Consiglio di Stato n° 2345/2005

 

Straniero deve essere posto in condizione di comprendere ogni atto

Consiglio di Stato, IV sezione, n° 2345 del 19 aprile 2000

Nota di Carlo A. Zaina

 

Con la sentenza sopra detta il Consiglio di Stato ribadisce una volta di più, e di tale intervento vi era francamente estrema necessità, il diritto dello straniero ad essere posto nella condizione di comprendere ogni atto che, provenendo sia da un’Autorità giurisdizionale, che da organi amministrativi (nella fattispecie la Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato politico), abbia forza e capacità di incidere su di un suo diritto soggettivo. Il problema dell’obbligo di traduzione degli atti nella lingua parlata e compresa dallo straniero, ha, ormai radici temporalmente datate.

Nonostante sia stato affrontato anche dalla Corte Costituzionale, con la nota sentenza n. 10 del 1993, nonostante trovi linee guida nella Convenzione dei diritti dell’uomo di New York (art. 6 co. 3° lett. A) della Convenzione dei diritti dell’uomo, recepita con L.4.8.1955 N. 848) e nel Patto Internazionale relativo i diritti civili e politici, (art. 14 co. 3° lett. A recepito dalla L. 25.10.77 N. 881.), recepite solo formalmente dal nostro ordinamento con leggi ad hoc, esso rimane, sul piano giurisprudenziale irrisolto e di fatto inattuato concretamente.

Con la sent. 10/93, il giudice delle leggi, infatti, ha affermato che la mancanza di un obbligo espresso di traduzione nella lingua nota all’indiziato non può affatto impedire "l’espansione della garanzia assicurata con l’art. 143 co. 1 c.p.p., in conformità ai diritti riconosciuti dalle convenzioni internazionali, ratificate in Italia e dall’art. 24 co. 2° della Costituzione..".

Il principio che, quindi, non può essere revocato in dubbio è quello della preventiva traduzione dell’atto destinato al cittadino straniero; in una lingua che costui possa comprendere appieno.

Esso integra, indubitabilmente, il diritto più ampio e completo alla difesa, con ciò intendendosi la possibilità per l’indagato di recepire le accuse mossegli, cioè il fatto materiale che gli viene addebitato, nonché la relativa violazione di legge e, su tale abbrivio, poter contestare e contraddire le stesse. A tutto ciò non può ovviare la circostanza che l’indagato straniero si munisca di un difensore, se è vero che ad esempio, l’ordinanza di custodia cautelare si pone spesso, quale primo originario atto attraverso il quale l’indiziato dovrebbe comprendere la sussistenza di un procedimento penale a proprio carico fondato su indizi.

Su tale presupposto non può che concludersi per l’ammissibilità della esclusione della traduzione.

La giurisprudenza di legittimità ha affermato, infatti, che "....Anche l’ordinanza di custodia cautelare come il decreto di fissazione del giudizio, infatti, è un atto di fronte al quale l’indagato straniero che non comprendesse la lingua italiana potrebbe esser pregiudicato nel suo diritto di partecipare al procedimento a suo carico libero nella persona, in quanto, non comprendendo cosa in esso scritto, non sarebbe posto in grado di valutare né quali siano gli indizi ritenuti a suo carico (e quindi difendersi con riferimento agli stessi) né se sussistano o meno i presupposti per procedere all’impugnazione dell’ordinanza per nullità ai sensi dell’art. 292 comma 2, c.p.p....." (Cass. Sez. III, 8.9.1999 n. 1527 (c.c. 26.4.1999), Braka ed altro, in Archivio della Proc. Pen. 1999, pg. 598; cfr. anche Cass. Sez. V 22.6.1995, n. 1310, Alagra.

Il diritto a comprendere esattamente nella propria lingua un atto processuale od un atto amministrativo è, quindi, riconosciuto dinanzi ai giudici penali ed amministrativi di legittimità, siccome principio indiscusso ed indiscutibile sul piano formale, ma rimane, certamente, nella pratica, lettera morta, atteso che è assai raro che ci si imbatta, nell’ambito dei giudizi che riguardano cittadini stranieri (ed in special modo extracomunitari) nella traduzione dei provvedimenti che li riguardino. Il tutto nonostante che vi sia un preciso dovere-presupposto di verificare la condizione di comprensione della lingua in capo allo straniero: "Presupposto indispensabile perché vi sia l’obbligo, ai sensi dell’art. 143 c.p.p. (quale interpretato dalla corte Costituzionale con sentenza n. 10 del 1993)di disporre la traduzione del decreto di citazione a giudizio dell’imputato straniero è che quest’ultimo ignori, di fatto, la lingua italiana. Cass. Sez. IV, 1.2.2000, n. 1141, Vernedas, in Arch. Proc. Pen., pg. 154.

La questione va, quindi, a mio parere, esaminata sia in riferimento alla disciplina degli atti processual-penalistici, sia in relazione a tutti quegli atti di natura amministrativa, suscettibili di incidere, (sia sul piano dell’ablazione, che dell’espansione), sul diritto dello straniero, e come tali devolvibili alla valutazione di legittimità e merito dell’A.G. amministrativa.

lI principio in parola, infatti, è unitario ed inscindibile e richiede una soluzione comune, anche se si rivolge a problematiche ed ordinamenti apparentemente diversi tra loro sul piano sostanziale e su quello procedurale. La norma di diritto processuale penale, l’art. 143 cpp, pur recependo il dovere di tutelare lo straniero e ponendo questi in condizione di comprendere non solo l’aspetto naturalistico della vicenda che lo riguarda (l’eventuale privazione della libertà o la celebrazione di un processo a suo carico), era inficiata da un vizio di patente genericità, non individuando - come invece era logico e doversi attendersi - l’ambito concreto di intervento della figura dell’interprete.

Va, infatti, evidenziato, preliminarmente, che nessuna presunzione di conoscenza della nostra lingua può essere ritenuta vigente in capo allo straniero; essa opera solo nei confronti del cittadino italiano, anche se appartenente a minoranze linguistiche.

Conseguiva e consegue, tuttora, l’obbligo preliminare di verificare sostanzialmente quale idioma sia effettivamente conosciuto, compreso e capito dal cittadino straniero sia in sede penale che in altro ambito (cfr., seppur con limitazioni e deroghe l’art. 13 co. 7 D.Lvo 25.7.98 n. 286).

Tale dovere incombe, quindi, senza dubbio in primo luogo alle forze dell’ordine deputate all’esecuzione dei provvedimenti (ad esempio l’arresto dello straniero in flagranza od in esecuzione di ordine del giudice, oppure la notifica del provvedimento di espulsione o di diniego del permesso di soggiorno).

Incombe, altresì, al magistrato che debba, in progresso di tempo svolgere quegli adempimenti che la legge richiede quale condizione di validità di taluni provvedimento (interrogatorio ex art. 391 cpp oppure ex 294 cpp ad esempio). Non essendo certamente di oggi il problema, fu gioco-forza dover ricorrere all’intervento della Corte costituzionale, che con la sentenza 19 gennaio 1993 n. 10, precisò quali fossero gli ambiti del cd. "diritto all’interprete" nell’ambito del processo penale.

È indubbio, peraltro, che la pronunzia del giudice delle leggi, seppur consequenziale ad una vicenda della giurisdizione penale, non potesse (nè può tuttora) venir confinata e circoscritta solo all’ambito penalistico, ma debba avere un effetto estensivo, siccome ritenuta applicabile - quale principio di ordine generale, e costituzionale - per ogni caso che coinvolga una persona non italiana e non a conoscenza della nostra lingua.

Nonostante, quindi, il robusto substrato normativo ed interpetativo sin qui ricordato, nonostante il dictum della Corte sia ormai vigente da oltre 7 anni, è evidente, come si è detto, purtroppo, una carenza di attuazione concreta del principio sancito.

Siffatta situazione è cagionata da alcune contraddittorie frammentazioni normative, che si andranno ad evidenziare, che permettono una interpretazione estremamente equivoca che molti giudici (sia penali che amministrativi) forniscono alla materia.

Il problema appare in tutta la sua gravità soprattutto in relazione ad atti quali ad esempio, l’ordinanza applicativa una misura cautelare personale, il decreto che fissa l’udienza preliminare o che dispone il giudizio dibattimentale o che fissa il giudizio immediato, da un lato, il provvedimento di espulsione o di diniego del permesso di soggiorno, dall’altro. Taluno potrà osservare che si tratta di provvedimenti che hanno natura tra loro diversa: i primi hanno derivazione giurisdizionale, i secondi sono veri provvedimenti amministrativi.

Queste differenze non possono, però, incidere in maniera decisiva, giacché la caratteristica comune a i citati atti è, in primo luogo, la penetrante incidenza degli stessi sia sul diritto del soggetto alla propria libertà di movimento, ed in secondo luogo, per quanto attiene alle misure cautelari personali ed ai provvedimenti amministrativi, l’impugnabilità degli stessi dinanzi all’A.G. con un riesame di merito e di legittimità, quale esercizio del diritto del singolo a difendersi.

Il parallelismo fra le misure cautelari ed i provvedimenti ablativi il diritto dello straniero a soggiornare in Italia, mi pare meritevole di approfondimento, in relazione all’argomento in esame, anche perché sono queste le situazioni che maggiormente comportano l’insorgere dei problemi sin qui lamentati. Le frammentazioni e disorganizzazioni normative vengono evidenziate in materia penale, dal richiamo che l’art. 143 cpp, al co. 1°, opera nei confronti dell’art. 94 disp. att. cpp..

Questa norma sancisce al co. 1 bis, introdotto con la L. 8.8.1995 n. 332, (art. 23),"....che il direttore del carcere (o l’operatore penitenziario da lui designato) accerta, se del caso, con l’ausilio di un interprete , che l’interessato abbia precisa conoscenza del provvedimento che dispone la custodia e gliene illustra, ove occorra, i contenuti."

Or bene, con la disposizione sopra riportata ci trova di fronte ad una previsione generica, inutile, assolutamente priva di concreta portata giuridica, di carattere meramente precettivo, non connotata da una previsione sanzionatoria di nullità, in caso di mancato adempimento.

È addirittura difficile comprendere se ci si trovi di fronte ad una norma che abbia carattere di doverosità per i soggetti in essa indicati, o se sia meramente indicativa di facoltà.

È intuitiva la circostanza che la mancata correlazione di una sanzione processuale, evidenzi la irrispettosità di quei termini perentori, che il legislatore ben applica quando ritiene opportuno, con la conseguenza che, in pratica, ci si trovi di fronte alla classica norma all’italiana.

La ratio dell’art. 94 citato è quella "buonista" di agevolare lo straniero, fornendogli un aiuto, un sostegno. In realtà (ed in concreto), proprio per come concepita, per la sua collocazione (nell’ambito delle disposizioni di attuazione, ben poco conosciute dagli stessi giuristi ed addetti ai lavori), per la creazione di competenze anomale (il direttore del Carcere od un operatore del carcere designato, quest’ultimo scelto non si sa in base a quale criterio), essa finisce per arrecare solo danno al soggetto che ne deve fruire: il detenuto, rivelando, quindi, la sua totale inutilità.

Si pensi solamente alla circostanza che un’ordinanza custodiale può essere impugnata nei 10 giorni dalla sua notifica o esecuzione; come mai il legislatore fissa per l’intervento dell’autorità carceraria un determine indeterminato? Perché se l’accertamento non avviene all’atto del colloquio di cui all’art. 23, esso può essere procrastinato sine die, con buona pace dei termini perentori per l’impugnazione ex art. 309 e 311 cpp?

Quid iuris ove l’accertamento non avvenga (e penso che ciò sia piuttosto usuale) ed il detenuto non sia in grado di comprendere esattamente cosa succede sul piano giuridico?

Chi sarebbe responsabile, il direttore del carcere ? Sarebbe ipotesi di responsabilità disciplinare o responsabilità penale per omissione di atti di ufficio, con conseguente responsabilità civile per eventuali danni? Ed ancora, appare assai stravagante la delega di competenze ad una autorità amministrativa, la quale già oberata di ben altri problemi, ha compiti, funzioni del tutto diversi dal giudice e conoscenze tecnico-giuridiche, spesso, sia consentito dirlo senza tema di offesa per nessuno, insufficienti in materia di atti giurisdizionali.

Se è vero che il titolo IV del libro II del codice di rito del 1988 regola l’intervento dell’interprete, laddove si debba procedere all’interrogatorio, ponendo a carico del giudice, del P.M. e della stessa polizia giudiziaria, precisi oneri, non si comprende la ratio di una scelta che non imponga a questi soggetti precisi obblighi in relazione ai provvedimenti privativi la libertà personale.

In pratica l’interprete non deve esaurire la propria funzione nel contesto dell’interrogatorio, ma - quale ausiliario dell’autorità procedente ed in special modo del giudice - dovrebbe essere attivato automaticamente anche, affinchè il provvedimento attinente alla libertà personale dell’indagato, che questi riceverà in copia e che potrebbe essere titolo per la sua detenzione, sia tradotto integralmente nella lingua di origine dell’interessato, ove vi sia anche il solo il mero dubbio che l’interessato non lo possa capire nella sua portata e nelle sue ragioni.

Taluno potrà giustamente osservare che quanto sopra sostenuto è pleinastico perché, normativamente, l’art. 143 co. 2° cpp, prevede la traduzione di uno scritto in lingua straniera, ed in quanto giuridicamente la S.C. ha riaffermato più volte l’obbligo della traduzione di vari atti del giudice penale, ricomprendendo in tale novero proprio quelli sopra indicati.

Ciò nonostante si è in presenza di una costante disapplicazione di questi principi da parte di giudici di merito. In proposito è interessante ricordare un recentissimo pronunziamento del Tribunale di Venezia (Sez. Riesame) del 29.9.2000, che nega che sia compito del G.I.P. quello di tradurre l’ordinanza di custodia cautelare nella lingua dello straniero (nella fattispecie un cittadino austriaco), perché costui può avvalersi della citata procedura di cui all’art. 94 disp.att. cpp, per conoscere il contenuto del provvedimento. Non essendo, nel caso concreto, stata attività tale procedura, secondo il Collegio, l’indagato non avrebbe alcun diritto a dolersi del vizio lamentato!

Domandiamoci solo se sia ragionevole pensare che il detenuto straniero possa conoscere una disposizione di attuazione del codice, che è possibile (anzi probabile) sia sconosciuta agli stessi organi che dovrebbero attuarla.

Il problema appare, lo si deve ribadire, pertanto, drammatico, soprattutto in tema di libertà personale, situazione che importa sempre decisioni ed interventi calibrati su tempi assai ristretti.

Come si può pensare che un extracomunitario, proveniente da un paese assolutamente diverso per usi consuetudini, sistemi politici e giudiziari dal nostro possa comprendere i propri diritti ed esercitare la propria difesa, in assenza di meccanismi chiari che lo pongano a conoscenza delle ragioni di una accusa penale.

E non può affermarsi che, in fin dei conti, il fatto di essersi munito di un difensore (di ufficio o di fiducia) compensi la situazione, posto che la S.C. ha infatti riaffermato i ben precisi limiti fra difesa tecnica e difesa propria dell’interessato, sostenendo che la presenza nel procedimento o nel processo vero e proprio, del difensore, soggetto naturalisticamente e giuridicamente diverso dall’indagato, non può fungere da surroga dell’esercizio del diritto di difesa che è eminentemente personale.

Illuminante, in proposito, a conferma di quanto si va dicendo è una ordinanza del Tribunale del Riesame di Bologna, (22.5.2000) che, rigettando un ricorso avverso ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P di Rimini, ha affermato che, essendo stato presente l’interprete, all’interrogatorio di garanzia dello straniero colpito da ordinanza custodiale, si deve ritenere che l’indagato abbia avuto la possibilità di comprendere l’accusa, e che, quindi, nessuna lesione del diritto di difesa è ravvisabile nella mancata traduzione del titolo, pur dando atto che il direttore del carcere, nella fattispecie, avrebbe segnalato come l’indagato avesse una carente conoscenza della nostra lingua.

Afferma, altresì, il Tribunale, che apparirebbe illogico pretendere una traduzione preventiva di un atto, prima di verificare se il destinatario straniero conosca la nostra lingua.

La motivazione del Collegio bolognese non tiene conto dcl fatto che:

l’interprete è presente solo all’interrogatorio, non ha possibilità di operare prima di tale momento, sicché l’indagato non ha alcuna possibilità nei giorni precedenti di comprendere e di giungere a tale fase preparato a contraddire, se del caso, le accuse mossegli;, comprimendo il diritto di difesa al solo breve momento in cui l’interprete sarà presente dinanzi al giudice;

è gioco forza, per ovvie ragioni anche temporali, che l’interprete traduca, quindi, sommariamente i concetti trasfusi nell’ordinanza, che può essere corposa ed articolata; tale modus operandi non permette allo straniero di trovarsi nella stessa condizione dell’italiano. L’indagato straniero potrà avere, nel migliore dei casi, solo un’idea generica, ma mai precisa in relazione sia a fatti, che, soprattutto, a osservazioni giuridiche, talora già difficili da comprendere per un addetto ai lavori;

la preventiva traduzione di un atto risulterebbe scelta certamente lungimirante, e permetterebbe ogni questione riguardante la violazione del diritto di difesa e preverrebbe eccezioni riguardanti la nullità dei provvedimenti in oggetto.

Quanto sin qui esposto può agevolmente venir richiamato anche in ambito di provvedimenti ablativi il diritto dello straniero al soggiorno nel nostro paese.

Per quanto l’art. 13 co. 7 del D.L.vo 25.7.98 n. 286 sancisca il ricorso alla traduzione nella lingua originaria, troppo spesso le Questure, per problemi organizzativi e logistici, si avvalgono della previsione residuale della norma che permette la traduzione dell’atto in inglese o francese.

Il principio stabilito in massima e cioè che "...L’art.3 del DPR 15 maggio 1990, n.136 va interpretato nel senso che la lingua del richiedente deve essere da questi conosciuta e comprensibile e, pertanto, il richiamo alla lingua del cittadino straniero non deve intendersi in senso tecnico, con riferimento cioè agli idiomi ufficiali dei diversi paesi, ma con riguardo agli specifici contesti lessicali e sintattici che sono radicati, con tanta varietà, nelle comunità di tutto il mondo e di cui alcune popolazioni e gruppi fanno uso in modo talvolta esclusivo" deve divenire regola cogente di portata, applicazione e valore generale, e non rimanere affermazione di principio priva di una concreta conseguenziale attuazione.

Se necessario ad abundantiam, sia nell’ambito della rivisitazione delle norme procedurali penali, finalizzate all’attuazione del giusto processo, così come nel contesto di ogni atto amministrativo che riverberi effetti sui cittadini stranieri, il legislatore deve farsi carico di approvare una chiara ed univoca legge sul punto, al fine di sgomberare ogni equivoco.

Sarebbe, infatti, sufficiente stabilire che "È fatto obbligo a tutte la Amministrazioni dello Stato, al momento di emissione di atti o provvedimenti sia amministrativi, che giurisdizionali, accertare anche a mezzo interprete se lo straniero comprenda e parli la lingua italiana, e comunque, in quale lingua egli si esprima. Ove a seguito di tale accertamento, sia dimostrato che lo straniero non si esprime, né comprende la lingua italiana, l’atto, che deve essere emesso nei di lui confronti, dovrà essere tradotto nell’idioma di origine o in altro dal medesimo parlato e capito. La violazione di tale procedura comporterà la nullità e conseguente inefficacia dell’atto emesso. A tale previsione potrebbe riconnettersi responsabilità disciplinari a carico di chi non rispetti tale dettato.

Questa può essere una via di uscita, visto che a tutt’oggi l’avere recepito trattati internazionali, peraltro solo formalmente, nulla ha risolto, rimane, però, allo stato attuale la necessità che ai buoni ed inviolabili principi di massima, segua una rigorosa e scrupolosa applicazione concreta, senza voli pindarici od interpretazioni soggettive fondate sulla presunzione di colpevolezza, sullo stato emergenziale della giustizia o sulla giustificazione che siffatti adempimenti comporterebbero tempi lunghi o costi particolari per la P.A.. Il diritto al giusto processo nasce da questi aspetti ritenuti a torto marginali. Il diritto di difesa deve essere riconosciuto indiscriminatamente a chiunque, anche all’individuo imputato dei più aberranti fatti, proprio per poter affermare che la giustizia, alla fine del suo corso, è giunta a pronunziare una sentenza che sia frutta di una corretta applicazione delle regole del gioco processuale, senza lasciare adito a recriminazioni di sorta o sospetti.

È, peraltro, tristissimo dovere constatare la concreta discrasia fra la giurisprudenza di legittimità e quella di merito su di un tema che, invece, non dovrebbe creare contrasti proprio per la sua portata e per il suo significato di tutela dell’uomo.

 

 

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