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Conclusioni
La
società multietnica, piaccia o non piaccia, è oramai un dato di fatto
imprescindibile. L’ultimo decennio, in special modo, ha visto un forte
incremento del flusso migratorio in Italia, determinato non solo dalla
sperequazione esistente tra i paesi ricchi e quelli poveri del pianeta, ma
soprattutto dall’evidenza e dal risalto che l’epoca delle telecomunicazioni
ha potuto dare oggi, più che nel passato, a questa sperequazione. A ciò si
aggiunga il crollo di alcuni regimi in varie parti del mondo, nonché
l’esplosione di vere e proprie guerre, l’ultima delle quali è da poco
terminata. In
questo contesto si inserisce il delicato rapporto tra immigrazione e criminalità,
troppo spesso enfatizzato dai media, senza un corretto esame ed approfondimento.
Si rischia che diventi automatica l’equazione immigrati = criminali, anche
perché la tipologia dei reati commessi, vale a dire piccolo spaccio, scippi,
borseggi, truffe, determina l’allarme dei cittadini che quotidianamente
entrano in contatto con questi reati da strada. Gli
stranieri extracomunitari sono accusati genericamente di delinquere, ma
analizzando meglio la situazione, si osserva un paradosso: gli immigrati che
commettono i cosiddetti reati da strada sono quasi esclusivamente poveri
disgraziati, praticamente innocui. I criminali veri, italiani e stranieri, non
si espongono alla vista dei cittadini, non disturbano palesemente e quindi non
suscitano allarme sociale. Posto dunque che l’allarme sociale è gestito dai
media, a loro volta manovrati dai vari patronati politici, resta il dato di
fatto che i reati, seppure prevalentemente di piccolo cabotaggio, vengono
commessi principalmente dagli stranieri in condizione di clandestinità: le
statistiche a disposizione evidenziano una percentuale dell’80% sul totale
degli stranieri incarcerati. L’aumento
della devianza fra gli immigrati è dovuto all’incremento incontrollato delle
presenze in Italia, presenze che, per quanto concerne gli immigrati regolari
(gli unici censibili) sono passate dalle 298.749 unità del 1980 alle 1.240.721
del 1997. L’extracomunitario
che entra in carcere è debole, emarginato, proveniente da una società
d’origine ove il degrado è sempre maggiore: ad esso si applica l’istituto
della custodia cautelare, a parità di reati contestati, più spesso che agli
italiani, in quanto egli manca di ogni riferimento sociale, di lavoro, di casa.
Per lui non vi sono misure intermedie, vi è solo o il carcere o lo stato di
libertà. La scarsità di mezzi economici, poi, si riflette in una minore tutela
difensiva, e perciò il cosiddetto ‘patteggiamento’ risulta più
frequentemente applicato agli stranieri che agli autoctoni. Se tale rito appare
come il mezzo più veloce di definizione del processo, esso può tuttavia
portare gravi ripercussioni sulla vita dell’immigrato, spesso assai giovane. Il
patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti è previsto solo nei confronti
dello straniero residente, il che significa che gli irregolari ne sono esclusi.
Perciò, la maggior parte degli imputati stranieri, essendo sprovvista del
permesso di soggiorno e mancando di mezzi, rimane priva di un’efficace difesa.
Una legge, quindi, come la 217/90, pensata per tutelare le categorie di soggetti
più deboli, risulta di fatto inapplicabile proprio a questi. Quasi
tutti i magistrati intervistati, poi, hanno messo in evidenza che le misure
alternative alla detenzione, che rappresentano una vera e propria conquista di
civiltà, presupponendo un solido radicamento del detenuto nel tessuto sociale,
sono purtroppo difficilmente applicabili agli extracomunitari, in maggior parte
privi di permesso di soggiorno, di lavoro e di stabile domicilio, requisiti
questi che fondano il presupposto imprescindibile per l’accesso a tali misure. Il
meccanismo automatico di sospensione dell’esecuzione della pena non superiore
ai tre anni (quattro, nel caso di reati collegati con la tossicodipendenza), pur
rappresentando un avanzamento sul piano della civiltà giuridica, rischia di non
avere effetto per gli extracomunitari, spesso irreperibili e dunque non in grado
di presentare istanza nei trenta giorni previsti dalla legge. Il problema della
mancanza di riferimenti nella società, di un lavoro e di una casa, è infatti
il ritornello che compare in tutte le interviste rilasciate sia da avvocati che
da magistrati: risulta quindi evidente che non si può neppure adombrare un
sospetto di parzialità, o peggio ancora di razzismo né da parte del nostro
codice, né da parte di chi lo applica, ma che fortemente discriminanti per gli
extracomunitari sottoposti alle sanzioni penali risultano le loro situazioni
oggettive. Discriminante appare la legge stessa, quando richiede requisiti
inesigibili per la sua applicazione. Più volte, nelle interviste ai magistrati,
è stato fatto cenno alla discrezionalità che il Codice penale concede loro, al
punto da suscitare in taluni, a seconda dei casi, una sensazione di imbarazzo:
solo qui eventualmente, in queste pieghe, si può celare una forma di
generalizzazione, di razzismo forse involontario: sempre che sia lecito usare il
termine ‘razzismo’ per indicare fenomeni consistenti nella rigida
applicazione della norma, senza un particolare riguardo alla situazione
specifica. Molti Sostituti procuratori hanno accennato all’esperienza del
giudice come a un fattore positivo per superare, appunto, la rigidità della
norma. Sarebbe auspicabile, perciò, che i casi particolarmente delicati, per
gli stranieri come per gli italiani, fossero affidati appunto ad un giudice
esperto, capace cioè di superare, grazie ad una professionalità esercitata e
maturata sul campo, eventuali preconcetti non escludibili in assoluto. Anche
la lingua è un fattore di emarginazione rilevante: l’estraneità al nostro
idioma impedisce al detenuto straniero di seguire correttamente persino il
proprio processo; se volessimo rispettare alla lettera lo spirito della legge,
occorrerebbe si garantissero misure tali da far conoscere all’imputato la
traduzione dei capi d’imputazione e di tutto il regolamento carcerario. Un
altro punto dolente da sottolineare riguarda il lavoro all’interno
dell’istituto. Per la sua concessione esiste una discriminazione gerarchica:
tale possibilità è assicurata in primo luogo ai condannati e agli internati,
solo successivamente ai ricorrenti e agli appellanti, da ultimo agli imputati.
Ma poiché tali sono la maggior parte degli immigrati, è difficile assicurare
loro, in tempi brevi, un’attività lavorativa che favorisca di fatto il loro
processo di rieducazione sociale e, non meno importante, dia loro un qualche
mezzo di sostentamento, almeno in carcere. Un
altro punto critico è quello dell’identità dei fermati: sia i magistrati,
sia gli avvocati concordano nel giudicare che questo sia uno degli scogli più
difficili, per non dire impossibili da superare. Nencini, nell’intervista già
citata, parlando dei presupposti per cui è difficilissimo concedere a un
extracomunitario le misure alternative, indica nell’incertezza delle generalità
del fermato uno dei preliminari su cui si arena il corretto trattamento
giudiziario. Senza generalità sicure, infatti, il certificato penale è
inaffidabile e, di conseguenza, è infondata anche un’eventuale incensuratezza. Il
parere, infine, degli extracomunitari detenuti o inquisiti è, come si è visto,
che questo paese li ha molto delusi, giacché in generale l’atteggiamento
degli autoctoni non è affatto amichevole; quando poi gli stranieri si scontrano
col sistema giudiziario, fanno grande fatica ad accettare il carcere, perché
mancano di rapporti con gli altri detenuti, subiscono continui trasferimenti per
sovraffollamento e, come risulta dai decreti, anche telefonare alla famiglia
diventa difficile, impossibile se questa è all’estero. Hanno scarsa
possibilità di lavoro intramurario e difficilmente sono ammessi alle misure
alternative per la mancanza dei presupposti che abbiamo già esaminato. Si può
concordare, dunque, con la sensazione dei detenuti stranieri, che per loro i
diritti normativamente sanciti risultino attenuati, e in alcuni casi negati. In
nessun istituto penitenziario, infatti, esistono regole differenti a seconda
dell’etnia di appartenenza dei detenuti e, proprio per questo, si finisce per
non garantire l’uguaglianza di fatto, giacché le regole che vengono applicate
e le attività che vengono svolte sono pensate come funzionali ad una
popolazione appartenente al nostro territorio, alla nostra cultura, ai nostri
costumi. La
figura a contatto con il detenuto che denuncia le più gravi carenze è da
indicarsi nel personale penitenziario: questo manca di quell’adeguata e
specifica preparazione che si traduce in professionalità, fattore
importantissimo per chi deve stare giornalmente a contatto con detenuti lontani
anni luce dalla sua cultura e dalla sua sensibilità. Il personale, insomma,
dovrebbe essere in condizione non solo di comprendere i bisogni degli
extracomunitari, ma anche di decodificare situazioni e comportamenti e di
interagire con essi in vista delle finalità da raggiungere. Nell’Europa
unita che si sta realizzando è giusto che i singoli paesi adottino misure
contro l’immigrazione selvaggia con tutto ciò che essa comporta; ed è anche
utile omologare e coordinare i provvedimenti tra i vari Stati. Tuttavia occorre
tener presente che ci potrà sempre essere un anello debole nella catena, com’è
oggi l’Italia, che permetterà la penetrazione clandestina dalle frontiere in
qualsiasi momento. Bisogna
acquisire consapevolezza che l’immigrazione risulta un fenomeno fisiologico
insito nella storia dei popoli. Questo fenomeno contiene in sé elementi che non
possono essere giudicati aprioristicamente in negativo o in positivo. Appare però
innegabile che flussi migratori di grande portata reca sconvolgimenti sia nelle
società di origine che in quelle di arrivo. Non siamo qui in presenza soltanto
di conflitti etnici o nazionali per cui la gente è costretta a lasciare il
proprio paese e deve ottenere altrove il diritto di cittadinanza (profughi per i
quali è infatti riconosciuto lo status di rifugiato politico). Il fenomeno a
cui stiamo assistendo s’inscrive in un contesto di più ampia portata.
L’intervento normativo è d’obbligo se si vogliono attenuare i traumi
dell’incontro-scontro tra culture e sottoculture diverse. Occorre
operare alla radice, eliminare almeno le cause risapute (e perciò
contrastabili) dell’immigrazione incontrollata verso i paesi più ricchi da
parte dei paesi poveri. Bisognerebbe cambiare l’immagine che l’Europa offre
di sé attraverso i mezzi di comunicazione che penetrano nelle realtà
sottosviluppate portando la visione di una realtà parziale. Riuscire a far
vedere anche il disagio che esiste nella nostra società, i problemi, di altra
natura, ma egualmente gravi che il modello di sviluppo occidentale
intrinsecamente racchiude. Sono problemi di rapporti interpersonali, di
disoccupazione, di degrado urbano, di disadattamento sociale, di emarginazione,
di droga, che equivalgono o superano spesso i problemi che gli autoctoni si
illudono di lasciare a casa quando emigrano dal proprio paese. Cambia la realtà,
cambiano i problemi, che tuttavia richiedono di essere risolti. Ciò
che spinge grandi masse di diseredati verso l’Europa è fondamentalmente un
miraggio, un mito assieme alla illusione che sia possibile realizzarlo in un
colpo solo, con un viaggio. Questo mito è la civiltà dei consumi. Occorrerebbe
che queste persone avessero a casa loro le condizioni per una esistenza
dignitosa assieme forse, ad un’idea, un mito da inseguire. O forse basterebbe
semplicemente che fossero radicate nella cultura di origine, perché ciò
limiterebbe almeno il tipo di immigrazione prevalente: sbandata e ad ogni costo.
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