Ricorso giudice Marcheselli

 

Espulsione dello straniero detenuto e principio di rieducazione

gli atti alla corte costituzionale

 

Ufficio di Sorveglianza per le circoscrizioni dei Tribunali Alessandria, Tortona, Acqui Terme

 

Alessandria, n° 29/2002 R.Esp.

 

Il Magistrato di Sorveglianza

 

Visti gli atti relativi all’espulsione dal territorio dello Stato ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 16 D.L. 286/098 come modificato dall’art. 151egge 189/02 nei confronti di:

 

____________________ nato in Marocco il ______________________

 

in atto detenuto presso la Casa Circondariale di Alessandria, in espiazione pena di cui all’ordine di esecuzione della Procura Generale di Torino del 19.04.2001 (sentenza 29.03.2000 Corte Appello Torino).

 

1. Il procedimento

 

Risulta dall’istruttoria compiuta e in atti che ______________

 

  1. è condannato a pena detentiva nella misura residua inferiore a due anni;

  2. è condannato per delitto diverso da quelli contemplati dall’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, ovvero dai delitti previsti dal testo unico delle leggi sull’immigrazione (d’ora innanzi, TU);

  3. si trova nelle condizioni di cui all’art. 13, comma 2 TU;

  4. è di nazionalità marocchina, assunte le rituali informazioni circa nazionalità e identità presso la Questura competente;

  5. non versa in alcuna delle condizioni ostative di cui all’art. 19 TU.

 

Non vi è pertanto dubbio circa il fatto che si renda allo stesso applicabile quanto prescritto dall’art. 16, commi 5 e seguenti del TU, così come modificato dalla legge 189/2002.

Nell’applicazione di tale norma sorge il dubbio di legittimità costituzionale sotto i seguenti profili e per i seguenti motivi.

 

2. I parametri violati e i profili della assunta violazione

 

I precetti costituzionali interessati dalla odierna fattispecie appaiono quelli degli art. 27 Cost., anche in rapporto con gli articoli 3 e 2 Cost., nel senso che si specificherà a breve.

Come noto, l’art. 27 connota la pena del fine rieducativo. Tale fine rieducativo è, evidentemente, immanente e necessario nella pena (ancorché non esclusivo), come riconosciuto dalla costante giurisprudenza costituzionale e dalla stessa in equivoca lettera della disposizione in esame. L’uso del verbo "tendere" serve a chiarire che si tratta di finalità imposta al legislatore, ma non consente di affermare che tale finalità possa essere solo eventuale. Le norme che disciplinano la pena debbono pertanto avere anche questo indefettibile scopo.

In ciò è fermo l’insegnamento della C. Cost. che ha così sancito: "La finalità rieducativa della pena è una proprietà essenziale che caratterizza quest’ultima nel suo contenuto ontologico e l’accompagna da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue" (ex plurimis v. sent. 313 del 1990).

 

Posto questo primo caposaldo pacifico, deve osservarsi che la misura della espulsione dal territorio dello Stato è certamente priva di contenuto e finalità rieducativa. Il semplice allontanamento dal territorio nazionale non ha, sotto nessun profilo, né una certificata idoneità né una finalità di concorrere a rimuovere i fattori criminogeni nel reo. Tale profilo è assolutamente evidente.

Esso risulta, all’evidenza, dalla disciplina della espulsione (che non la accompagna di alcun contenuto, prescrittivo, di supporto esimili, a differenza di quanto accade per la pena, sia nella forma detentiva che in quella alternativa). Certamente essa non può, per tali ragioni, ontologicamente assimilarsi né a una pena, né a una misura alternativa. Non è un caso, in proposito, che il nomen juris prescelto dal legislatore, volutamente ambiguo, sia quello di sanzione.

Ma ciò è anche stato riconosciuto costantemente dalla stessa dottrina e Corte Costituzionale (ex plurimis, nella sentenza n° 62 del 1994) che riconosce nella espulsione una sospensione della pena, una temporanea rinuncia dello Stato ad applicarla (tra l’altro, proprio per salvarne la legittimità costituzionale sotto i profili in esame).

 

Poste queste due premesse, parrebbe addirittura necessitata la conclusione circa l’illegittimità costituzionale della espulsione del condannato definitivo, prima della fine della pena. Così non è, perché, sul piano logico, due potrebbero essere i motivi di salvezza costituzionale dell’istituto, tali che, non ostante l’assenza di finalità rieducativa, essa potrebbe giustificarsi.

 

Il primo possibile motivo di giustificazione è nel ritenere che il principio di rieducazione non abbia una portata generalizzata, ma sia solo limitato alle persone che hanno titolo di permanenza in Italia.

Il secondo è che il principio di rieducazione, di portata generale, sia immanente alla pena, ma non venga in considerazione quando il legislatore, nell’esercizio ragionevole della sua discrezionalità, sospenda la pena medesima.

 

Circa la prima giustificazione, è sufficiente osservare che, in primo luogo, essa non sarebbe del tutto coerente con la disciplina dell’espulsione. Infatti, se la finalità rieducativa non dovesse concernere le persone abusivamente sul territorio dello Stato, non si vede perché l’espulsione sarebbe limitata, in relazione all’entità della pena e al titolo di reato. Come sia di questo, in ogni caso, deve osservarsi:

  1. che l’art. 27, comma 2, non contiene alcun elemento che consenta di limitarne la portata (è vero che è inserito nella parte relativa a diritti e doveri dei cittadini, ma nessuno ha mai dubitato che la portata dei suoi principi, così come di quelli degli altri commi, o degli altri articoli collocati nella stessa Parte e Titolo, abbiano portata generalissima);

  2. tale generale portata è stata sempre riconosciuta, implicitamente ma univocamente, da tutta la giurisprudenza costituzionale che si è occupata della materia (cfr. tra le altre, C. Cost. Sentenza n° 283/94, Ordinanza n° 401/94, Ordinanza n° 174/94, Sentenza n° 129/1995, Sentenza n° 62/94, Ordinanza n° 72/94, Ordinanza n° 106/1995), anche atteso il carattere inaccettabilmente discriminatorio della soluzione opposta.

 

Circa la seconda giustificazione (irrilevante il fine rieducativo, se la pena è sospesa), vale la pena di sottolineare che si tratta del fondamento della ritenuta legittimità costituzionale del sistema della espulsione, come disciplinata nel regime previgente, tenuta ferma dalla giurisprudenza costituzionale appena citata.

Per esaminare se ciò comporti la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale (che, in pratica, non sarebbe nuova) si tratta di verificare la esportabilità di tale giustificazione alla attuale disciplina della espulsione.

 

Tale operazione non può prescindere dalla esegesi del tessuto argomentativo seguito dall’Autorevolissima Corte delle Leggi. La questione si trova sviscerata con grande chiarezza e completezza essenzialmente nelle decisioni n° 283 e, soprattutto, 62 del 1994.

 

 

L’iter logico del giudice costituzionale è così scandito:

 

  1. il principio di rieducazione non viene in considerazione per misure che, come l’espulsione, determinino la non applicazione della pena, la sua semplice sospensione;

  2. si tratta, allora, di sindacare la legittimità della rinuncia del legislatore alla attuale applicazione della pena, nei limiti ristretti della manifesta irrazionalità delle scelte legislative;

  3. in tale sindacato rileva, in primo luogo, che si possa formulare una ragionevole presunzione, anche di fonte legislativa, circa il fatto che la parte di pena espiata (nel caso di pena residua) abbia già raggiunto la finalità rieducativa che gli è propria (sentenza 62/1994 al punto 5 dei motivi di diritto), ovvero che tale finalità non è necessaria (nel caso di pena non iniziata, caso non pertinente in questa sede);

  4. ai fini di tale presunzione non è irrilevante che il giudice sia chiamato a decidere "acquisite le informazioni degli organi di polizia, accertato il possesso del passaporto o di documento equipollente, sentito il pubblico ,ministero e le altre parti" (ibidem);

  5. la iniziativa del condannato, volta a ottenere l’espulsione, sarebbe la garanzia che raccorderebbe l’espulsione al necessario rispetto "di un diritto inviolabile dell’uomo" (ibidem).

 

Si tratta allora di verificare se tutti i passaggi appena descritti siano rispettati nel regime previsto dall’art. 16, commi 5 e seguenti TU, nella formulazione attuale.

 

Invariati appaiono i presupposti di cui ai punti a) e b) che precedono. Profondamente critico appare invece quanto sub c) e d).

 

Infatti, e in primo luogo, deve osservarsi che la presunzione sottesa alla norma qui in esame ha carattere assoluto. Sussistenti i presupposti descritti, l’espulsione è automatica. Ciò crea perplessità sotto diversi aspetti. È, innanzitutto, assai dubbia la legittimità di presunzioni che non ammettano la prova contraria, nei casi in cui il fatto presunto (nella specie, che la finalità rieducativa è stata raggiunta) non sia di verificazione necessaria, sicura, immancabile.

Così ha insegnato, infatti, la Corte delle Leggi, sia pure nella diversa materia tributaria (nella quale peraltro il nucleo delle garanzie non può ritenersi superiore a quello della libertà personale): "Se è pur lecito formulare previsioni logicamente valide e attendibili, non e’ peraltro consentito trasformare tali previsioni in certezze assolute, imperativamente statuite senza la possibilità che si ammetta la prova del contrario" (C. Cost. 28 luglio 1976, n° 200). Nella specie, invece, sotto i due anni di pena e in presenza dei requisiti formali prescritti, l’espulsione è de jure.

 

Come che sia di ciò, vale la pena di osservare che, in ogni caso, il fatto presunto (la non necessità di rieducazione), oltre che non assolutamente certo, non è neppure probabile. Non si vede perché il solo fatto che la pena sia inferiore al limite di legge (2 anni) dovrebbe fondare tale presunzione. Ciò è, anzi, manifestamente irragionevole almeno sotto due altri profili. Innanzitutto, perché verificatasi la condizione di legge, fa presumere la non necessità di attività rieducativa per situazioni completamente diverse (equiparando irragionevolmente, per fare un esempio, situazioni quali quella del detenuto che abbia tenuto una condotta penitenziaria pessima, rifiutando ogni intervento rieducativo e quella, opposta, di chi abbia effettivamente completato tutto il percorso rieducativo, magari anche con l’ottenimento di benefici penitenziari, previsti dall’Ordinamento Penitenziario). In secondo luogo perché, manifestamente, discrimina tra soggetti legittimati a rimanere in Italia e non legittimati, anticipando il momento in cui non sarebbe più necessaria l’attività rieducativa, nei confronti dei soggetti clandestini (come se la risocializzazione fosse per definizione più rapida per questi ultimi).

 

Inoltre (e ciò rafforza la conclusione predetta) non è dato alcun potere di valutazione del percorso rieducativo svolto dal condannato (o di altri elementi), in manifesta frizione con quanto imposto dalla giurisprudenza costituzionale e ribadito sopra sub d). Oltre a non essere fondata la disciplina in esame su valori rieducativi, non è, in altre parole, lasciato alcuno spazio per la concreta valutazione di tali aspetti in sede di applicazione. Nell’attuale sistema è sì prevista l’acquisizione di informazioni, ma non è finalizzata a valutazioni sul percorso rieducativo (ma solo all’accertamento dell’identità e nazionalità e al riscontro di eventuali cause ostative) o a valutazioni sulla persona e l’individuo.

Non valorizzabile è poi la circostanza che la disciplina della espulsione si collochi nel contesto ordinamentale che ne prevede altre forme, posto che o si tratta di forme che non collidono con il principio di rieducazione (quelle da disporsi a fine pena), ovvero di forme che potrebbero essere di legittimità costituzionale dubbia, sotto il profilo che qui interessa (ma non sono, all’evidenza, qui rilevanti).

Infine, e ciò rileva potenzialmente con riguardo all’art. 2 Cost., secondo quanto rilevato dalla Corte Costituzionale nell’arresto n° 62 del 1994, non è condizionata l’espulsione alla volontà del soggetto.

 

In tutto quanto precede sta l’esposizione dei motivi per i quali il dubbio di legittimità costituzionale delle disposizioni di cui ai commi 5 eseguenti dell’art. 16 TU, come riformato dalla legge 189/2002 non appare manifestamente infondato, per contrasto con gli articoli 27 comma 3, 3 e 2 Costituzione.

 

Poiché si tratta dell’insieme di norme sulla cui applicazione verte il presente procedimento (finalizzato esattamente all’espulsione del condannato dallo Stato ai sensi di tali precetti), la questione è evidentemente rilevante ai fini del presente giudizio, non potendo essere questo definito se non con l’applicazione di esse.

 

Il procedimento deve pertanto sospendersi e gli atti essere inviati alla Corte Costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

Visti gli articoli 23 e seguenti Legge 11 marzo 1953, n° 87; 13, 16 e 19 D.Lgs. 286/1998, così come modificato dalla Legge n° 189/2002;

 

DISPONE

 

la trasmissione degli atti del presente procedimento alla corte Costituzionale;

 

DISPONE

 

la sospensione del presente procedimento in attesa della decisione della corte medesima;

 

MANDA

 

alla Cancelleria per le comunicazioni di legge e, in particolare, la notifica all’interessato, al Pubblico Ministero, al Presidente del consiglio dei Ministri, nonché la comunicazione ai Presidenti delle Camere.

 

 

Alessandria, così deciso il 10 dicembre 2002.

 

 

Alberto Marcheselli (Magistrato di Sorveglianza)

 

 

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