La
Legge Bossi Fini e i diritti dei migranti: un primo bilancio
Relazione
curata dall’avv. Marco Paggi nell’ambito del convegno promosso dal Comune di
Venezia sul diritto di voto amministrativo per i cittadini non comunitari
Venezia,
27
aprile 2004
Si
intende fare di seguito un sintetico rendiconto relativamente alla legge
Bossi-Fini (L. 30 luglio 2002, n. 189) e alle novità dalla stessa introdotte,
verosimilmente per rendere ancora più evidente come sia importante il
riconoscimento del diritto di voto agli extracomunitari, anche al fine di
garantire una effettiva integrazione degli stessi nel nostro paese.
Ricordo
che nel corso dei lavori preparatori della legge Turco-Napolitano, quando si
parlava del voto che avrebbe dovuto essere l’elemento qualificante della nuova
legge (successivamente stralciato) molti stranieri che erano in Italia da tempo,
commentavano la proposta con toni piuttosto tiepidi dicendo "Carina questa
cosa del diritto di voto, però preferirei che il governo italiano mi desse la
possibilità di avere una casa o altri diritti di quelli che si mangiano".
In effetti è difficile immaginare che uno straniero che, pur vivendo in Italia
da tanti anni ed essendo inserito dal punto di vista economico e sociale, possa
provare un reale senso di appartenenza a questa comunità se continua invece ad
avvertire un atteggiamento di rifiuto sistematico nei suoi confronti.
La
cittadinanza italiana
D’altra parte, la soluzione per realizzare il riconoscimento del diritto di
voto non può avere come misura adeguata quella di perseguire il conseguimento
della cittadinanza italiana; ciò perché sono statisticamente raddoppiati i
tempi di attesa per la concessione della stessa (circa tre anni), anche nei casi
in cui (come nel caso di matrimonio con cittadina o cittadino italiano), si
tratta di un vero e proprio diritto.
Un
altro aspetto da sottolineare è che il Ministero dell’Interno non pubblica i
dati completi sulla cittadinanza, dando conto solamente di quanti sono gli
stranieri che l’hanno ottenuta, ma non di quanti l’hanno domandata; in
termini scientifici sarebbe interessante scoprire qual è questo rapporto ed il
fatto che purtroppo si possano fare solo delle congetture al riguardo fa
probabilmente molto comodo. Il network di avvocati di cui faccio parte, l’Associazione
Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), rappresenta un osservatorio
piuttosto ampio di casistica e, pertanto - anche senza il conforto di dati
scientifici documentati - penso di poter dire che la stragrande maggioranza
delle domande di cittadinanza viene rifiutata, anche se viene fatta da parte di
gente normalissima, che si trova in Italia da tanto tempo, con provvedimenti
solitamente prestampati recanti la stessa motivazione di stile (che potrei
recitare a memoria) ormai da anni. Oltretutto sarebbe ancora più interessante
andare a vedere la composizione etnica o nazionale dei soggetti destinatari del
rifiuto e di quelli destinatari dell’accoglimento della domanda medesima,
perché anche qui, pure in mancanza di dati attendibili, ritengo che si possano
fare delle affermazioni su come, soprattutto negli ultimi anni, chi proviene dal
ceppo culturale e religioso arabo-musulmano ha una percentuale di accoglimento
di gran lunga inferiore alle altre comunità nazionali.
Appare
a questo punto opportuno proseguire l’analisi esaminando in particolare le
novità introdotte dalla legge Bossi – Fini.
Il
diritto di asilo
Relativamente al diritto d’asilo si è operato uno stravolgimento dei principi
fondamentali dello stesso, che è stato praticamente "triturato" con l’assegnazione
dell’esame delle domande alle Commissioni Territoriali attraverso una
procedura che la norma definisce accelerata, ma che possiamo più semplicemente
definire sbrigativa, assegnando a queste commissioni il diritto di vita o di
morte sui richiedenti e prevedendo peraltro la limitazione della libertà
personale degli stessi. Esistono Paesi che scelgono in tal senso soluzioni più
raffinate come ad esempio la Svezia ove non è prevista la limitazione della
libertà personale, però i centri di identificazione e di attesa per i
richiedenti sono situati in luoghi ameni a distanza di centinaia di chilometri
dai centri abitati. Quindi, pur essendo posti molto attrezzati e confortevoli,
ove si è anche formalmente liberi, si può dagli stessi uscire solo per andare
"in pasto ai lupi".
Le norme che hanno modificato il diritto d’asilo si presteranno - mi permetto
di dire sicuramente - a censure di legittimità costituzionale che sono già
state sottoposte all’attenzione della Corte Costituzionale e a censure di
legittimità sotto il profilo della violazione della Convenzione Europea dei
diritti dell’Uomo del 4 novembre 1950 (entrata in vigore il 3 settembre 1953)
e recepita dall’Italia con legge n. 848 del 4 agosto 1955.
I
Centri di Permanenza Temporanea
Gli stessi erano già previsti, ma in seguito alle modifiche apportate al Testo
Unico sull’Immigrazione dalla legge Bossi-Fini la permanenza in essi è stata
raddoppiata nella durata, passando da 30 a 60 giorni (art. 14, comma 5); è
stato inoltre introdotto (art. 13, comma 1, lett. b), Legge Bossi – Fini) il
meccanismo dell’espulsione immediata (art. 14, comma 5 bis, Testo Unico sull’Immigrazione)
con conseguente criminalizzazione di coloro che non ottemperano al provvedimento
di espulsione (art. 14, comma 5 ter, Testo Unico sull’Immigrazione). Non si è
quindi arrivati ad istituire il reato di presenza clandestina nel territorio
italiano, ma si è creato il reato di inottemperanza alla diffida a lasciare il
territorio nazionale italiano. E’ interessante rilevare che molto spesso
questa diffida viene usata non tanto perché non c’è la possibilità di
eseguire l’espulsione, ma semplicemente perché è il sistema più comodo per
far sparire uno straniero, nel senso di escluderlo dall’esercizio dei diritti
e dalla possibilità di ottenere prestazioni di assistenza di qualsiasi genere,
comprese quelle di soccorso.
L’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) rispetto ai Centri
di Permanenza Temporanea (CPT) ha una posizione monolitica: è contro i CPT
perché sono inutili. Una recente ricerca metodica condotta da Medici senza
Frontiere presso tutti i CPT per espellendi, ha dimostrato che la stragrande
maggioranza di coloro che sono ristretti – diciamo pure detenuti – negli
stessi, al termine del periodo massimo di permanenza viene rimessa in libertà
sul territorio italiano, senza essere accompagnata alla frontiera. Addirittura i
CPT vengono usati come prolungamenti della pena penitenziaria: accade infatti
che le persone che completano l’espiazione della pena - per le quali ci
sarebbero anni di tempo per pianificare prima l’appuntamento con il volo aereo
e il rilascio dei documenti da parte della rappresentanza consolare -, vengono
invece portate presso i CPT in una sorta di prolungamento della loro detenzione,
per poi essere, nella maggior parte dei casi, rimesse in libertà sul territorio
nazionale senza essere quindi riaccompagnate alla frontiera. Quando invece vi
sono le possibilità tecniche di eseguire l’espulsione, il CPT non serve
assolutamente a nulla essendo possibile eseguire l’espulsione senza che vi sia
la necessità di comprimere la libertà personale.
Bisogna
andare molto indietro nel tempo per trovare nel diritto italiano e non solo,
provvedimenti restrittivi della libertà personale che non siano collegati ad un
comportamento criminale (si pensi alla prigione per debiti).
Il
decreto flussi
Relativamente al governo dei flussi migratori, oltre alla nota abolizione del
sistema della sponsorizzazione che era l’unico sistema funzionante per
consentire ingressi regolari, si è accentuata l’ipocrisia secondo la quale si
fa finta di pensare che uno straniero che vuole entrare regolarmente in Italia
per motivi di lavoro possa riuscire a trovare, stando nel suo paese, un datore
di lavoro italiano che teoricamente dovrebbe fidarsi di assumere una persona mai
vista né conosciuta e che poi dovrebbe ottenere l’autorizzazione al lavoro.
In
realtà sappiamo che la quasi totalità – dico 99% perché sono un inguaribile
ottimista – di coloro che sono entrati con questo sistema delle quote, erano
già qui da prima, come clandestini, ed hanno avuto la fortuna di trovare un
datore di lavoro serio, coraggioso e molto paziente che ha intrapreso questa
farraginosa procedura burocratica per consentirne l’ingresso regolare in
Italia.
La
novità introdotta in tal senso dalla Bossi – Fini è quella che mentre prima
era possibile cominciare a presentare le domande all’inizio dell’anno,
adesso c’è una sorta di lotteria e gara a chi arriva prima poiché non si sa
quando viene pubblicato il decreto flussi.
Con la Bossi-Fini è possibile presentare le domande solo a partire dal giorno
della pubblicazione del decreto flussi; ecco quindi che alla gara a chi arriva
prima che già esisteva, si è aggiunta l’ulteriore gara a chi arriva primo
alla "soffiata" relativa alla pubblicazione imminente del decreto
flussi sulla Gazzetta Ufficiale. Ci sono i "bene informati" che
riescono ad "indovinare" la data di pubblicazione e quindi a portare
il loro pacco di pratiche vendute naturalmente a caro prezzo a chi
spasmodicamente cerca un modo per regolarizzare la propria posizione in Italia,
perché di fatto questa è una forma di regolarizzazione, anche se "a cruna
dell’ago" per cui il passaggio è strettissimo. Naturalmente tutto questo
produce irregolarità, violazione della legge, evasione fiscale, evasione
contributiva e, infine, impoverimento.
Il
contratto di soggiorno
L’elemento "qualificante" della legge Bossi-Fini è il contratto di
soggiorno. Durante la campagna elettorale, precedentemente l’approvazione
della legge Bossi-Fini, il contratto di soggiorno era usato come slogan per dire
"Lo straniero non potrà soggiornare in Italia un minuto in più della
durata del contratto di lavoro". Per fortuna esistono le convenzioni
internazionali relative alla condizione giuridica dello straniero cui l’Italia
ha dato adesione, che sono particolarmente tutelate nel nostro ordinamento in
quanto la Costituzione (art. 10, comma 2) obbliga il legislatore italiano a
conformarsi ad esse.
L’esistenza di queste norme internazionali ha consentito di non portare alle
estreme conseguenze questo slogan e quindi di continuare a garantire la
possibilità per colui che entra in uno stato di disoccupazione di rimanere in
Italia per un periodo determinato al fine di cercare una nuova occupazione. Si
precisa che questo periodo è stato però dimezzato da un anno a sei mesi (art.
22, comma 11, T.U. sull’Immigrazione), che non sono tanti dal momento che
buona parte di questo periodo è "mangiati" dall’attesa del permesso
di soggiorno per ricerca di occupazione, considerato che, quando lo straniero lo
ritira ha la sorpresa di scoprire che la data di decorrenza iniziale non è la
data corrispondente al momento del rilascio, ma la data corrispondente al
momento in cui è stata presentata la domanda.
In più ogniqualvolta si cambierà datore di lavoro (pensiamo che i lavoratori
immigrati sono di fatto destinati ai settori più marginali e precari del
mercato del lavoro, e, quindi, sono impiegati con contratti a termine nella
grande maggioranza dei casi) sarà necessario andare a stipulare il contratto di
soggiorno e in quella sede – oltre all’intasamento ulteriore delle
Prefetture che possiamo già immaginare perché è stata fatta una legge con
finanziamento zero quindi gli strumenti e il personale non ci sono - bisognerà
documentare che il lavoratore dispone non soltanto di un alloggio ma di un
alloggio confortevole, munito di certificazione di idoneità rilasciata dal
competente ufficio tecnico comunale. I parametri di idoneità sono riferiti a
parametri stabiliti dalle Leggi Regionali in materia di edilizia residenziale
pubblica che sono stati adottati all’insegna del solito ottimismo legislativo
italiano, fissando degli obiettivi da raggiungere che non sono stati raggiunti.
La stragrande maggioranza degli assegnatari di case popolari, vive in alloggi
che non rispettano quegli standard, le case sono poche, i richiedenti sono
tanti, le famiglie sono numerose ecc.
Ebbene laddove nemmeno lo Stato e gli enti pubblici competenti sono riusciti a
rispettare questi standard per consentire l’alloggio a persone che poi
comunque pagheranno un canone agevolato, si prevede invece ora che l’immigrato
- il soggetto che ha più difficoltà a trovare casa - non solo riesca a trovare
una casa ma la trovi rivolgendosi al mercato privato, che se dovesse essere
conforme agli standard, costerebbe come minimo l’intero suo stipendio. Questa
è fantascienza.
Non esiste una legge che cambia la realtà, dovrebbe esistere una legge che si
adegua alla realtà. Ebbene da una situazione di questo genere, possiamo solo
immaginare che nasca un ulteriore mercato di carte false quindi di ospitalità
fasulle, spingendo nella clandestinità persone che hanno come unica colpa
quella di essere povere e di non potersi permettere, come tanti altri italiani,
una casa confortevole, ma solo una casa.
Un esempio in tal senso eclatante è stato fino a pochissimo tempo fa il caso di
un ex conceria di Arzignano (Vi) (Casa Elisa) dove abitavano 500 persone in
possesso di regolare permesso di soggiorno, che lavoravano regolarmente,
pagavano i contributi e che ufficialmente, quando si presentava la questura ogni
settimana per fare i controlli, esibivano un permesso di soggiorno da cui
risultava un domicilio ovviamente diverso. La questura, evidentemente, faceva
finta di non sapere che questi signori erano di fatto costretti a documentare un
alloggio falso, pur di poter rinnovare il permesso di soggiorno.
Il
ricongiungimento familiare
Il ricongiungimento famigliare è stato fortemente ristretto da parte della
legge Bossi - Fini, non soltanto per quanto riguarda i soggetti non destinatari
dell’esercizio di questo diritto, ma più ancora nella prassi.
I tempi di attesa per il rilascio di un visto per la ricongiunzione famigliare
sono scandalosamente lunghi, intollerabili. Si evidenzia infatti che nel momento
in cui lo straniero interessato alla ricongiunzione famigliare si presenta all’Ambasciata
italiana, possiede già tutti i documenti prescritti, già legalizzati,
controllati, è gia stato radiografato e, di conseguenza, il rilascio del visto
d’ingresso potrebbe essere un atto simultaneo. Eppure ci sono tempi di attesa
di anni e addirittura la famosa Ambasciata Italiana di Casablanca (Marocco) ha
chiuso per diversi mesi permettendosi di affliggere un avviso con scritto,
"non presentateci più domande di visto per la ricongiunzione famigliare.
Stiamo recuperando l’arretrato di quelle di tre anni fa".
Chiaramente tutto questo produce clandestinità - perché una persona non riesce
a stare lontano dai suoi affetti solo perché deve affrontare la sopra descritta
procedura -, alimenta il sottobosco della malavita, le mafie, ma non serve certo
a difendere i confini nazionali.
Meno
diritti per tutti
Ci sarebbe da parlare molto sui diritti sociali, che pure sono stati
eufemisticamente limati. Ma per la verità questo è un processo che è iniziato
già sotto la vigenza del testo originario della Turco Napoletano e mi riferisco
alla esclusione dalle prestazioni di assistenza sociale per gli immigrati muniti
di normale permesso di soggiorno. Solo quelli in possesso della carta di
soggiorno possono benficiarne, e non a caso le carte di soggiorno sono state
centellinate per anni con la scusa che il Governo non aveva stampato i moduli.
Ora però - ulteriore novità con l’ultima finanziaria - è che le donne
extracomunitarie con la carta di soggiorno, dopo avere inverosimilmente
attraversato un percorso rocambolesco di pazienza e di attesa, non possono avere
l’assegno di maternità, ma l’avranno solo le donne comunitarie con
conseguente ulteriore incremento della discriminazione.
Premesso
di soggiorno ridotto
Un’altra conseguenza della Bossi Fini è sostanzialmente il dimezzamento nella
media della durata dei permessi di soggiorno, il che naturalmente non ha aiutato
a sfoltire il traffico verso le questure. Anzi ha reso la situazione più
caotica e insostenibile perché il meccanismo per cui il permesso di soggiorno
può durare tanto quanto il contratto di lavoro, di fatto ha quadruplicato i
tempi di attesa (per tacere dell’ultima sanatoria che ha riguardato 700 mila
persone). A Venezia, ad esempio, si attendono 10 lunghi mesi per rinnovare il
permesso di soggiorno.
È
vero che la legge Bossi - Fini ha chiarito che durante la fase del rinnovo del
permesso di soggiorno si ha il diritto (per il lavoratore così come per il
datore di lavoro) di proseguire il rapporto di lavoro, come pure di costituire
un nuovo rapporto di lavoro (art. 22, comma 12, T.U. sull’Immigrazione).
Questo diritto però, da un punto di vista pratico, non conta quasi nulla
perché la quasi totalità dei datori di lavoro risponde all’immigrato che si
propone per farsi assumere "torna con il permesso di soggiorno
rinnovato", considerato che non se la sentono di investire tempo e risorse
in azienda, correndo il rischio di doverlo licenziare, magari dopo due mesi, a
seguito del mancato rinnovo del permesso di soggiorno proprio quando inizia ad
essere più produttivo. Gli stessi rischiano inoltre di commettere un reato
senza saperlo, se, successivamente al rifiuto il rinnovo del permesso di
soggiorno, mantengono l’immigrato nel posto di lavoro.
Il sistema appena descritto evidentemente dimostra un sostanziale rifiuto dello
straniero, una ricerca spasmodica della differenziazione e discriminazione.
Addirittura fanno le spese di questa cultura anche i cittadini dei nuovi Paesi
membri dell’Unione europea. Il 1 maggio i nuovi Paesi potrebbero beneficiare
della libertà di circolazione per motivi di lavoro (artt. 39 ss, Trattato
istitutivo della Comunità europea), se non fosse che i "vecchi" paesi
membri hanno la possibilità di adottare una sorta di "moratoria" di
due anni che potrà essere prolungata per ulteriori tre anni fino ad un massimo
complessivo di sette anni; ciò al fine di impedire l’afflusso di manodopera a
basso costo nei paesi membri dell’U.E.
Certo che se la volontà fosse veramente questa, forse le misure da prendere
dovrebbero essere diverse, dire diametralmente opposte perché è noto (e i
politici fanno finta di non saperlo) che tutti i cittadini dei nuovi Paesi
membri, oppure di altri futuri candidati all’adesione, già oggi possono
presentarsi alla frontiera Schengen - muniti di passaporto e qualche euro in
tasca - e oltrepassarla. I cittadini di tali paesi sono quindi liberi di fare i
turisti in tutta Europa, non sono liberi di lavorare in regola, sicché si
potrebbe dire, che sono costretti a lavorare in nero. Quindi chi dice che vuole
"evitare l’ingresso di manodopera a basso costo" forse vuole l’esatto
contrario perché la realtà dei fatti non può che esprimere questo.
Ora questa ricerca di differenziazione e di discriminazione non è il frutto di
scelte sbagliate di tecnica legislativa; è evidente - e lo dimostra la prassi -
l’operato delle nostre amministrazioni, che rispecchia una cultura diffusa che
purtroppo interessa tutti i settori della nostra società. Anche il sindacato ha
qualche serio problema nel gestire i rapporti tra gli italiani e i lavoratori
stranieri, cerca di farlo perché naturalmente è il suo mestiere, ma ci sono
numerosi problemi, soprattutto con le fasce più deboli della società. Ecco che
quindi la questione che si pone non è tanto quella di ingaggiare dei bravi
esperti in diritto e tecnica legislativa; il problema vero è un altro ovvero un
enorme e difficile battaglia culturale, nell’ambito della quale il diritto di
voto rappresenta un caposaldo.