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L’extracomunitario e la fase esecutiva Nell’ordinamento
processuale italiano la Legge Gozzini disciplina le misure alternative alla
detenzione. La L. n. 165/98, la cosiddetta Legge Simeone, ha ulteriormente
precisato gli ambiti di applicazione dei concetti base della Legge Gozzini. Sul
piano giuridico queste leggi, che definiscono e precisano l’automatismo di
sospensione dell’esecuzione per le pene di entità non superiore ai tre anni
(quattro nel caso di reati connessi con lo stato di tossicodipendenza),
rappresentano un gradino superiore di civiltà, come è detto da Alessandro
Nencini, Sostituto procuratore della repubblica del Tribunale di Firenze: ...
Prima era onere dell’interessato chiedere la sospensione del procedimento
esecutivo se sussistevano certi presupposti, e quindi questa istanza era rimessa
all’effettiva conoscibilità del procedimento (da parte del condannato).
Occorrevano quindi tutta una serie di circostanze che creavano una serie di
discriminazioni fra condannati seguiti in giudizio dal difensore di fiducia e
condannati in contumacia che erano stati invece rappresentati dal difensore
d’ufficio. Per ovviare a questo si è scelta una strada diversa, quella della
sospensione obbligatoria entro un certo limite di pena (...) La pena irrogata da
eseguire viene automaticamente sospesa dal P.m., il quale non emette più un
ordine di carcerazione, ma un ordine di carcerazione sospesa e fa notificare a
mano alla persona condannata - per assicurarsi della conoscenza della condanna -
un avviso che tale pena deve essere eseguita, che c’è un ordine di esecuzione
già firmato e che ci sono trenta giorni per chiedere, se la si vuol chiedere,
una misura alternativa. Se il soggetto non chiede niente, l’ordine di
esecuzione è attuato, se chiede qualcosa, essendo già stata preventivamente
sospesa l’esecuzione, il fascicolo passa al Tribunale di sorveglianza che
decide sulla misura alternativa: in caso di accoglimento l’esecuzione prosegue
nella forma della misura alternativa, in caso contrario si esegue l’ordine di
carcerazione. In sostanza, noi P.m. svolgiamo una funzione prodromica
finalizzata a creare le condizioni materiali perché un soggetto possa chiedere
le misure alternative. (<1">1) Lo
spirito garantista che anima queste leggi, rischia tuttavia di essere vanificato
nei suoi scopi quando si tratta di extracomunitari. Non è infatti problema di
poco conto reperire stranieri che di solito non hanno né domicilio, né lavoro
regolare, né casa, né famiglia in loco. Per di più essi debbono essere
rintracciati due volte: prima per consegnare loro l’ingiunzione, in seguito
per eseguire la pena. L’esperienza di Nencini ci dice che nel 99% dei casi
essi non chiedono assolutamente niente in quei trenta giorni di tempo, e ciò
porta come conseguenza l’effettiva esecuzione della pena. Il rischio è in
pratica quello di avere due sistemi paralleli, a causa delle applicazioni che di
fatto si rivelano molto diverse tra soggetti stranieri e soggetti italiani. Non
esistono né indagini statistiche, né atti di convegni, né testi ufficiali che
spieghino l’alta percentuale di ‘astensioni’ tra gli stranieri in materia
di misure alternative nei termini contemplati dalla Legge Simeone, ma vale la
pena riportare la "personale sensazione" di Nencini: Il
foglio che viene loro consegnato è molto chiaro, la legge è spiegata molto
bene: hanno trenta giorni di tempo per leggerlo e per capirlo (...) questa gente
è talmente stupita dall’enorme bontà del nostro sistema, è talmente felice
che il foglio non lo legge nemmeno, scappano e basta. Ricevono un foglio e
vengono mandati via: ma in quale altro sistema? Per condanne fino a tre anni di
reclusione vengono avvisati? Infatti, il limite massimo di tre anni di
reclusione è un limite magnanimo, che può rappresentare anche un residuo di
maggior pena. Se, per esempio, si considera una condanna avvenuta in corso di
giudizio abbreviato e che quindi già beneficia dello sconto di un terzo di
pena, si può arrivare all’irrogazione di una pena di sette, otto anni non
eseguibile. Ora, una condanna di sette, otto anni è per omicidio, per
estorsione, per concussione, per rapina. Quindi il nostro è un sistema
piuttosto garantista checché se ne dica in giro. Direi estremamente garantista
perché né in Europa né in altre parti del mondo esiste questo meccanismo che
noi abbiamo creato. Non a caso siamo il paese più amato dagli stranieri buoni e
meno buoni... (<2">2) In
teoria queste considerazioni, espresse così vivacemente, sono più che
condivisibili e giustificano anche una punta di orgoglio, ma si vedrà poi che
il detenuto straniero finisce in sostanza per scontare una maggiore permanenza
media in carcere rispetto ai detenuti autoctoni, a parità di pena da espiare.
Nel recente convegno su ‘Lo straniero in carcere’ tenutosi a Firenze il 24 e
25 maggio 1999 sotto l’egida del Ministero di grazia e giustizia e del
Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si è detto che: Gli
extracomunitari non hanno quasi mai punti di riferimento esterni, o, se li
hanno, sono quelli cosiddetti ‘in nero’, o contigui alle aree criminali. Di
conseguenza, né in fase di iter processuale, né in fase esecutiva essi
riescono ad ottenere misure diverse dalla detenzione. Gli istituti alternativi
del C.p.p. e dell’Ordinamento penitenziario sono loro sostanzialmente
preclusi, compresa la liberazione anticipata, e ciò paradossalmente a causa
delle pene troppo spesso miti. Neppure i tossicodipendenti (ed ormai il 70% di
tali detenuti sono stranieri, di questi la maggior parte dell’area magrebina)
hanno alcuna possibilità poiché non vengono presi in carico dai servizi e,
conseguentemente, non possono beneficiare della particolare normativa vigente.
Una lettura di questo genere porta ad evidenze inquietanti: le misure
alternative che vengono concesse sulla base della mancanza di pericolosità
sociale e sulla possibilità di trovare punti di appoggio esterni, vengono di
fatto negate agli stranieri per mancanza di condizioni oggettive, e pertanto si
tengono in carcere elementi non particolarmente pericolosi sulla base del fatto
che manca loro un lavoro, una casa, una famiglia. La sensazione è che per tali
soggetti il carcere sia diventato un megacentro di accoglienza. È solo il caso
di far notare poi che il carcere offre, paradossalmente, tutta una serie di
servizi spesso inesistenti nella realtà esterna. (<3">3)
L’affidamento in prova al servizio sociale
L’affidamento
in prova al servizio sociale costituisce la più significativa tra le misure
alternative alla detenzione: essa estingue ogni rapporto del condannato con
l’istituzione carceraria, prospettandosi quale trattamento in libertà
sostitutiva della detenzione. Esso è disciplinato dall’art. 47
dell’Ordinamento penitenziario (O.p.) ed è previsto per una pena non
superiore ai tre anni (anche residuo di maggior pena). Questo istituto,
contemplato dalla Legge Gozzini per autori di reati di modesta entità, poteva
venire applicato solo a pena iniziata e dopo tre mesi di osservazione
intramuraria. Il presupposto era quello di rieducare il soggetto imponendogli
prescrizioni comportamentali, unitamente al supporto del servizio sociale,
quando le caratteristiche personologiche del condannato inducessero a preferire
un trattamento totalmente alternativo al regime carcerario. Successivamente
1’ambito di applicabilità dell’istituto venne ampliato per la politica di
carcerizzazione testimoniata dalla novella penitenziaria del 1986:
(<4">4) esso fu esteso anche alla media criminalità, prima
dell’inizio dell’esecuzione penale e a prescindere dall’osservazione in
istituto. In ordine allo scopo di deflazione carceraria, il primato della
rieducazione con il trattamento alternativo fu scalzato dall’obbiettivo di
contenere o di evitare la detenzione in carcere, considerata di per sé fattore
di desocializzazione e di emarginazione, e di favorire una prassi indulgenziale. L’art.
47 O.p. disciplina la modalità di ammissione e di esecuzione dell’affidamento
in prova. Se il condannato si trova in stato di detenzione carceraria, la
concessione del provvedimento dipende dai risultati dell’osservazione della
sua personalità, osservazione condotta collegialmente per almeno un mese in
istituto (comma 2). Se il condannato, dopo un periodo di custodia cautelare ha
goduto di un periodo di libertà mantenendo un comportamento tale da consentire
un giudizio favorevole, l’affidamento viene concesso senza subordinarlo
all’osservazione (comma 3). Se l’istanza è proposta prima dell’emissione
o dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione, il P.m. o il pretore a cui
essa è presentata sospende l’emissione o l’esecuzione fino alla decisione
del Tribunale di sorveglianza, al quale trasmette immediatamente gli atti:
questo deve decidere entro quarantacinque giorni e, se non accoglie l’istanza,
l’esecuzione della pena riprende e non è ammessa per il futuro alcuna
sospensione. (<5">5) Esistono,
tuttavia, anche episodi negativi che provocano l’interruzione della misura: può
verificarsi cioè un annullamento o una revoca. L’annullamento della misura può
essere determinato o da una causa vera e propria di annullamento del
provvedimento di applicazione (determinata per esempio dalla condanna per un
fatto commesso prima della sua concessione, che cumulata in corso di esecuzione
determini il superamento del limite di tre anni di cui si è già detto), sia da
una causa che comunque provoca il venir meno della misura per motivi non
dipendenti dalla condotta del condannato durante l’esecuzione della misura
(per esempio, il sopravvenire di un’infermità mentale, o la richiesta di
revoca della misura, o di una sua sostituzione con un’altra da parte
dell’interessato, per motivi personali). La revoca dell’affidamento, invece,
non è conseguenza automatica dell’eventuale violazione da parte
dell’affidato di specifiche disposizioni di legge o di ciò che gli viene
prescritto. Durante
il periodo di affidamento, vengono redatte sul comportamento del soggetto
periodiche relazioni da parte dell’assistente sociale e, se il suo
comportamento generale denuncia una inidoneità alla risocializzazione con il
trattamento alternativo, l’affidamento viene revocato: ciò rappresenta, in
pratica, una smentita della prognosi di rieducabilità espressa al momento della
concessione della misura. È quindi chiaro come la legge che vuole
l’affidamento subordinato all’osservazione della personalità in istituto,
presupponga una valutazione accurata delle possibilità di recupero del
condannato. L’art. 47 O.p. prescrive che tale osservazione sia condotta
collegialmente, vale a dire con l’apporto di tutti i componenti l’équipe di
osservazione, ma esistono seri dubbi circa l’attendibilità degli esiti di
tale osservazione data la persistenza delle carenze di personale e la
discrezionalità della presenza degli esperti di cui all’art. 80 O.p.
(<6">6) Maggiori
sono invece i vantaggi per il condannato nel caso in cui tale osservazione non
necessiti, giacché ciò accade quando egli, o avendo usufruito di un periodo di
libertà, o essendo ancora in libertà, ha già teoricamente intrapreso un
processo rieducativo dando buona prova di sé, al punto che si ritiene di non
dovere far nulla per compromettere questo processo in atto. È chiaro che, anche
secondo la voce comune, chi delinque ha problemi di vario genere; è ovvio che
gli extracomunitari, in quanto stranieri e quindi ‘esterni’ alla società
che li accoglie, hanno più problemi degli autoctoni; anzi, secondo la
dottoressa Fiorillo, "quelli dell’ultima generazione hanno notevoli
problematiche, anche a livello psichiatrico ...". (<7">7) Scorsa
quindi la legge e preso atto di questa considerazione, viene spontaneo pensare
che il cosiddetto ‘educatore’ sia la figura centrale di questo meccanismo,
volto, com’è giusto, al recupero dei soggetti recuperabili. Data
l’importanza di questa figura ci si aspetta poi una sua presenza capillare,
una preparazione specifica e una disciplina precisa e puntuale che ne definisca
il ruolo. Le sorprese però non mancano. Dalle interviste fatte ad alcuni
educatori del Carcere di Sollicciano, si scopre che essi sono cinque su mille
detenuti, con un rapporto di uno a duecento, mentre la situazione ottimale
sarebbe, com’è intuitivo, al massimo di uno a cinquanta; inoltre emerge il
fatto singolare che la carenza di organici è macroscopica nel nord Italia e nel
centro, mentre la situazione si rovescia nel sud, giacché la corsa al posto
fisso, ambito dai meridionali, fa sì che un gran numero di giovani scelga
questa carriera, passi un breve periodo di apprendistato in giro per l’Italia
e tenda poi a ritornare a casa o comunque nei pressi. Tipicamente
italiano è poi il fatto che l’unico carcere con un rapporto ideale
educatori-detenuti sia quello romano di Rebibbia che, guarda caso, è così
vicino al Ministero di grazia e giustizia da dover incutere l’idea della
perfezione. (<8">8) Un educatore di Sollicciano osserva che la sua
figura professionale è abbastanza recente, essendo nata con la famosa Legge
Gozzini del ‘75, quando esisteva solo la figura dell’educatore per minori.
All’inizio, mancando un profilo professionale definito "si inventò
questo ruolo", (<9">9) però mancavano riferimenti e circolari
ministeriali di precisazione. In seguito sono stati stabiliti profilo e
mansioni, cosicché ora in teoria la funzione dell’educatore di adulti
(definizione ossimorica a parere dell’interessato) è quella di segretario
tecnico dell’équipe di osservazione. L’équipe
è composta, oltre che da lui, dall’assistente sociale, dallo psicologo e in
alcuni casi anche dal criminologo, ma l’educatore deve coordinare gli
interventi di tuffi, compresi i volontari e il S.e.r.t.; egli deve raccogliere
la documentazione di queste persone ed enti, presentarli all’équipe e
redigere la relazione finale da inviare al Tribunale di sorveglianza. Egli
diventa quindi una sorta di ‘galoppino’, al di là delle incombenze previste
dall’ordinamento, un po’ per le vistose carenze croniche, un po’ per la
tendenza a demandare dei vali soggetti, in quanto egli è l’unico fra essi a
diretto contatto con l’utente, ed è quindi inevitabile che tutto ricada su di
lui. A Sollicciano la percentuale di detenuti extracomunitari sul totale si
aggira sul 70%, di ogni provenienza e negli ultimi tempi in gran numero anche
cinesi. Stante
la situazione di questo istituto [Sollicciano] se teorizziamo ci prendiamo in
giro: noi educatori incidiamo poco o nulla, per via del rapporto numerico
sproporzionato. Proprio oggi abbiamo fatto una riunione col direttore
dell’ufficio ed è stata la quinta o la sesta, perché non riusciamo a
conciliare l’esigenza di sicurezza con l’aiuto sociale che siamo chiamati a
svolgere e c’è stata anche un po’ di polemica. (<10">10) Analoga
è l’opinione dell’educatore Gianfranco Politi, dalla cui intervista balza
in evidenza che l’applicazione di una misura alternativa alla detenzione
dipende da parametri che sono il risultato di una sorta di puzzle le cui tessere
sono i pareri degli educatori, degli psicologi e degli addetti ai servizi
sociali che seguono il detenuto nel suo iter intramurario ed extramurario:
l’assemblaggio delle tessere tocca al Tribunale di sorveglianza, ma il
meccanismo è molto più complesso di quanto possa sembrare perché
quest’ultimo deve anche attivare indagini di P.g. per controllare i soggetti
che, di volta in volta, entrano sulla scena in relazione col condannato
sostenendo, per esempio, di volerlo ospitare o dargli un occupazione. Tutti
questi passaggi, che in alcuni casi possono assumere anche l’aspetto di
interferenze, consentono (anche se non necessariamente comportano) valutazioni
pregiudiziali circa il carattere e la disposizione del condannato a
risocializzarsi. (<11">11) Da
cento e più fascicoli consultati presso il Tribunale di sorveglianza di Firenze
abbiamo estratto alcuni casi a nostro avviso di particolare interesse e fra
questi la vicenda di un albanese immigrato clandestinamente in Italia, ma
inserito perfettamente nella casa e nella piccola azienda agricola della sua
fidanzata a Dicomano. Incensurato, non tossicodipendente, egli è stato trovato
in possesso di un ingente quantitativo di hashish, per la qual cosa ha subìto
una condanna alla pena di due anni di reclusione e di venti milioni di multa.
Scontati otto mesi, il suo avvocato fa istanza di affidamento al servizio
sociale. L’Ufficio educatori di Firenze sottolinea che il detenuto non ha mai
contravvenuto ad alcuna norma disciplinare, fino al giorno in cui, rinchiuso con
due fratelli albanesi in una cella, arriva con essi alle mani, per
"incomprensibilità di carattere", come recita il rapporto di un vice
ispettore. Seguono le varie dichiarazioni degli interessati circa i futilissimi
motivi del litigio. Il Centro servizi sociali per adulti rilascia a sua volta un
certificato da cui si espunge che il giovane albanese è un buon lavoratore, è
molto amato dalla fidanzata e dai futuri suoceri i quali gli passano oltre al
vitto e all’alloggio un compenso giornaliero di circa centomila lire per il
suo aiuto nell’azienda di famiglia. Si aggiunge la nota riguardo alla certezza
dei familiari che l’episodio delinquenziale sia occasionale e non derivi dalla
frequentazione di un cattivo ambiente. Il Tribunale di sorveglianza assembla,
analizza, rigetta l’istanza perché occorre un periodo più lungo di
osservazione prima di una nuova valutazione. (<12">12) Analogo
il caso di un casertano, detenuto a Sollicciano per detenzione a fini di spaccio
di sostanze stupefacenti. Condannato a undici mesi di reclusione e a
quattromilionicinquecentomila lire di multa per detenzione di un quantitativo di
droga abbastanza modesto, l’uomo litigava con un compagno di carcere
conterraneo durante l’ora d’aria. Ricoverato in infermeria, ha aggredito
verbalmente l’infermiere di turno, contravvenendo al requisito della buona
condotta. Il fascicolo presenta la solita ridda di testimonianze, dichiarazioni,
osservazioni e via dicendo, nonché l’istanza dell’interessato concernente
l’affidamento, come si legge, "per accudire ai suoi problemi economici
familiari e per avere la possibilità di un contratto di lavoro". Il
Tribunale di sorveglianza di Firenze rigetta l’istanza con questa motivazione:
"Non sussistono concrete prospettive di inserimento esterno né è stata
approfondita la vicenda del suo legame con gli stupefacenti".
(<13">13) Le analoghe circostanze richiamate da questi due casi e
l’analogo esito delle due istanze non costituiscono però sufficiente
testimonianza che le cose vadano sempre così di pari passo. Due
magistrati del Tribunale di sorveglianza di Firenze concordano nell’affermare
che la concessione di misure alternative alla detenzione è più improbabile per
un extracomunitario, perché è oggettivamente più difficile che la sua
situazione presenti gli aspetti ritenuti per legge garanzia di successo per il
suo reinserimento nella società. Il punto nodale, a detta unanime, è la
mancanza di un lavoro e di una rete familiare di sostegno che possa
ragionevolmente escludere la recidività. Inoltre, anche quando c’è un
lavoro, esso è sempre in nero e non se ne può tener conto ufficialmente perché
ciò significherebbe avallare una situazione che in realtà esiste, è ben nota
e diffusa, ma non si può ufficializzare. (<14">14) Alla
obiezione che siamo di fronte al famoso serpente che si morde la coda perché
una situazione già di oggettivo disagio finisce per diventare un’aggravante e
rappresenta quindi di per se una discriminazione, il dottor De Felice in
particolare condivide tale osservazione, esprimendo il parere che
l’affidamento è, per questi motivi, in assoluto la misura più difficile da
ottenere per un extracomunitario e non esclude che nella valutazione della
situazione di uno straniero possa giocare un ruolo determinante una sorta di
diffidenza riguardo "l’aspetto, un po’ oscuro, di cosa faccia una
persona che è irregolare sul territorio dello stato italiano".
(<15">15) Del
campione di undici ordinanze del Tribunale di sorveglianza di Firenze esaminate
in particolare, sei riguardano extracomunitari, cinque italiani; dei sei
stranieri solo uno ha visto accolta la sua istanza, mentre tutti i condannati
italiani hanno ottenuto l’affidamento. Un’algerina
di quarantanove anni viene condannata ad un anno di reclusione e a
quattrocentomila lire di multa per furto aggravato in concorso con un somalo (si
erano impossessati di duecentomila lire sottratte al portafoglio di un
benzinaio). Inseguiti dalla stradale e fermati, vengono giudicati di elevata
pericolosità, desunta dai vari alias declinati altre volte, dall’assenza di
dimora stabile, di documenti affidabili e dalla recidività. La donna ha due
figlie in tenera età, avute da un italiano sottrattosi alle sue responsabilità
e affidate e accudite da un’amica residente a Castelvolturno. Un educatore
informa che la donna dice di vivere a Marsiglia con i familiari ai quali ha
nascosto la nascita della seconda figlia poiché ritiene che essi non potrebbero
capire né perdonare la sua situazione: perciò alterna periodi in Francia ed
altri in Italia, anche per stare vicino alle figlie. Ora vorrebbe tornare in
Francia, dove pare che l’aspetti anche un lavoro stabile. La sua condotta è
stata irreprensibile all’interno del carcere, dove ha svolto con impegno il
lavoro affidatole. Soffre di ipertensione, ed è curata dal medico del carcere.
L’amica, che alleva le figlie, dichiara di essere disponibile ad ospitare la
donna durante il periodo di affidamento, ma nonostante ciò l’istanza viene
rigettata con la motivazione che "la pena termina tra pochi giorni e non può
instaurarsi un valido rapporto con essa". (<16">16) Un
napoletano di trentasette anni, domiciliato a Firenze, presenta un certificato
penale lungo quanto un poema: dall’usurpazione di titoli in concorso alla
lesione personale, dalla resistenza a pubblico ufficiale alle minacce, dalla
rapina al furto in concorso, agli atti di libidine violenti al ratto al fine di
libidine, agli atti osceni, all’evasione, alla detenzione di armi e di
esplosivi. Entrato e uscito dal carcere per tutta la vita, in passato ha
ottenuto l’affidamento per attendere all’attività commerciale di cui è
titolare, ma la sua pervicace tendenza a delinquere lo riconduce fatalmente in
tribunale per tentata rapina, a Firenze, nel gennaio del 1997. Il Centro servizi
sociale per adulti, in data ottobre 1997, sostiene di conoscere bene il soggetto
in questione la cui situazione personale e familiare sembra essere migliorata,
sia per quanto concerne la gestione di un banco di vendita in via dell’Ariento,
sia per quanto riguarda i rapporti con la moglie e il figlio quattordicenne. La
Questura di Firenze non condivide tanto ottimismo e, nel febbraio del 1998,
spedisce al Tribunale di sorveglianza una dichiarazione in cui definisce
l’uomo socialmente pericoloso, associato a persone pregiudicate, frequentatore
di locali notturni, spesso ubriaco e sempre violento, abituato ad aggredire la
moglie, il figlio e, in ultimo, anche gli ‘arredi’. Per concludere, egli è
anche dedito agli stupefacenti ed affetto da epatite B. A quest’uomo, in data
16/2/98, il Tribunale di sorveglianza di Firenze concede l’affidamento
sostenendo che egli: ha
recentemente fruito di analoga misura alternativa conclusasi positivamente. Pur
continuando a sussistere concrete perplessità in ordine alle sue effettive
capacità di regolarizzare completamente la propria condotta si ritiene comunque
di concedere un’ulteriore opportunità al soggetto (anche in considerazione
dell’attività commercia e di cui è titolare). (<17">17) Da
quanto detto, risulta evidente che (come sostiene l’educatore Crispo)
"l’affidamento per quanto riguarda l’extracomunitario è praticamente
fantascienza", (<18">18) e ciò in base a un ragionamento
logico: la semilibertà è concessa più facilmente a uno straniero perché è
pur sempre un regime detentivo che implica il soggiorno detentivo coatto della
persona, anzi, addirittura in questo caso i semiliberi si possono iscrivere al
collocamento, perché il carcere funziona da residenza. L’affidamento, invece,
è una misura totalmente alternativa al carcere che non si occupa più del
detenuto il quale passa in carico ai servizi sociali del territorio, agli enti
locali e - nel caso di un tossicodipendente - al S.e.r.t. di zona. Un
ulteriore esempio di quanto sia difficile per queste persone accedere alla
misura dell’affidamento ci viene riferito da Crispo. Un albanese incarcerato
per reati inerenti alla droga, ha compiuto all’interno dell’istituto un
percorso abbastanza positivo, tanto che gli è stata concessa la semilibertà e
si è trovato un lavoro presso una cooperativa sociale. Dopo parecchi mesi di
questo regime, molto recentemente ha chiesto l’affidamento, mancando poco alla
fine della pena; inoltre aveva buone possibilità di trovare un domicilio
attraverso strutture religiose. Le relazioni sul soggetto da parte del gruppo di
osservazione interno all’istituto (nel quale agiva Crispo) erano molto
positive e nulla lasciava supporre che le relazioni del controllo esterno
fossero negative. Interpellati il datore di lavoro, i compagni semiliberi e
l’interessato, i rapporti di quest’ultimo col suo ambiente risultavano
positivi e in netto contrasto con le opinioni di alcuni osservatori esterni. Al
Tribunale di sorveglianza, il magistrato ha dato più peso all’aspetto esterno
e l’affidamento è stato negato. Oltre al rammarico per l’usuale
sottovalutazione dell’opinione degli educatori, l’intervistato esprime il
convincimento che nelle valutazioni esterne abbia prevalso un atteggiamento di
prevenzione nei confronti dell’etnia di appartenenza del condannato e del suo
modo esteriore di atteggiarsi e di comportarsi, cosicché il merito del giudizio
veniva indebitamente trasferito dalle concrete opportunità che la legge
prescrive per la risocializzazione del soggetto (per le quale vi erano tutte le
premesse), a un giudizio prevalentemente espresso sulla persona, sul suo modo di
fare e di porgersi agli altri. (<19">19) Analoghe considerazioni
riporta l’educatore Politi, il quale ribadisce le difficoltà di concedere un
simile provvedimento a chi, in effetti, sparisce per così dire nel vuoto, non
avendo né domicilio, né lavoro fisso, né un punto di riferimento. È
ovviamente il caso di quella ‘doppia pena del migrante’ di cui parla il
sociologo Abdelmalek Sayad, giacché: è
nella natura stessa dello stato discriminare e, per questo, dotarsi
preventivamente di tutti i criteri possibili di pertinenza necessari per una
discriminazione, senza la quale essa non sarebbe possibile: discriminazione tra
i nazionali che riconosce come tali, e nei quali si riconosce allo stesso modo
in cui essi si riconoscono in lui e ‘gli altri’ che deve conoscere solo ‘materialmente’,
in ragione del solo fatto che sono presenti nel campo della sua sovranità
nazionale e sul territorio nazionale che ricade sotto questa sovranità.
(<20">20) Un
grossetano di trentacinque anni con un curriculum delinquenziale che riguarda
prevalentemente la detenzione illegale di armi e lo spaccio di stupefacenti,
viene condannato ad un anno e tre mesi di reclusione per "recidiva plurima
aggravata di ingente quantitativo di sostanza stupefacente ai fini di
spaccio". Gli viene concesso l’affidamento presso il S.e.r.t. di Siena e
in seguito anche un trasferimento per seguire i quattro cavalli della moglie
all’ippodromo di Follonica, mentre contemporaneamente, sempre la moglie
attesta che il coniuge lavorerà nella paninoteca di Follonica di cui ella è
comproprietaria. Il marito però trova più interessanti le corse che il
programma del S.e.r.t. e si comporta così male che l’affidamento gli viene
revocato dopo undici mesi. (<21">21) La
misura non viene invece concessa, per mancanza di "inserimento
lavorativo", a un marocchino di trent’anni con precedenti di poco conto
che doveva espiare ventotto giorni di reclusione residua della pena di tre mesi
per detenzione e spaccio di stupefacenti. L’uomo aveva esibito un contratto di
locazione redatto a norma di legge con tanto di ricevuta di deposito cauzionale
e di consegna chiavi e aveva presentato la dichiarazione di una ditta di
restauri pronta ad assumerlo, ma nonostante ciò l’affidamento non passa.
(<22">22) Ancora: un ragazzo di Mostar, di vent’anni, condannato
per furto aggravato a cinque mesi di reclusione e a duecentomilalire di multa,
residente presso un campo nomadi di Prato, senza permesso di soggiorno, chiede
l’affidamento esibendo l’attestato di una ditta di pitture di Pisa che si
dichiara disposta ad assumere lui e il fratello. La Questura di Prato invia al
Tribunale di sorveglianza una breve relazione in cui evidenzia che il soggetto
in questione non svolge alcuna attività lavorativa, ha precedenti per reati
contro il patrimonio e insinua che "l’attività lavorativa presentata dal
soprascritto sia una dichiarazione pretestuosa al solo fine di ottenere i
benefici di legge". L’affidamento viene negato con questa motivazione:
"l’indicazione lavorativa non è stata confermata. La situazione
complessiva appare poco chiara". (<23">23) Due
fratelli nomadi, nati a Prato, giovanissimi, che risultano ambedue depressi,
ansiosi e agorafobici alla visita psichiatrica da parte dell’azienda U.s.1. n.
4 di Prato, dei quali il più vecchio, dal suo ingresso in carcere, ha commesso
in media ogni due giorni atti di autolesionismo, condannati entrambi per
estorsione e furto aggravato, chiedono l’affidamento ai servizi sociali.
Quello con problemi psichiatrici, che ha una moglie e sette figli, dichiara di
vivere di un sussidio e dei proventi di una piccola attività di rivendita di
rottami ferrosi. La sua istanza viene rigettata come quella del fratello, con la
seguente osservazione: "La situazione del soggetto, complessivamente
considerata, è assai problematica. La possibilità di inserimento lavorativo
non appare congrua." (<24">24) Colpisce
questo ritornello dell’assenza di prospettive lavorative e la diffidenza delle
istituzioni nei confronti di una prospettiva di tal genere. L’ex Presidente
del Tribunale di sorveglianza di Firenze ed ex Presidente della Direzione
amministrativa penitenziaria, Alessandro Margara, fa notare che teoricamente, in
base ad una sentenza della Corte costituzionale, l’affidamento potrebbe essere
concesso anche a prescindere da un discorso di lavoro. In pratica, però,
"il lavoro è la più classica delle risorse perché generalmente si può
concedere la misura per motivi di studio, per disturbi psichiatrici (perché si
va in un ambiente protetto), o per un programma del S.e.r.t. che può
comprendere anche un lavoro". Per
un extracomunitario, però, queste strade sono quasi completamente precluse: la
prima perché la massa non viene certo in Italia per studiare, la seconda e la
terza perché i palleggiamenti, endemici nelle nostre istituzioni sanitarie
anche per gli autoctoni, diventano drammatici e insormontabili per gli
stranieri. È quindi invalsa la prassi, se così si può dire, di attribuire
all’attività lavorativa una funzione di ancoraggio, che, come abbiamo visto,
la rende conditio sine qua non per la concessione dell’affidamento.
(<25">25) La
cosa cambia per gli italiani, per lo meno in base ai campioni di ordinanze
scelti. Un calabrese di quarantasette anni, detenuto a Sollicciano per
detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, nonché per detenzione illegale
di armi, con una condanna a sette anni e due mesi, ottiene prima la semilibertà
e poi chiede l’affidamento, a seguito della soddisfatta constatazione da parte
del servizio sociale che egli, dopo molti anni di fidanzamento, si è deciso a
sposarsi, divenendo socio e cogestore del negozio di alimentari della moglie. In
virtù della necessità di badare ai suoi affari, del buon andamento della
semilibertà, del "buon giro d’affari del negozio e del residuo di pena
ormai molto modesto" egli ottiene senza indugi l’affidamento.
(<26">26) Un
italiano, fiorentino, sposato e domiciliato a Pistoia, trentenne, colleziona
dall’89 al ‘95 ben sette denunce per atti osceni. Portato a termine con
successo un precedente affidamento in prova, inerente la penultima condanna di
cinque mesi, egli viene ricondannato a due mesi e venti giorni nell’ottobre
del ‘95. Il centro servizio sociale valuta positivamente il fatto che per ben
quattro anni il condannato sia riuscito a non cedere alle sue pulsioni, che
abbia trovato da poco tempo un lavoro da operaio, e che la moglie abbia cessato
un’attività in proprio e abbia per conseguenza più tempo a disposizione. Il
giovane risulta condizionato dalla figura della madre, e dimostra avere una
mentalità nettamente infantile. La Questura di Pistoia, a sua volta, sottolinea
che non ci sono più ricadute nella devianza sessuale da diversi anni. La misura
alternativa viene concessa con questa motivazione: "il fatto è modesto
(atti osceni) così come i precedenti seppure specifici; da qualche anno non ha
dato luogo ad altri comportamenti devianti e lavora regolarmente".
(<27">27) Un
tunisino di ventiquattro anni ce la fa, ma valgono anche per lui le
considerazioni già fatte: infatti, condannato per detenzione ai fini di spaccio
a cinque anni e dieci mesi di detenzione e ad una multa residua di cinquantamila
lire, ottiene l’affidamento in prova motivato dal fatto che egli è
incensurato e lavora da un anno stabilmente presso una cooperativa di Scandicci.
(<28">28) Le
difficoltà ad ottenere le misure alternative da parte degli extracomunitari
vengono ribadite dalla direttrice delle carceri di Sollicciano e Solliccianino,
Maria Grazia Grazioso: Per
arrivare ad usufruire della misure alternative bisogna effettuare un percorso
intramurario, la cosiddetta osservazione, che porta all’individuazione di una
diagnosi di massima che poi permetta di costruire un percorso esterno Proprio in
questa fase incominciano le dolenti note per gli extracomunitari.
L’osservazione intramuraria non è fatta esclusivamente rispetto a ciò che il
soggetto compie o svolge all’interno del carcere, ma anche dal rapporti che lo
legano all esterno, che certamente per l’extracomunitario sono di difficile
riscontro. Noi non abbiamo la possibilità di rapportarci ad un ambiente sociale
di appartenenza, a un gruppo familiare che possa seguire il condannato, che
possa farsene carico e comunque presentare per il detenuto straniero un punto di
riferimento... È già difficile riuscire a trovare attività occupazionali o
comunque utili per il reinserimento dei detenuti cittadini italiani, diventa più
problematico per il detenuto extracomunitario... Sono, in percentuale, molto
pochi quelli che sono riusciti ad usufruire delle misure alternative e, direi,
paradossalmente, perché spesso lo straniero sconta reati anche abbastanza
lievi, abbastanza limitati sotto il profilo della pericolosità sociale.
Ciononostante non si riesce a dargli quegli sbocchi che naturalmente la legge
prevede, proprio perché non si è in grado di costruirgli intorno quella rete
che la legge richiede per l’ammissibilità alle misure alternative.
(<29">29)
La
misura della detenzione domiciliare è disciplinata dall’art. 47 ter
dell’Ordinamento penitenziario: in base ad esso la pena della reclusione (non
superiore a tre anni anche residuo di maggior pena), nonché la pena
dell’arresto (se non vi è stato affidamento in prova al servizio sociale),
possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata
dimora, ovvero in luogo pubblico di cura o di assistenza quando si tratta di: ·
donna incinta,
o che allatta la prole, o madre di prole convivente di età inferiore a cinque
anni; ·
persona in
condizioni di salute particolarmente gravi che richiedono costanti contatti con
i presidi sanitari territoriali; ·
ultrasessantenni,
se inabili anche parzialmente; ·
minori di
ventun anni, per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro, di
famiglia. Con
la L. n. 165/98 (l’anzidetta Legge Simeone), possono ottenere la detenzione
domiciliare anche i padri esercenti la patria potestà di prole inferiore ad
anni dieci, quando la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata ad
assistere la prole. Inoltre questa legge contempla anche la possibilità, di
godere della misura indipendentemente dalle condizioni sopra dette, quando la
pena detentiva non supera i due anni e quando non ricorrono i presupposti per
l’affidamento in prova al servizio sociale: si contempla quindi una sorta di
alternativa all’affidamento laddove esso non può venir concesso, semprechè
ovviamente non sussista il pericolo che il condannato commetta altri reati. Tale
disposizione non si applica ai condannati per reati di mafia. Si
considera che l’esecuzione della pena prosegua anche durante la detenzione
domiciliare, le cui modalità sono disposte dal Tribunale di sorveglianza
all’atto della concessione della misura. Lo stesso Tribunale determina e
impartisce le disposizioni per l’intervento del servizio sociale; esse sono
comunque passibili di modifica da parte del Magistrato di sorveglianza
competente. Questa
misura alternativa, introdotta come le altre con la Legge 663186, modificata
dalla Legge 296/93 e perfezionata dalla Legge Simeone, risponde essenzialmente a
finalità assistenziali, giacché è applicabile a persone ritenute
particolarmente meritevoli di tutela da parte del legislatore. Inoltre si può
notare che nel caso delle madri di famiglia l’attenzione del legislatore è
stata rivolta non tanto alla tutela della madre, quanto a quella del minore e
che la legge, nella sua espressione volutamente generica, tutela il rapporto
genitore-figlio, anche se questo è adottivo. Per questo motivo, in base a una
sentenza della Corte costituzionale, la Legge Simeone ha esteso anche ai
detenuti padri, nelle condizioni già dette, gli stessi diritti delle madri.
Bisogna evidenziare inoltre la particolare attenzione della legge nei confronti
delle persone gravemente malate (come nel caso dei malati di AIDS), che non
possono ricevere adeguate cure dai servizi sanitari degli istituti di pena. Lo
stesso garantismo si nota per le persone che abbiano superato la soglia della
terza età e che non siano del tutto autosufficienti. La
misura ha senz’altro la funzione di uno strumento di deflazione carceraria, in
guanto diretta ad attenuare, per quanto possibile, il gravissimo problema del
sovraffollamento delle carceri, anche se non sembra abbia finora ottenuto un
grande successo in tal senso. La detenzione domiciliare è revocata se il
comportamento del soggetto è contrario alla legge, o alle prescrizioni dettate,
ed appare perciò incompatibile con la prosecuzione della misura; ne è inoltre
prevista la revoca quando vengono a cessare le condizioni applicate
precedentemente. Chi si allontana dal luogo indicato per la sua detenzione, è
punito ai sensi dell’art. 385 C.p. La
concessione di questa misura alternativa, è, come recita la legge, subordinata
alle circostanze che non vi sia stato affidamento in prova al servizio sociale.
Si può dedurre da ciò che il legislatore abbia voluto ribadire l’esistenza
di una gerarchia tra le misure, riconfermando la preferenza per l’affidamento
in prova, ritenuto l’unica vera misura alternativa, cui corrisponderebbe -
secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente - una situazione più
favorevole, in quanto misura meno afflittiva. È comunque evidente che la
detenzione domiciliare, sebbene considerata misura alternativa alla detenzione
in carcere rappresenti una modalità alternativa di esecuzione della pena, priva
di qualunque contenuto risocializzante e rieducativo, dato che l’unica
prescrizione imposta al soggetto è l’obbligo di non allontanarsi dal luogo
indicato nel provvedimento scelto quale sede dell’esecuzione.
L’interpretazione che la Poggi dà di questa legge è in linea con
quest’ultima osservazione, in quanto, secondo lei, ...la
norma non è strutturata perché la persona alla detenzione domiciliare debba
compiere un percorso rieducativo. Si tratta di una misura alternativa introdotta
per le pene detentive brevi, quando vi è dimostrazione che questa persona può
stare in un luogo di reclusione che non sia il carcere. (<30">30) Quest’affermazione
prende spunto dal caso di un nomade di ventisei anni, domiciliato presso il
Campo Masini del Poderaccio, a Firenze. Arrestato nel dicembre ‘97 su denuncia
della moglie per minacce, percosse, ricettazione e detenzione di armi, viene
scarcerato dopo due settimane a seguito di un’ordinanza del Tribunale della
libertà per mancanza di gravi indizi di colpevolezza. Nuovamente arrestato nel
marzo ‘98 per un vecchio contenzioso di quando era minorenne, presenta tramite
l’avvocatessa Poggi un’istanza al Tribunale di sorveglianza per
l’affidamento in prova al servizio sociale, in quanto una cooperativa,
l’Astra, si dichiara disponibile ad assumerlo. Inoltre egli dispone di un
domicilio presso il Campo nomadi del Poderaccio dove si trova il suo nucleo
familiare (moglie e tre figli) e il nucleo familiare esteso (cognati e suoceri). Il
Tribunale di sorveglianza rinvia l’udienza già fissata per un supplemento
d’informazioni, poiché si teme che, reinserendo il giovane nell’ambiente da
cui è partita la denuncia, possano insorgere complicazioni. All’udienza viene
poi detto che la Cooperativa Astra attraversa un momento di difficoltà, e
quindi non può assumere nessuno. L’avvocatessa fa notare che comunque il
giovane nei tre mesi intercorsi tra la scarcerazione dopo la prima denuncia e la
nuova incarcerazione, era tornato in seno alla famiglia senza nessun problema.
La susseguente udienza viene rinviata in attesa della relazione degli assistenti
sociali che si pronunciano a favore del ritorno al campo, dove la moglie lo
aspetta a braccia aperte, giacché imputa ad una reazione istintiva sia le
percosse del marito, sia la propria denuncia. Con la velocità della giustizia
italiana si arriva all’udienza del 213199: a questo punto il giovane,
condannato a un anno e un mese, arrestato il 24 marzo dell’anno prima,
all’atto dell’udienza praticamente aveva già scontato quasi un anno di
carcere e gli mancava un mese e qualche giorno alla scarcerazione. Aveva anche
usufruito di cinque-sei settimane di permessi, per le festività, durante i
quali tutto era filato liscio. All’udienza del 213199 parevano esservi tutti i
presupposti per mandarlo alla detenzione domiciliare, ma la misura viene
rigettata con questa motivazione: "L’inserimento lavorativo prospettato
(Cooperativa Astra) non è idoneo ai fini perseguiti dalla misura e la
detenzione domiciliare al campo nomadi oltre che di difficile realizzazione, non
ha alcun significato rieducativo nel caso in esame". (<31">31)
Questo verdetto quindi è, secondo la Poggi, un andare ultra legem. Il nomade è
poi uscito per liberazione anticipata grazie al suo comportamento
irreprensibile, ma certo quest’altalena di rinvii, indagini, rinvii,
costituisce un corso complicato e soprattutto costoso, oltreché frustrante dal
punto di vista psicologico. L’avvocatessa
in questione ci racconta la vicenda di un tunisino ventitreenne arrestato nel
1996 per droga. Avendo egli collaborato con la Questura per riconoscere in
fotografia diversi spacciatori, in base al comma 7 dell’art. 73 D.P.R. 309/90,
viene condannato ad una pena attenuata di due anni di reclusione e agli arresti
domiciliari, ma dopo circa un anno la moglie viene arrestata di ritorno da
Milano con mezzo chilo di eroina. Le intercettazioni telefoniche attuate non
evidenziano un’effettiva partecipazione del giovane all’impresa, ma non
escludono il sospetto di una sua consapevolezza di ciò che la moglie stava
facendo. Il Tribunale del riesame lo fa scarcerare perché queste telefonate non
costituiscono prova sufficiente e quindi egli torna agli arresti domiciliari. A
quel punto, essendo divenuta la condanna definitiva, gli arriva un ordine di
carcerazione; in base alla Legge Simeone, l’avvocatessa chiede la detenzione
domiciliare come logica prosecuzione degli arresti domiciliari, anche perchè il
giovane, avendo perso il lavoro, non può ottenere un affidamento. Come osserva
l’avvocatessa, la cosa assume un carattere grottesco: il giovane tunisino
finisce di scontare la pena il 412199. L’udienza per la concessione della
detenzione domiciliare è fissata per il 21/1/99; il Tribunale di sorveglianza
rigetta l’istanza con una motivazione che dopo aver elogiato il detenuto,
definendone la condotta intramuraria "scrupolosamente corretta", lo
bolla per essere incorso in un "episodio delittuoso" (leggi oltraggio
a un agente della Polizia penitenziaria), per aver tenuto un comportamento
"impertinente e prepotente" nei confronti del titolare dell’impresa
dove lavorava, così da essere licenziato, e per la denuncia subita in seguito
alla faccenda della moglie, denuncia dalla quale, peraltro, era stato
scagionato. Così, giacché non esiste la possibilità di fonmulare il giudizio
prognostico positivo per l’ammissione alla detenzione domiciliare, come da
legge, il tunisino torna in carcere a rieducarsi convenientemente per ben due
giorni, giacché dalla data dell’udienza alla fine della pena intercorrevano
quattordici giorni, dei quali sedici sono stati occupati nei palleggi degli
incartamenti tra Tribunale di sorveglianza, Procura, carabinieri e polizia. Se,
in questo caso, la legge è stata puntigliosamente applicata, da alcune
interviste si desume invece che la norma non è precisa come dovrebbe, e quindi
nel black hole che essa apre, trova posto una ridda di interpretazioni e, in
definitiva, una situazione di caos generale che finisce per ritorcersi contro i
diretti interessati. È
questa la prassi per gli extracomunitari definiti ‘nomadi’, ai quali la
detenzione domiciliare dovrebbe essere concessa nel campo in cui, più o meno
stabilmente risiedono. E qui sorge il primo problema: se campi come il
Poderaccio o l’Olmatello sono riconosciuti legali dal comune, gli zingari
dovrebbero avere un radicamento domiciliare non diverso da quello di qualsiasi
autoctono. Ci sono poi campi semiregolari, "conosciuti ma non
riconosciuti" come dice l’educatore Politi: qui dovrebbe ancora esistere
la probabilità di poter godere della misura alternativa. La cosa si fa
drammatica quando i campi sono assolutamente irregolari, anche se la situazione
dei nomadi, e in particolare dei rom, non deve considerarsi un fenomeno
migratorio analogo a quello degli stranieri che vengono dall’area
nordafricana, in quanto essi sono più o meno stanziali nel nostro paese e vi
sono associazioni, come ‘Il Terzo Stato’, che li assistono
nell’ottenimento del permesso di soggiorno e nella ricerca di un lavoro. Da
qualche tempo la situazione dei nomadi si è fatta giuridicamente più complessa
in quanto essi per la maggior parte provengono dall’area balcanica, molti dal
Kossovo o dal Montenegro, e alcuni dovrebbero godere dello status di rifugiati
politici, mentre invece l’istituzionale precarietà della loro condizione li
esclude da questa possibilità. (<32">32) Un’ulteriore
difficoltà è rappresentata dal fatto che nei campi le abitazioni sono
roulottes, dimore evidentemente troppo costrittive per consentire una misura
alternativa, che comporta un orario ristretto di uscita (tre, quattro ore al
giorno); si deve quindi intendere che la detenzione domiciliare sia riferita
all’intero campo, che tuttavia in taluni casi rappresenta un territorio troppo
vasto e poco definito, tale da comportare, tra l’altro, anche il rischio di
contatto con un infinità di persone non certo idonee a garantire una idonea
reintegrazione sociale. (<33">33) Il
‘ritornello’ che emerge da tutte le interviste è che difficilmente la
detenzione domiciliare può aver luogo per gli extracomunitari, in quanto essi
quasi mai dispongono di un domicilio certo e quello offerto, magari da un amico
o da un parente anch’essi stranieri, è considerato aleatorio.
(<34">34) Si è cercato un riscontro a queste affermazioni
consultando un centinaio circa di fascicoli presso il Tribunale di sorveglianza
di Firenze, fra i quali è stato prelevato un campione di dieci casi, quattro
italiani e sei stranieri (di varia nazionalità). La concessione della misura
alternativa registra un 75% per gli italiani, mentre è capovolta per gli
stranieri: infatti tre dei quattro italiani hanno visto accolta la loro istanza,
di contro a uno solo dei sei stranieri. È fin troppo evidente che l’italiano
dà ai giudici l’impressione, o forse la garanzia, di offrire maggiore
certezza che la misura alternativa sortisca gli effetti voluti (oltre a quella
di non poter sparire dalla circolazione con la facilità, per esempio, di un
nomade il cui nucleo familiare decide di mettersi in viaggio). Un
fiorentino di ventisei anni, infatti, arrestato per detenzione di stupefacenti e
sostanze psicotrope, furto aggravato ed estorsione, ottiene la detenzione
domiciliare perché l’Opera Madonnina del Grappa dichiara di essere
disponibile a dargli un’abitazione e a trovargli un lavoro.
(<35">35) Un siciliano di sessantadue anni, condannato per
ricettazione alla pena di sei mesi di reclusione e a duecentomila lire di multa,
già precedentemente condannato per ubriachezza, oltraggio a pubblico ufficiale
e guida in stato di ebbrezza, ottiene la detenzione domiciliare perché "è
invalido e fruisce di pensione I.n.p.s. Le sue condizioni di salute sono
precarie e risultano aggravate dalla condizione detentiva... La misura appare
idonea alla situazione sanitaria del detenuto". (<36">36) Ancora
un senese di trent’anni, imputato di rapina ed estorsione aggravata
continuata, sospettato di aver aiutato un compagno ad evadere, ottiene la
detenzione domiciliare presso l’abitazione della propria madre "data la
vicinanza dell’attuale fine pena". (<37">37) Un
grossetano di ventotto anni, invece, imputato di detenzione, spaccio di sostanze
stupefacenti e di associazione a delinquere finalizzata al traffico di
stupefacenti, vede rigettata la propria istanza perché la recrudescenza del suo
problema di tossicodipendenza ha già provocato, sei mesi prima, la revoca
definitiva dell’affidamento allora in corso; pur essendo quindi
tossicodipendente, non ha impostato nessun progetto terapeutico, mentre la sua
situazione sanitaria, su cui poggiava l’istanza di detenzione domiciliare
"non è tale da poter essere considerata incompatibile con lo stato
detentivo". (<38">38) Analogamente,
viene negata la misura dell’affidamento in prova e, in subordine, della
detenzione domiciliare, (<39">39) a un albanese di ventotto anni
condannato a sei mesi di reclusione per aver rubato cinquantatré stecche di
sigarette e ventuno carte telefoniche rompendo una finestra di un
bar-pasticceria. L’avvocato Rossi del foro di Siena, che lo rappresenta,
espone nell’istanza i motivi per cui la prognosi è assolutamente favorevole
in rapporto ad una ipotetica reiterazione dei fatti penalmente rilevanti: ·
la condanna,
‘inspiegabilmente’, è stata inflitta senza applicare la sospensione
condizionale della pena, nonostante l’incensuratezza dell’imputato; ·
l’entità del
fatto contestato non è grave, mentre la mancata applicazione della condizionale
poggia essenzialmente sulla mancanza di fissa dimora in Italia; ·
un amico
albanese con moglie e figli, domicilio e lavoro fisso, certifica di essere in
grado di ospitarlo per la durata dell’espiazione; ·
l’imputato,
accettando la pena concordata, ha mostrato piena consapevolezza e ravvedimento
per i fatti commessi. Il
servizio sociale del Tribunale di sorveglianza di Firenze stila una
dichiarazione in cui sottolinea l’instabilità lavorativa e abitativa del
soggetto in questione che si è arrangiato in lavori occasionali, non ha
permesso di soggiorno ed ha come unico punto di riferimento l’amico già
citato, che però abita in una casa piccola e nonostante la buona volontà, può
ospitarlo solo saltuariamente . Ancora:
un albanese di ventisei anni, imputato per induzione e favoreggiamento della
prostituzione in concorso, condannato a tre anni e quattro mesi di reclusione e
a ottocentomila lire di multa, con permesso di soggiorno, presenta istanza di
detenzione domiciliare presso un signore di Torino che lo aveva conosciuto e
aiutato otto anni prima, quando ancora minorenne era giunto in Italia. Questo
torinese scapolo e benestante, gli aveva anche trovato un lavoro per due anni,
era stato con lui in Albania a trovare la famiglia, e aveva sempre costituito
per l’imputato un punto di riferimento. L’Ufficio educatori del Carcere di
Prato, dove l’albanese è detenuto, stila una relazione estremamente positiva,
ma il Tribunale di sorveglianza di Firenze rigetta l’istanza perché
"manca una sistemazione esterna adeguata, non potendosi ritenere tale la
sola ospitalità offertagli da un conoscente (...) I gravi reati sono stati
commessi per attuare facili guadagni, quando già era in qualche modo aiutato
dal predetto conoscente". (<40">40) Un
albanese di ventiquattro anni, incensurato, condannato in Corte d’appello a un
anno per furto aggravato (aveva rubato le chiavi dell’autovettura Porsche 911
di un italiano e successivamente anche l’autovettura in questione), chiede gli
arresti domiciliari presso l’abitazione del fratello, a Pietrasanta. Il
Tribunale di sorveglianza di Firenze gliela nega "perché il soggetto è a
conclusione dell’esecuzione pena" (avendo presofferto i due terzi della
pena). (<41">41) Un
tunisino di quarantatré anni condannato per detenzione e spaccio di sostanze
stupefacenti a otto anni di reclusione e a cinque milioni di multa viene
definito "polemico" per la mancata concessione di "colloqui
visivi con quella che lui riferisce essere sua moglie" dall’educatore del
carcere di Livorno. Egli però "ha mantenuto la sua condotta entro limiti
di tollerabilità"; ma essendo anche lui privo di riferimento lavorativo e
abitativo stabile, pur lavorando in nero come muratore a Negrar, in Veneto, dove
abita presso amici e dove ha fruito di alcuni permessi premio, senza aver mai
"dato luogo a rimarchi di sorta" (come annotano i carabinieri della
stazione di Negrar), non ottiene la detenzione domiciliare presso un amico
veneto in quanto: "non ricorre nessuna delle condizioni previste
dall’art. 47 ter O.p. e le sue condizioni generali di salute sono buone".
(<42">42) Una
brasiliana di trentun anni, madre di due bambini, di dodici e di due anni,
condannata dal Tribunale di Teramo a tre anni e due mesi di reclusione per
sfruttamento della prostituzione e concorso in attività illecite atte a
favorire l’ingresso clandestino di cittadine straniere e ricondannata per
tentato omicidio in concorso dal Tribunale di Firenze, chiede la detenzione
domiciliare nella propria abitazione di Montecatini trovandosi nelle condizioni
stabilite dall’art. 47 ter comma 1 (giacché madre di minore e abbandonata da
tempo dal convivente). La donna in questione, cercata dagli assistenti sociali,
a quanto risulta dagli atti, non è stata trovata in casa e, invitata a
presentarsi, non è comparsa nel mese seguente. Il Tribunale di sorveglianza di
Firenze, perciò, rigetta l’istanza in quanto l’imputata è irreperibile.
(<43">43) Invece
un nomade kossovaro di ventidue anni, condannato a otto mesi di reclusione per
furto con destrezza, recidivo, passa dagli arresti domiciliari presso il Campo
dell’Olmatello alla detenzione domiciliare presso lo stesso campo: egli
lavora. La Cooperativa sociale Madonnina del Grappa esibisce una dichiarazione
in cui indica le mansioni del giovane (pulizia all’interno del campo) e gli
orari, cosicché l’ordinanza viene modificata in modo che egli possa uscire
dall’abitazione e girare per il campo onde espletare le sue incombenze.
(<44">44)
Il
regime di semilibertà (artt. 48-52 O.p.) consiste nella concessione al
condannato internato di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto per
partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al
reinserimento sociale. I condannati e gli internati ammessi al regime di
semilibertà indossano abiti civili e sono assegnati ad appositi istituti o
sezioni autonome di istituti ordinari: ciò vale a mettere in risalto la
diversità della loro condizione rispetto a chi è soggetto all’ordinario
regime detentivo, oltreché a soddisfare un’esigenza di sicurezza
istituzionale riconducibile in sostanza all’esigenza di evitare promiscuità
tra soggetti in detenzione continua e soggetti che quotidianamente alternano
un’esperienza di vita civile con la carcerazione. Il
semilibero trova formulato un particolare programma di trattamento nel quale
sono stabilite (per iscritto) le prescrizioni che egli deve impegnarsi ad
osservare durante il periodo di permanenza all’esterno dell’istituto
penitenziario, nonché quelle relative all’orario di uscita e di rientro. La
semilibertà, per la verità7 non rappresenta una misura alternativa alla
detenzione, ma piuttosto una modalità di esecuzione della pena detentiva; la
misura è fruibile altresì da detenuti e internati stranieri, anche da quelli
sottoposti alla misura di sicurezza della espulsione dallo Stato a fine pena.
Possono essere espiate in regime di semilibertà la pena dell’arresto e la
pena della reclusione non superiore a sei mesi se il condannato non è affidato
in prova al servizio sociale, ex art. 50 comma 1 O.p. Al di fuori dei casi
previsti da tale comma, il condannato può essere ammesso al regime di
semilibertà soltanto dopo l’espiazione di almeno metà della pena, o almeno
dei due terzi di essa nel caso si tratti di condanna per delitti di stampo
mafioso. L’internato può esservi ammesso in ogni tempo. Se
mancano i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale, il
condannato per reati diversi da quelli di stampo mafioso può essere ammesso al
regime di semilibertà anche prima dell’espiazione di metà della pena: tale
ammissione è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del
trattamento in carcere, quando ricorrono le condizioni per un graduale
reinserimento del soggetto nella società. Proprio quest’ultima clausola
risulta per gli extracomunitari fortemente discriminante rispetto agli
autoctoni, in quanto essi - com’è ovvio - più raramente e più difficilmente
usufruiscono di quelle condizioni che normalmente sono ritenute coadiuvanti del
loro reinserimento nel contesto sociale. Il regime di semilibertà può essere
applicato anche nel caso di pene molto lunghe, e anche ai condannati
all’ergastolo quando abbiano espiato almeno vent’anni di pena. Nel caso di
una pena detentiva di breve durata l’intento di questa misura è palesemente
quello di ammortizzare gli effetti desocializzanti connessi alla carcerazione,
di per sé produttiva di una traumatica interruzione dei rapporti lavorativi,
sociali e familiari. La semilibertà in riferimento a pene detentive di lunga
durata è pensata come graduale attenuazione della detenzione in base al
comportamento del detenuto ed in funzione preparatoria rispetto al suo ritorno
in libertà. Il
provvedimento può essere revocato in ogni momento quando il soggetto non si
riveli rispettoso delle norme e degli orari prestabiliti: il caso più comune
concerne un’assenza ingiustificata che si protragga per oltre le dodici ore
per un condannato, e oltre le tre ore per un internato. È evidente che il
carattere di questa misura, sia pure parzialmente, risulta ancora afflittivo:
perciò, nella pratica, ad essa si preferisce l’affidamento in prova, misura
più favorevole poiché implica un totale affrancamento dal carcere, anzi in
taluni casi si può dire che questa misura costituisca una sorta di modalità di
accesso all’affidamento in prova. Conferma questa osservazione il caso di un
italiano di trentacinque anni che, condannato a sette anni e a trentacinque
milioni di multa per detenzione e spaccio di droga, ottiene la semilibertà
(<45">45) in quanto ha già pronto il lavoro nel negozio di proprietà
della fidanzata; dopo nove mesi di condotta irreprensibile, durante i quali si
è sposato in comune ed è diventato quindi comproprietario del negozio, ottiene
l’affidamento in prova al servizio sociale, quando ormai il residuo della pena
è divenuto residuale (dieci mesi). (<46">46) Le
considerazioni sulla oggettiva situazione degli extracomunitari rispetto alle
nostre norme penali finiscono per ripetersi in base alle situazioni che si
esaminano. Parlando della misura della semilibertà, Margara fa notare che essa
è l’unica misura alternativa che può essere concessa a uno straniero che,
come succede spessissimo, non abbia stabile dimora, ma ricompare anche, nelle
sue parole, il problema nodale del lavoro. C’è tuttavia una scappatoia:
giacché la misura può essere concessa oltreché per motivi di studio, anche
per attività tipicamente sociali, un’attività di volontariato può andar
bene. Margara porta l’esempio dell’associazione Africa Insieme, che opera
sul territorio fiorentino: i detenuti legati a questa associazione riescono non
solo ad avere la semilibertà per partecipare al programma di solidarietà del
centro, ma possono poi ottenere, se regolari, l’affidamento in prova, giacché
Africa Insieme ha creato una specie di alloggio collettivo che costituisce in
pratica il loro recapito. (<47">47) Vi
è inoltre un aspetto meramente economico che occorre sottolineare, legato al
regime di semilibertà: le cooperative che, generalmente, come abbiamo visto nel
corso di questa disamina, forniscono occupazione al detenuto in semilibertà (e
perciò costituiscono la conditio sine qua non del provvedimento stesso)
impiegano il detenuto per il periodo in cui esso presta la sua opera scontando
la pena perché, evidentemente, egli costituisce per loro uno sgravio degli
oneri che invece peserebbero sull’azienda nel caso fosse libero e dovesse
essere assunto con un regolare contratto di lavoro. Di fatto, quando la pena è
espiata e l’ex detenuto diviene libero, la maggior parte delle cooperative si
affretta a togliergli il lavoro, proprio nel momento in cui il soggetto ne
avrebbe maggiormente bisogno per proseguire quel reinserimento che invece viene
interrotto. (<48">48) De Felice illustra la situazione dei detenuti
stranieri in maniera chiarissima e lineare: ...essi
possono avere anche qualche riferimento, magari un cugino, uno zio, o anche una
ragazza italiana; si può essere in presenza di tutte le altre condizioni di cui
si diceva per l’affidamento o la semilibertà, ma se non c’è un inserimento
lavorativo la misura normalmente non viene concessa. Il discorso vale tanto per
i detenuti italiani, quanto per quelli stranieri, ma oggettivamente è più
facile che il detenuto italiano si trovi un lavoro, una sistemazione che non
l’extracomunitario, il quale difficilmente ha un lavoro regolare; magari si è
arrangiato se è una persona che ha voglia di fare, con lavori al nero,
saltuari, occasionali, il che non è sufficiente per legittimare una misura
alternativa (...) Non che il tribunale sia particolarmente fiscale nel
richiedere una sistemazione del tutto regolare, ma in realtà poi nessuno dei
datori di lavoro irregolare esce allo scoperto certificando che il lavoro glielo
dà continuato ma non regolare. Tutto diventa quindi estremamente difficile: su
questo piano negli ultimi anni si sono mossi gli enti locali e anche varie
associazioni. Ci sono le cooperative no profìt e altri vali tipi, presso le
quali queste persone hanno anche un titolo in qualche maniera preferenziale
quindi in alcuni casi si riesce a concedere una misura alternativa per svolgere
un’attività di lavoro presso qualcuna di queste cooperative o anche in altre
iniziative degli enti locali. In pratica qualche possibilità in più c’è, ma
molto più limitata che per gli italiani, perché se gli extracomunitari non
vengono sostenuti, aiutati, in questo senso, è difficile che riescano da soli a
trovarsi qualche cosa. E comunque, anche quando c’è il lavoro e magari manca
la sistemazione abitativa, cosa che avviene spesso, la semilibertà viene
concessa ma non poi 1 affidamento, come, invece capita per un italiano. Sono
svantaggiati anche sotto questo profilo... (<49">49) Nella
pratica, spulciando un campione di ordinanze, salta agli occhi che il lavoro
costituisce una discriminante nella totalità dei casi presi in esame, non solo
per gli stranieri, ma anche per gli italiani: infatti su quattro ordinanze
riguardanti cittadini autoctoni, si constata che tre di loro hanno avuto accesso
alla semilibertà perché forniti di lavoro, ad uno di essi è stata revocata la
misura quando il lavoro è cessato, mentre il quarto ha visto rigettata la sua
istanza per mancanza d’inserimento lavorativo. Vediamo
nel dettaglio: un romano di quarantacinque anni, condannato a due anni di
reclusione per oltraggio, minaccia, danneggiamento e violenza a pubblico
ufficiale, ottiene la semilibertà in quanto dispone di un inserimento
lavorativo in una cooperativa finalizzata al reinserimento, appunto, di
detenuti. (<50">50) Un
fiorentino di ventotto anni, condannato a tre anni e due mesi di reclusione e a
un milione e mezzo di multa per rapina aggravata, resistenza a pubblico
ufficiale e guida senza patente, ottiene la semilibertà per la presenza di
"un valido inserimento esterno" (un lavoro presso la Cooperativa
Renzi). (<51">51) Un
napoletano di quarantuno anni viene condannato per rapina aggravata a tre anni
di reclusione. Ottiene la semilibertà dopo ventidue mesi circa di carcere. La
motivazione dell’ordinanza sottolinea che "il soggetto ha uno stile di
vita sbandato ed è abituato a vivere di espedienti". Al momento, però, ha
la possibilità di lavorare presso la Cooperativa l’Albero, e "ci si
ripromette quindi di saggiare la sua disponibilità a mutare stile di
vita". (<52">52) Nel gennaio del 1998, però, il Tribunale di
sorveglianza di Firenze revoca la misura concessa perché il contratto di lavoro
presso la cooperativa è scaduto e il detenuto ha dato prova di leggerezza non
rinnovandolo subito, confidando in un prossimo fine pena e dimostrandosi così
non idoneo a riprendere il lavoro presso la stessa cooperativa che tra
l’altro, offrendo una disponibilità di soli sei mesi non coprirebbe il
residuo di pena. (<53">53) A proposito di questo detenuto
‘leggero’ vi è, allegata al fascicolo, la relazione informativa
dell’educatore Crispo, già menzionato, il quale spiega che il mancato rinnovo
del contratto con la cooperativa non è imputabile al soggetto in questione, ma
all’oscurità della prassi burocratica da adottare e all’ambiguo
comportamento del responsabile della cooperativa stessa. L’educatore aggiunge
in calce una considerazione che sembra mettere bene in luce una qualche cecità
della giustizia. Al
di là delle colpe soggettive del M., che come personalità denuncia un misto di
sprovvedutezza e dabbenaggine unita ad una certa qual furbizia, più dettata
dall’incapacità di analizzare con intelligenza le dinamiche della realtà che
da un’intrinseca volontà di raggirare, a cui va aggiunta l’istintività del
comportamento tipica di chi ha vissuto di espedienti sulla strada, c’è da
riscontrare una, all’epoca, poco chiara gestione dei semiliberi da parte della
cooperativa; ora il M., già per parte sua piuttosto confusionario e poco
capace, è stato ammesso alla semilibertà proprio nel periodo di minore
chiarezza. Si ha poi la sensazione che il soggetto, proprio per i suoi
conclamati deficit, non fosse considerato all’altezza dei compiti che la
cooperativa gli aveva assegnato. Egli Sl trova così nell’impossibilità di
riproporre una nuova opportunità lavorativa all’esterno...
(<54">54) Questa
relazione evidenzia, insieme a numerose testimonianze già ascoltate, le enormi
difficoltà che incontrano, nelle maglie di una burocrazia spesso cavillosa e
malgestita, non solo gli extracomunitari, ma anche i cittadini italiani quando
mancano di mezzi, di conoscenze appropriate e di pratica. Il
quarto italiano, un catanese di quarantun anni, condannato per ricettazione a
otto anni, vede rigettata la sua istanza di semilibertà perchè gli è venuto a
mancare l’inserimento lavorativo previsto presso la ditta ‘Toscana
service’. (<55">55) Allo stesso modo, e per i medesimi motivi,
vedono rigettata la loro istanza un marocchino di trentanove anni, condannato a
dodici anni di reclusione per omicidio volontario e guida in stato di ebbrezza,
(<56">56) e un altro marocchino di trentadue anni, condannato per
detenzione e spaccio di droga a quattro anni e due milioni di multa.
(<57">57) L’istanza
viene invece accolta ad un altro marocchino condannato a tre anni, sei mesi di
reclusione e a un milione duecentomila di multa per estorsione, calunnia,
lesioni a pubblico ufficiale e furto aggravato, (<58">58) così come
viene accolta l’istanza di un albanese di trentatré anni condannato a quattro
anni di reclusione e a quaranta milioni di multa per detenzione e spaccio di
ingenti quantitativi di droga. (<59">59) In entrambi i casi la
motivazione della concessione consiste nella prospettiva di lavoro presso una
cooperativa. Aggiungiamo,
con le cautele del caso, il racconto fattoci durante il turno di volontariato da
un detenuto a Sollicciano, un albanese di quarantacinque anni, racconto volto ad
illustrarci la sua situazione per ottenere un parere circa una nuova istanza di
semilibertà. Egli, che aveva già espiato condanne pregresse per spaccio e
furto, si trovava a Sesto Fiorentino nel giardino prospiciente una chiesa e,
seduto sull’erba, beveva birra con un amico. All’improvviso esce
dall’edificio un sacerdote che senza un valido motivo invita i due ad
andarsene. Essi reagiscono con violenze verbali, succede un po’ di confusione
arriva la polizia e di fronte ad essa il sacerdote li accusa inopinatamente di
aver tentato di estorcergli del denaro. Arrestato e condannato a tre anni per
tentata estorsione l’albanese viene internato nel Carcere di Sollicciano.
L’uomo ha una convivente italiana dalla quale ha avuto un figlio, molto
desiderato e che vuole riconoscere, ma è nell’impossibilità di farlo in
quanto la donna, dopo il suo arresto, è scomparsa insieme al bambino e non si
sa dove sia. Egli chiede la semilibertà per cercarla e sostiene di avere anche
una possibilità di lavoro presso una cooperativa, ma la misura non gli viene
concessa. Perciò si rivolge a noi per una nuova istanza.
I
permessi premio sono disciplinati dall’art. 30 ter dell’Ordinamento
penitenziario. Ai condannati che, durante la detenzione, hanno manifestato
costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale,
nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività
lavorative o culturali e che non risultino socialmente pericolosi, il Magistrato
di sorveglianza (previo parere favorevole del direttore dell’istituto di pena)
può concedere permessi premio di durata non superiore ogni volta a quindici
giorni, per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro.
La durata dei permessi non può superare, complessivamente, quarantacinque
giorni in ciascun anno di espiazione (sessanta per i minorenni). Beneficiari dei
permessi premio sono i detenuti nei confronti dei quali è stata pronunciata
sentenza di condanna ormai passata in giudicato. Questo permesso è parte
integrante del programma di trattamento, e deve quindi essere seguito dagli
educatori e dagli assistenti sociali penitenziari, in collaborazione con gli
operatori sociali del territorio. Ne
sono ammessi alla fruizione i condannati la cui pena (anche residua) non superi
i tre anni; norme particolari per la concessione sono previste per i cosiddetti
delitti di mafia, che però non ci riguardano, e per i condannati
all’ergastolo, che possono accedere al beneficio solo dopo una espiazione di
almeno dieci anni. I soggetti che abbiano riportato una nuova condanna o siano
imputati per delitto doloso, durante l’espiazione della pena o l’esecuzione
di una misura restrittiva della libertà personale, possono accedere
all’istituto del permesso premio solo se siano decorsi due anni dal fatto in
questione. Avverso
al provvedimento del Tribunale di sorveglianza si può presentare reclamo allo
stesso tribunale, sia per atto del P.m, sia per atto dell’interessato, entro
ventiquattro ore dalla comunicazione, secondo le procedure indicate dall’art.
30 bis co. 3 O.p. Il permesso premio è stato introdotto nell’O.p. nel 1986 ed
ha un carattere plurifunzionale, in quanto, da una parte è innegabile la sua
funzione premiale, dato che il beneficio è strettamente subordinato
all’osservanza di una regolare condotta da parte del detenuto ed all’assenza
della sua pericolosità sociale; d’altra parte esso risponde a una funzione
dichiaratamente rieducativa e quindi funzionale al reinserimento nella società. La
decisione del Magistrato di sorveglianza che concede o non concede il permesso
premio ha carattere discrezionale. L’esercizio del potere di apprezzamento da
parte del giudice trova peraltro riferimento e limite in due elementi: il
permesso premio è concesso per coltivare interessi affettivi, culturali e di
lavoro, inoltre la sua sperimentazione è parte integrante del programma di
trattamento. Tali finalità sono tra loro correlate, il che implica che gli
‘interessi’ di cui si diceva non siano da interpretare in senso stretto,
giacché si può concedere il permesso anche per una finalità non
corrispondente a quelle espressamente indicate, purché essa risulti funzionale
al trattamento. Ad esempio, per la partecipazione ad una manifestazione sportiva
che sia particolarmente significativa per il soggetto, o per esigenze di ordine
affettivo in senso lato, incluse quelle sessuali. La
semplice lettura di queste norme, ne evidenzia la difficoltà di applicazione
nei confronti degli extracomunitari: essi infatti mancano quasi sempre di
riferimenti sul territorio tali da poter giustificare gli ‘interessi’
indicati dall’art. 30 ter. Conferma quest’impressione Antonietta Fiorillo,
Magistrato di sorveglianza. Richiestole un parere circa i permessi premio, essa
ha risposto: Sono
pochi, pochi perché a parte chi ha qualche aggancio con le strutture esterne,
questa è gente sostanzialmente isolata, o addirittura irregolare, o comunque
senza riferimenti (...) In proporzione agli extracomunitari sono pochi i
permessi premio concessi e anche le misure alternative (...) Il trattamento
sullo straniero è comunque difficile da fare: con qualcuno si riesce perché si
aggancia alle strutture pubbliche, laddove ci sia un territorio anche
minimamente ricettivo. Comunque sono pochi quelli che usufruiscono di queste
strutture, perché spesso gli stranieri hanno problemi di tossicodipendenza,
come i nomadi e i magrebini, e allora ci sono difficoltà ad individuare perfino
il S.e.r.t. di appartenenza. (<60">60) Pessimista
anche De Felice, che sottolinea le difficoltà di carattere oggettivo originate
appunto dalla mancanza dei famosi riferimenti esterni: C’è
già una difficoltà a motivare la richiesta per il detenuto giacché i permessi
possono essere concessi per motivi affettivi e di lavoro, ma se uno non ha nel
territorio italiano una famiglia o comunque legami di questo genere e non ha un
lavoro, come succede nel 99% dei casi, che motivazione può mettere? Neppure il
magistrato trova una ragione su cui poter basare la decisione di una misura
alternativa. Esistono tuttavia, in numero sempre maggiore sul territorio,
associazioni volontarie, o comunque istituzioni che in qualche maniera cercano
di agevolare la possibilità della concessione di permessi ai detenuti, fornendo
un punto di appoggio abitativo. Sono strutture religiose e non, come la Casa di
accoglienza del ‘Samaritano’ a Firenze e l’associazione ‘Il Delfino’ a
Pistoia, o ancora la comunità ‘Betania’ di Arezzo. In altri casi i permessi
vengono concessi anche con il rientro serale in istituto; sono casi limite, però,
perché a fronte di una totale mancanza di appoggio esterno vi sono tutte le
condizioni favorevoli perché il beneficio venga concesso, e così il detenuto
esce la mattina, passa la giornata fuori in città e la sera torna in carcere.
Di solito questo viene motivato con la ricerca di un inserimento lavorativo,
come la presa di contatto con una struttura che faccia intravedere uno sviluppo
futuro. Certamente il ritorno in carcere favorisce un certo controllo: quando
uno rientra, si vede se ha assunto stupefacenti o ha abusato di alcolici (e
spesso queste cose accadono). A parte queste due possibilità rimane, per lo
straniero, una maggiore difficoltà oggettiva nell’ottenere un permesso
premio, perché c’è una minor fiducia per lui rispetto ad un buon
comportamento esterno e anche al rientro in istituto. Prendiamo, per esempio,
uno straniero senza risorse economiche e che, non per colpa sua, non lavora
neanche in carcere: non avendo nulla di che sostentarsi, al momento in cui
chiede il permesso, è legittimo domandarsi come fa a tirare avanti, e allora di
lì sorge il sospetto che i mezzi vengano trovati per vie illegali...
(<61">61) Il
lavoro è un aspetto poco conosciuto della vita carceraria, specialmente per gli
extracomunitari e vale quindi la pena di approfondire l’argomento. De Felice
spiega che, all’interno degli istituti, il lavoro è poco, quindi, nella
migliore delle ipotesi, ci sono turnazioni che tentano di accontentare tutti;
con esse i detenuti riescono a guadagnare qualcosa, che però basta solo per
acquistare ciò che manca quotidianamente. Quindi
- conclude il magistrato - è discriminante, anche se uno ha o no una famiglia
che lo appoggia, perché se non ha denaro per mantenersi durante il periodo del
permesso, è chiaro che ha un problema in più. Perché ci si deve porre anche
questo problema ed esaminare questo aspetto. C’è inoltre 1l rischio del non
rientro perché, non avendo nessun riferimento in Italia, non ci si rimette
niente a rendersi latitanti mentre per un italiano che ha una famiglia a cui
rendere conto, sparire dalla circolazione comporta una decisione ben più
pesante, e quindi c’è una garanzia maggiore che non sparisca. Insomma il
problema è un po’ sempre lo stesso delle altre misure alternative...
(<62">62) Prendiamo
un campione di sei detenuti italiani: due, un napoletano di trentatré anni e un
lucano di trentotto, condannati il primo per tentato furto aggravato in concorso
a sette anni di reclusione e a duecentomila lire di multa, il secondo alla
stessa pena per vari capi d’accusa, fra cui introduzione di clandestini nel
territorio italiano e vendita di sostanze stupefacenti, non ottengono il
permesso premio in conseguenza di uno scorretto comportamento inframurario.
(<63">63) Un
trentaduenne di Quarrata, con una netta propensione al furto e alla
manipolazione illegale di esplosivi, condannato a due anni di reclusione e a
settecentomila lire di multa, con problemi di convivenza carceraria poiché
detesta gli extracomunitari, ottiene due giorni di permesso perché la famiglia
è pronta ad ospitarlo e il S.e.r.t. di appartenenza è disposto ad elaborare
con lui un progetto terapeutico. (<64">64) Un
fiorentino di trentasette anni, condannato a cinque anni e otto mesi di
reclusione e a trenta milioni di multa per concorso in rapina e in estorsione,
ottiene sette giorni di permesso premio per tornare in famiglia durante le
festività natalizie. (<65">65) Anche
gli italiani, però, talvolta non hanno famiglia, o non ne hanno una disposta ad
accoglierli, e diventa in tal caso preziosa la presenza di una struttura,
pubblica o privata, disposta ad accoglierli. Anche l’educatore Crispo
ribadisce l’importanza di queste strutture: Fortunatamente
ci sono sul territorio alcune associazioni spontanee, religiose come la
‘Caritas’, o laiche, ma comunque legate a strutture religiose, o centri di
accoglienza che si dichiarano disponibili a tenere il detenuto per la durata del
permesso. La situazione non é facile perché il magistrato vuole che questo
detenuto svolga fuori dal carcere attività che configurino un progetto di
risocializzazione. Il detenuto cioè non deve girare a vuoto durante il giorno e
questa diventa un’ulteriore complicazione. Qualche detenuto extracomunitario
viene mandato al ‘Samaritano’, il centro di accoglienza gestito dalla
‘Caritas’ e l’associazione ‘Il Varco’, che è una sorta di sportello
che dà informazioni e sostegno, è collegata con i S.e.r.t. e ci sono
assistenti sociali, psicologi e servizi di animazione per un impiego costruttivo
della giornata. (<66">66) L’educatore
precisa che non è facile, come invece potrebbe sembrare per un condannato in
permesso premio, approfittare della situazione e girare a vuoto durante il
permesso o i permessi, perché l’équipe del carcere controlla se qualcosa si
sviluppa durante queste uscite, tale occorrenza potrebbe anche portare
all’ipotesi di concedere una misura alternativa; se invece il tempo
dell’uscita è, per così dire, gettato al vento, il trattamento cambia
direzione. Un
catanese di quarantadue anni ottiene infatti un permesso premio di tre giorni
perché "il prossimo fine pena consiglia una graduale ripresa di contatto
con la realtà esterna in occasione delle feste natalizie". L’uomo,
condannato a due anni di reclusione per concorso in furto aggravato, senza
riferimenti esterni in zona perché da poco separato dalla moglie, viene accolto
dall’associazione ‘Il Samaritano’ e, dalla relazione dell’educatore,
pare che ciò sia fondamentale perché l’uomo manifesta un serio disagio per
il fatto di non avere punti fermi. (<67">67) A un altro fiorentino di
trentanove anni, condannato a due anni per furto aggravato in concorso,
tossicodipendente, è riferita la relazione di una psicologa di Sollicciano,
essa traccia un quadro estremamente accurato che denota da parte di
quest’ultima un’ottima professionalità e soprattutto un profondo senso di
solidarietà umana. Il soggetto in questione risulta afflitto da una certa
disistima di sé, e mostra un forte attaccamento alla sua ragazza anch’essa
tossicodipendente, da cui teme di essere abbandonato La psicologa coglie la
dinamica ‘circolare’ di questa personalità che, trascurata nell’infanzia
dai genitori, si detesta, ma si dimostra ben inserita nel suo ambiente, salvo
poi cercare di rendersi simpatico e ben accetto imbottendosi di droga per
dimenticare la sua fissazione di essere negativo e pericoloso per tutti. Il
permesso premio è importante proprio perché può servire ad interrompere
questa dinamica circolare. L’uomo ottiene tre giorni di permesso per tornare
in famiglia e per riprendere i contatti col S.e.r.t d’appartenenza.
(<68">68) Con
difficoltà ottiene invece un permesso premio un algerino di ventotto anni dalla
corretta condotta intramuraria, condannato per detenzione e cessione di sostanze
stupefacenti a sei anni di reclusione e a quattro milioni di multa. Dapprima
egli vede rigettata la sua istanza per poter telefonare con comodo alla famiglia
e passare qualche ora con la sorella, appositamente venuta da Parigi, qualche
mese dopo invece ottiene l’agognato permesso nella misura di due ore non
prorogabili, durante le quali deve restare nel carcere, accompagnato dal
cappellano e potrà finalmente effettuare la telefonata in Algeria.
(<69">69) Un albanese di trentaquattro anni condannato a quattro anni
di reclusione e a quaranta milioni di multa per detenzione e spaccio di
stupefacenti ottiene un permesso di otto ore per partecipare ad una iniziativa
dell’istituto di pena, e cioè un quadrangolare di calcetto.
(<70">70) Se
come si è capito, i permessi premio vengono oggi concessi col contagocce agli
stranieri per le oggettive difficoltà di cui si è detto, prima dell’86 (anno
in cui si è corretta la preesistente normativa) la situazione era ancor più
drammatica in quanto c’era, da parte della magistratura, una fortissima
resistenza a concedere qualsiasi beneficio. Ci dice questo l’educatore Politi
il quale ce ne spiega anche il motivo: il numero altissimo degli stranieri che,
andati in permesso, non rientravano in carcere. Secondo lui questo fenomeno ha
condizionato le decisioni del Tribunale di sorveglianza con pregiudizio anche di
quelle posizioni che oggettivamente sembravano più sicure. Negli ultimi anni,
però, a fronte dei "non pochissimi detenuti stranieri che vanno
regolarmente in permesso", i mancati rientri sono stati limitatissimi, e ciò
ha indotto la Magistratura di sorveglianza a concedere i permessi premio, mentre
ciò non è avvenuto per i casi di affidamento e di detenzione domiciliare per
mancanza di residenza e di domicilio. (<71">71) Margara
conferma quanto detto da Politi e precisa a sua volta che il timore che
l’extracomunitario, non avendo né una casa né un tetto cui far ritorno,
approfitti del permesso per eclissarsi, non è più attuale perché
"...questa gente ci tiene a restar qua, non vuole andar via".
(<72">72) Del resto, come ben sappiamo, in assenza di validi
riferimenti esterni, la giustizia italiana non concede proprio niente: è il
caso di un polacco di ventisei anni, che condannato per tentata rapina a due
anni due mesi e un milione di multa pur avendo mantenuto una condotta
irreprensibile in carcere vede rigettata la sua istanza. (<73">73) Altrettanto,
e per gli stessi motivi, capita a un kossovaro di cinquantatré anni condannato
a un anno e sei mesi di reclusione e a quattro milioni di multa per detenzione e
spaccio di droga. (<74">74) E ancora: un marocchino di trentun anni,
tossicodipendente e condannato a nove mesi di reclusione e a quattro milioni di
multa per detenzione e spaccio di droga, pur vantando un regolare comportamento
intramurario, non ottiene il permesso premio con pernottamento in carcere, perché
nessuno ha potuto darne una valutazione all’interno dell’istituto e fuori
non ha validi riferimenti. (<75">75) Nel
passare in rassegna i decreti relativi agli extracomunitari, colpisce una
relazione psicologica che si riferisce a un marocchino di trentanove anni, il
cui tono è facilmente riconoscibile per quello della psicologa di Sollicciano
precedentemente citata. L’analista questa volta si occupa di un uomo
proveniente da famiglia agiata della media borghesia marocchina, orfano di padre
dalla nascita e ultimogenito di molti fratelli che, insieme alla madre lo hanno
supercoccolato ed allevato come un principe. Egli è però fuggito di casa
immotivatamente, per liberarsi di queste catene affettive e dimostrare a se
stesso di essere autosufficiente. La vita del condannato vi è passata in
rassegna: il suo antico rifiuto per la madre ormai vecchia, il suo amore
frustrato per un’italiana che lo ha abbandonato, la sua sensibilità, la sua
intelligenza, la sua cultura, i suoi sensi di colpa verso la famiglia per aver
tralignato, la sua angoscia al pensiero della fine imminente della madre mentre
egli è impossibilitato ad assisterla, per via della condanna a sei anni di
reclusione per spaccio di stupefacenti, guida senza patente e ubriachezza.
L’uomo ha reagito molto bene al trattamento ed aspira oggi al ritorno a casa
dove spera di crearsi una famiglia; ha seguito un corso di studi superiore, uno
di giardinaggio e non soccombe più ad ogni minima difficoltà come in passato.
A seguito di così lusinghiere considerazioni, il marocchino ottiene due giorni
di permesso come inizio di una sperimentazione premiale con rientro notturno in
istituto. (<76">76)
La liberazione anticipata e la liberazione condizionale
L’Ordinamento
penitenziario prevede, con l’articolo 54, una detrazione di quarantacinque
giorni per ogni singolo semestre di pena scontata, al condannato detenuto che ha
dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione, quale riconoscimento
del suo impegno e allo scopo di un più efficace reinserimento nella società. A
tal fine è valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare o
di detenzione domiciliare. La concessione avviene da parte del Tribunale di
sorveglianza, ma se nel corso dell’esecuzione del beneficio viene comminata
una condanna per delitto non colposo, essa viene revocata. L’abbuono
della pena detentiva, grazie ad un comportamento intramurario disciplinato,
rivela la natura premiale dell’istituto che ha però anche una funzione
incentivante della partecipazione del soggetto all’azione rieducativa,
sottolineata dal fatto che abbastanza recentemente (L. n. 663/86) la misura del
beneficio è passata da venti a quarantacinque giorni per semestre e
l’enunciato ha assunto un tono più spiccatamente prescrittivo, passando da
"può essere concesso" a "è concesso". La riduzione di pena
si presenta anche come uno strumento idoneo a mantenere la disciplina negli
istituti penitenziari, giacché per la concessione di tale beneficio è
indispensabile il buon comportamento tenuto dal condannato all’interno
dell’istituto penitenziario, e solo secondariamente e in modo accessorio vanno
considerati i precedenti penali e giudiziari, nonché il reato commesso. Il
valore assoluto della condotta intramuraria per la concessione del beneficio è
sottolineato dalla Fiorillo e da De Felice, entrambi Magistrati di sorveglianza,
espresso tuttavia con una visione diametralmente opposta riguardo a questo
istituto. La prima sembra piuttosto scettica circa la possibilità di applicare
il beneficio ad un gran numero di extracomunitari in quanto essi, abusando di
alcolici più degli italiani ed essendo spesso portatori di patologie
comportamentali, non si conducono convenientemente. (<77">77) Il
secondo, invece, non rileva differenze sostanziali quanto alla concessione di
questo beneficio, fra detenuti italiani e stranieri. Egli annota acutamente che
il fatto stesso di essere estranei alla realtà sociale ospitante e di non aver
riferimenti esterni può comportare maggiori difficoltà di adattamento e di
convivenza anche all’interno del carcere; inoltre lo straniero, sapendo di
incontrare maggiori ostacoli degli italiani per riacquisire la libertà, può
avere minore interesse ad una condotta intramuraria regolare. Statistiche
non esistono - egli dice - ma in linea generale affermerei che gli
extracomunitari non si comportano all’interno del carcere in maniera più
irregolare dei detenuti italiani o comunitari, cioè di cultura più vicina alla
nostra (...) Non vedrei differenze sostanziali anche perché al momento della
decisione si tiene conto delle difficoltà di adattamento, e quindi in qualche
maniera alcuni rilievi disciplinari vengono poi superati perché si ritiene che
non incidano nel complesso sulla condotta e sulla partecipazione all’opera di
rieducazione. Altrettanto si tiene conto di persone che hanno problemi
psichiatrici: direi che su questo piano, delle differenze non ci sono.
(<78">78) Che
non ci siano differenze è confermato da un fascicolo riguardante un italiano,
un catanese di trentasei anni. Con lui le istituzioni non hanno certo dimostrato
di essere più permissive o comprensive di quanto lo siano nei confronti di uno
straniero. Ultimo di otto figli di padri diversi, con madre prostituta, a fianco
della quale si sono alternati compagni occasionali, il soggetto ha cominciato
giovanissimo a far uso di droghe dalla cui dipendenza è però in seguito
riuscito a liberarsi, e a diciassette anni è finito in carcere per reati
definiti dall’educatore "di lieve entità". Di carattere impulsivo
fino all’ottusità, sottoacculturato, marchiato da un comprensibile senso di
abbandono e di deprivazione affettiva, con tendenza alla mania di persecuzione,
il giovane ha compiuto un pellegrinaggio da un carcere a un altro del centro
Italia, inseguito da rapporti disciplinari d’ogni genere, il più intelligente
dei quali riguarda la mancata reiterazione nell’arco di una stessa mattinata
della pulizia delle latrine di un ufficio con conseguente rispostaccia del
detenuto all’agente che insisteva a riguardo. Si
scopre così che se ci si sporca una maglietta in carcere e si chiede
dell’acqua tiepida per pulirla, l’agente di custodia può rifiutarla
insindacabilmente; se si è appena pulito un pavimento e qualcuno vi rovescia
dell’immondizia e si sferrano due calci ad un cancello per rabbia si può
essere puniti, e così via sino ad un rapporto per essersi fatti spintonare
dall’agente durante un troppo lento rientro in cella. In seguito a queste
vicissitudini l’uomo è arrivato a Sollicciano dopo aver commesso un omicidio
in carcere, con una pena residua sulle spalle di ben ventun anni durante la
quale, per vari motivi, non gli è mai stata concessa una misura alternativa. A
Firenze, dove tra l’altro risiede ora la madre, egli ha trovato un ambiente
carcerario a cui si è ben adattato, dando inizio a un percorso di rieducazione
che lo porta finalmente a godere di una riduzione di pena di novanta giorni
perché, come recita l’ordinanza, egli "va premiato".
(<79">79) L’educatore stila una relazione sul soggetto, per
caldeggiare un permesso premio, peraltro poi non concesso, che prova come una
buona preparazione nel proprio campo, un discreto livello di cultura e un
pizzico di umanità possano agire positivamente anche su soggetti renitenti e già
segnati dalla sorte. Un
altro italiano, genovese di ventisette anni, condannato a sei anni, quattro
mesi, dieci giorni di reclusione e a due milioni trecentomila lire di multa per
associazione mafiosa finalizzata all’estorsione, recidivo per una serie
impressionante di reati, non ottiene la liberazione anticipata per oltraggio,
minaccia e violenza a pubblico ufficiale durante la detenzione nel precedente
carcere da cui è stato allontanato. (<80">80) L’importanza
della condotta intramuraria viene ulteriormente confermata dal rigetto
dell’istanza di liberazione anticipata di un giovane marocchino, condannato a
otto mesi di reclusione e a quattro milioni di multa per detenzione e spaccio di
stupefacenti. Egli ha aggredito un compagno di pena che si era rifiutato di
compiacere le sue brame sessuali, dopo averlo obbligato a uno striptease, e
perciò non gli viene riconosciuto lo sconto di pena. (<81">81) Al
contrario, un algerino di ventisette anni viene condannato a cinque anni, sei
mesi e a quaranta milioni di multa per detenzione e spaccio di droga, ottiene la
liberazione anticipata per l’ottima condotta inframuraria, nonostante qualche
piccola intemperanza dovuta all’ansia di rivedere la convivente e la
figlioletta. (<82">82) Per gli stessi motivi ottengono la liberazione
anticipata anche un rumeno di ventotto anni (<83">83) e un marocchino
di ventiquattro, (<84">84) condannati e incarcerati il primo per
furto aggravato, il secondo per detenzione e spaccio di droga. Se,
quindi, ha senso parlare di comportamento discriminatorio fra detenuti
extracomunitari e autoctoni, esso scaturisce per così dire automaticamente dal
fatto che i primi quasi mai sono condannati a lunghe pene detentive. Si tratta
di un’osservazione di Margara, (<85">85) il quale fa notare che ai
delitti più diffusi fra gli stranieri, furto e piccolo spaccio, corrispondono
pene che non superano o superano di poco l’anno. Il problema è quindi un
problema di tempi perché, durando il processo cinque o sei mesi e non godendo
essi di remissione in libertà, l’unica cosa da fare è di abbreviare il
restante periodo concedendo frazioni di scomputo (anche quindici-venti giorni) a
seconda della velocità con cui si riesce a fissare l’udienza. Margara
conferma così una volta di più la sua attenzione ad applicare equamente la
legge. La
liberazione condizionale è disciplinata dagli artt. 176-177 del Codice penale.
Con essa si sospende l’esecuzione della pena per un certo tempo, trascorso il
quale senza che il condannato liberato abbia commesso altro crimine, la pena si
estingue. Anche per la concessione di questo beneficio occorre che il condannato
abbia mantenuto durante la detenzione un comportamento tale da fare ritenere
sicuro il suo ravvedimento; posto ciò, egli deve avere già scontato trenta
mesi, e comunque metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena
non superi i cinque anni. Il recidivo può ottenere la liberazione condizionale
dopo avere scontato almeno quattro anni e non meno di tre quarti della pena
inflittagli; in caso di condanna all’ergastolo è ammessa la liberazione
condizionale quando siano stati scontati almeno ventisei anni di pena. La
concessione del beneficio è subordinata anche all’adempimento delle
obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di
trovarsi nell’impossibilità di adempierle. Il beneficio è revocato se la
persona liberata commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole,
o se trasgredisce agli obblighi inerenti alla libertà vigilata (art. 230 n. 2).
In tal caso, il tempo trascorso in liberazione condizionale non è computato
nella durata della pena e il condannato non può essere riammesso alla
liberazione condizionale. Decorso tutto il tempo della pena inflitta senza che
sia intervenuta alcuna causa di revoca, la pena è estinta. Sul
piano pratico, i pareri di tutti gli intervistati concordano sul fatto che la
liberazione condizionale è ormai un istituto poco praticato anche per gli
italiani e a maggior ragione per gli extracomunitari che, in generale come si è
visto, risultano condannati a pene assai modeste. Essa
si può concedere ai non recidivi dopo trenta mesi e ai recidivi dopo i quattro
anni, quindi riguarda pene sostanziose. Gli unici casi di extracomunitari in cui
essa si può applicare sono quelli di condanne multiple, o quelli dei cosiddetti
commessi viaggiatori, cioè dei corrieri del grosso spaccio di droga che
riportano condanne sostanziose. (<86">86) L’educatore
Crispo osserva che la legge per la concessione del beneficio prevede, oltre al
completo ravvedimento (pur sempre possibile), anche il risarcimento del danno
alle vittime del reato. Egli annota pittorescamente che comporterebbe un calcolo
astronomico quantificare in moneta il risarcimento da assegnare a tutti i
danneggiati, direttamente o indirettamente da uno spacciatore di droga. La
liberazione condizionale, quindi, a suo avviso è per lo più impraticabile.
(<87">87) De
Felice sostiene, in base alla propria esperienza, che le liberazioni
condizionali sono poche, e in genere rigettate anche per gli italiani. Oggi il
tribunale preferisce l’affidamento, sia per gli autoctoni, sia per gli
stranieri, anche perché questa misura presuppone il progetto di un percorso di
‘riscatto’ funzionale alla risocializzazione del condannato e accetta di
concedere il beneficio anche in presenza di condizioni parzialmente favorevoli
del condannato, a differenza della liberazione condizionale, che può invece
essere ottenuta solo in presenza di situazioni totalmente favorevoli. Deve
aversi, quindi, un quadro totalmente rassicurante da tutti i punti di vista,
anche perché la sua eventuale revoca comporta un procedimento molto più
complicato rispetto a quello della revoca dell’affidamento.
(<88">88) Tale il motivo per cui, secondo la Fiorillo, il numero
degli extracomunitari ammessi a questo beneficio è bassissimo, per non dire
inesistente. (<89">89)
La
Legge del 6 marzo 1998 n. 40, convertita in decreto legge il 25 luglio 1998 n.
286 (la cosiddetta Legge Napolitano), contempla tre tipi di espulsione dal
territorio dello Stato: quella amministrativa; quella a titolo di sanzione
sostitutiva della detenzione; quella a titolo di misura di sicurezza. L’espulsione
amministrativa, disciplinata dall’art. 11, è disposta dal prefetto quando uno
straniero è riconosciuto appartenere ad una categoria di persone pericolose per
la sicurezza pubblica; quando vi sia il concreto pericolo che egli si sottragga
all’esecuzione del provvedimento. quando lo straniero entrato nel territorio
dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera non è stato respinto; quando
si è trattenuto nel territorio dello Stato senza aver richiesto il permesso di
soggiorno nel termine prescritto o quando esso è stato revocato o annullato o
è scaduto da più di sessanta giorni senza che ne sia stato chiesto il rinnovo.
Nella pratica, però, l’espulsione è decisa dall’Ufficio stranieri della
questura, non solo a Firenze, ma in tutta Italia, come ci dice l’avvocatessa
Simonetta Furlan del foro di Firenze: "La questura prepara tutti i fogli
che vengono mandati alla prefettura per la firma del prefetto, o di chi ne fa le
veci, e questi vengono poi rimandati indietro". Per quanto concerne la sua
esperienza, il numero delle espulsioni varia a secondo dei dirigenti
dell’Ufficio stranieri delle varie questure perché, essa osserva, "le
norme si interpretano a seconda delle persone che le interpretano". È per
questo che in Puglia, a quanto le risulta, sono state talvolta espulse persone
che effettivamente erano albanesi del Kossovo, con la motivazione che erano
invece clandestini albanesi dell’Albania. (<90">90) Il
secondo tipo di espulsione, quella sostitutiva della detenzione (art. 14), viene
comminata dal giudice in sostituzione di una pena detentiva entro il limite di
due anni, quando non ricorrono le condizioni per la sospensione condizionale.
L’espulsione è eseguita dal questore e anche questa sentenza, come quella
riguardante l’espulsione amministrativa, è revocabile giacché in ogni caso
lo straniero può ricorrere contro tale provvedimento. Prima della Legge
Napolitano gli stessi stranieri in custodia cautelare o già condannati
definitivamente potevano chiedere l’espulsione se disponevano di un passaporto
o di un altro valido documento d’identità: questo avveniva nel caso in cui la
pena residua da scontare non superasse il limite di tre anni. La situazione
attuale è molto cambiata in seguito alla Legge Napolitano: ora, come dice il
giudice Soresina, non esiste più l’espulsione su domanda dell’interessato.
È il giudice che può disporla qualora la condanna non superi i due anni. Lo
straniero non ha più voce in capitolo, può semplicemente sollecitare
l’espulsione, ma essa non è più un diritto di CUI il giudice deve
riconoscere i presupposti come prima. Secondo la nuova legge, quindi, è a
discrezione del giudice sostituire con l’espulsione la pena entro i due anni:
questo limite è molto basso perché il soggetto se ne va all’estero ed è
libero. Questo però non è sempre vero, perché bisogna considerare che se per
caso lo straniero espulso dall’Italia ha la famiglia in Francia o in un altro
paese che abbia firmato le convenzioni internazionali, può anche recarvisi ma
finisce in carcere lì a scontare la pena. (<91">91) Il
provvedimento che interessa in modo specifico la nostra indagine è però quello
dell’espulsione a titolo cautelare: il giudice, quando lo straniero sia
condannato alla reclusione per un tempo non inferiore a dieci anni, ne ordina
l’espulsione dal territorio dello Stato (art. 235 C.p.). Il giudice può
inoltre ordinare l’espulsione dello straniero che sia condannato per taluno
dei delitti previsti dagli artt. 380-381 C.p.p., sempre che risulti socialmente
pericoloso (art. 13 Legge Napolitano). In base all’art. 11 della stessa legge,
lo straniero espulso non può rientrare nel territorio italiano senza una
speciale autorizzazione del Ministero dell’interno. Nel caso che egli
trasgredisca all’ordine di espulsione, la legge prevede l’arresto da due a
sei mesi ed una nuova espulsione con accompagnamento immediato. Talvolta,
l’espulsione applicata in sentenza e quella in via amministrativa possono
coesistere, in quanto non sono alternative l’una all’altra e possono
costituire per l’extracomunitario un problema raddoppiato. A questo proposito
è estremamente interessante la dichiarazione di Margherita Grandi, impiegata
del ‘Centro Ciao’ di Sorgane, che offre assistenza anche legale ai detenuti
italiani e stranieri. Un giovane Tamil, perseguitato e imprigionato dal governo
dello Sri Lanka, che sta appunto decimando questa minoranza, dopo dieci mesi di
reclusione in fortezza, riesce ad uscirne con pochi sopravvissuti. Prevedendo ciò
che sarebbe successo (infatti quelli usciti con lui sono stati subito eliminati)
egli immediatamente paga un imbarco per la Germania, acquista documenti falsi e
accetta la clausola di portare con sé una valigia (contenente droga a sua
insaputa) che avrebbe depositato di passaggio a Roma. Qui però viene scoperto e
arrestato. Giudicato e condannato, ma riconosciutogli solo un atteggiamento
incauto e non il contrabbando di stupefacenti, egli ha scontato in Puglia i
cinque anni di carcere comminatigli, si è comportato ineccepibilmente ed ha
avuto accesso alla misura alternativa dell’affidamento, che lo ha trasferito
da Bari a Firenze. Tutto è filato liscio, quindi le relazioni sulla sua persona
e sul suo percorso di risocializzazione sono ottime. Durante l’espiazione
della pena egli ha lavorato godendo dello speciale permesso di soggiorno che il
Tribunale di sorveglianza presenta all’ispettorato del lavoro. Espiata la
pena, il giovane si è ritrovato senza permesso di soggiorno, con due espulsioni
sulle spalle, una in sentenza e una amministrativa e con la primaria necessità
di non tornare al suo paese. Il
genocidio dei Tamil in Sri Lanka è conosciuto, ma non riconosciuto
ufficialmente dal governo italiano, perciò il giovane non può ambire allo
status di rifugiato politico. Il ‘Centro Ciao’ fa richiesta al Tribunale di
sorveglianza di riconoscere la non pericolosità sociale di quest’uomo, che ha
ormai ottimi rapporti con la realtà territoriale fiorentina, fruisce di un
alloggio e di un lavoro, anche se, ovviamente, in nero. Riconosciuta la sua non
pericolosità sociale, l’espulsione come misura di sicurezza viene dichiarata
non eseguibile, (<92">92) ma resta comunque l’espulsione
amministrativa che, riguardando lo sbarco clandestino in Italia è irrevocabile.
Al giovane Tamil, ormai di casa in Italia, non resta che, o proseguire
clandestinamente la sua permanenza qui con i rischi che essa comporta, o
andarsene e ricominciare tutto da capo in un altro paese che non sia la sua
patria. (<93">93) Nella maggior parte dei casi, però, come si è già
accennato nel 2 del primo capitolo, non è possibile eseguire l’espulsione
immediata: o perché occorre procedere al soccorso dello straniero, o ad
accertamenti supplementari circa la sua identità, o all’acquisizione di
documenti per il viaggio, o perché non è disponibile un mezzo di trasporto
idoneo. In tal caso egli viene trattenuto in un apposito centro di permanenza
temporanea, come recita l’art. 12 della L. 40/98. Un’agente
della Questura di Firenze spiega che la permanenza in uno di questi centri di
raccolta può andare dai venti ai trenta giorni, secondo la necessità e sempre
su richiesta del questore. Alla domanda: "Che cosa accade se in
quest’arco di tempo non si riesce ad identificare con assoluta certezza il
soggetto, e quindi, in pratica, non esiste un paese che lo possa accogliere come
suo cittadino?", l’agente ha risposto che, in tal caso, lo straniero
viene espulso fuori dal campo. (<94">94) Il problema
dell’identificazione certa è un altro punto nodale per quanto concerne
l’espulsione: lo conferma il P.m. Nencini, il quale sostiene addirittura che questo
provvedimento è impraticabile per una ragione semplicissima: perché il 99,9%
di stranieri è senza documenti, in quanto essi, o entrano col documento
regolare e poi lo occultano, o non ce l’hanno proprio perché clandestini. Lo
fanno sparire perché sanno che senza documenti siamo impotenti a espellerli.
Sono stranieri, non sono fessi. Se non c’è una sicura identità che quindi
garantisca anche del paese di provenienza, giacché noi non rimandiamo indietro
industriali ma solo gente che crea problemi, il paese che dovrebbe accogliere
l’espulso, quando arriva alle frontiere lo rifiuta. Può accettarlo soltanto
se noi gli sbattiamo in faccia un bel passaporto indiscutibile rilasciato da
quelle autorità. Cosicché la Legge 40/98 è stata introdotta - secondo me - in
maniera disarticolata col sistema perché io la identifico più come norma di
principio. Le norme di principio vanno benissimo, però - sia chiaro - devono
essere norme di principio: quando diventano precettive e non ci si preoccupa di
come fare ad eseguirle, diventano norme eversive del sistema perché in effetti
esistono e quindi si avrebbe anche il diritto di vederle applicate. Di fatto però
non si possono applicare: il giudice si trova nella impossibilità materiale di
applicare la norma perché sa perfettamente che la sentenza non verrà mai
eseguita e allora non la applica. Quindi va benissimo se si vuole introdurre un
nobile principio, ma bisogna farsi carico di dire come lo si applica
praticamente e bisogna perequarlo alle altre norme omologhe. Per esemplo, le
altre misure alternative, una volta concesse possono essere anche revocate se
subentrano certe violazioni; nel caso dell’espulsione, invece, non esiste una
norma che preveda la revoca di questa e quindi il ripristino della pena
detentiva nel caso in cui l’espulsione venga violata: cioè se io lo espello
oggi, lui domani mi torna indietro col gommone. Qui andiamo nel comico: quando
questo signore ipotetico viene ripreso a Bari o a Brindisi, risulta per esempio
che, condannato a un anno e quattro mesi, è stato espulso e quindi la sanzione
è sostitutiva. Lui però è rientrato nel territorio italiano, cioè ha violato
quella prescrizione, ma siccome non è prevista alcuna sanzione per questo, il
risultato è che il cittadino straniero viene condannato a un anno e quattro
mesi, viene espulso, rientra il giorno dopo e non succede assolutamente niente:
quindi è come se avesse scontato la pena stando un giorno in viaggio, il che mi
pare eccessivo. (<95">95) Nencini
osserva che in Italia ci si sta avviando, o forse si è già arrivati, ad un
sistema di sanzioni penali che risulta essere di fatto pregiudizievole per i
cittadini italiani i quali, sfortunatamente per loro, risiedono in un preciso
posto, sono reperibili, e quindi, se sono condannati a un anno e quattro mesi se
li fanno tutti. Così, invece, si finisce per creare dei privilegi per chi non
è registrato all’anagrafe. Gli
extracomunitari in questo paese stanno molto meglio di quanto sl pensi,
soprattutto se delinquono: hanno delle garanzie di impunità che non esistono in
nessun altra parte del mondo. Su questo sono in grado di discutere perché ho lo
sgradito compito di applicare queste norme e quindi lo vedo in concreto: su
dieci condanne a cittadini stranieri se ne eseguono due, ma se sono italiani se
ne eseguono otto. (<96">96) L’avvocatessa
Furlan concorda in pieno con Nencini, ma precisa che quando si sono stipulati
accordi con i paesi extracomunitari, come ad esempio l’Albania e la Tunisia,
le espulsioni hanno cominciato effettivamente a funzionare. Comunque, per il
rientro clandestino, bisogna vedere qual è la molla che spinge i migranti e
anche la distanza che separa il paese d’origine dall’Italia: ovviamente
quanto più esso è lontano (e quindi aumenta il costo del rientro), tanto più
è improbabile che il soggetto ritorni. Se la molla però è l’estrema povertà
o il pericolo di vita, allora non c’è niente che tenga e quindi si tenta in
ogni modo il rientro, e quasi sempre si dà anche un nome falso. L’avvocatessa
conferma il fatto curioso che non esistano statistiche ufficiali. Ella dispone
solo di un dato abbastanza vecchio: a Firenze nel 1997 il dirigente
dell’Ufficio stranieri dell’epoca ha eseguito, solo nell’ambito degli
albanesi, circa ottocento espulsioni. Essa ritiene di poter affermare che in
quest’ultimo anno e mezzo le espulsioni eseguite sono state in numero maggiore
rispetto agli anni precedenti, fatto che deve appunto imputarsi alla stipula di
numerosi accordi internazionali. (<97">97) Non
sempre, però, l’espulsione ha carattere immediato: negli altri casi essa è
eseguita mediante l’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro il
termine di quindici giorni; anche in questo caso si può applicare l’art. 12
già citato, quando esista il concreto pericolo che l’interessato si sottragga
all’esecuzione dell’espulsione. Come si è visto, lo straniero viene espulso
quando è accertata la sua pericolosità sociale, accertamento che spetta al
Magistrato di sorveglianza competente per territorio (art. 679 C.p.p.). A questo
proposito, Salvatore Pennisi osserva che la maggior parte degli stranieri viene
espulsa (e quindi riconosciuta pericolosa) perché, non avendo agganci sul
territorio, né lavoro, né casa, il magistrato si chiede come sia possibile che
essi continuino a restare in Italia senza essere pericolosi. Se però uno
straniero ottiene l’affidamento in prova, ci sono i presupposti per il
riconoscimento di non pericolosità. Sono
pochissimi gli stranieri fruitori di misure alternative che hanno 1’
espulsione; bisogna anche però tener presente che non tutti gli extracomunitari
commettono reati per i quali essa è obbligatoria. Comunque, la fruizione di una
misura alternativa implica appoggi sul territorio, lavoro, casa e, in un certo
senso, annulla i presupposti per un sospetto di pericolosità. Il magistrato si
basa quindi sia sul percorso della detenzione sia sulla possibilità di avere un
aggancio sul territorio. (<98">98) Troviamo
conferma a queste parole in una sentenza riguardante una russa di venticinque
anni, colta a Roma in transito per il Canada con un’ingente quantità di
sostanze stupefacenti e condannata a cinque anni quattro mesi di reclusione e a
quaranta milioni di multa. Essa ottiene l’affidamento in prova che conduce a
termine positivamente, studiando e trovando alloggio insieme alla madre presso
l’Istituto avventista di Firenze. A tempo debito, avvicinandosi il momento
dell’espulsione comminatale all’atto della sentenza, essa (ex art. 679
C.p.p.) viene dichiarata non pericolosa socialmente e quindi viene disposto che
l’espulsione non vada eseguita. (<99">99) L’avvocatessa Paola
Pantalone, del foro di Firenze, ritiene essere assai raro che sia ordinata una
revoca del provvedimento di espulsione, perché la maggior parte degli
extracomunitari, irreperibile, non ottempera alla convocazione alla Camera di
consiglio e quindi, automaticamente, se ne presume la pericolosità sociale.
(<100">100) Sfogliando
le ordinanze, si trovano subito esempio di ciò: due marocchini, uno di ventitré
anni e uno di ventun anni, vengono ritenuti socialmente pericolosi (e quindi
espulsi), il primo perché "irreperibile dopo la scarcerazione e quindi
tornato, com’è molto probabile, a vivere di espedienti’’,
(<101">101) il secondo perché "senza fissa dimora in Italia né
riferimenti lavorativi, si può presumere che alla scarcerazione continuerà a
vivere di espedienti". (<102">102) Con
alcune varianti, queste formule si ripetono in tutte le ordinanze di
accertamento della pericolosità sociale. Quando il Magistrato di sorveglianza,
decide di concedere a un detenuto straniero una misura alternativa, lo fa pur
avendo davanti a sé una condanna che comporta l’espulsione, ma non può
sapere in anticipo come il soggetto si condurrà durante l’esecuzione della
misura, e quindi se egli in un secondo tempo sarà ritenuto o meno socialmente
pericoloso, e di conseguenza espulso. È quindi chiaro che la misura alternativa
e la revoca dell’espulsione non sono strettamente collegate, in quanto anche
un soggetto che ha fruito, per esempio, di un affidamento può essere espulso
perché l’accertamento della pericolosità da parte del Magistrato di
sorveglianza avviene a fine pena, poco tempo prima che l’espulsione venga
eseguita. Pertanto, l’espulsione è in generale una conseguenza diretta non
solo della pena, ma soprattutto dell’esecuzione della misura alternativa.
Viene spontaneo a questo punto chiedersi che senso abbia concedere una misura
alternativa in assenza della plausibile certezza che essa porti alla
vanificazione dell’espulsione. Già il fatto che lo straniero detenuto sappia
che un tale provvedimento incombe su di lui, non svuota la misura alternativa di
qualunque significato risocializzante e rieducativo? A tali quesiti risponde
Margara sostenendo che: non
si può affermare, in assoluto, che le misure alternative vengono concesse agli
stranieri come provvedimento ‘svuotacarcere’, cioè privo di ogni contenuto,
in quanto lo spirito della legge riflette la preoccupazione di attribuire
maggiori strumenti di vita alla persona. Se un detenuto lavora e si adatta ad
una pratica di vita, per così dire regolare, ciò gli servirà anche in
Marocco, gli servirà dappertutto e tanto più ciò avviene se egli si qualifica
professionalmente. Non dobbiamo intendere la risocializzazione in senso
spaziale, cioè riferita a un posto e ad una società specifica, ma come
acquisizione di capacità professionali e umane che prima non si avevano e che
possono valere anche fuori dalla società di acquisizione.
(<103">103) Questo
discorso si presta all’obiezione che simili affermazioni denunciano da parte
della Magistratura italiana la presunzione, del resto tipicamente occidentale,
che i parametri di vita delle cosiddette ‘società avanzate’ rechino criteri
validi in assoluto, in qualsiasi società, in qualsiasi angolo del mondo:
presunzione non da tutti condivisibile. È per questo che un cittadino qualsiasi
può pensare che, al di là delle questioni di principio, il legislatore abbia
voluto, in concreto semplicemente svuotare le carceri. Margara
risponde: Per
il Tribunale di sorveglianza di Firenze, ma penso anche per tutti gli altri
tribunali, le misure alternative hanno fatalmente questo doppio aspetto: servono
per svuotare il carcere, ma anche per il reinserimento sociale. Comunque, anche
il Consiglio d’Europa nell’87 si è occupato di esse: nelle sue prescrizioni
si dice chiaramente che esse sono un elemento da favorire per contenere gli
effetti negativi del carcere. Quindi non si può parlare di provvedimenti che
riducono soltanto il sovraffollamento del carcere, perché sovraffollamento
potrebbe anche non esserci, se si disponessero tutte le condizioni per cui una
persona può evitare di delinquere. Il
carcere come extrema ratio, insomma, per tutti. Note
al capitolo 3
(1)
Intervista ad Alessandro Nencini, Sostituto procuratore della repubblica del
Tribunale di Firenze, del 10/5/99. (2)
Ibid. (3)
Atti del Convegno "Lo Straniero in carcere", Firenze 24-25 maggio,
1999. Relazione preparatoria del gruppo di lavoro: Attività trattamentali e
sulle misure alternative della detenzione, pp. 12-13. (4)
L. n. 663, 10 ottobre 1986. (5)
L’esecuzione dell’affidamento in prova approda a un esito positivo quando il
suo svolgimento è corretto: ne deriva quindi l’estinzione della pena e di
ogni altro effetto penale. (6)
V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Ordinamento Penitenziario, Commento
articolo per articolo, Cedam, Padova 1997 p. 345. (7)
Intervista ad Antonietta Fiorillo, cit., p. 95. (8)
Intervista a Giuseppe Crispo, educatore di Sollicciano, del 14/5/99. (9)
Ibid. (10)
Ibid. (11)
Estratto dall’intervista a Gianfranco Politi, educatore di Sollicciano, del
14/5/99 (12)
Ord. n. 241/98 Trib. sorv. Fi. (13)
Ord. n. 2152/98 Trib. sorv. Fi. (14)
Intervista ad Antonietta Fiorillo e a Paolo De Felice, del 28/4/99. (15)
Ibid. (16)
Ord. n. 1263/98 Trib. sorv. Fi. (17)
Ord. n. 633/98 Trib. sorv. Fi. (18)
Intervista cit., p 144. (19)
Ibid. (20)
A. Sayad, Riflessioni sul pensiero di stato, in ‘Aut Aut’, settembre-ottobre
‘96, Fondazione Cariplo Ismu, p. 10. (21)
Ord. n. 2217/98 Trib. sorv. Fi. (22)
Ord. n. 1129/98 Trib. sorv. Fi. (23)
Ord. n. 5569/98 Trib. sorv. Fi. (24)
Ord. n. 3383/98 Trib. sorv. Fi. (25)
Intervista ad Alessandro Margara, ex Presidente del Tribunale di sorveglianza di
Firenze ed ex Presidente della Direzione amministrativa penitenziaria, del
11/5/99. (26)
Ord. n. 3651/97 Trib. sorv. Fi. (27)
Ord. n. 502/98 Trib. sorv. Fi. (28)
Ord. n. 6235/98 Trib. sorv. Fi. (29)
Intervista a Maria Grazia Grazioso. direttrice di Sollicciano e Solliccianino,
del 15/5/99. (30)
Intervista a Monica Poggi, del 17/5/99. (31)
Ord. n. 1362/99 Trib. sorv. Fi. (32)
Estratto dall’intervista a Politi, cit., p. 146. (33)
Estratto dall’intervista a De Felice, cit., p 147. (34)
Interviste Poggi-Politi-Crispo-De Felice, cit.. pp. 144-59. (35)
Ord. n. 4366/98 Trib. sorv. Fi. (36)
Ord. n. 1569/98 Trib. sorv. Fi. (37)
Ord. n. 4632/98 Trib. sorv. Fi. (38)
Ord. n. 151/98 Trib. sorv. Fi. (39)
Ord. n. 3254/98 Trib. sorv. Fi. (40)
Ord. n. 6777/98 Trib. sorv. Fi. (41)
Ord. n. 5859/98 Trib. sorv. Fi. (42)
Ord. n. 3281/98 Trib. sorv. Fi. (43)
Ord. n. 6369/98 Trib. sorv. Fi. (44)
Ord. n. 1836/99 Trib. sorv. Fi. (45)
Ord. n. 3930/96 Trib. sorv. Fi. (46)
Ord. n. 3652/97 Trib. sorv. Fi. (47)
Intervista cit., p 154. (48)
Intervista a Crispo, cit., p. 144. (49)
Intervista cit., p. 147. (50)
Ord. n. 6244/98 Trib. sorv. Fi. (51)
Ord. n. 5865/98 Trib. sorv. Fi. (52)
Ord. n. 2399/97 Trib. sorv. Fi. (53)
Ord. n 797/97 Trib. sorv. Fi. (54)
Relazione allegata all ord. cit. del 15/6/98. (55)
Ord. n. 246/98 Trib. sorv. Fi. (56)
Ord. n. 2026/98 Trib. sorv. Fi. (57)
Ord. n. 993/98 Trib. sorv. Fi. (58)
Ord. n. 6675/98 Trib. sorv. Fi. (59)
Ord. n. 4481/98 Trib. sorv. Fi. (60)
Intervista cit., p. 147. (61)
Intervista cit., p. 147. (62)
Ibid. (63)
Decr. nn. 2203/98 Trib. sorv. Fi.
e 211/98 Trib. sorv. Fi. (64)
Decr. n. 726/97 Trib. sorv. Fi. (65)
Decr. n. 2322/98 Trib. sorv. Fi. (66)
Intervista cit., p. 144. (67)
Decr. n. 2408/98 Trib. sorv. Fi. (68)
Decr. n. 582/99 Trib. sorv. Fi. (69)
Decr. n. 1141/97 Trib. sorv. Fi. (70)
Decr. n. 1098/99 Trib. sorv. Fi. (71)
Intervista cit., p. 146. (72)
Intervista cit., p. 154. (73)
Decr. n. 643/98 Trib. sorv. Fi. (74)
Decr. n. 390/99 Trib. sorv. Fi. (75)
Decr. n. 369/98 Trib. sorv. Fi. (76)
Decr. n. 375/99 Trib. sorv. Fi. (77)
Intervista cit., p. 147. (78)
Ibid. (79)
Ord. n. 1851/98 Trib. sorv. Fi. (80)
Ord. n. 923/98 Trib. sorv. Fi. (81)
Ord. n. 4058/98 Trib. sorv. Fi. (82)
Ord. n. 4452/98 Trib. sorv. Fi. (83)
Ord. n. 5614/98 Trib. sorv. Fi. (84)
Ord. n. 921/98 Trib. sorv. Fi. (85)
Intervista cit., p. 154. (86)
Ibid. (87)
Intervista cit., p. 144. (88)
Intervista cit.. p. 147. (89)
Ibid. (90)
Intervista all’avvocatessa Simonetta Furlan del foro di Firenze, del 19/5/99. (91)
Intervista cit., p. 50. (92)
Ord. n. 69/96 Uff. sorv. Fi. (93)
Intervista a Margherita Grandi, dipendente del ‘Centro Ciao’, del 1/6/99. (94)
Intervista all’agente C.P., Ufficio stranieri della Questura di Firenze del
23/6/99. (95)
Intervista ad Alessandro Nencini, cit., p. 138. (96)
Ibid. (97)
Intervista cit., p. 193. (98)
Intervista a Salvatore Pennisi, collaboratore di cancelleria del Tribunale di
sorveglianza di Firenze, del 15/6/99. (99)
Ord. n. 704/98 Uff. sorv. Fi. (100)
Intervista all avvocatessa Paola Pantalone del foro di Firenze, del 27/5/99. (101)
Ord. n. 491/98 Uff. sorv. Fi. (102)
Ord. n. 493/98 Uff. sorv. Fi. (103)
Intervista cit., p. 154. (104)
Ibid.
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