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Presentazione generale della situazione italiana
I
principali aspetti della devianza negli immigrati extracomunitari Per
chiunque oggi percorra l’Italia, sia nelle zone urbane, sia in quelle rurali,
balza agli occhi il mutamento avvenuto negli ultimi anni nella nostra società:
dovunque si incontrano persone delle svariate nazionalità. Ci stiamo davvero
avviando verso la multietnicità, (<1">1) a nostro avviso per molti
versi auspicabile, superando una società tradizionalmente chiusa e provinciale
qual era quella italiana degli anni ‘60-’70. Ma, come tutte le medaglie,
anche questa ha il suo rovescio: l’afflusso massiccio e indiscriminato di
immigrati ha comportato difficoltà e disagi sia per gli stessi stranieri in
rapporto alla società italiana, sia per i cittadini italiani a contatto con
realtà culturali, religiose e sociali finora semisconosciute. L’affollarsi
poi sul nostro territorio - che già annovera difformità e problemi
socioeconomici rilevanti - di tante etnie, culture, usi e costumi, ha in taluni
casi e in talune zone, acuito tensioni sociali già in atto, tanto da far
comunemente individuare nel "diverso" la causa dell’incremento del
numero globale dei reati, poiché con l’accrescersi dell’immigrazione,
clandestina e non, è necessariamente aumentata la percentuale degli stranieri
che delinquono rispetto al numero degli autoctoni. Di
questi "delitti" intendo occuparmi più specificamente, distinguendo
tra i vari luoghi della penisola. Occorre in primo luogo far osservare,
basandosi su dati e rilevamenti recentissimi, fondati sulla ricostruzione
dell’andamento dei più gravi reati, che l’aumento della criminalità
verificatosi nel nostro paese non è dovuto tout court all’immigrazione,
giacché un primo incremento dei crimini più gravi, durato fino al 1982, ha
avuto luogo precedentemente ai grandi flussi migratori. È seguita poi una
contrazione cui ha tenuto dietro un nuovo ciclo, a partire dal 1987: da quel
momento la presenza degli stranieri negli istituti di pena è fortemente
aumentata (dal 1991 al 1996 si è passati dal 16% al 28%). (<2">2)
Bisogna però considerare che, a parità di reato commesso la custodia cautelare
è imposta più spesso agli stranieri che agli italiani; in secondo luogo gli
stranieri usufruiscono meno spesso delle misure alternative e delle pene
sostitutive alla detenzione; in terzo luogo gli stranieri commettono di solito
reati che portano invariabilmente a pene detentive. Se,
per comodità di analisi, sulla scorta dell’opera di Marzio Barbagli già
citata, si considerano gli undici reati prevalenti in Italia, cioè il furto, la
rapina, la produzione e lo spaccio di stupefacenti, la ricettazione, le lesioni
volontarie, il contrabbando, l’incendio doloso, l’estorsione, la violenza
carnale, l’omicidio tentato e consumato, le statistiche indicano una
situazione singolare: se la quota degli stranieri rispetto ai condannati è
aumentata fortemente per la maggior parte dei reati, come la produzione e il
commercio di stupefacenti, per due degli undici delitti considerati essa non è
aumentata altrettanto significativamente (incendio doloso ed estorsione). In
valore assoluto il reato per il quale è stato condannato il numero più alto di
stranieri è il furto, mentre quello che ha visto la crescita più rapida,
sempre relativamente agli stranieri (sestuplicata dall’88 al ‘96) è la
rapina, seguita dallo spaccio (quintuplicato). Anche qui, però, la situazione
presenta aspetti variegati, poiché nella definizione del reato di rapina
confluisce un ventaglio di azioni delittuose che vanno dalle rapine
accuratamente preparate e attuate ai danni di pubblici uffici, banche o
gioiellerie - monopolio degli italiani - a quelle improvvisate, effettuate nelle
strade, nei negozi o nelle abitazioni private: casi, questi ultimi, per i quali
la quota attribuita agli stranieri è notevolmente cresciuta. Appare inoltre
interessante notare come, sempre nell’ambito dei reati che non implicano
preparazione preliminare, sia cresciuta la quota degli stranieri per i quali da
un comportamento implicante il furto occasionale e di modesto valore, si è
avuta una degenerazione delittuosa culminata nella condanna per rapina.
Nettamente tracciata è anche la relazione tra il paese d’origine degli
stranieri e la tipologia di reato. (<4">4) Riferendoci ai dati del
triennio ‘93-’95, il 60% dei condannati per contrabbando proviene dal
Marocco, mentre il gruppo che segue, quello senegalese, si attesta appena al 7%.
Si può quindi parlare di una sorta di monopolio detenuto dai marocchini per
quanto attiene al contrabbando. Analogamente si disegna una sorta di oligopolio
per quanto concerne lo spaccio di stupefacenti, poiché i tre maggiori gruppi
(marocchino, tunisino, algerino) raccolgono il 70% delle condanne per questo
tipo di reato. La concentrazione percentuale dei furti si distribuisce, a
seconda dell’arco temporale considerato, per un 40-50% appannaggio degli ex
iugoslavi, seguiti con uno scarto considerevole dai marocchini e dagli algerini.
Maggiore dispersione del dato percentuale riguarda la rapina, che vede grosso
modo un’equa distribuzione tra iugoslavi, algerini, marocchini e tunisini. Se
queste rappresentano le differenziazioni etniche dei reati, ancor più
interessante è rilevare la distribuzione del fenomeno criminale in ambito
regionale nel territorio italiano sempre per i reati che attengono
l’immigrazione. Notiamo che al Nord gli stranieri con permesso di soggiorno
sono più numerosi rispetto al Sud, e che al Centro-Nord si concentrano la
produzione e il commercio di stupefacenti, insieme ai borseggi e ai furti
d’appartamento, mentre il Sud registra una prevalenza di omicidi, rapine,
scippi e contrabbando. Assumendo come punto di riferimento il 1988, registriamo
come la percentuale di stranieri sul totale dei condannati fosse molto maggiore
nel nord Italia, per la precisione doppia rispetto al Sud relativamente ai reati
di rapina, quadrupla relativamente ai reati di furto e per quelli legati agli
stupefacenti, quintupla per i reati di violenza carnale, sestupla per gli
omicidi. La percentuale più alta di stranieri condannati apparteneva alla
Liguria, mentre in Sicilia (la regione meridionale che alla fine degli anni
‘80 registrava il più alto numero di immigrati) la percentuale di stranieri
condannata per i reati presi in esame era bassissima. Nel corso degli anni ‘90
questa percentuale è aumentata in tutte le regioni, con un’impennata per la
violenza sessuale nel Mezzogiorno, per cui, dato curioso, in questo il Sud ha
quasi pareggiato il Nord, mentre invece per furti, rapine, spaccio di droga e
omicidi è accaduto l’opposto, sicché la distanza tra Nord e Sud si è
accentuata incrementando il primato del Nord. Vale in ogni caso il dato generale
per cui è sempre nell’Italia centro-settentrionale che la quota degli
stranieri condannati si mantiene più elevata. Chi
abita in una grande città, ha assistito, negli ultimi venticinque anni, ad
un’impressionante escalation dei delitti più gravi e anche dei reati di media
gravità, oltreché di quei crimini che alcuni studiosi americani hanno
battezzato col nome di soft crimes, vale a dire lo spaccio di droga, la
prostituzione, gli atti di vandalismo, le molestie agli anziani, le oscenità
nei confronti delle donne, le gazzarre, gli schiamazzi, l’accumulo di rifiuti,
l’occupazione indebita e spesso perturbante di edifici pubblici abbandonati.
Specialmente le violazioni più visibili e più eclatanti come la prostituzione,
praticata ad un livello così esasperato da suscitare forte disagio sociale,
hanno indotto un senso di malcontento nei cittadini che spesso ha originato
l’acuirsi di tensioni di cui si è fatto interprete lo stesso Ministro
dell’interno Giorgio Napolitano, nelle sue relazioni al Parlamento, sia nel
1996 che nel 1997. Sono
stati gruppi di varia estrazione politica, provenienti da tutti i ceti sociali,
a difendere la vivibilità urbana e a cercare di ristabilire l’ordine sociale
messo in pericolo da devianze di vario tipo. Alcuni di questi gruppi hanno
finito per dirigere il loro risentimento contro gli immigrati, considerati la
fonte principale o esclusiva di tutti i problemi urbani, dell’aumento della
criminalità e del degrado di alcuni quartieri in rapporto ad un passato che
viene spesso mitizzato nel ricordo, rispetto al quale il presente
‘multietnico’ si traduce in una insopportabile alterazione. Il fatto poi che
questi comitati siano sorti e abbiano operato quasi esclusivamente nelle città
dell’Italia centro settentrionale è dovuto, a nostro parere, ad una
esasperazione originata dall’evidenza che in questa parte d’Italia
l’aumento del numero dei reati commessi dagli stranieri è stato assai più
forte, e ha comunque trovato maggior risalto nel tessuto socio-culturale in cui
si è sviluppato. Infatti l’ordine sociale è quasi sempre connesso a sistemi
di organizzazione del lavoro e di industrializzazione impostati su rigidi
modelli di organizzazione sociale che hanno la loro riuscita nel fatto di
risultare impenetrabili da elementi perturbatori esterni, quali potrebbero
essere, per esempio, quelli derivanti dall’infiltrazione di modelli culturali
allotri, modi di vita alternativi che rompono il congegno socio-produttivo su
cui si regge quella determinata cultura del lavoro in quella determinata società. Consideriamo
le undici maggiori città italiane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna,
Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Catania): nel 1988 le città
centrosettentrionali raggiungevano una percentuale di stranieri, tra i
condannati per furto, cinque volte maggiore rispetto a quelle meridionali, ma
negli otto anni successivi il divario si è accentuato perché questa
percentuale è triplicata nelle città del Nord. Analogo
discorso può essere fatto per la produzione e il commercio di stupefacenti, e
poiché l’annotazione ci riguarda da vicino, vale la pena sottolineare che a
Firenze la percentuale di stranieri sul totale dei condannati per produzione e
commercio di stupefacenti ha subìto una straordinaria impennata; se poi si
considerano le rapine e ci riferiamo a Napoli, una città divenuta emblematica
in Italia in questo campo, si rimane allibiti nel constatare come nella prima
metà degli anni ‘90 la percentuale di stranieri condannati fosse molto più
elevata nel capoluogo toscano che in quello campano. Tutto ciò sfata alcuni
luoghi comuni che finiscono per apparire semplici pregiudizi o enfatizzazioni,
mentre la realtà offre un quadro ben più sfaccettato e di complessa analisi. Un
dato confortante riguarda le donne e la psicologia femminile: risulta che le
donne violano le norme penali con molta minore frequenza degli uomini; non solo,
ma le differenze per tali violazioni risultano tanto maggiori quanto più grave
è il reato. (<5">5) Un altro dato interessante mette in correlazione
età e violazione delle norme penali. Come dice Barbagli: Le
probabilità che una persona commetta un reato crescono molto rapidamente
durante la preadolescenza e l’adolescenza, raggiungendo il valore più elevato
un po’ prima o un po’ dopo la maggiore età, e scendono bruscamente dopo di
allora... I furti e le rapine sono compiuti da persone molto giovani, hanno in
media tre o quattro anni di più i condannati per produzione e vendita di
stupefacenti e per omicidio. (<6">6) Questi
sono dati di carattere generale che riguardano non solo l’Italia, ma tutti i
paesi del mondo, che si dovrebbero applicare anche per gli immigrati, a maggior
ragione se teniamo presente che questi ultimi hanno in genere un’età medio
bassa e una quota più alta di uomini di quella autoctona. Si potrebbe pertanto
pensare che la percentuale di donne sul totale dei condannati sia più bassa fra
gli stranieri che fra gli italiani. Ciò è vero per alcuni reati, come il
commercio di stupefacenti, la ricettazione, il contrabbando; ma per altri, come
il furto, la rapina, l’estorsione, risulta vero l’opposto. Ancor più
sorprendente è vedere come la colpevolezza delle donne vari notevolmente a
seconda dei gruppi etnici di riferimento: le donne magrebine sono perle di virtù,
le cilene e le peruviane incorrono frequentemente in rapina e spaccio, ma si
astengono perlopiù da furto e ricettazione (occorre tuttavia tener presente che
Cile e Perù esportano quasi esclusivamente donne). Non sorprende che gli ex
iugoslavi, generalmente nomadi, abbiano un’alta quota di donne fra i
condannati per furti e rapine. Quanto
all’età, sempre partendo dal 1988, si nota la punta massima delle rapine fra
gli stranieri adulti, dello spaccio fra i giovani maggiorenni, del furto fra i
minori, fino ad arrivare ad oggi, quando si constata che fra i minori condannati
per furto gli stranieri sono quasi la metà, e di questa il 90% proviene dalla
ex Iugoslavia (nomadi): il 30% sono ragazzi, il 70% ragazze. Secondo
l’opinione di alcuni magistrati e studiosi italiani, sarebbe in atto un
processo di ‘sostituzione’ degli stranieri agli autoctoni in alcune attività
illecite: (<7">7) ciò significa che questi ultimi, considerando tali
attività meno remunerative di un tempo, hanno generosamente ceduto il campo ai
nuovi arrivati. Una tale analisi della situazione risponde a criteri ripresi
dall’analisi del mercato del lavoro, ed equivale a considerare il delinquente
alla stregua del ‘fornitore di un reato’, il che suscita perplessità,
specie in riferimento a delitti come l’omicidio. È
necessario quindi, per addentrarci in questa indagine, distinguere fra i reati
di tipo ‘espressivo’ (dettati cioè da impulsi passionali, come l’omicidio
o la violenza sessuale), e quelli ‘strumentali’ (finalizzati ad un interesse
economico. come il furto o la rapina). Solo per una parte di questi ultimi si
possono usare schemi tratti dal mercato del lavoro, accettando appunto il
criterio che un sempre crescente numero di italiani della classe disagiata abbia
smesso di compierli e sia stato in ciò sostituito dagli stranieri. Vi sono però
reati come il furto o la rapina in cui è aumentata sia la percentuale degli
stranieri sui condannati, sia il numero degli italiani condannati: occorre
pertanto ritenere che non vi sia stata una sostituzione, ma semplicemente
l’accostamento di un gruppo all’altro in un campo che, com’è ovvio, offre
illimitate occasioni delinquenziali. Per quanto concerne i commerci illegali,
invece, l’ipotesi della sostituzione appare più mirata. Al centro di tali
mercati vi è infatti il ricettatore, che trae profitto appunto dalla posizione
di intermediario che occupa tra ladro e acquirente. Se la ricettazione diventa
meno redditizia è plausibile che molti italiani l’abbandonino e gli stranieri
li sostituiscano. I dati a disposizione, però, ci dicono che la percentuale di
stranieri sul totale è aumentata, ma anche il numero assoluto di italiani
condannati per questo reato è cresciuto ininterrottamente: sembrerebbe dunque
che anche in questo campo, più che di sostituzione, si debba parlare di
‘comunione’. (<8">8) I
dati forniti da Barbagli circa il numero delle persone indagate per produzione,
traffico e spaccio di droga dal ‘91 al ‘97 evidenziano che nei gradini più
bassi di tale traffico, cioè fra gli spacciatori di strada, è effettivamente
avvenuta una sostituzione degli spacciatori italiani a vantaggio di quelli
stranieri, ma secondo dati aggiornati al 1997, gli stranieri risultano molto
aumentati anche negli strati medio alti del mercato della droga (produttori e
trafficanti), il che non avalla l’ipotesi di una sostituzione degli autoctoni
per diminuzione di interesse remunerativo. Il mercato della droga resta comunque
difficilmente interpretabile in quanto la domanda per i vari tipi di
stupefacenti ha subìto notevoli trasformazioni, sia nel corso degli anni ‘80
che nel corso degli anni ‘90, e di conseguenza è variato anche il predominio
in questo campo dei vari gruppi, italiani o stranieri, che producono (o
monopolizzano) l’importazione dei vari tipi di droga richiesta dal mercato in
un determinato momento. L’ipotesi
della sostituzione coglie invece nel segno per quanto attiene il mercato della
prostituzione. Anche qui ci imbattiamo in livelli diversi di remunerazione,
legati al luogo e al modo in cui la prostituta e il cliente si incontrano, e che
determinano anche la differenza di prezzo. Sommariamente si può parlare di un
livello basso per le prostitute che battono il marciapiede, di uno più alto per
quelle che entrano in contatto con i clienti attraverso il telefono e per quelle
(estetiste, massaggiatrici, spogliarelliste, entraineuses) che nascondono la
loro vera attività dietro altre professioni. Nel corso degli anni ‘70-’80,
le prostitute italiane hanno abbandonato le strade, cioè il gradino più basso,
per salire a livelli medio-alti e sono state sostituite dalle straniere,
succedutesi dall’88 ad oggi in tre diverse ondate migratorie: la prima, dopo
la caduta del muro di Berlino, dai paesi ex comunisti, la seconda dal Sud
America, la terza dall’Albania e dalla Nigeria. (<9">9) A questo
proposito occorre osservare che nello sfruttamento della prostituzione sono
coinvolti sia uomini che donne, ma diversamente dalla gestione praticata dai
nigeriani, ove lo sfruttamento avviene, per così dire, ‘a ciclo chiuso’,
nelle forme ‘classiche’ del sequestro e della costrizione al marciapiede,
gli albanesi hanno impiantato un solido business ‘a ciclo continuo’, che
investe i proventi derivanti dalla prostituzione nel più redditizio traffico di
droga. Le
gangs albanesi sono così efferate che le cronache non mancano di riferirci
quasi giornalmente episodi di torture e assassini di ragazze poi gettate lungo
le strade o in qualche fiume. La loro aggressività è tale che da un’indagine
recentissima (<10">10) si apprende come questi stiano subentrando
d’impeto quasi ovunque al racket nigeriano. Sul marciapiede non vengono
utilizzate solo maggiorenni (in ogni caso raramente consenzienti), ma anche
giovanissime, rapite alle famiglie d’origine o addirittura comprate da esse,
come si apprende dalla lettura di qualsiasi quotidiano. A differenza poi
dell’organizzazione criminale ‘tradizionale’, cioè verticistica, queste
gangs criminali sono tanto più pericolose in quanto possono agire
autarchicamente ed autoritariamente, secondo l’impulso del momento, e questo
si traduce in una sorta di anarchia dell’omicidio, dello stupro, della tortura
e via dicendo. (<11">11) Si delinea in questo caso una nuova forma di
riduzione in schiavitù, difficilissima da provare, che la società civile
tollera, salvo insorgere e sdegnarsi quando schiamazzi e oscenità colpiscono
direttamente i singoli cittadini e le loro famiglie. L’opinione
di Quassoli è che la oramai ben nota efferatezza di queste gangs scaturisce dal
contatto tra una società rurale, qual è quella albanese, con una società dal
capitalismo avanzato, quale la nostra: l’impatto è così traumatico da
mandare in crisi i valori tradizionali, mentre l’aprirsi della possibilità di
acquisire grandi somme di danaro e quindi di potere (binomio standard nella
nostra società), ha trasformato l’aspirazione ad una vita dignitosa da parte
degli immigrati in brutale cupidigia e ha condotto ad evidente degenerazione un
consolidato sistema di convivenza civile. Risulta
quindi che gli stranieri occupati in attività illegali non sono solo ai gradini
più bassi, ma va anche detto, per disegnare un quadro realistico della
criminalità, in specie di quella organizzata, che finora gli stranieri non sono
entrati nei principali settori da essa controllati: appalti pubblici, frodi
comunitarie, illegalità ambientale, riciclaggio, traffico di auto rubate e
usura. Ciò è probabilmente avvenuto perché in questo campo occorre una tale
conoscenza dell’intreccio tra burocrazia e legislazione, e agganci e
connivenze tali da risultare un’impresa impossibile per chiunque non conosca
dal di dentro il carattere e le peculiarità italiche. Inoltre l’ambiente in
cui occorre muoversi per svolgere una simile attività delinquenziale è tale
che l’evidenza dell’estraneità predispone alla diffidenza e quindi
pregiudica la riuscita del crimine. Il
campo delle estorsioni è monopolio quasi esclusivo dei cinesi. Il Ministro
dell’interno Napolitano ha di recente denunciato la presenza a Roma di nuovi
poli di criminalità di questo tipo, originati dal massiccio afflusso di
extracomunitari, particolarmente cinesi, che operano a livello
d’imprenditorialità artigianale. (<12">12) È rilevante anche la
presenza di stranieri nel traffico clandestino di immigrati: essi forniscono
passaporti falsi, mezzi di trasporto, alloggio e appoggio nei paesi di
destinazione; talvolta fanno anche parte di organizzazioni criminali dotate di
notevoli mezzi e gestiscono il traffico delle vittime più vulnerabili, le donne
e i bambini: le prime sono destinate alla prostituzione, i secondi sono
acquistati, affittati dai ‘produttori’, ossia dai genitori, secondo prezzi
che variano in base alla loro capacità di fornire reddito. È questo forse
l’aspetto più drammatico e disgustoso di una devianza che, a qualsiasi
latitudine, in scia al decadimento morale che interessa la nostra società,
misconosce i più elementari e tradizionali valori, tesa com’è a rincorrere
il profitto e a perseguirlo con ogni mezzo. Da quanto detto risulta destituita
di ogni fondamento l’ipotesi che l’aumento di criminalità che ha
interessato il nostro paese sia da attribuire solo ed esclusivamente
all’incremento dell’immigrazione perché, come si è visto, questa crescita
ha avuto luogo nella prima metà degli anni ‘70, appena all’inizio del
verificarsi dei processi migratori. È vero invece un altro fatto, e cioè che
nell’ultimo decennio risulta cresciuta la percentuale di stranieri sul totale
dei condannati; vale la pena osservare che vittime di questi reati sono spesso
gli stessi immigrati: bambini utilizzati nelle attività illecite, donne e
uomini circuiti, violentati o uccisi da concittadini e anche da italiani. Si
pensi a questo proposito alle gravi lesioni inferte anche a Firenze ad alcuni
extracomunitari, o al recente traffico di attestati di lavoro falsi, in
occasione della regolarizzazione appena conclusasi. Nel
nostro paese gli immigrati sono ancora al più basso livello nella gerarchia dei
reati: i crimini più raffinati risultano in Italia appannaggio dei ceti più
alti (politici, imprenditori, dirigenti d’azienda, farmacisti, avvocati e
medici). Gli immigrati occupano posizioni medio basse in termini di gestione e
di remunerazione del crimine. È consolante inoltre notare come tra gli
immigrati extracomunitari presenti in Italia non tutte le nazionalità risultino
coinvolte alla stessa maniera nella criminalità, che interessa marginalmente i
filippini, gli indiani, i pakistani, gli egiziani, i nigeriani (fra i quali si
registrano reati connessi alla prostituzione, che può comunque inquadrarsi come
una sorta di devianza, più che come un crimine), gli ivoriani, gli etiopi, i
senegalesi, i somali, gli argentini, i brasiliani. I
furti e le rapine coinvolgono soprattutto ex iugoslavi, marocchini, algerini,
tunisini; lo spaccio di eroina è in mano ai marocchini e ai tunisini; quello
della marijuana agli albanesi; quello della cocaina ai sudamericani. Nello
sfruttamento della prostituzione, come si è visto, primeggiano gli albanesi e i
nigeriani. Per questi reati la crescita della quota di stranieri fra i
condannati è presente in tutto il paese, seppure non risulti ovunque
altrettanto veloce; questi valori sono oggi eccezionalmente elevati nelle grandi
città del Centro-Nord.
Immigrazione regolare e immigrazione irregolare
La
prima sommaria suddivisione nell’ambito della popolazione straniera che vive
in Italia consiste nella regolarità o irregolarità dell’immigrazione, vale a
dire nella titolarità o meno del diritto di risiedere nel territorio nazionale,
subordinato al rilascio di un permesso provvisorio di soggiorno firmato dal
questore della provincia in cui lo straniero dimora. Per precisione si possono
distinguere, nell’ambito degli irregolari, tre gruppi dalle caratteristiche
diverse: coloro che sono entrati nel nostro paese eludendo i controlli alla
frontiera; gli immigrati che, pur essendo entrati legalmente, sono poi rimasti
oltre i limiti consentiti; coloro che usano il visto turistico per svolgere
lavori occasionali, spesso attendendo di partire per altri paesi europei. Va
da sé che non è possibile censire né ogni singolo gruppo, né il numero
globale degli irregolari: si giustifica così la notevole variazione delle stime
da parte dei diversi istituti di ricerca, che vanno dalle trecentomila unità a
quasi due milioni. Se poi si deve prestare orecchio alle ipotesi, occorre dire
che i mass media enfatizzano il numero di coloro che Napolitano definisce
clandestini (quelli cioè che sono entrati illegalmente in Italia); gli esperti
a loro volta giudicano più numerosi quelli del secondo gruppo, che cioè si
sono fermati più del consentito. (<13">13) I tre provvedimenti di
regolarizzazione approvati dal Parlamento italiano nel 1987, 1990 e 1996 hanno
invece permesso di dedurre precise informazioni sul ‘travaso’ avvenuto in
queste occasioni dal numero degli irregolari a quello dei regolari. Quello
del 1990, una vera e propria sanatoria, considerava sufficiente per la
regolarizzazione la semplice presenza in Italia, indipendentemente dal lavoro:
data quindi l’ampiezza del provvedimento, in quell’occasione un gran numero
di stranieri ottenne il permesso di soggiorno, cosicché grazie anche alle tappe
successive, si sa che circa seicentomila persone sono passate dalla condizione
di irregolari a quella di regolari. La Caritas e l’Istat concordano comunque
nell’affermare che il numero aggiornato degli irregolari è di uno ogni due
extracomunitari con permesso di soggiorno, precisando che nelle regioni
meridionali la presenza di irregolari è sempre stata ed è ancora più alta di
quella delle regioni settentrionali. (<14">14) L’1/9/97
il Ministro dell’interno annunciava in un rapporto al Senato che circa 1’83%
dei detenuti extracomunitari risultava senza permesso di soggiorno. Era
importante però la sua dichiarazione che "gran parte della devianza
straniera si annida nella componente irregolare degli immigrati". Pur
essendo questo un dato impugnabile, era comunque la prima volta che un ministro
della Repubblica attribuiva agli irregolari gran parte dei reati commessi in
Italia dagli stranieri. Marzio Barbagli, analizzando i dati sugli
extracomunitari denunciati per tutti i crimini, rileva che una grandissima parte
dei reati in questione è sì commessa dagli irregolari, ma ciò è vero più
per i reati prevalentemente strumentali che per quelli di tipo espressivo.
(<15">15) C’è poi la variabile del sesso e quella dell’età: la
quota delle persone prive di permesso di soggiorno è maggiore per le donne ed
altissima fra minorenni ed ultrasessantenni, ma è molto più bassa per le età
intermedie. A
leggere i giornali, a seguire i dibattiti televisivi o le interviste di piazza,
parrebbe che a delinquere in Italia fossero solo gli stranieri e fra questi gli
irregolari, ovviamente circondati nel giudizio della gente da un alone di
illegalità e di mancanza di controllo che li rende fatalmente predisposti al
crimine. In realtà, stando alle tabelle del Barbagli, per i tre delitti
principali presi in esame (furto, stupefacenti, lesioni) l’incremento del
numero dei denunciati riguarda non solo gli extracomunitari irregolari, ma anche
quelli regolari; (<16">16) e prendendo in esame un arco di tempo che
va dal ‘90 al ‘97, la percentuale dei due gruppi sul totale dei denunciati
è rimasta sostanzialmente invariata. Se poi è vero che, dal ‘90 al ‘97 si
registrano delle difformità nel rapporto fra le due componenti, bisogna però
notare come questo fenomeno sia strettamente legato ai provvedimenti di
regolarizzazione varati dal Governo: nel periodo immediatamente successivo a uno
di questi provvedimenti, cresce il numero dei regolari sul totale dei
denunciati, ma diminuisce poi negli anni successivi. Ciò significa che almeno
una parte di coloro che ottengono il permesso di soggiorno continua a commettere
reati per un po’ di tempo. Un’altra
affermazione spesso usata con intenti strumentali da giornalisti e uomini
politici è che i cosiddetti clandestini costituiscono una componente
delinquenziale molto più numerosa da noi che in altri paesi. Per verificare la
verità di tale affermazione bisognerebbe possedere dati certi sul numero degli
immigrati irregolari presenti nei vari paesi europei, cosa tanto impossibile
quanto lo è per l’Italia. Inoltre negli altri paesi la polizia spesso si
limita a distinguere tra stranieri residenti e non, comprendendo fra questi
ultimi una casistica variegata (turisti, richiedenti asilo, viaggiatori per
lavoro e immigrati illegali). Comunque, statistiche alla mano, si può fare un
tentativo di lettura dei dati da cui si evince che in Svezia, in Svizzera e in
Germania, la percentuale dei non residenti sul totale degli stranieri indiziati
di reato è - per il motivo anzidetto - molto più bassa di quanto non lo sia
quella degli irregolari in Italia. (<17">17) Pur tenendo conto che il
gruppo degli stranieri con regolare permesso di soggiorno è da noi molto minore
che negli altri paesi europei, la differenza che intercorre fra l’Italia e i
paesi stranieri presi in esame colpisce negativamente. Il
nostro Governo ha tentato di combattere l’immigrazione irregolare; tutti i
paesi europei hanno compiuto analoghi sforzi, ma da noi, che siamo un paese
votato per tradizione alla feroce autocritica e a complessi d’inferiorità,
molti si sono chiesti se gli sforzi dell’Italia abbiano avuto minor successo
di quelli degli altri paesi. Si sono formate così due scuole di pensiero circa
i controlli esterni, cioè di frontiera e quelli interni, cioè sulla
permanenza: chi urla al disastro, chi invece inneggia ai progressi compiuti
verso una convergenza con gli altri paesi europei. Ebbene, i dati disponibili,
indicano che l’Italia ha avuto finora un sistema molto meno efficace degli
altri paesi per espellere gli irregolari. Gli esempi concreti per spiegare le
cause delle difficoltà che le nostre questure incontrano sarebbero spassosi se
non fossero così gravidi di conseguenze: uno straniero può assumere
nell’arco di quattro-cinque anni anche quattro-cinque identità diverse che
appalesa in sequenza alle varie questure che lo hanno ‘pizzicato’ per i più
svariati reati. L’individuo in questione colleziona una serie di procedimenti
penali pendenti, spesso in località diverse e agli effetti pratici risulta
quindi irreperibile. (<18">18) Comunque,
anche nel caso in cui venga individuato, l’espulsione si può applicare solo
se egli non ha procedimenti penali pendenti; a questo punto la storia è quella
del serpente che si morde la coda, perché generalmente si caccia uno se ha
violato una norma penale, ma non lo si può cacciare proprio perché ha in corso
un procedimento giudiziario. E, per assurdo, più provvedimenti penali pendenti
sparsi per la penisola egli ha, più diminuiscono le probabilità di espulsione,
in quanto il questore del luogo dove lo straniero è stato bloccato deve
presentare un numero conseguente di domande ad altrettante autorità giudiziarie
competenti interessate. Bisogna
inoltre sottolineare che è quasi impossibile espellere uno straniero se non lo
si identifica con esattezza, e come abbiamo visto l’identificazione, dato il
‘trasformismo’ degli imputati, è pressoché impossibile. A questo proposito
è illuminante l’osservazione di Giancarlo di Cataldo, giudice del Tribunale
di Roma È
praticamente impossibile espellere i magrebini ... È impossibile espellerli
perché non vogliono essere espulsi. La norma che prevede il possesso di un
valido documento è una norma che noi non possiamo pensare di cancellare: nessun
paese si riprende un suo cittadino della cui identità non è certo ... È
rarissimo il caso in cui il detenuto abbia un passaporto o un qualunque visto
consolare, un qualunque documento valido, e, in special modo, voglia tornare nel
suo paese. (<19">19) È
pertanto ovvio che nessuno stato accetta di far entrare nel suo territorio una
persona espulsa da un altro stato se prima non abbia la certezza che si tratti
di un suo cittadino, di cui, quindi, devono essere note le generalità: così
anche nel migliore dei casi, occorre un enorme dispendio di tempo e di energie
per le procedure di controllo. Uno degli avvocati intervistati da Barbagli ha
dichiarato: A
ottenere un’espulsione diventiamo matti anche noi, quando la chiediamo per i
nostri assistiti perché prendono delle condanne pesanti o perché fanno fatica
a stare in galera. Tutte le volte che voglio che un mio assistito venga espulso,
chiaramente su sua richiesta, richiedo al giudice di richiedere all’Ufficio
stranieri della questura di richiedere al consolato se quel soggetto corrisponda
alle generalità che il mio assistito mi ha fornito per ottenere il
lasciapassare all’espulsione. Ma passano mesi prima di averlo.
(<20">20) Bisogna
inoltre tener presente che normalmente, quando l’espulsione non è voluta, i
tempi si allungano. È ovvio che gli immigrati irregolari fermati dalle forze
dell’ordine mettono in atto tutta una serie di escamotages per eludere i
controlli: di fronte a generalità che sono sempre false non resta che rifarsi
alle impronte digitali. Il cartellino dattiloscopico viene inviato
all’Interpol che interpella la polizia del paese di origine dello straniero.
Si riesce ad individuarlo solo se egli ha precedenti penali, perché in molti
stati sono conservate solo le impronte digitali di chi ha infranto la legge; in
altri paesi, invece, le cose vanno meglio perché sono conservati i dati
dattiloscopici anche degli incensurati. Fino
al febbraio 1998, le forze di polizia italiane non potevano espellere uno
straniero irregolare se non con il suo consenso. Dagli studi sulla popolazione
italiana e sugli immigrati in Italia (riferiti al ‘94-’95) Sl possono
dedurre due importanti conclusioni: la prima è che, a parità di sesso e di età,
gli immigrati regolari annoverano un numero di condanne maggiore di quello degli
italiani (questa differenza tocca un picco per gli omicidi e diminuisce per i
furti e le rapine); la seconda è che gli immigrati regolari del Centro-nord
hanno percentuali molto più alte di condanne di quelli del Sud. Molto più
ardua la stima circa gli immigrati irregolari, giacché non sappiamo quanti
siano, ma, dalle informazioni assunte, risulta che proprio per la condizione di
clandestinità cui sono costretti questa sia la categoria di immigrati più
coinvolta in attività illecite. Rispetto
alla popolazione ospitante gli immigrati si trovano in una situazione
socio-economica molto più svantaggiata. Sono più spesso disoccupati o
sottoccupati o mal retribuiti, hanno maggiore difficoltà a reperire
un’abitazione decente, più spesso vivono soli o comunque senza il sostegno di
una solida trama familiare. L’esattezza di un confronto fra autoctoni e
immigrati, quanto a violazione delle norme penali, dovrebbe basarsi sulla parità
di condizione economica e di integrazione familiare: insomma si tratterebbe di
verificare, poste le stesse condizioni di base, se delinquano di più gli
immigrati o gli autoctoni. Come
al solito non esistono dati precisi che permettano di svolgere un’indagine
documentata, ma certo l’immigrazione influisce sia sulla condizione economica
che sull’integrazione familiare, e a loro volta queste incidono sulla
probabilità di delinquere. Concludendo, nell’ultimo decennio, in Italia, il
numero dei reati commessi dagli stranieri, siano essi immigrati regolari o
irregolari, è considerevolmente aumentato, ma i secondi hanno contribuito
all’escalation del crimine molto più dei primi. Così, se gli immigrati
regolari commettono oggi reati più spesso degli autoctoni (almeno in certe
fasce d’età), gli irregolari superano di molto in criminalità sia gli uni
che gli altri. Questo fa pensare che nell’ultimo decennio le motivazioni alla
base dei processi migratori nel nostro paese si siano notevolmente
diversificate: a chi è venuto per cercare lavoro si è aggiunto
l’avventuriero in cerca di occasioni per arricchirsi, con una conseguente e
prevedibile propensione a violare la legge. Ci
sono gruppi che giungono come filamenti staccati di potenti organizzazioni
criminali, altri piccoli e coesi che giungono già con l’intento di svolgere
remunerative attività illecite (come albanesi e nigeriani). È il caso anche
dei nomadi ex iugoslavi, che oltre ad addestrare i propri figli al furto,
acquistano o affittano a tale scopo altri minori dalle famiglie d’origine,
introducendoli in Italia con documenti falsi. Esiste una ragnatela di reti
informali di estrema importanza per l’emigrazione; quelle che conosciamo
ufficialmente sono le positive (immigrazione per motivi di lavoro), ma non
sappiamo quasi nulla delle reti negative che spostano masse di persone con
occulte finalità, eppure esse sono importantissime perché grazie al loro aiuto
entra e si accampa sul nostro territorio il maggior numero di clandestini. A
seguito, poi, dell’inefficienza del sistema di controllo interno del nostro
paese, della Legge Martelli rimasta in vigore fino al febbraio ‘98, e della
mancanza di collaborazione da parte dei paesi d’origine, l’espulsione
dall’Italia degli stranieri senza permesso di soggiorno, come abbiamo già
visto, risulta praticamente impossibile. È accaduto perciò che,
paradossalmente, gli irregolari sono rimasti più impuniti dei regolari poiché
questi ultimi, avendo un valido documento d’identità, sono effettivamente
identificabili e perseguibili; inoltre si è costituito un folto esercito di
persone escluse dal mercato del lavoro lecito che quindi si dedicano a tempo
pieno ad attività illecite.
Le attese dei migranti e l’impatto con la realtà
Uno
dei paradossi della società attuale è che lo sviluppo delle telecomunicazioni
e dei trasporti, insieme alla diffusione planetaria dei modelli di massa,
spingono i giovani dei luoghi più sperduti del pianeta a sognare, a desiderare
e tentare di realizzare quello che appare alla portata di tutti nei modelli
delle società dominanti. Questo
è tanto più vero per i giovani dei paesi limitrofi all’Europa: i magrebini,
i mediorientali, i balcanici e quelli dell’Est. I giovani di queste aree
possono vedere la televisione italiana e di altri paesi europei grazie alla
straordinaria diffusione delle antenne paraboliche; incontrano spesso turisti
italiani, talvolta parlano con patrioti che risiedono o hanno risieduto in altri
paesi: captano così messaggi sufficienti a costruire miti, aspirazioni (o
sarebbe meglio dire illusioni) che appaiono loro a portata di mano nelle grandi
città italiane; italiane in primo luogo perché fra i cinquanta circa giovani
immigrati albanesi e marocchini intervistati, si nota che la motivazione
prevalente della loro scelta di trasferirsi in Italia risiede nell’estrema
facilità di penetrazione del nostro Paese e nel carattere conciliante e
cameratesco del nostro popolo. Nel
‘villaggio globale’ i modelli di comportamento e gli status symbol della
società capitalistica avanzata non raggiungono solo la fascia limitrofa, ma
penetrano capillarmente in ogni angolo del pianeta. Questo fa sì che la
disposizione d’animo iniziale di chi emigra da un paese economicamente
sottosviluppato sia mutata rispetto a quella del passato: fino alla fine degli
anni ‘70, valeva ancora come modello di immigrazione riuscita quello di chi
aveva trovato un lavoro nel paese ospitante e che viveva dignitosamente di
questo; oggi, molti dei giovani che partono dal loro paese sono preventivamente
imbevuti dei modelli devianti che circolano anche nelle periferie delle nostre
città grazie ai messaggi cinematografici, televisivi, e persino agli spots
pubblicitari. L’immigrato
tradizionale, quindi, che si guadagna la vita col proprio lavoro, effettivamente
sfruttato e sottopagato come avviene abitualmente in una società come la
nostra, appare un povero diavolo che non arriva a granché ed è già tanto se
sopravvive e riesce a farsi una casetta modesta per sé e per la sua famiglia.
Ma non è certo questo il miraggio cui aspirano i giovani albanesi o i giovani
tunisini emigranti, questa prospettiva non fa gola a chi guarda gli spots
pubblicitari o i film tv: i ‘riusciti’ sono quelli che guadagnano molto, ma
non si può guadagnare molto e fare la vita che propongono gli ingannevoli
messaggi televisivi senza passare attraverso traffici illegali, e così il
numero di giovani che emigrano con l’intenzione di attuare un comportamento
deviante è oggi più numeroso che in passato, di pari passo al degrado della
loro società d’origine, aggravatosi attraverso appunto la penetrazione di
modelli estranei alla loro tradizione culturale (si pensi alla diffusione
recente del consumo di droga in Marocco e in Albania). Spesso
coloro che emigrano rappresentano frange non integrate di popolazione, prive di
un radicamento nel tessuto sociale, messe ai margini da quella stessa società e
che pertanto, non avendo nulla da perdere, cercano sbocchi altrove. Altri
giovani invece si spostano dai loro paesi con le stesse motivazioni di qualsiasi
giovane europeo, per gusto di avventura e anche per trovare onestamente una
sistemazione impossibile a casa loro. L’impatto con una realtà che impedisce
la realizzazione di queste aspirazioni può avere conseguenze molto gravi e
aprire la strada al rischio di cadere nelle trappole che conducono alla
devianza. La condizione di inferiorità nella quale piombano gli immigrati a
dispetto delle loro aspettative li instrada cioè verso modelli devianti. Questa
analisi trova conferma nelle numerose interviste effettuate a stranieri di varie
etnie, fra le quali appare particolarmente indicativa quella di un giovane
marocchino ex detenuto di Sollicciano per contrabbando e che attualmente vive di
espedienti. Quando
ero in prigione riuscivo a mandare qualche soldo giù alla famiglia, ma da
quando sono fuori non ci riesco. Sì, non avrei mai potuto immaginare una cosa
del genere. ma in Italia, fuori, è l’inferno. Passi da uno schifoso lavoro ad
un altro, per essere sfruttato e malpagato e per arrivare a non poter pagare né
l’affitto né il resto delle spese indispensabili a vivere decentemente. Se ti
lasci spingere a cercare di guadagnare un po’ di più, dopo poco finisci in
galera e per colmo, solo in prigione ho potuto fare qualche lavoretto che mi
facesse guadagnare abbastanza da mandare al Paese. (<21">21) Ancora
più interessante la testimonianza di un ventiquattrenne di famiglia povera
originario di Tirana, arrivato in Italia nel 1991, fra i primi rifugiati
albanesi: Sono
venuto via come tanti altri, era la prima volta che ci si sentiva liberi di
andare all’estero e l’Italia è sempre stato il nostro sogno. Non sapevamo
molto attraverso la televisione, ma ci sembrava bellissima, un paese ricco dove
i giovani si divertono, si vive bene, non manca niente. Soprattutto speravamo di
possedere dei veri jeans. Arrivato qui mi sono accorto che ci sono un sacco di
problemi e che anche qui ci sono dei poveri che vivono male, ma gli stranieri
vivono peggio e non si fa niente per loro. Egli
ora lava i piatti in un ristorante per dieci-dodici ore al giorno sottopagato e
senza assicurazione. Prosegue la sua testimonianza I
miei amici sono solo albanesi perché gli italiani schifano la nostra amicizia e
parlano male di noi. Avrei bisogno di guadagnare di più per una vita dignitosa,
ma non sono disposto a fare il domestico perché noi siamo troppo orgogliosi. La
polizia prende sempre noi, ma gli italiani fanno dei delitti più gravi di
quelli commessi da noi, eppure noi siamo considerati sempre come i peggiori
delinquenti. Ancora
più esplicito è un giovane russo fuggito nel 1990 dalle difficoltà economiche
di quel paese e che ha lasciato a Mosca una sorella, la madre e il padre: Quando
arrivi qui ti accorgi che con un lavoro in nero sei quasi sempre trattato come
uno schiavo e guadagni una miseria; con un lavoro regolare non va meglio e
spesso ci si chiede a che vale affannarsi per ottenere una regolarizzazione, a
parte la possibilità di andare e tornare quando si vuole. Inoltre basta niente
per trovarsi nei guai; anche se non si fa niente si può passare da criminali.
Allora se tanta gente si lancia in attività illegali è perché questo oggi è
il solo modo di riuscire a fare soldi; pochi ce la fanno ma non c’è altra
strada. È finita l’epoca degli ‘zii d’America’ e il solo modo per fare
i soldi è quello illegale; del resto questo è il metodo che nel mondo usano
tutte le grandi personalità e gli uomini di potere. Vale almeno la pena di
tentare; non ci sono altre alternative; oggi il destino dell’immigrazione è
la miseria e la criminalizzazione; quello che vedo e che sento mi fa pensare al
ritorno al colonialismo; allora tanto vale diventare banditi come una volta.
(<23">23) Per
la cronaca, questo immigrato ha avuto la fortuna, data la sua cultura, di
sposare una fiorentina benestante con cui gestisce un fiorente commercio di
antichità. Bisogna inoltre aggiungere che quest’uomo si è perfettamente e
velocemente integrato nella mentalità italiana perché mostra agli ospiti con
orgoglio un lato del muro di cinta dello splendido parco che circonda la sua
casa in campagna, muro totalmente fuori legge, costruito con le sue stesse mani
nel corso di una notte, dopo aver chiesto e richiesto autorizzazioni mai giunte.
"Così non ci si pensa più": come egli dice ridendo soddisfatto. A
parte l’atteggiamento ‘sbarazzino’ dell’uomo, il suo discorso sembra
rivelare che la devianza può essere contemporaneamente un’alternativa o una
rivolta all’umiliazione dell’immigrato. A
partire dagli anni ‘80, l’immagine dell’Italia diffusa tra gli immigrati
è cambiata: a quella di un paese non ostile, talvolta accogliente, generoso e
senza troppi controlli, si è sostituita l’immagine di un paese poco
accogliente, con molti controlli e un’ostilità crescente. Vale la pena di
raccontare un fatto accaduto a Milano e riferito dall’Ispettore L.D. che
spesso si reca in questa città per motivi di lavoro: una ventina di immigrati
hanno potuto partecipare a un corso di formazione finanziato dal Fondo sociale
europeo, finalizzato a un diploma regionale di assistenza agli anziani e agli
handicappati. Quasi tutti hanno ottenuto il diploma e fra questi alcuni, a detta
degli insegnanti, sono molto qualificati. Le
cooperative che gestiscono strutture parasanitarie o di ricovero dei vecchi e
degli handicappati, che avevano promesso di occupare i neodiplomati, hanno
rifiutato di farlo dicendo che erano ‘troppo neri’ e che avrebbero
imbarazzato la loro clientela. Dei venti diplomati hanno trovato occupazione due
neri come uomini delle pulizie, una polacca bionda e un marocchino per altri
impieghi. Così questi diplomati, che hanno fatto uno sforzo eccezionale per
pagarsi un corso di ben seicentonovanta ore, illusi dal miraggio di un impiego
statale, ora si ritrovano per la strada con l’unica previsione di un lavoro in
nero o della disoccupazione. (<24">24) L’idea
che sembra oggi molto diffusa fra gli stranieri presenti in Italia è che
l’ingresso e la conservazione della regolarità sono diventati più difficili
e che si tratta soprattutto "...di una questione di soldi e di
conoscenze...". (<25">25) È diffusa inoltre l’idea che la
condizione di subordinazione in cui precipitano anche gli immigrati regolari sia
una sorta di ‘neoschiavismo’ che peraltro coinvolge anche gli autoctoni
svantaggiati (come succede per esempio al sud dove si sfrutta il lavoro minorile
o quello delle ragazze nelle fabbriche clandestine). Ai
giovani, specialmente delle periferie europee, l’emigrazione appare come
un’aspirazione legittima in un mondo in cui si sbandiera il rispetto dei
diritti e delle libertà umane, ma l’impatto con la dura realtà
dell’umiliazione e del rifiuto costituisce forse l’aspetto più drammatico
ed evidente del degrado della società planetaria. È un circolo vizioso: il
degrado sempre maggiore delle società d’origine dei migranti, specialmente
dei paesi più vicini alla Comunità Europea, spinge masse di persone a
trasferirsi dalla periferia al centro, contribuendo ad aggravare ancor più il
disagio dei paesi d’arrivo e a creare una sorta di unico territorio che va da
quelle periferie fino al cuore degli agglomerati urbani italiani ed europei.
(<26">26) Solo una minoranza di immigrati finisce per integrarsi nei
ranghi della ‘nuova povertà’ dei paesi dominanti. In
taluni casi occorre osservare come l’adesione profonda verso il credo
religioso ponga il migrante al riparo da fenomeni criminali: infatti
capoverdiani e filippini, non figurano quasi mai nei tabulati della criminalità,
né è facile incontrarli nelle cronache nere, né intervistarli. I canali della
loro immigrazione sono gestiti direttamente dalla Chiesa cattolica che provvede
non solo ad espletare le pratiche di immigrazione, ma anche a trovare loro una
collocazione regolare, generalmente presso famiglie della medio-alta borghesia
come domestici, giardinieri, bambinaie, guardiani o assistenti di persone
anziane e inferme.
Dall’inizio
degli anni ‘90, con l’aumentare del flusso di extracomunitari,
l’atteggiamento degli italiani verso i migranti si è fatto sempre più
ostile. Nel 1988 solo il 34% degli italiani intervistati da Eurobarometro ne
riteneva eccessivo il numero, ma cinque anni dopo la percentuale saliva al 65%
ed era la più alta d’Europa. (<27">27) Sondaggi recenti confermano
questa tendenza: (<28">28) nonostante la cautela doverosa riguardo ai
sondaggi di opinione, che come è noto utilizzano esclusivamente campioni di
popolazione, è sotto gli occhi di tutti che l’immigrazione negli anni ‘90
è diventata una delle preoccupazioni principali, sia per l’opinione pubblica,
sia per i mass media, sia per le forze dell’ordine. Mentre
questo capitolo viene scritto, la ‘pulizia etnica’ in Kossovo incrementa gli
arrivi sulle coste pugliesi. Considerando che questa sia un’emergenza, e come
tale un fenomeno momentaneo, ci si può richiamare alla situazione antecedente
la guerra Nato-Milosevic. L’Italia, con circa il 2% di extracomunitari sulla
popolazione residente, (<29">29) si colloca in coda alla graduatoria
europea dei paesi interessati all’immigrazione. Eppure è innegabile che
1’enfasi ‘pubblica e mediale’ (<30">30) sbandiera una
‘emergenza immigrazione’ da prima pagina, tuttavia i dati non confermano
questa emergenza, dato che l’immigrazione in Italia è almeno in linea con lo
standard europeo. Gli
studi storici, antropologici e sociologici di Beck, Bergdolt, Escobar, Goffman,
hanno messo in evidenza come la paura sia uno dei principali fattori di
stigmatizzazione di gruppi interni o esterni a una data società: per
‘paura’ si intende "il sentimento di una minaccia alla stabilità o
all’esistenza della società di cui si fa parte". (<31">31) Sappiamo
bene come in Europa, per secoli e secoli, ebrei e zingari siano stati additati
come capri espiatori di tensioni e di crisi che non avevano in essi la causa, e
abbiano pagato a caro prezzo il loro isolamento rispetto alla società
ospitante. L’extracomunitario vive una vita generalmente marginale, spesso in
luoghi degradati, raramente svolge un’attività lecita: è insomma uno
sconosciuto e un emarginato di cui si parla poco o niente, e in questo vacuum
possono essere convogliate le paure più varie. È appunto l’ignoranza di ciò
che egli è che lo rende psicologicamente colpevole di qualsiasi comportamento
giudicato dalla società come minaccia in determinati momenti e condizioni. Numerosi
indizi mostrano che la paura nei confronti degli immigrati è un fenomeno
specifico di costruzione simbolica della minaccia, cioè del nemico. Come tale,
essa non potrebbe affermarsi se non si basasse su un sapere di fondo,
all’occorrenza confermato da imprenditori politico-morali, e non fosse
amplificata e diffusa da retoriche pubbliche irradiate dai media. È il
reciproco intreccio tra queste due pratiche che conferisce alla "tautologia
della paura" (<32">32) la sua forza di persuasione, soprattutto
in un’epoca in cui la vita sociale è esposta più di ieri ad un’insicurezza
diffusa dovuta allo smarrimento di chi patisce la sensazione di trovarsi in un
universo ‘aperto’, privo di nicchie o di ripari sociali stabili assoluti, un
mondo in cui è venuto meno il ruolo di mediazione sociale assicurato
tradizionalmente da partiti, associazioni o religioni. Paradossalmente,
benché si nutra di leggende metropolitane e anche di calunnie, la paura esprime
oscuramente un sentire sociale profondo, e quindi una sorta di verità sociale
certamente inquietante. (<33">33) Una piccola analisi di sette
quotidiani nazionali degli anni ‘92-’93 evidenzia che su
ottocentoventiquattro articoli relativi agli immigrati, il 47% di essi riportava
notizia di reati da questi commessi o di provvedimenti di ordine pubblico che li
riguardavano e solo 1’8% riferiva reazioni di razzismo o di xenofobia.
(<34">34) Del
resto, se si presta una certa attenzione ai titoli dei principali quotidiani di
oggi, si noterà che questi, in generale sempre enfatici quando si tratta di
episodi supposti ‘attraenti’ per l’opinione pubblica, diventano ancor più
ridondanti quando riguardano episodi che hanno come attori i migranti. È
interessante anche notare che, in concomitanza con l’acutizzarsi
dell’atteggiamento di insofferenza nei confronti dei migranti, a partire dai
primi anni ‘90 si afferma una svolta semantica nelle informazioni che li
concernono: frequentissimi sono i termini che riguardano l’illegalità e il
degrado per definire fatti e situazioni concernenti l’immigrazione, mentre
sempre più spazio è riservato al cittadino che protesta contro il degrado,
realizzando così l’implicita equazione che egli protesta contro gli
immigrati. (<35">35) In
particolare, il fenomeno dell’immigrazione viene tradotto in modo
diametralmente opposto a seconda dell’orientamento politico delle testate: la
stampa ‘di sinistra` mette in risalto il disagio sociale degli immigrati e se
ne fa portavoce dei diritti esortando alla tolleranza; la stampa ‘di destra’
e quella marcatamente ‘nazionalista’ (ci riferiamo alle frange regionaliste
o ‘leghiste’) evidenzia il malcontento degli autoctoni sottolineandone le
ragioni e i timori. Secondo
la definizione di W.I. Thomas, "... se gli uomini definiscono le situazioni
come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze." (<36">36)
Questo è tanto più vero quanto più delicati socialmente sono gli aspetti
presi in considerazione. Inoltre è ovvio che quando si tratta di ‘colpe’ o
di ‘responsabilità’, sono sempre le vittime eventuali e, in seconda istanza
l’accusatore, ad avere il diritto di definire ciò che è accaduto e mai il
presunto colpevole, anche se il crimine addirittura non è avvenuto affatto, ma
risulta solo supposto. A
questo proposito è illuminante la testimonianza di D.C., cittadino senegalese,
che nel maggio ‘98 si trovava a Milano dove risiedeva prima di ‘fuggire’ a
Firenze. Egli si intratteneva in Piazza del Duomo con due amici brasiliani in
pieno giorno; questi vivevano degli scarsi proventi di un lavoro in nero e tutti
avevano i documenti in regola. Avvicinato da due poliziotti e risultato
‘assolutamente pulito’, il senegalese è stato duramente interpellato da uno
dei pubblici ufficiali circa i suoi rapporti, giudicati apparentemente strani,
con i due brasiliani. All’obiezione che quelle amicizie erano affar suo,
pronunciata mentre il giovane senegalese estraeva una sigaretta dal pacchetto di
contrabbando, è seguito un gesto deciso del poliziotto che gli ha afferrato il
polso contestandogli la legittimità della sigaretta fumata. L’uomo ha per
conseguenza afferrato il polso dell’agente per liberarsi la mano, ma ciò ha
scatenato l’ira del secondo poliziotto che gli è saltato addosso insultandolo
e schiaffeggiandolo, mentre una piccola folla radunatasi intorno, pur ignorando
l’antefatto, tifava per gli ‘agenti’ in divisa. Trascinato in Questura e
poi rilasciato, l’uomo si è allontanato da Milano a scopo prudenziale ma,
tornatovi dopo qualche mese ha scoperto di essere stato denunciato e condannato
per quell’episodio riportandone l’espulsione. Datosi, per così dire, alla
macchia, è oggi uno dei tanti irregolari che si mimetizzano a Firenze, dove ha
rilasciato questa intervista. (<37">37) Le
proteste dei cittadini, alimentano la retorica dei gruppi politici dei quali
essi sono rappresentanti: assistiamo così al]a commedia dell’opposizione che
deve dimostrare che il Governo è insensibile alla voce dei cittadini e del
Governo che deve dimostrare, attraverso adeguati provvedimenti, di saper agire
sollecitamente, di vegliare sul paese. I partiti politici cavalcano questa
situazione e, per esempio, la Lega ha conquistato il ruolo che ha attualmente,
proprio facendosi interprete del ‘grido di dolore’ dei cittadini del Nord in
generale e del laborioso, ordinato e ‘sfruttato’ Nord-est. Sostenuti
soprattutto da essa, sono sorti qua e là nelle principali città
industrializzate anche comitati per così dire ‘di salute pubblica’ che
annoverano rappresentanti delle più svariate classi sociali, ad indicare, come
dice Dal Lago, che le ‘‘definizioni di massa, ovverosia le etichettature,
funzionano a trecentosessanta gradi". (<38">38) I cittadini
hanno paura, sono a disagio, non si sentono protetti, generalizzano; del resto
essi confondono criminalità e devianza, delittuosità e marginalità sociale,
infrazioni gravi e comportamenti al più discutibili e questa confusione
riguarda particolarmente gli immigrati. Una
giovane ‘vigilessa’ di Scandicci diceva che uno dei suoi primi interventi,
appena assunta nell’aprile del ‘99, è avvenuto alla periferia di questa
cittadina su segnalazione di un gruppo di abitanti della zona preoccupati e
infastiditi dalla presenza in loco di un gruppetto di zingari "che
parlavano a voce molto alta e sembravano litigare". Erano all’incirca le
ore sedici di un sabato e alla volante dei vigili accorsa sul posto insieme a
quella dei carabinieri locali, si è presentato lo spettacolo di una roulotte di
nomadi, fra i quali erano diversi bambini, che intendevano accamparsi
ingenuamente sul praticello antistante la recentissima chiesa parrocchiale e
discutevano tra loro animatamente circa l’orientamento della loro abitazione
mobile. È risultato che intendevano fermarsi solo per la notte, ma
l’accoglienza ricevuta li ha indotti a ripartire immediatamente, trasferendo
il disagio che essi comportano in un altro luogo, ad un’altra comunità.
(<39">39) Ciò
che è interessante nel caso dell’emergenza immigrazione, dice A. Dal Lago, è
la sproporzione tra la realtà materiale dei problemi attribuiti
all’immigrazione e l’allarme con cui sono socialmente rappresentati. Non
si deve dimenticare che, secondo gli stessi interessati, cittadini e osservatori
pratici, sono i piccoli comportamenti criminali ad alimentare la paura.
Probabilmente è la saldatura tra opinione locale e opinione nazionale
(rappresentata dai media) a causare la sproporzione perversa tra la realtà
materiale dei fatti e la loro costruzione sociale. (<40">40) È
anche vero che la realtà urbana è interessata da fenomeni di microcriminalità
che investono direttamente i cittadini i quali non possono restare impassibili
dinanzi allo scadere della qualità della vita, degrado che legittimamente
denunciano. Quando la polizia opera non secondo un programma strategico di
controllo e di prevenzione, ma per mettere in atto semplici operazioni di
facciata o di rassicurazione sociale, le posizioni dei cittadini divergono da
quelle della polizia e nasce la tipica protesta contro il disimpegno, la
superficialità delle forze dell’ordine, diffusa specialmente al Nord.
Prendiamo un caso emblematico: il conflitto esploso nel luglio ‘98 a Milano
tra alcuni abitanti della zona di Via Meda e i frequentatori di un bar divenuto
punto di riferimento per i giovani immigrati marocchini che si affollavano
davanti a questo piccolo locale in una concentrazione indubbiamente eccessiva. I
frequentatori del bar finivano ovviamente per sedersi sul marciapiede producendo
schiamazzi, fumando e consumando bevande e prodotti dolciari sporcavano
marciapiedi, selciato e macchine parcheggiate, ostruendo in parte la
circolazione; inoltre alcuni si lasciavano andare ad eccessi alcolici e
sicuramente c’era anche qualcuno che deviava. I quotidiani e la televisione
hanno in quel periodo enfatizzato la protesta dei cittadini che chiedevano alle
autorità di polizia di chiudere il bar; sono stati fatti reportages e dibattiti
sul degrado di certi quartieri della megalopoli e sul diritto sacrosanto della
gente perbene ad abitare in casa sua in santa pace e a poter dormire nel suo
letto. Va
detto che il territorio italiano ha conosciuto, nel secondo dopoguerra, una
formidabile migrazione interna dei cosiddetti ‘terroni’, quelle genti del
meridione che cercavano fortuna nel Nord industrializzato, ma il fenomeno
anzitutto s’inseriva in una realtà economica in fase di espansione, di
costruzione di città e di industrie, capace di recepire meno traumaticamente le
diversità culturali in entrata. Diciamo pure che lo spirito di chi viveva,
nelle grandi città del Nord, l’arrivo delle famiglie di coloni meridionali,
era più ben disposto a ricevere, pervaso da un senso di cooperazione, di
costruzione del progresso materiale, di sviluppo, che tollerava di buon grado le
differenze; e anche gli emigrati cercavano di inserirsi entro un modello di vita
e in una società che per molti versi ammiravano e di cui rispettavano, da
ospiti, le regole. Non vi era poi il sentimento, diffuso oggi in una fase
economica non certo di espansione ma semmai di stagnazione o addirittura
recessiva, di sottrarre agli autoctoni il lavoro, di occupare spazi vitali per i
residenti. Inoltre, l’Italia proveniva da una guerra che molto aveva
distrutto, ma aveva costruito nell’animo delle persone un senso di maggiore
coesione, derivante da una storia vissuta insieme. In quel periodo la polizia
non ha mai considerato l’immigrazione il principale pericolo per l’ordine
pubblico e la sicurezza, anzi essa era vista come indispensabile allo sviluppo
economico della nazione, e le aspirazioni e le ambizioni dei migranti si
adattavano allora perfettamente alla cultura di una società in via di
industrializzazione e di sviluppo. Nella
società postindustriale le migrazioni diventano invece oggetto privilegiato
dell’attività di polizia perché le mutate condizioni economiche fanno sì
che esse siano considerate come una delle principali minacce per le società di
destinazione incapaci ad assorbire gli immigrati con la stessa facilità di
prima. Oggi, in piena globalizzazione, ...la
gestione dell’ordine pubblico non può essere limitata al territorio
nazionale... A ciò si aggiunge il fatto che la costruzione della Unione Europea
implica una nuova restrizione all’immigrazione da paesi terzi, cioè una
protezione della cittadinanza europea. Due sembrano essere le principali
conseguenze ne] nuovo contesto dell’attività di controllo sociale attribuite
alla polizia: da una parte le migrazioni in quanto tali diventano reati, con il
doppio effetto di rendere pericolosi (si pensi all affondamento della nave
albanese nel Canale d’Otranto nella primavera del ‘97) gli stessi tentativi
di emigrare e di alimentare (come ogni proibizionismo) il mercato
dell’emigrazione illegale; dall’altra, la maggioranza dei migranti, in
quanto categoria oggettivamente criminale diventa 1 oggetto privilegiato
dell’azione di polizia. Questo non solo a causa dei reati connessi alla loro
condizione di irregolari o clandestini, ma anche perché inevitabilmente confusi
con i trafficanti e inseriti nei ranghi delle nuove classi criminali.
(<41">41) Bisogna
anche notare che nel mutato ordine politico planetario, dopo la scomparsa del
comunismo, considerato tradizionalmente una minaccia dell’ordine
internazionale, i nuovi oggetti dell’azione di polizia, anzi delle polizie
(perché spesso intervengono tra quelle dei vari paesi accordi di cooperazione),
sono l’immigrazione, le varie mafie, le varie forme di terrorismo. È
significativo infatti che, sempre a partire dal 1990, come si espunge da
un’analisi delle denunce, comportamenti che in precedenza erano classificati
come infrazioni o reati minori, sono ora sentiti come reati più gravi. Ad
esempio: lo spaccio di droghe leggere può essere perseguito come quello delle
droghe pesanti; l’ambulantato abusivo può diventare ricettazione; un piccolo
furto al supermercato può convertirsi in rapina (se il ladro cerca di sfuggire
alla presa di un poliziotto pur non avendo con sé alcuna arma).
(<42">42) In
taluni casi si può assistere addirittura ad un rovesciamento, da parte delle
forze dell’ordine, del modo di definire e gestire un banale caso di razzismo.
Ricordiamo che durante il carnevale del ‘90, a Firenze, in San Lorenzo, dei
giovani locali, mascherati e armati di bastoni, picchiarono un immigrato
senegalese. Fu chiamata la polizia, ma con un certo ritardo e con una certa dose
di indifferenza da parte degli astanti, a detta di un testimone oculare. Un
funzionario di polizia si distinse in tale occasione per aver riportato
l’ordine; l’encomio tributatogli dalla Commissione del Ministero
dell’interno recita: "...in occasione dei disordini provocati dalla
presenza degli extracomunitari". È appena il caso di ricordare che il
senegalese non aveva provocato proprio niente, anzi era lui la vittima
dell’aggressione e si deve anche ricordare, per dovere d’oggettività, che
in quel momento a Firenze i commercianti del centro erano inferociti contro gli
ambulanti abusivi (quasi tutti senegalesi) che facevano loro ‘concorrenza
sleale’ nelle vie del centro, allontanando i preziosi turisti.
(<43">43) In
privato, un’avvocatessa del foro di Firenze che vuole mantenere l’anonimato,
rivela che la polizia trova sempre il modo di incastrare chi vuole e anche
quando non c’è l’estremo di reato lo inventa. Ovviamente non si può
generalizzare, ma occorre rilevare che nelle forze dell’ordine, come in tutti
gli altri settori della vita nazionale, si trovano atteggiamenti, orientamenti,
caratteri estremamente variegati. È certo che anche da noi si configura un
modello di intervento della polizia che assomiglia sempre più a quello visto e
rivisto in innumerevoli polizieschi americani e che si potrebbe definire, con
Palidda, "la democrazia della sicurezza": la polizia fa quello che
l’opinione pubblica richiede e la sua azione diventa più efficace perché
gode della piena collaborazione dei cittadini. A questo punto è interessante
citare un pensiero del sociologo Maneri: La
definizione concreta dell’ordine sociale si configura sempre più come
prodotto di una inedita collaborazione tra polizia, in quanto agenzia pubblica,
i cittadini come soggetti dell’opinione locale e le loro espressioni
politiche. È questa collaborazione l’elemento su cui si fondano le immagini
prevalenti dell’immigrazione come pericolo per l’ordine pubblico: la
circolarità delle interazioni tra senso comune dei cittadini, media, autorità
locali, polizia e magistrati, produce verità indiscutibili che fanno da sfondo
all’attività della polizia. (<44">44) In
tale contesto l’immigrato tenta di integrarsi o, almeno, di sopravvivere. Note
al capitolo 1 (1)
M. Barbagli. Immigrazione e criminalità in Italia, il Mulino, Bologna 1998, p
48. (2)
Indagine Caritas, 1997 (3)
Tabella in appendice. (4)
M. Barbagli, op. cit., p. 52. (5)
Intervista a Maria Rosaria B., Ispettrice della Digos, Questura di Firenze, del
15/2/99. (6)
M. Barbagli, op. cit., p. 61. (7)
Intervista a Guido d’Amelio, Consigliere della 2a sez. penale presso la Corte
d’appello di Firenze, del 27/2/99. (8)
Intervista a Maria Rosaria B., cit., p. 13. (9)
Intervista a C.I., Commissario della Squadra mobile, Questura di Firenze, del
8/2/99. (10)
Cfr. F. Quassoli, Research report on: The interaction between immigrants and
judicial system, MIGRINF Immigrant insertion in the underground economy, deviant
behaviour and the impact on receiving societies TSER-DGXII, CE, contract
SOE2-CT95-3005, 1998 p. 12. (11)
Intervista a G.G., Ispettore della Guardia di finanza. Nucleo operativo di Roma,
del 2/4/99. (12)
M. Barbagli, op. cit., p 72. (13)
Cfr. M. Barbagli, op. cit., p. 107. (14)
Relazione annuale Caritas 1997; relazione annuale Istat 1998. (15)
M. Barbagli, op. cit., p. 108. (16)
M. Barbagli, op. cit., tab. p. 212. (17)
S. Palidda, Devianza e criminalità degli immigrati. Immigrant Deviant Behaviour-MIGRINF
1998. p. 14. (18)
Intervista a L.D., Ispettore della Questura di Firenze, del 4/2/99. (19)
M. Barbagli, op. cit., p. 23, intervista del 1994. (20)
M. Barbagli, op. cit., p. 114. (21)
Intervista a M.N., del 4/5/99. (22)
Intervista a I.M., del 4/5/99. (23)
Intervista ad A.P., del 12/5/99. (24)
Intervista a L.D., cit., p. 23. (25)
Intervista ad A.H., ivoriano, del 24/2/99. (26)
F. Quassoli, op. cit., p. 17. (27)
Dati raccolti da Eurobarometro, Commentati da R. Munz in A. Dal Lago, La
tautologia della paura, ‘Rassegna italiana di sociologia’, n. 1, 1999. (28)
Sondaggio Abacus 1996, ibid. (29)
A. Dal Lago, op. cit., p. 7. (30)
Ibid. (31)
A. Dal Lago. Lo straniero e il nemico, Costa & Nolan, Genova 1997, p. 14. (32)
Cfr. A. Dal Lago, ‘Rassegna italiana di sociologia’, n. 1, 1999, p. 17. (33)
Ibid. (34)
M. Maneri, Stampa quotidiana e senso comune nella costruzione sociale
dell’immigrato, Facoltà di sociologia, Università di Trento, 1995. (35)
M. Maneri, op. cit., p. 16. (36)
P. Mc Hugh, Defining the situation. The organisation meaning in social
interaction, Bobbs-Merrill, Indianapolis 1968, p. 29. (37)
Intervista a D.C., del 19/3/99. (38)
A. Dal Lago, La tautologia della paura, pp. 25-27. (39)
Intervista al vigile urbano S.T. del 8/5/99. (40)
A. Dal Lago, op. cit., pp. 35-36. (41)
S. Palidda. Polizia e immigrati, ‘Rassegna italiana di sociologia’, n. 1,
1999, p. 83. (42)
Ibid. (43)
Ibid., p. 84. (44) M. Maneri, I media nel processo di costruzione sociale della criminalità degli immigrati. Il caso italiano, CE-COST Migrations, Bruxelles 1996, p. 57
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