti o collaboratrici domestiche che si occupano di assistenza alle persone non autosufficienti. Abbiamo già dato notizia delle pressanti richieste fatte dalle associazioni che si occupano di immigrati per una sanatoria che riguardi tutte le categorie di lavoratori, in modo particolare per tutte le persone che in Italia stanno già lavorando, naturalmente non in regola, ma per il momento non abbiamo ancora nessuna notizia da dare agli ascoltatori. Naturalmente non mancheremo di dare tutte le informazioni non appena saranno rese disponibili: riprenderà infatti nei prossimi giorni il dibattito parlamentare sul Disegno di legge del governo in materia di immigrazione e ci auguriamo che la proposta di sanatoria trovi delle prese di posizione da parte governativa e, speriamo, anche dalle altre forze politiche e associative.

 

1° Quesito: ricongiunzione familiare

 

Veniamo ora al primo quesito pervenuto allo sportello, da parte di una signora albanese sposata con un cittadino italiano, la quale, nel frattempo, ha acquisito in base alla legge in materia la cittadinanza italiana a seguito del matrimonio. Questa signora oggi è madre di due bambini piccoli che, essendo figli di un cittadino albanese e di uno italiano, secondo la legge in materia di cittadinanza, sono cittadini italiani dalla nascita. Ora, questa persona chiede se lei o suo marito possono chiedere la ricongiunzione familiare con i genitori di lei che si trovano ancora in Albania e chiede, in particolare, quali siano le condizioni per poter chiedere la ricongiunzione familiare e a quale ufficio si può rivolgere. Inoltre fa presente che, avendo due bambini piccoli, non lavora e che a lei e ai figli provvede il marito con la sua attività lavorativa. Pur non lavorando, tramite il reddito del marito ha la possibilità di mandare regolarmente un aiuto economico ai suoi genitori, che potrà documentare e dimostrare nell’ambito della pratica per la ricongiunzione familiare. In particolare, l’interessata chiede se il fatto di essere sposata con cittadino italiano e di essere madre di due bambini di nazionalità italiana può in qualche modo permetterle di avere un trattamento più favorevole per semplificare la procedura di ricongiunzione familiare in favore dei suoi genitori.

La domanda è articolata ma rappresenta una situazione ormai abbastanza diffusa, che merita alcune precisazioni.

La ricongiunzione familiare con i genitori di un cittadino extracomunitario non ha delle condizioni diverse rispetto al caso di una qualsiasi famiglia di cittadini extracomunitari, per il solo fatto che la richiedente è coniugata con un cittadino italiano: sia dal punto di vista della procedura che dei requisiti tale circostanza non da nessun diritto in più e quindi le condizioni sono le stesse che valgono in generale per la ricongiunzione familiare tra cittadini stranieri. In particolare, la procedura di ricongiunzione familiare prevede che il cittadino straniero extracomunitario, regolarmente soggiornante in Italia, per poter ottenere dalla questura che gli ha rilasciato il permesso di soggiorno l’autorizzazione (il cosiddetto nulla osta alla ricongiunzione familiare), deve dimostrare di avere un reddito sufficiente in misura pari all’importo annuo dell’assegno sociale, che corrisponde a 8milioni e 50mila lire annui, oppure pari al doppio dell’importo annuo dell’assegno sociale nel caso in cui si debba fare la ricongiunzione con 2 o 3 familiari, o pari all’importo triplo dell’assegno sociale nel caso in cui si debba fare la ricongiunzione familiare con 4 o più persone. Questo requisito di reddito è quindi imposto in via generale, ma una recente sentenza della Corte Costituzionale ha precisato che, nel caso in cui la ricongiunzione venga chiesta da persona priva di lavoro e quindi di reddito, si considera sussistente il reddito previsto dalle legge come necessario se alla domanda di ricongiunzione familiare aderisce anche il coniuge che lavora, in questo caso il marito, che con il suo reddito, se sufficiente secondo i parametri previsti dalla legge, può sostenere la domanda di ricongiunzione familiare fatta dal coniuge per i suoi parenti anche se non svolge direttamente un’attività lavorativa e non ha un reddito proprio.

Si guarda dunque al reddito nell’ambito del nucleo familiare e non personale del richiedente la ricongiunzione familiare. In questo caso, la signora albanese che non lavora, potrà comunque presentare la domanda di ricongiunzione familiare in favore dei suoi parenti basandosi sul reddito del marito.

Altro requisito richiesto dalla legge in via generale è quello della disponibilità di un alloggio idoneo, cioè di un alloggio che sostanzialmente rispetti i parametri di rapporto tra superficie dell’alloggio e numero occupanti, previsti dalla legge regionale in materia di assegnazione degli alloggi e di edilizia residenziale pubblica (per il Veneto si tratta della L.R. 2 aprile 1996 n°10, articolo 9). L’idoneità dell’alloggio deve essere certificata, in base a un apposito certificato rilasciato dall’autorità comunale competente o rilasciato dall’unità sanitaria locale competente per territorio. Naturalmente, dal certificato di idoneità dell’alloggio emerge il numero massimo di persone che possono occupare l’alloggio: quindi, nel momento in cui si presenta alla questura la domanda di autorizzazione alla ricongiunzione familiare, la persona interessata oltre a documentare la propria posizione di reddito (nel caso qui esaminato sarà invece la posizione di reddito del marito), dovrà documentare che l’alloggio è idoneo, in base all’apposito certificato; dovrà poi documentare, in base al certificato di stato di stato famiglia, che indica il numero di persone che già occupano quell’alloggio, la disponibilità di posti utili per la ricongiunzione familiare. Dunque, se il certificato di idoneità dell’alloggio certifica che nell’alloggio dove dovranno essere ospitati i parenti potranno essere ospitate, per esempio, 6 persone, mentre dal certificato di stato di famiglia risulta che quell’alloggio è già attualmente occupato da 4 persone, ecco che si verifica la possibilità per 2 persone di poter occupare quell’alloggio arrivando dall’estero con la procedura di ricongiunzione familiare.

Questi sono, in sintesi, i requisiti per chiedere e ottenere dalla questura il nulla osta alla ricongiunzione familiare.

 

Per quanto riguarda la ricongiunzione familiare con i propri genitori, come chiede la signora, non c’è una differenza rispetto all’ipotesi di una famiglia di extracomunitari, nel caso in cui uno dei membri del nucleo familiare sia cittadino italiano. Non vi è nessuna differenza di trattamento nella nostra legislazione. Dobbiamo rifarci ai criteri generali previsti dalla legge per la ricongiunzione familiare tra stranieri.

La legge (art.29 del T.U.) richiede che si dimostri che i genitori sono a carico del lavoratore immigrato che è in Italia e richiede la ricongiunzione familiare. Questo concetto di "genitori a carico", è stato ulteriormente specificato e precisato da circolari ministeriali. In particolare da una circolare del Ministero degli Esteri in cui si precisa che per genitore a carico s’intende il genitore che già abitualmente vive nel suo paese, in tutto o in parte, con gli aiuti economici inviati dal cittadino extracomunitario che in Italia svolge attività lavorativa e chiede la ricongiunzione. Nel caso della signora albanese, che ci mandato il quesito, dovrebbe comunque dimostrare che periodicamente invia delle somme di denaro ai genitori per consentire il loro sostentamento (allegando copia delle ricevute dei vaglia o dei bonifici bancari o degli altri mezzi di utilizzati). Inoltre la circolare precisa che, affinché i genitori possano considerasi a carico, debba essere anche verificata la mancanza da parte loro di altri mezzi economici o altri fonti di reddito nel paese d’origine. I genitori possono essere quindi, considerati a carico se nel loro paese non svolgono un’attività lavorativa, non hanno redditi di altra natura (come pensioni e rendite) e non dispongono di beni patrimoniali che permettano di desumere una possibilità di sostentamento in proprio senza la necessità di aiuto da parte dei parenti all’estero.

Faccio presente che negli ultimi tempi gli uffici dei consolati italiani, nel caso in cui si presenti la domanda di ricongiunzione familiare per i cosiddetti genitori a carico, fanno una ricerca piuttosto minuziosa, rivolgendosi alle autorità competenti del paese d’origine, per verificare se dispongono di mezzi di sostentamento. Sempre più spesso vediamo respingere domande di ricongiunzione familiare nonostante sia stato dimostrato che il cittadino extracomunitario in Italia invia somme di denaro perché, in base agli accertamenti fatti dagli uffici consolari, si verifica che entrambi i genitori svolgono un attività economica o hanno delle fonti di reddito. Quello che in parte consola è che le ambasciate italiane hanno preso la buona abitudine di dare risposte scritte che possono essere sottoposte a un controllo giudiziario. L’art. 30, comma 6, del Testo Unico sull’Immigrazione prevede che, nel caso in cui la domanda di ricongiunzione familiare venga respinta da parte della questura, in prima battuta, o successivamente da parte dell’ambasciata competente, il cittadino extracomunitario, che già è regolarmente soggiornante in Italia e ha chiesto la ricongiunzione familiare può chiedere e ottenere in tempi brevi un provvedimento del tribunale del luogo in cui risiede, in cui si controlla la legittimità del provvedimento di rifiuto. Se vengono considerate valide le argomentazioni presentate nel ricorso può direttamente ordinare, con un provvedimento immediatamente efficace e vincolante, di rilasciare la ricongiunzione che inizialmente era stata rifiutata.

 

Bisogna aggiungere che da questo punto di vista la legislazione vigente non rappresenta una grande coerenza perché, come dicevo prima, nel caso in cui ci sia una ricongiunzione familiare non cambia né la procedura né le condizioni, a seconda che il cittadino sia sposato o meno con un cittadino non comunitario o italiano o si trovi in Italia da solo. Tuttavia, nel caso specifico di questa signora albanese, ha molta importanza il fatto che sia madre di 2 bambini piccoli con nazionalità italiana. Questo è significativo, perché nel caso in cui i genitori fossero comunque giunti in Italia anche in condizioni irregolari, allora cambierebbe completamente la soluzione e l’impostazione del problema. L’art.19 del Testo Unico sull’Immigrazione, prevede una serie di casi nei quali è comunque vietata l’espulsione dello straniero, al punto che se anche se ci fosse già un provvedimento di espulsione nel frattempo emanato, questo non potrebbe essere eseguito. Fra questi vi è il caso dei cittadini stranieri non in regola con le norme del permesso di soggiorno che però convivono con il coniuge italiano, oppure convivono con parenti entro il quarto grado di cittadinanza italiana. Deve esserci quindi il requisito della convivenza in particolare con coniuge di nazionalità italiana o con parenti entro il quarto grado di nazionalità italiana. Nel caso in cui questi 2 genitori fossero già presenti in Italia clandestinamente cambierebbe tutto, perché se vivessero nella stessa abitazione del marito di questa signora albanese e con suoi i figli, che hanno cittadinanza italiana, si troverebbero a convivere con dei lori parenti che sono parenti (nipoti) di secondo grado e che quindi consentirebbero l’applicazione del divieto di espulsione. Dimostrando questa situazione di convivenza con parenti entro il quarto grado di nazionalità italiana, il Regolamento di Attuazione del Testo Unico sull’Immigrazione (D.P.R. 31 agosto 1999 n°394), a fronte del divieto di espulsione previsto dalla legge, prevede all’art.28 che " il questore rilascia il permesso di soggiorno per motivi familiari", valido anche per lo svolgimento di regolare attività lavorativa. La norma citata del Testo Unico e la correlativa disposizione del regolamento di attuazione sono state sufficientemente collaudate e posso dire che presso tutte le questure trovano un’applicazione omogenea, nel senso che si rilascia abitualmente il permesso di soggiorno per motivi di famiglia.

In linea puramente teorica, i genitori di questa signora albanese potrebbero, nel caso in cui venisse rifiutato il permesso d’ingresso alla ricongiunzione familiare, tentare di richiedere un visto d’ingresso per motivi di turismo e una volta arrivati in Italia richiedere il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di famiglia valido anche per lavoro, in funzione del fatto che possono dimostrare di convivere con parenti di nazionalità italiana che hanno un rapporto di parentela entro il quarto grado.

 

2° Quesito: autorizzazione all’ingresso per lavoro e primo permesso di soggiorno

 

Passiamo ora a prendere in considerazione un altro caso, che purtroppo si verifica sempre più frequentemente.

Abbiamo già parlato delle norme a flusso di domande presso gli uffici delle Direzioni Provinciali del Lavoro per l’autorizzazione all’assunzione dall’estero di cittadini extracomunitari: anche quest’anno inizia di nuovo l’attesa della pubblicazione del decreto flussi e speriamo che il prima possibile incomincino ad essere rilasciate, entro i limiti stabiliti dal decreto che verrà pubblicato, le autorizzazioni all’ingresso dall’estero. Nel frattempo registriamo sempre più "incidenti di percorso" che sono capitati a persone che hanno utilizzato per l’anno 2001 le autorizzazioni all’ingresso rilasciate in base al decreto flussi per l’anno 2001. Mi riferisco a situazioni di lavoratori che, come spesso succede, erano già presenti in Italia come irregolari e che già stavano lavorando in nero, i quali hanno ottenuto l’autorizzazione all’ingresso (grazie al fatto che l’impresa presso cui lavoravano in condizione di irregolari ha presentato la domanda di autorizzazione e, dopo averla ottenuta, l’ha inviata all’interessato, rientrato nel suo paese, affinché si presentasse presso l’ambasciata italiana per chiedere il visto d’ingresso per motivi di lavoro).

L’autorizzazione che viene rilasciata dalla Direzione Provinciale del Lavoro deve essere utilizzata entro 6 mesi dalla data in cui è stata rilasciata alla ditta. In base a questa autorizzazione gli interessati si presentano presso l’ambasciata italiana per il rilascio del visto. Dovremmo ritenere che già la presentazione all’ambasciata per il rilascio del visto interrompa il conteggio del termine dei 6 mesi perché, facendo questo, l’interessato dimostra di voler utilizzare quella autorizzazione. Puntualizzo questo perché spesso i tempi di attesa presso le ambasciate sono molto lunghi e consumano parte del tempo disponibile (a causa di intoppi burocratici) e poiché non può essere addebitata all’interessato la lentezza di questi uffici, dovremmo ritenere, anche se questa è una interpretazione che non ha ancora trovato conferma da parte della magistratura, che il termine dei 6 mesi debba considerarsi sospeso nel suo conteggio per tutto il tempo in cui le autorità competenti fanno attendere lo straniero per la risposta.

Succede sempre più spesso che la ditta (che aveva chiesto l’autorizzazione all’ingresso e l’ha poi inviata al lavoratore straniero perché ottenesse il visto d’ingresso e venisse in Italia per presentarsi al lavoro) cambi poi idea, oppure, non intenda rispettare determinate garanzie che aveva dato, penso soprattutto alla garanzia di disponibilità di un alloggio.

Porto l’esempio di un caso che è stato presentato di recente alla nostra attenzione: un cittadino extracomunitario ha ottenuto l’autorizzazione all’assunzione dall’estero presso la ditta per cui lavorava già fuori regola; ha quindi ottenuto il visto d’ingresso per lavoro ed è rientrato in Italia dalla porta principale, si è presentato alla questura competente per territorio, entro gli 8 giorni previsti dalla legge, per rendere la dichiarazione di soggiorno, ed ha ottenuto il permesso di soggiorno per lavoro. Nel frattempo, la ditta che aveva richiesto ed ottenuto l’autorizzazione all’assunzione, ha denunciato l’inizio dell’ospitalità presso l’alloggio che era stato messo a disposizione e la cui disponibilità era già stata documentata nell’ambito della domanda di autorizzazione all’assunzione. La stessa ditta lo ha anche messo a lavorare ma dopo un po’ di giorni ha ritenuto di non utilizzare più le sue prestazioni perché nel frattempo aveva trovato una persona "che gli andava meglio", cosicché lo ha licenziato senza mai avere regolarizzato il rapporto di lavoro. Per l’appunto, il lavoratore si è accorto solo tempo dopo che per quei giorni di occupazione non era mai stato messo in regola, quindi il suo avviamento al lavoro non risultava essere stato ufficialmente comunicato alla Direzione Provinciale del Lavoro (D.P.L.). Per l’appunto, a distanza di molto tempo, la D.P.L., verificato che a fronte dell’autorizzazione rilasciata non si era poi costituito un regolare rapporto di lavoro, ha comunicato alla ditta la revoca dell’autorizzazione al lavoro sulla base del fatto che era trascorso il termine di 6 mesi previsto dalla legge per l’utilizzo dell’autorizzazione. Nel frattempo, il lavoratore, forte del fatto che aveva ottenuto un regolare permesso di soggiorno per lavoro, non si è preoccupato del problema perché riteneva di essere in perfetta regola, ha trovato un altro datore di lavoro e ha avviato regolarmente il nuovo rapporto di lavoro. Tuttavia, a distanza di circa un anno, la D.P.L. ha comunicato la revoca dell’autorizzazione al lavoro e la revoca alla ditta direttamente interessata, quella che inizialmente aveva ottenuto l’autorizzazione, comunicando tale provvedimento anche alla questura competente per territorio. Ecco quindi che la questura, sulla base di questo provvedimento di revoca, ha sua volta revocato il premesso di soggiorno valido per motivi di lavoro, sempre in base al fatto che non risulta mai essere stato regolarmente costituito il rapporto di lavoro per cui era stata rilasciata l’autorizzazione all’ingresso dall’estero.

Bisogna fare molta attenzione, soprattutto alla fase iniziale del soggiorno per lavoro, perché è vero che il mantenimento del permesso di soggiorno è strettamente collegato all’effettiva instaurazione del rapporto di lavoro sulla base del quale è stata richiesta e ottenuta l’autorizzazione all’assunzione. E’ indispensabile, quindi che, per almeno pochissimo tempo, venga a costituirsi formalmente il primo rapporto di lavoro. Diversamente, secondo la legge, si deve ritenere che quell’autorizzazione non è stata formalmente utilizzata e deve quindi essere revocata insieme al permesso di soggiorno.

 

La procedura di autorizzazione all’assunzione dall’estero è una procedura che presuppone che in Italia vi sia un datore di lavoro disposto ad assumere regolarmente e garantire un alloggio. Sulla base dell’autorizzazione lo straniero entra in Italia con visto d’ingresso per lavoro ed ottiene un permesso di soggiorno per lavoro, ma la legge prevede che debba necessariamente perfezionare cioè iniziare formalmente quel rapporto di lavoro in base al quale era stato autorizzato all’ingresso dall’estero. Se poi quel lavoro non dura per diversi motivi, non perderà il permesso di soggiorno a condizione però, che quel primo rapporto di lavoro abbia avuto almeno una breve vita. Se durante il periodo di lavoro le parti (lavoratore e datore di lavoro) non si trovano d’accordo e decidono di terminare il rapporto di lavoro, questo non comporta conseguenze sul permesso di soggiorno. Il lavoratore, munito del regolare permesso di soggiorno, che ha già iniziato il primo rapporto di lavoro, potrà poi cambiare lavoro, da quel momento in poi sarà trattato come un qualsiasi lavoratore italiano e non avrà bisogno di nessuna altra autorizzazione per costituire un nuovo rapporto di lavoro e poi cambiarlo.

Naturalmente non è colpa del lavoratore in questo caso se il rapporto di lavoro di fatto non si è regolarmente costituito, perché lui è arrivato in Italia munito di autorizzazione, ha ottenuto regolare permesso di soggiorno per lavoro, si è presentato preso la ditta che voleva assumerlo e ha lavorato per alcuni giorni. Non è colpa sua se la ditta non ha rispettato la legge e quindi, pur avendolo fatto lavorare, non ha regolarizzato il suo rapporto di lavoro.

A questo punto, per il lavoratore in questione si prospetta una strada in salita, perché sarà suo onere dimostrate con un apposita vertenza che ha effettivamente lavorato in quella azienda pur non essendo stato messo in regola. Dimostrando queste circostanze potrà fare ricorso contro il provvedimento di revoca del permesso di soggiorno e chiedere al Tribunale Amministrativo Regionale di sospendere (dapprima) e poi annullare il provvedimento di revoca del permesso di soggiorno, sempre a condizione di dimostrare che quel primo rapporto di lavoro c’è stato.

La semplice violazione delle norme in materia di lavoro da parte della ditta, che non lo ha assunto in regola comunicandolo formalmente all’ufficio di collocamento, non può costituire una valida ragione per revocare il permesso di soggiorno al lavoratore, che ha semplicemente subito questa situazione. Sicuramente questo è un percosso molto più difficile, perché ora spetta al lavoratore dimostrare che ha lavorato e presentare il ricorso. Lo dico per avvertire tutti gli interessati, quelli che sono già arrivati o che stanno per arrivare, perché l’autorizzazione al lavoro deve essere effettivamente utilizzata entro il periodo massimo di 6 mesi e per effettiva utilizzazione s’intende il reale inizio del rapporto di lavoro con la ditta che aveva ottenuto l’autorizzazione. Diversamente, il permesso di soggiorno viene a cadere e ne viene disposta la revoca se non si dimostra che quel primo rapporto di lavoro è stato costituito.

 

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