Europei senza diritti

 

I reietti dell’Est, europei senza diritti

servizio di Alberto D’Argenzio da Bruxelles

 

Il Manifesto, 8 febbraio 2004

 

Il prossimo primo maggio l’Unione europea si allargherà a dieci nuovi paesi, ma non ai loro cittadini. Polacchi, slovacchi, ungheresi e cechi non potranno muoversi alla ricerca di un lavoro senza prima aver chiesto un permesso.

 

L’Italia è l’unica a non essersi ancora pronunciata mentre gli altri governi dell’Unione europea, con l’eccezione dell’Irlanda, hanno lanciato in questi giorni l’operazione porte chiuse per i lavoratori di Polonia, Slovacchia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Estonia, Lettonia e Lituania, cioè per i paesi dell’est che entreranno nella Ue il prossimo primo maggio. E la chiamavano festa dei lavoratori. Un beffardo gioco del calendario va così ad amplificare l’ingiustificabile: la discriminazione dei lavoratori dell’est attuata per paura di una ipotetica valanga di immigrati in grado di disarticolare il mercato del lavoro dei singoli paesi Ue.

Con l’allargamento non ci sarà alcuna valanga, assicura da mesi la Commissione europea e con lei sociologi ed esperti di flussi migratori.

Ma i numeri servono a poco se non li si vuole leggere e così negli ultimissimi giorni Belgio, Finlandia, Svezia, Lussemburgo, Portogallo, Danimarca, Grecia, Olanda (accetterà al massimo 22.000 lavoratori per il primo anno) e Regno Unito hanno notificato a Bruxelles la loro intenzione di bloccare per due anni la libera circolazione dei lavoratori di 8 paesi candidati (quelli di Malta e Cipro sono troppo pochi per destare preoccupazioni). Austria e Germania, meta dell’80% dei cittadini dell’est europa e promotori dell’iniziativa, affermano di voler chiudere le frontiere per 7 anni mentre Parigi e Madrid hanno già deciso di sigillarle per due anni ma non l’hanno ancora detto a Bruxelles.

In controtendenza la sola Irlanda, bisognosa com’è di mano d’opera, mentre l’Italia manca all’appello semplicemente perché il governo non ha ancora deciso il da farsi. Il termine ultimo per scegliere scade il primo maggio ma numerose indiscrezioni (e le inclinazioni naturali del governo) danno anche Roma propensa alla discriminazione. Com’è logico il trattamento non va giù ai paesi candidati. La Slovacchia reagisce e denuncia per bocca di Jan Figel futuro Commissariato europeo; "l’assenza di solidarietà" dell’Unione, la Polonia esprime la sua insoddisfazione tramite il ministro degli esteri Wlodzimierz Cimoszewicz mentre l’Ungheria ci ragiona su con il rischio di cadere in tentazione. Mentre l’Europa chiude le frontiere Budapest teme infatti di divenire pro tempore la terra promessa di slovacchi e polacchi ed allora sta meditando, assicura Péter Balàzs futuro Commissario, di attuare analoghe misure di restrizione.

I paesi Ue dicono di attuare secondo il Trattato di adesione firmato nell’aprile scorso ad Atene. Una clausola del testo prevede infatti la possibilità per ogni governo dell’Unione di decidere unilateralmente un periodo di sospensione della normativa sulla libera circolazione dei lavoratori. In principio si può notificare a Bruxelles un blocco di due anni, prorogabile fino a 5. Finito il lustro si potranno chiedere altri due anni ma solo se si riesce a dimostrare che il flusso di immigrati crea una turbativa reale al mercato del lavoro.

Durante questo periodo transitorio i lavoratori dell’est rimarranno extracomunitari nelle pratiche mentre sono comunitari per passaporto, strana figura di ibrido legale che si presta ottimamente a perpetuare lo sfruttamento del migrante che viene a lavorare. Ma non solo. I paesi Ue sono infatti liberi di chiudere le frontiere a scomparti, cioè per esempio bloccare i "pericolosi" lavoratori polacchi ma non quelli sloveni. Ossia discriminazione su discriminazione. E dire che alla chiusura delle negoziazioni sull’allargamento, a Copenhagen nel dicembre 2002, Regno unito, Irlanda, Danimarca, Svezia e Paesi Bassi avevano promesso di voler aprire da subito il proprio mercato del lavoro. "Saremo ingenui - ha detto Goran Person, premier socialdemocratico svedese giustificando il voltafaccia la settimana scorsa - a non vedere il rischio di essere il solo paese ad accogliere la gente dell’Europa dell’est che viene a lavorare per due soldi solo per avere accesso ai nostri vantaggi sociali". "Esiste un rischio potenziale proveniente da questi paesi candidati", ha invece spiegato Tony Blair mercoledì nella camera dei comuni.

Bugie. Studi, simulazioni e precedenti, e pure i tecnici della Commissione europea, assicurano che non ci sarà alcuna invasione di mano d’opera. Non è successo così quando entrarono Spagna, Portogallo e Grecia (anzi si verificò un interessante fenomeno inverso, molti vecchi emigranti tornarono nei paesi di origine) e non succederà nemmeno adesso. Sommando tutti i cittadini dei candidati attualmente sparpagliati sul suolo dei 15 si arriva a contare un milione di persone di cui solamente il 35% lavora, gli altri sono studenti, pensionati o semplicemente non lavorano. La Commissione si aspetta per l’anno prossimo una migrazione di 250.000 persone proveniente da questi 8 paesi, un flusso che poi dovrebbe rapidamente stabilizzarsi sulle 100.000 unità all’anno di cui solamente una parte in cerca di lavoro.

"Di fronte al timore infondato di una valanga, la Ue dovrebbe tener conto dei benefici che porterà l’allargamento", commenta amaramente un portavoce comunitario."Molti hanno paura di una migrazione massiccia dall’est all’ovest - Nannette Ripmeester, direttrice dell’ufficio di Esperti nella mobilità lavorativa con base a Rotterdam - ciò potrebbe succedere all’inizio, ma è altamente probabile che ci sia anche un processo inverso perché moltissime imprese e multinazionali vedono l’occasione per esplorare nuovi mercati, con un costo del lavoro inferiore". "Le reazioni allarmate sono segnali di inquietudine - osserva Philippe Pochet, direttore dell’Osservatorio sociale europeo contattato da Liberation - che illustrano la totale impreparazione di questo allargamento e le contraddizioni dei 15 che non possono volersi proteggere dall’immigrazione e contemporaneamente tagliare le spese sociali".

 

 

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