La
Corte di cassazione
È
nulla l'ordinanza di custodia cautelare notificata al cittadino straniero che
non conosca la lingua italiana laddove la stessa sia priva della traduzione. È
quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 5052
depositata il 9 febbraio 2004, risolvendo un contrasto giurisprudenziale sorto
sul punto.
Cassazione
- Sezioni unite penali
Sentenza n. 5052 del 9 febbraio 2004
(Presidente N. Marvulli - Relatore M.
Battisti)
Svolgimento del processo
-
Con
ordinanza del 22 febbraio 2001 il g.i.p. del tribunale di Taranto disponeva
la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di Z. R.,
cittadina lituano, perché gravemente indiziato di avere, in concorso con
altri, illecitamente detenuto, trasportato e spedito in transito nel,
territorio italiano ingenti quantità di cocaina, di cui 74 kg. circa
rinvenuti a bordo della motonave "Filippo Lembo" in Taranto e in
altri luoghi fino al 5 aprile 2000.
-
Il
g.i.p. poneva a fondamento dell'ordinanza anche le dichiarazioni rese, il 5
febbraio al g.i.p. e il 9 febbraio al p.m., da G. J., nei confronti della
quale, ritenuta una dei concorrenti, aveva disposto la stessa misura can
ordinanza del 26 gennaio 2001.
-
Il
provvedimento cautelare nei confronti dello Z. nel quale si dava atto della
irreperibilità dell'indagato e del non avere questi in Italia fissa dimora
rimaneva ineseguito.
-
Il
p. m., dopo avere emesso, il 20 luglio 2001, l'avviso d conclusione delle
indagini preliminari, previsto dall'art. 415 bis c.p.p., il successivo 9
novembre chiedeva al g.i.p. il rinvio a giudizio dell'imputato.
Lo Z. veniva arrestato in Olanda il 12 gennaio 2002 ed era estradato in
Italia con procedura abbreviata, avendo prestato il. consenso alla
estradizione perché "assolutamente estraneo al fatto
addebitatogli", come aveva dichiarato nell'udienza per l'estradizione.
-
Consegnato
alle autorità italiane il 30 gennaio 2002, lo Z. il 2 febbraio veniva
interrogato dal g.i.p. con "l'assistenza di un interprete", il
quale gli dava lettura del capo di accusa e della indicazione degli elementi
di prova.
-
Lo
Z. proponeva richiesta di riesame negando la sussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza e delle esigenze cautelari e, con motivi aggiunti, i difensori
eccepivano la nullità per omesso avviso della data dell'udienza camerale
nonché la nullità del provvedimento cautelare perché non accompagnato
dalla traduzione in una lingua nota all'imputata, cittadino lituano.
Il tribunale del riesame di Taranto, con ordinanza del 22 febbraio 2002,
rigettava la richiesta, osservando, sulla omessa traduzione del
provvedimento custodiale, che, secondo la giurisprudenza della corte di
cassazione (Cass. , 5 maggio 1999, Metuschi; 23 maggio 2000, Ilir; 4
febbraio 2000, Weizer), "la necessità di garantire la consapevole
partecipazione agli atti dal non può essere prospettata in relazione
all'ordinanza cautelare perché questo provvedimento non contiene al proprio
interno dati informativi ovvero mirati avvertimenti in ordine all'esistenza
e alle modalità di esercizio dei diritti e facoltà dell'indagato in
relazione agli effetti dell'atto, cui il difetto della traduzione in lingua
si porrebbe come concreto ostacolo".
-
Veniva
proposto ricorso per cassazione e la corte di cassazione, con sentenza del
26 settembre 2002, annullava con rinvio il provvedimento impugnato in
accoglimento del motivo con il quale era stata denunciata la nullità per
omesso avviso difensori della data dell'udienza camerale.
-
In
sede di rinvio, la difesa della Z. presentava motivi nuovi.
Ribadiva, con il primo, l'eccezione di nullità dell'ordinanza custodiate
perché non accompagnata dalla traduzione in una lingua nota all'imputato.
Eccepiva, con il secondo, l'inutilizzabilità delle dichiarazioni della G.,
perché, rese prima dell'entrata in vigore della L. 1 marzo 2003, n. 63 -
che aveva modificato, tra gli altri, l'art. 64 c.p.p. prevedendo alcune
ipotesi di inutilizzabilità ove l'interrogatorio, con dichiarazioni sulla
responsabilità di terzi, non fosse stato preceduto da determinati avvisi -
non erano state riassunte così come prescritto dall'art. 26 , comma 2,
della legge 63/ 2001 per il caso, come quello di specie, in cui, nel momento
di entrata in vigore della legge, il procedimento fosse ancora nella fase
delle indagini preliminari.
Contestava, con il terzo e con il quarto motivo, la sussistenza dei gravi
indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari.
-
Il
tribunale, con ordinanza del 23 dicembre 2002, rigettava la richiesta,
riaffermando, per le ragioni già esposte nell' ordinanza del 22 febbraio
2001, che l'ordinanza che dispone la custodia cautelare non deve essere
tradotta.
Aggiungeva che, anche se si fosse voluto aderire all'opposto indirizzo
giurisprudenziale che ritiene dovuta la traduzione del provvedimento
cautelare in una lingua nota allo straniero, "nel raso di specie, non
era, comunque, ipotizzabile alcuna menomazione del diritto dello Z. di
essere al più presto informato con completezza ed in forma intelligibile
della natura e dei motivi dell'accusa a lui rivolta, perché, quando
l'ordinanza di custodia cautelare era stata emessa, l'indagato era
latitante, per cui non era stato possibile accertare se conoscesse la lingua
italiana, e, una volta eseguita l'ordinanza, l'indagato era stato sentito
dal g.i.p. in sede di interrogatorio di garanzia con l'assistenza
dell'interprete, il quale aveva proceduto alla traduzione delle
contestazioni. e delle ragioni che avevano determinato l'emissione
dell'ordinanza custodiale".
Quanto all'eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni della G. per
inosservanza dell'art. 26, comma 2, L. n. 63 del 2001, il tribunale rilevava
che l'ordinanza impugnata era stata emessa il 22 febbraio 2001, prima
dell'entrata in vigore della L. n. 63 del 2001, con la conseguenza che
l'omissione della rinnovazione dell'esame non rilevava e che il precedente
esame poteva essere utilizzato
-
Il
difensore dello Z. proponeva ricorso per cassazione chiedendo, con tre
motivi, l'annullamento del provvedimento impugnato.
Denunciava, con il primo motivo, "violazione degli artt. 143, 294 e 302
c.p.p.", deducendo che la necessità della tradizione dell'ordinanza
che dispone la custodia cautelare era stata affermata dalla sentenza della
corte di cassazione citata anche nell'ordinanza impugnata (Cass. , 9 luglio
1999, Zicha) e sostenendo che, in sede di interrogatorio di garanzia,
l'indagato non aveva avuto "integrale conoscenza del provvedimento
restrittivo emesso nei suoi confronti".
Denunciava, con il secondo motivo, "violazione dell'art. 26, comma 2,
L. 63/2001, in relazione all'art. 64, commi 3 e 3 bis c.p.p., per non avere
il p.m. provveduto alla rinnovazione dell'esame della G. secondo le nuove
forme previste nell' art. 64 c.p.p della legge citata, entrata in vigore
quando il procedimento era ancora nella fase delle indagini preliminari:
l'omessa rinnovazione imponeva che il precedente esame della G. venisse
ritenuto inutilizzabile.
Denunciava, con il terzo motivo, "difetto e illogicità di motivazione
sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze
cautelari".
-
La
terza sezione penale di questa corte, con ordinanza del 29 aprile 2003,
disponeva la rimessione del ricorso alle sezioni unite, rilevata l'esistenza
di un contrasto sulla questione, sollevata con il primo motivo di ricorso,
se l'ordinanza che dispone la custodia cautelare nei confronti di uno
straniero, che non conosca la lingua italiana, debba essere tradotta in una
lingua, a lui nota.
Il primo presidente assegnava il. ricorso alle sezioni unite
Motivi
della decisione
La
questione che l'ordinanza di rimessione ha sottoposto all'esame delle sezioni
unite è "se l'ordinanza che dispone un misura cautelare nei confronti di
uno straniero che non conosca la lingua italiana debba essere tradotta, a pena
di nullità in una lingua a lui nota."
Il secondo motivo del ricorso impone, peraltro, di soffermarsi. anche sulla
questione risolta in termini contrastanti dalla giurisprudenza di questa suprema
corte, "se l'inosservanza della disposizione dell'art. 26, comma 2, L. 1
marzo 2001 n 63 determini, anche in sede cautelare, l'inutilizzabilità delle
dichiarazioni accusatorie rese nell' interrogatori o disciplinata dall'art. 64
c.p.p., da persone il cui esame non sia stato rinnovato".
-
L'ordinanza
di rimessione, nel riportare le massime di alcune delle sentenze che
ritengono che l'ordinanza di custodia cautelare non debba essere tradotta,
dopo avere richiamato Cass., 5 maggio 1999, n. 2128, p.m. in proc. M. ed
altri, rv. 213523, citata dalle due ordinanze del tribunale del riesame,
trascrive le massime tratte da altre sentenze (Cass., 10 maggio 2002, n
17829, Essid, rv. 221442; 26 giugno 2000, n.3759, Ilir, rv. 216284), le
quali giustificano la non necessità della traduzione dell'ordinanza di
custodia cautelare osservando che, nel caso l'indagato non conosca la lingua
italiana, "la tutela dello stesso è assicurata dall'adempimento
dell'obbligo, previsto dall'art. 94, comma 1 bis, disp. att. c.p.p., del
direttore dell'istituto penitenziario di accertare, se del caso con
l'ausilio di un interprete, che l'interessato abbia precisa conoscenza del
provvedimento che ne dispone la custodia e di illustrargliene, ove occorra,
i contenuti".
L'ordinanza si sofferma, poi, sull'opposto indirizzo riportando il principio
formulato dalle sentenze 21 marzo 2002, n. 11598, Zubieta Bilbao, rv.
221608, 23 settembre 1999, n 4841 Zicha, rv. 214495, 8 settembre 1999, n.
1527, p.m. in proc., Braka ed altri, rv. 214348.
Secondo queste sentenze "dalla combinata lettura della sentenza della
Corte costituzionale n. 10 del 1993, con la quale é stato affermato che il
diritto all'interprete di cui all'art. 143 c.p.p., comprende il diritto alla
traduzione del decreto di citazione a giudizio in tutti i suoi elementi , e
dell'art. 292 dello stesso codice, il quale elenca una serie di elementi che
l'ordinanza cautelare deve enunciare a pena di nullità, deriva che anche
quest'ultimo provvedimento deve recare la traduzione in lingua nota al
destinatario, ove emesso nei confronti di straniero che non conosca la
lingua italiana; anche l'ordinanza custodiale, infatti, alla pari del
decreto di citazione a giudizio, è un atto dal quale l'indagato straniero
che non comprende la lingua italiana può essere pregiudicato nel suo
diritto di partecipare al processo libero nella persona, in quanto, non
comprendendo il relativo contenuto, non è posto in grado di valutare né
quali siano gli indizi ritenuti a suo carico, né se sussistano o meno i
presupposti per procedere alla impugnazione dell'ordinanza, a norma
dell'art. 292, comma 2, c.p.p.".
-
Queste
sezioni unite aderiscono a quest'ultimo indirizzo facendo propri i principi
che seguono, affermati dalla corte costituzionale nella sentenza, del 12
gennaio 1993, n. 10, interpretativa, di rigetto, dell'art. 143 c.p.p..
I.
"Grazie al collegamento con l'art. 143 c.p.p. - che ad esse assicura la
garanzia dell'effettività e dell'applicabilità in concreto delle norme
internazionali, richiamate dall'art. 2 della legge delega 16 febbraio 1987,
n. 81 - la "Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
della libertà fondamentali", firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa
esecutiva in Italia con la L. 4 agosto 1955, n. 848 e "il Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici", firmato il 19
dicembre 1966 a New York, reso esecutivo in Italia con la L. 25 ottobre
1977, n. 88 - il diritto dell'imputato ad essere immediatamente e
dettagliatamente informato, nella lingua da lui conosciuta, della natura e
dei motivi dell'imitazione contestatagli deve essere considerato un diritto
soggettivo perfetto direttamente azionabile".
II.
"Trattandosi "di un diritto, la cui garanzia, ancorché
esplicitata da atti aventi il rango della legge ordinaria, esprima un
contenuto di valore implicito nel riconoscimento costituzionale, a favore di
ogni uomo cittadino o straniero, del diritto inviolabile alla difesa - art.
24, comma secondo, della Costituzione ne consegue che, in ragione della
natura di quest'ultimo quale principio fondamentale, ai sensi dell'art. 2
della costituzione, il giudice è sottoposto al vincolo interpretativo di
conferire alle norme, che contengono le garanzie dei diritti di difesa in
ordine alla esatta comprensione dell'accusa, un significato espansivo,
diretto a rendere concreto ed effettivo, nei limiti del possibile il sopra
indicato diritto dell'imputato".
III.
"Il sistema tracciato dall'art. 143 c.p.p., nel definire
significativamente il contenuto dell'attività dell'interprete in dipendenza
della finalità generale di garantire all'imputato che non intende la lingua
italiana di comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il
compimento degli atti cui partecipa, concepisce la figura dell'interprete,
innovativamente rispetto al codice precedente, in funzione del diritto di
difesa, quale strumento di reale partecipazione dell'imputato al processo
attraverso l'effettiva comprensione dei distinti atti e dei singoli momenti
di svolgimento dello stesso".
IV.
"L 'art 143, comma uno, nell'assicurare una garanzia essenziale al
godimento di un diritto fondamentale di difesa, deve essere interpretato,
pertanto, come una clausola generale, di ampia applicazione destinata ad
espandersi e specificarsi nell'ambito dei fini normativamente riconosciuti
di fronte al verificarsi delle varie esigenze concrete che lo richiedano,
quali il tipo di atto cui la persona sottoposta al procedimento deve
partecipare ovvero il genere di ausilio di cui la stessa abbisogna".
V.
"Ciò induce a ritenere che l'art. 143 sia suscettibile di
un'applicazione estensibile a tutte le ipotesi in cui l'imputato ove non
potesse giovarsi dell'ausilio dell'interprete sarebbe pregiudicato nel suo
diritto di partecipare effettivamente allo svolgimento del processo penale
".
VI.
"Il fatto che la suddetta norma sia contenuta nel titolo dedicato alla
traduzione degli atti e il fatto che il processo penale, a differenza di
quello civile, non distingua la figura del traduttore da quella
dell'interprete, inducono a ritenere che, in via generale, il diritto
all'interprete possa essere fatto valere e possa essere fruito, stando al
tenore dello stesso art. 143 c.p.p., ogni volta che l'imputato abbia bisogno
della traduzione nella lingua da lui conosciuta in ordine agli atti a lui
indirizzati, sia scritti che orali".
VII.
"Così interpretato, l'art. 143, comma uno, c.p.p. impone la necessaria
nomina dell'interprete o del traduttore immediatamente al verificarsi della
circostanza della mancata conoscenza della lingua italiana da parte della
persona nei cui confronti si procede, tanto se tale circostanza sia
evidenziata dallo stesso interessato, quanto se in difetto di ciò, sia
accertata dall'autorità procedente".
-
Come
può agevolmente notarsi, la Corte costituzionale ha fatto discenderia
questi principi, oltre che dagli artt. 2 e 24, comma secondo, della
Costituzione, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali e dal Patto internazionale relativo ai diritti
civili e politici ricordando che l'art. 6, comma 3, lettera a), della
Convenzione stabilisce che "ogni accusato ha diritto a essere
informato, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato della
natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico".
Il Patto contiene una norma pressoché identica, disponendo l'art 14, comma
3, lettera a), che "ogni individuo accusato di un reato ha il diritto,
in posizione di piena uguaglianza, a essere informato sollecitamente e in
modo circostanziato, in lingua a lui comprensibile della natura e dei motivi
dell'accusa a lui rivolta".
Inoltre, sia la Convenzione, sia il Patto prevedono espressamente che
"ogni persona che venga arrestata deve essere informata al più presto
possibile e in una lingua a lei comprensibile dei motivi dell'arresto e di
ogni accusa elevata a suo carico" (art 5, comma 2, della Convenzione) e
che "chiunque sia arrestato deve essere informato, al momento del suo
arresto, dei motivi dell'arresto medesimo e deve al più presto avere
notizia di qualsiasi accusa mossa contro di lui" " (art 9 comma 2,
del Patto).
Il richiamo, poi, della Convenzione e del Patto da parte della Corte
costituzionale ha il suo fondamento nella legge delega 16 febbraio 1987, n.
81, la quale, nell'art. 1, prevedeva che "il codice di procedura,
penale deve attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme
delle convenzioni internazionali ratificate in Italia e relative ai diritti
della persona e al processo penale".
La Relaziona al codice, nel titolo quarto - Traduzione degli atti poneva, a
sua volta, in rilievo che "l'art. 143, comma 1, conferendo allo
straniero che non conosce la lingua italiana il diritto di fruire di un
interprete per comprendere l'accusa formulata contro di lui e seguire il
compimento degli atti processuali a cui partecipa, si uniforma in attuazione
della legge-delega, agli impegni internazionali sottoscritti dall'Italia a
questo riguardo (art 6, c. 3, lett. a) ed e), della Convenzione europea sui
diritti dell'uomo; art. 14 n. 3, lett. a) ed f), del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e Politici).
-
Ebbene,
se, come afferma la Corte Costituzionale, l'art. 143, comma uno, c.p.p. deve
essere interpretato, anche alla luce della convenzioni. internazionali, come
una clausola generale, di ampia applicazione destinata ad espandersi e a
specificarsi, nell'ambito dei fini normativamente riconosciuti, di fronte al
verificarsi delle varie esigenze concrete che lo richiedano, quali il tipo
di atto cui la persona sottoposta al procedimento deve partecipare ovvero il
genere di ausilio di cui la stessa abbisogna; se l'art. 143, proprio perché
deve essere interpretata come clausola generale di ampia applicazione,
destinata ad espandersi, non può non trovare applicazione in tutte le
ipotesi in cui l'imputato ove non potesse giovarsi dall'ausilio
dell'interprete sarebbe pregiudicato nel suo diritto di partecipare
effettivamente allo svolgimento del processo; se, infine, il diritto
all'interprete può essere fatto valere e può essere fruito, stando al
tenore letterale dello stesso art 143 c.p.p., ogni volta che l'imputato
abbia bisogno della traduzione nella lingua da lui conosciuta in ordine a
tutti gli atti a lui indirizzati sia scritti che orali, il provvedimento che
dispone la custodia per il contenuto che lo contraddistingua - la
contestazione di un reato con la indicazione dei gravi indizi di
colpevolezza, che giustificane l'emissione del provvedimento coercitivo, e
delle esigenze cautelari - e per gli effetti che ne scaturiscono - la
privazione della libertà - è certamente uno degli atti rispetto ai quali
è pressoché impossibile ipotizzare che colui che ne è il destinatario non
voglia esercitare il diritto inviolabile di difesa.
Esercizio il cui imprescindibile, naturale, presupposto non può non essere
la comprensione dell'atto, impossibile per chi non conosca la lingua
italiana, nella quale, obbligatoriamente, come prevede il comma 1 dell'art.
109, gli atti del procedimento sono compiuti, donde l'onere processuale per
il giudice di porre a disposizione dell'indagato o dell'imputato quei
presidi, traduzione dell'atto, interprete, che l'ordinamento giuridico
prevede nel titolo TV la cui rubrica preannuncia che le norme che seguono
disciplinano la "traduzione degli atti" del libro secondo,
destinato agli atti del codice di rito.
Non può, quindi, seguirsi l'indi rizzo giurisprudenziale, accolto
dall'ordinanza impugnata, secondo il quale, come si è visto, la necessità
di garantire la consapevole partecipazione agli atti del procedimento non è
prospettabile in relazione all'ordinanza cautelare non contenendo
quest'ultima, al proprio interno dati informativi ovvero mirati avvertimenti
in ordine all'esistenza e alle modalità di esercizio di diritti e facoltà
dell'indagato, in relazione agli effetti dell'atto, cui il difetto della
traduzione in lingua italiana si porrebbe corna concreto ostacolo.
Se, infatti, non può negarsi che l'ordinanza di custodia cautelare non
contenga "quei particolari dati informativi ovvero quei mirati
avvertimenti" cui allude l'ordinanza impugnata, perché si faccia lungo
alla traduzione o alla nomina dell'interprete non è necessario, però, che
l'atto li abbia, essendo sufficiente che il codice, di rito colleghi
all'atto determinati, ulteriori, atti quali, nel caso dell'ordinanza che
disponga la custodia cautelare, l'interrogatorio di garanzia, previsto
dall'art. 294 c.p.p., e la possibilità di impugnare il provvedimento
custodiale con la richiesta di riesame disciplinata dall'art. 309 c.p.p. nei
quali l'intervento o l'iniziativa dell'interessato hanno senso soltanto se
questi, non a conoscenza della lingua italiana sia stato posto nelle
condizioni di comprendere il significato dell'ordinanza.
La norma dell'art. 294 c.p.p. dispone, come è noto, che, nel corso delle
indagini preliminari e fino alla trasmissione degli atti al giudice del
dibattimento, il giudice, se non vi ha proceduto nel corso dell'udienza di
convalida dell'arresto o del fermo di indiziato di reato, procede
all'interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare in carcere
immediatamente e comunque non oltre cinque giorni dall'inizio
dell'esecuzione e il comma 3 della norma prevede che "mediante
l'interrogatorio il giudice valuta se permangono le condizioni di
applicabilità e le esigenze cautelari previste dagli artt. 273, 274 e 275,
aggiungendo, nella seconda parte, che, "quando ne ricorrono le
condizioni, provvede, a norma dell'art. 299, alla revoca o alla sostituzione
della misura disposta".
E' certamente innegabile che l'indagato abbia il diritto, espressione del
diritto di difesa, di contestare l'ordinanza applicativa della misura e,
quindi, di offrire contributi perché il giudice si convinca della non
permanenza delle condizioni di applicabilità della stessa e della
insussistenza delle esigenze cautelari, diritto, però, che l'indagato può
esercitare soltanto se sia stato in grado di comprendere il contenuto del
provvedimento restrittivo della libertà e soprattutto le ragioni che hanno
portato il giudice a privarlo della libertà.
L'impugnazione del provvedimento con la richiesta di riesame è l'altro
atto, collegato all'ordinanza di custodia cautelare, del quale l'indagato o
l'imputato può avvalersi per negare la sussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza o, quanto meno, delle esigenze cautelari ed è noto che il
termine dieci giorni per richiedere il riesame, dell'ordinanza che ha
disposto la custodia cautelare decorre dalla esecuzione del provvedimento.
L'interessato deve poter fruire di questo termine per intero, sicché deve
poter cogliere il contenuto del provvedimento, che intende impugnare,
immediatamente, come afferma la Corte costituzionale, anche se, come la
stessa precisa, nei limiti del possibile e si vedrà tra poco quale sia il
valore di questa espressione ed è da ricordare cha la giurisprudenza della
corte europea, nel soffermarsi sull'art. 5 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo, si è più volte pronunciata sulla
finalità del diritto riconosciuto all'arrestato alla conoscenza dai motivi.
della privazione della libertà, sottolineandone proprio lo stretto
collegamento con l'altro diritto riconosciuto "ad ogni persona privata
della libertà mediante arresto o detenzione di indirizzare un ricorso ad un
tribunale affinché questo decida entro brevi termini, sulla legalità della
detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegale" (cfr.,
per tutte, caso Conka v. Belgium: sentenza del 5 febbraio 2002).
-
Non
può concludersi sul punto senza rilevare che il diritto dell'indagato e
dell'imputato di essere posti in grado di comprendere, in una lingua che
conoscano, il contenuto degli atti stessi indirizzati è stato riconosciuto,
dall'art. 111 della Costituzione, modificato, con aggiunte, dalla L. costit.
23 novembre 1999, n. 2, come costitutivo del diritto inviolabile di difesa
in ogni stato e grado del processo previsto dall'art. 24, comma secondo,
della Costituzione.
L'art. 111, dopo avere affermato, nel primo comma, che "la
giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla
legge" e nel secondo, che "ogni processo si svolge nel
contraddittorio delle parti, nel terzo comma, nell'indicare ciò che la
legge deva assicurare perché l'imputato possa esercitare efficacemente, nel
processo penale, il diritto di difesa, dispone, nell'ultima parte, che la
legge assicura anche che "la persona accusata di un reato sia assistita
da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel
processo e non può dubitarsi che la norma trovi applicazione anche nel
procedimento, in tutti i casi, cioè, in cui sia in questione, direttamente
o indirettamente, la libertà personale.
Può ritenersi quindi , che l'interpretazione dell'art. 143 c.p.p. che la
Corte costituzionale ha dato con la sentenza interpretativa di rigetto n.
10/1993, fondandola sui valori della Costituzione e delle Convenzioni.
internazionali, sia, a maggior ragione alla luce dell'art. 111,
irreversibile, dovendo ragionevolmente escludersi che la legge ordinaria o
l'interprete possano esprimersi, in futuro, in contrasto con l'inequivoco
dettato dell'art. 111 della Carta.
-
alla
più volte citata sentenza della Corte costituzionale emerge anche quale sia
il presupposto che fa sorgere il diritto alla traduzione o all'interprete e,
quindi, quando possa dirsi che l'ordinamento giuridico imponga al giudice di
disporre per la traduzione dell'ordinanza di custodia cautelare o di
avvalersi di un interprete perché provveda ad illustrarne all'interessato
il contenuto.
Come è stato osservato dalla dottrina, "la sentenza della Corte
costituzionale, conferendo al diritto all'interprete un forte fondamento
costituzionale individuato nel diritto inviolabile alla difesa, a sua volta
ritenuto un principio fondamentale ex art. 2 Costit., ha affermato che tale
diritto va reso, sì, 'concreto ed effettivo', ma 'nei limiti del possibile'",
volendo significare che "anche la garanzia di un diritto inviolabile
non può essere scissa da un esame sulla possibilità concreta della sua
estrinsecazione e, dunque, da un confronto con la realtà storica in cui
tale garanzia è destinata a realizzarsi ed é proprio a questo limite
generale della concreta possibilità che va ricollegata l'affermazione
successiva della sentenza sulla rilevanza di ciò che risulta dagli atti in
ordine alle conoscenze linguistiche dell'imputato".
E l'affermazione successiva della sentenza della Corte costituzionale, cui
fa riferimento la dottrina, è quella in cui, distinguendo tra l'art.143 e
gli artt. 109 e 169 c.p.p., il giudice delle leggi afferma sia che "la
garanzia apprestata dall'art. 143 ha carattere generale e si estende a
qualsiasi persona, di qualunque nazionalità, che, essendo sottoposta a
procedimento penale nel territorio dello Stato, risulta essere non in grado
di comprendere la lingua italiana", sia che, "interpretato alla
luce dei principi appena ricordati, l'art. 143, primo comma, c.p.p. impone
si proceda alla nomina dell'interprete o del traduttore immediatamente al
verificarsi della circostanza della mancata conoscenza della lingua italiana
da parte della persona nei cui confronti si procede. tanto se tale
circostanza sia evidenziata dallo stesso interessato quanto se, in difetto
di ciò, sia accertata dall'autorità procedente".
E' l'accertamento della mancata conoscenza della lingua italiana, dunque, ciò
che rende possibile dare immediata concretezza ed effettività al diritto
alla traduzione o all'interprete ed è da questo accertamento che,
scaturendone il diritto dell'indagato alla traduzione o all'intervento
dell'interprete, sorge anche l'obbligo per il giudice di consentirne
l'esercizio.
Ne consegue che, mentre "l'art 169, terzo comma - il quale prescrive
l'obbligo di notificare all'estero, tradotto nella lingua dell'imputato
straniero, l'invito a dichiarare o a eleggere domicilio nel territorio dello
Stato - impone la redazione dell'atto in una lingua diversa da quella
ufficiale in presenza del mero ricorrere della nazionalità straniera
dell'imputato, salvo che dagli atti del processo non risulti la conoscenza
da parte dell'imputato stesso della lingua italiana"; mentre, cioè,
come commenta la dottrina, "l'assenza di elementi sulle conoscenze
linguistiche dell'imputato straniero è sufficiente per rendere necessaria
la traduzione nel caso previsto dall'art. 169, comma 3", l'assenza di
quegli. elementi non é, invece, sufficiente "per rendere operativo il,
generale diritto all'interprete, previsto dall'art. 143, comma 1, il quale
richiede che risulti dagli atti la non conoscenza della lingua
italiana", sicché, se l'indagato o l'imputato non ha avuto alcun
contatto con il giudice e se la non conoscenza della lingua italiana non
risulta in altro modo dagli atti il giudice non è tenuto alla traduzione
dell'ordinanza.
Sono in questi termini, sul punto, dopo la sentenza della Corte
costituzionale, tra le altre, Cass., 2 luglio 1993, Bangula, 27 maggio 1995,
Tounsi, 2 giugno 1995, Alegra, 26 aprile 1999, Braka, 14 novembre 2000,
Tavanxhiu, ss.uu., 31 maggio 2000, Jakani, sentenza, questa, che ha anche
affermato che "l'accertamento della conoscenza della lingua italiana da
parte dello straniero costituisce un'indagine di mero fatto il cui esito, se
riferito dal giudice di merito con argomentazioni esaustive e concludenti,
sfugge al sindacato di legittimità".
Il prevalente contrario indirizzo della giurisprudenza della corte di
cassazione (Cass., 6 febbraio 1992, Samire Iandoubis; 6 aprile 1993, Kamel;
20 maggio 1993, Osagie Anuanru; 4 febbraio 1994, Bouariz; 14 settembre 1994,
Puertas; 21 novembre 1996, Romero; 18 settembre 1997, Minoun Mohamed; 15
giugno 1998, Zymaj; 23 gennaio 1999, Daraji), secondo il quale è onere
dell'indagato dimostrare o, almeno, dichiarare di non conoscere la lingua
italiana, spettando all'autorità giudiziaria unicamente il potere dovere di
valutarne la necessità, non può essere condiviso perché sottovaluta le
affermazioni centrali della sentenza della Corte costituzionale essere il
diritto alla traduzione a all'interprete un diritto soggettivo perfetto
direttamente azionabile riconducibile al diritto inviolabile alla difesa
(art, 24, secondo comma, Costituzione) ed essere compito del giudice,
imposto dalla natura di quel diritto, accertare, in assenza dell'iniziativa
dell'interessato, la non conoscenza, da parte di quest'ultimo, della lingua
italiana.
-
Il
giudice, se non é tenuto a disporre la traduzione dell'ordinanza nel
momento in cui la emette, ove dagli atti non risulti la non conoscenza della
lingua italiana da parte dell'indagato, qualora accerti, dopo l'esecuzione
del provvedimento e nel momento in cui procede all'interrogatorio di
garanzia previsto dall'art. 294c.p.p., che l'indagato non conosce la lingua
italiana, deve nominare un interprete conferendogli l'incarico di illustrare
all'indagato il contenuto dell'atto, oltre che l'incarico di spiegare
all'indagato il significato degli ulteriori atti cui partecipa.
Merita di essere sottolineata, sul punto, la sentenza del 12 dicembre 2001,
Kislitsyn, la quale, dopo avere posto in rilievo che la nomina di un
interprete all'imputato straniero è subordinata all'accertamento della
mancata conoscenza della lingua italiana, osserva, con riferimento proprio
alla mancata traduzione, nella specie, dell'ordinanza applicativa della
custodia cautelare, sia che, "in mancanza di alcun contatto tra le
parti, prima della richiesta del provvedimento restrittivo... il giudice
procedente non poteva ritenere essenziale la nomina di un traduttore",
sia che il momento della verifica della suddetta condizione andava
identificato nell'interrogatorio di garanzia".
Da quanto appena detto discende che, se soltanto in sede di interrogatorio
di garanzia l'indagato è stato posto in grado di comprendere il contenuto
dell'ordinanza di custodia cautelare, il termine per impugnare il
provvedimento decorra soltanto da questo momento, non essendovi alcuna
ragione per non consentire all'indagato di avvalersi dell'intero termine per
impugnare previsto dalla legge.
In questo senso è anche la dottrina, la quale, dopo aver dette che "lo
straniero - indagato o imputato - che abbia avuto notificato un atto scritto
redatto soltanto in italiano ha la facoltà di rivolgersi all'ufficio che ha
emanato tale atto, facendo presente in modo verosimile che non conosce la
lingua italiana", aggiunge che, quindi, quello straniero ha il diritto
di ottenere la sollecita traduzione dell'atto scritto, con la conseguenza
che gli eventuali termini collegati alla notifica medesima iniziano a
decorrere soltanto dalla consegna della traduzione".
-
Va,
però, prestata attenzione anche a quell'indirizzo giurisprudenziale, pure
citato nell'ordinanza di rimessione, secondo cui "il giudice, il quale
ignori che lo straniero non comprende la lingua italiana, non ha il dovere,
di disporre che il provvedimento di custodia cautelare emesso nei suoi
confronti gli sia notificato insieme con la traduzione, anche, perché,
qualora lo straniero stesso non sia in grado di capire la lingua italiana,
la concreta conoscenza dell'atto è assicurata dal disposto dell'art. 94
comma 1-bis, disp.att. c.p.p. che pone a carico del direttore dell'istituto
penitenziario o di un operatore da lui delegato l'onere di accertare se del
caso con l'ausilio di un interprete, che l'interessato abbia precisa
conoscenza del provvedimento con cui è stata disposta la sua custodia e di
illustrargliene, ove occorra, i contenuti (Cass., 12 aprile 2002, Asilo; 10
maggio 2002, Essid; 12 aprile 2001, Iushi ; 26 giugno 2000, Ilir; 20 marzo
2000, Weizer; ss.uu. 31 maggio 2000, Jakani).
Questo indirizzo è, in parte, nel vero.
Si è detto in precedenza che, ove risulti dagli atti, nel momento in cui è
emesso il provvedimento custodiale, che l'indagato non conosce la lingua
italiana, il giudice deve disporre immediatamente che l'ordinanza sia
eseguita con la consegna anche di copia della traduzione della stessa nella
lingua conosciuta dallo straniero.
E' questo e non altro il significato dell'affermazione con la quale la Corte
costituzionale ha posto in rilievo "il diritto dell'imputato ad essere
immediatamente e dettagliatamente informato, nella lingua da lui conosciuta,
della natura e dei motivi dell'imputazione contestatagli", immediatezza
che il giudice delle leggi ha ribadito trattando del presupposto per la
traduzione e dicendo che la traduzione deve essere disposta
"immediatamente al verificarsi della circostanza della mancata
conoscenza dalla lingua italiana da parte della persona nei cui confronti si
procede".
Non è, pertanto, condivisibile Cass., 14 novembre 2000, Tavanxhiu, quando
afferma, con riferimento "all'obbligo di traduzione dell'ordinanza
impositiva della misura cautelare già all'atto dell'emissione", che
"l'ordinanza impositiva della custodia cautelare in carcere non deve
essere notificata insieme alla sua traduzione all'imputato od indagato
alloglotta, perché in tal caso la tutela di costui è assicurata, a norma
dell'art. 94 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura
penale, dall'obbligo del direttore dall'istituto penitenziario di accertare
se del caso con l'ausilio di un interprete, che l'interessato abbia precisa
conoscenza del provvedimento che ne dispone la custodia e di
illustrargliene, ove occorra i contenuti ponendolo, quindi, in condizione di
sapere di che lo si accusa e di predisporre ali appositi rimedi".
Ma, diverso è il caso in cui, non risultando dagli atti che l'indagato non
conosce la lingua italiana, l'agente incaricato di eseguire l'ordinanza
gliene consegni copia senza la traduzione e il direttore dell'istituto
penitenziario, nel quale l'indagato é stato tradotto, o l'operatore
designato dal direttore, accerti, se del caso con l'ausilio di un
interprete, che l'interessato abbia precisa conoscenza del provvedimento che
ne dispone la custodia e gliene illustri, ove occorra, i contenuti.
La traduzione dell'ordinanza nel momento in cui è emessa o la nomina di un
interprete per la traduzione in sede di interrogatorio di garanzia non sono,
invero, fine a se stessi, ma sono strumenti, mezzi per conoscere il
contenuto del provvedimento e, quindi, per consentire all'indagato di
esercitare effettivamente il diritto di difesa sicché il giudice, quando
proceda all'interrogatorio previsto dall'art. 234 c.p.p., può
legittimamente astenersi dalla nomina di interprete per la traduzione
dell'ordinanza custodiale se accerti che l'indagato, grazie all'intervento,
previsto dalla legge, del direttore dell'istituto penitenziario, ne ha
precisa conoscenza, soltanto dalla quale - e ciò anche nel caso in cui
l'indagato ha avuto quella conoscenza nell'istituto penitenziario - decorre,
come si è detto, il termine per impugnare.
Né si obietti., come lo obietta il ricorrente nella memoria, che
"l'art. 94, 1 bis, disp. att. prevede un accertamento sommario, per
giunta di carattere amministrativo, che non sfocia in alcun atto del
procedimento, che è affidato alla buona volontà del direttore del
penitenziario e del quale non é neppure prevista la verbalizzazione".
È, invero, da osservare che, se non può negarsi che si tratta di un
accertamento da compiersi in sede amministrativa, è certo, però, che la
legge impone al direttore di accertare se l'interessato ha precisa
conoscenza dell'atto e di illustrargliene, ove necessario, il contenuto, il
che esclude categoricamente che l'intervento del direttore o dell'operatore
dell'istituto penitenziario possa risolversi in un accertamento sommario.
Sarà, in ogni caso, compito del giudice in sede di interrogatorio di
garanzia, rendersi conto se l'indagato ha precisa conoscenza dell'atto e,
quindi, di provvedere, eventualmente, alla nomina dell'interprete anche a
tal fine.
-
Non
può, infine, condividersi quell'ulteriore indirizzo esposto anch'esso nella
ordinanza di rimessione secondo il quale, nel caso non poco frequente di
ordinanza custodiale emessa nell'udienza di convalida dell'arresto dopo
l'interrogatorio dell'arrestato e dopo l'ordinanza di convalida, non occorre
la traduzione dell'ordinanza "perché, in questo caso, la presenza
dell'interprete all'udienza di convalida al relativo interrogatorio ha
consentito di informare l'arrestato in ordine all'imputazione e agli
elementi fondanti l'accusa, nonché di consentirgli di spiegare un'effettiva
difesa rendendo la versione dei fatti nella propria lingua in un momento
antecedente l'emissione del titolo limitativo della libertà personale, in
maniera da non rendere necessaria ai fini difensivi la traduzione
dell'ordinanza impositiva nella lingua straniera parlata dall'indagato"
(Cass., 17 dicembre 2002, Bohm, rv. 223487; 4 febbraio 2000, Weizer, rv.
216526; 5maggio 1999, Metuschi, rv. 213523).
Nell'interrogatorio previsto dall'art. 391, comma 2, seconda parte, c.p.p. -
interrogatorio che la norma dell'art. 294, comma 1, colloca espressamente
sullo stesso piano di quello in essa previsto - l'indagato, che non conosca
la lingua italiana, è posto, grazie all'intervento dell'interprete, nella
condizione di avere precisa conoscenza delle ragioni dell'arresto e di
difendersi .
Ma, l'ordinanza di custodia cautelare, eventualmente emessa dopo l'ordinanza
di convalida, se, molto verosimilmente, nulla aggiunge a quanto già noto
all'arrestato in ordine ai gravi indizi di colpevolezza, deve anche
soffermarsi, ritenendole sussistenti, sulle esigenze cautelari, rispetto
alle quali. l'indagato ha sentito, al più, la richiesta del p.m., tradotta
dall'interprete, di applicazione della misura cautelare anche per
determinate esigenze cautelari, senza, però, essere in grado di sapere, se
non leggendo il provvedimento in una lingua a lui nota o sentendone la
traduzione dell'interprete presente, se e in qua le misura il giudice della
convalida le abbia fatte proprie ed è noto che l'indagato, con la richiesta
di riesame, può limitarsi a contestare la sussistenza delle esigenze
cautelari.
-
La
omessa traduzione del provvedimento custodiale nel momento in cui è emesso,
ove ne ricorra il presupposto, o la mancata nomina dell'interprete per la
traduzione in sede di interrogatorio di garanzia, quando non si. sia già
provveduto ai sensi della norma dell'art. 94, comma 1 bis, disp. att., è
causa di nullità dell'atto rispettivamente, dell'ordinanza di custodia
cautelare o dell'interrogatorio di garanzia nullità che come hanno
affermato queste sezioni unite nella sentenza Jakani, già citata, deve
annoverarsi, in difetto di una specifica previsione della norma dell'art.
143 c.p.p., tra le nullità contemplate dagli artt. 178, lett. c), e 180
c.p.p.. la cui deducibilità è soggetta a precisi termini di decadenza (in
questo senso, quanto alla omessa nomina dell'interprete, Cass. 27 novembre
1992, Kamel, rv. 198431, 198432; 2 ottobre 1994, Kourami, rv., 199465; 10
aprile 1995, Polisi, rv. 20146; 17 dicembre 1998, Daraij, rv. 213068; 13
giugno 2001 Sharp, rv. 220040).
-
Tutto
ciò chiarito, nella specie non può, peraltro, non condividersi
l'affermazione dell'ordinanza impugnata, conforme, sul punto,
all'affermazione della precedente ordinanza del tribunale per il riesame
annullata dalla corte di cassazione.
L'ordinanza impugnata, se ha premesso, errando, che il provvedimento che
dispone la custodia cautelare non deve essere tradotto, ha aggiunto che,
"nel caso in esame, non é ipotizzabile alcuna menomazione del diritto
dello Z. di essere al più presto informato con completezza ed in modo
intelligibile della natura e dei motivi dell'accusa a lui rivolta, dovendosi
osservare che, quando l'ordinanza di custodia cautelare è stata emessa,
l'indagato era latitante per cui non risultava di fatto possibile alcun
accertamento sulla conoscenza della lingua italiana e che, sopravvenuta
l'esecuzione della ordinanza custodiate; lo Z. è stato sentito dal g.i.p.
in sede di interrogatorio di garanzia con l'assistenza di un interprete di
lingua lituana che ha proceduto alla traduzione delle contestazioni mosse
all'indagato e delle ragioni che avevano determinato l'emissione
dell'ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti ".
Queste proposizioni dicono con chiarezza che il giudice di merito ha
accertato, valutando il relativo l'atto l'interrogatorio di garanzia che
l'indagato, in quella sede, era stato posto in grado di rendersi conto delle
contestazioni mossegli nell'ordinanza di custodia cautelare e delle ragioni,
nella stessa esposte, che le avevano determinate.
A questo accertamento in fatto, adeguatamente motivato, non può eccepirsi,
come si fa nel ricorso, che "l'interrogatorio è stato reso senza che
il prevenuto abbia avuto integrale conoscenza del provvedimento restrittivo
emesso nei suoi confronti", che è evidente l'irrilevanza processuale
di questa eccezione.
Se, infatti, l'ordinanza custodiate non può non essere completamente
tradotta allorché, risultando dagli atti la non conoscenza, da parte
dell'indagato, della lingua italiana, venga eseguita con la consegna di
copia, non solo dell'originale in lingua italiana, ma anche della
traduzione, l'intervento dell'interprete che, in sede di interrogatoria ex
art. 294 c.p.p., esponga all'indagato, dinanzi al giudice e con la garanzia
della presenza del difensore, la contestazione che gli è stata mossa
indicandogliene le ragioni ivi comprese le ragioni relative alle esigenze
cautelati non può, invece, non esonerare il giudice dal disporre la
traduzione letterale dell'ordinanza custodiale.
Può astrattamente verificarsi, anche se la presenza del giudice e del
difensore lo fanno più che ragionevolmente escludere, che la traduzione
dell'interprete trascuri dettagli rilevanti.
Il ricorrente, però, si è limitato ad eccepire che la traduzione non è
stata dettagliata, senza escludere espressamente che, come ha affermato
l'ordinanza impugnata, l'interprete ha indicato all'indagato la
contestazione e le ragioni che l'avevano determinata, ha indicato, cioè, i
dettagli rilevanti; quanto era necessario per consentire all'indagato di
difendersi.
-
Il
secondo motivo è fondato.
Con questo motivo il ricorrente pone l'ulteriore questione, risolta in
termini contrastanti dalla giurisprudenza di questa suprema corte,
dell'utilizzabilità delle dichiarazioni nella specie, delle dichiarazioni.
della coindicata G. I., assunte dal g.i.p. il 5 febbraio e dal p.m. il 9
febbraio 2001 rilasciate prima dell'entrata in vigore della legge 1 marzo
2001, n. 63, pubblicata il successivo 22 marzo.
Questa legge, dando attuazione ai principi sul giusto processo dettati
dall'art. 111 della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale
23 novembre 1999, n. 2, ha modificato, tra le altre, le regole generali da
osservarsi nell'interrogatorio dell'indagato, disciplinato nell'art. 64
c.p.p..
Ha, anzitutto, sostituito il comma tre di quest'articolo nel senso che,
"prima che abbia inizio l'interrogatorio, la persona deve essere
avvertita che:
le
sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti;
I. salvo quanto disposto dall'art. 66. comma 1, ha facoltà di non
rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo
corso;
II.
se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di
altri assumerà, in ordine a tali fatti, l'ufficio di testimone, salve le
incompatibilità previste dall'art. 197 le garanzie di cui all'art. 197
bis".
Ha
introdotto, poi, nell'articolo il comma 3 bis prevedendovi che
"l'inosservanza delle disposizioni di cui al comma 3, lettere a) e b),
rende inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata" e
che "in mancanza dell'avvertimento di cui al comma 3, lettera c), le
dichiarazioni eventualmente rese dalla persona interrogata su fatti che
concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro
confronti e la persona interrogata non potrà assumere in ordine a detti
fatti, l'ufficio di testimone".
La legge, inoltre, nei cinque commi dell'art. 26 ha previsto regole di diritto
intertemporale disponendo, nei commi 1 e 2, che qui interessano, che - comma 1
- "nei processi in corso alla data di entrata in vigore della presente
legge si applicano le disposizioni degli articoli precedenti salvo quanto
stabilito nei commi da 2 a 5" e che comma 2 - "se il procedimento è
ancora nella fase delle indagini preliminari, il pubblico ministero provvede a
rinnovare l'esame dei soggetti indicati negli artt. 64 e 197 bis del codice di
procedura penale, come rispettivamente modificato ed introdotto dalla presente
legge, secondo le norma ivi previste".
Relativamente al regime intertemporale si è posta, dunque, la questione
dell'applicabilità dell'art. 64 c.p.p., come modificato dalla legge in esame,
nella fase delle indagini preliminari ed, in particolare, dell'utilizzabilità,
ai fini della valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, di cui all'art.
273, comma 1, c.p.p., delle dichiarazioni rese, nel corso delle predette
indagini, prima - come nel caso in esame - della novella legislativa e quindi
senza le formalità previste dall'art. 64 c.p.p., così come modificato.
Nel seno dell'applicabilità dell'art. 64, come modificato, e
dell'inutilizzabilità delle dichiarazioni assunte prima della novella
legislativa si sono espresse cass., 16 novembre 2001, Gullace, rv. 220604,
cass., 13 novembre 2002, Fiore, rv. 222714, cass., 1 luglio 2002, Qira, rv.
223359, cass., 11 febbraio 2002, Giuliano, rv. 220997, cass. 13 novembre 2001,
Romanelli, cass. 25 marzo 2002, Perna.
Secondo queste sentenze, "le dichiarazioni che concernono la
responsabilità di altri rese da indagati il cui interrogatorio ovvero le cui
dichiarazioni ai sensi dell'art. 350 c.p.p. sono stati assunti senza
l'osservanza delle garanzia di cui all'art. 64, comma tre, lettera c), c.p.p.,
non sono utilizzabili ai fini della valutazione della sussistenza dei gravi
indizi, ai sensi dell'art. 273, comma 1, c.p.p., anche se l'interrogatorio o
le dichiarazioni sono stati resi prima dell'entrata in vigore della L.
63/2001, ma non siano stati rinnovati dalla pubblica accusa in osservanza
delle prescrizioni di cui all'art. 26, comma dalla medesima legge".
Secondo l'opposto indirizzo, invece, "la chiusura delle indagini
preliminari costituisce lo sbarramento" dell'iniziativa del p.m. per la
rinnovazione dell'esame dei soggetti. indicati negli arti. 64 e 197 bis c..p.p.
, con la conseguenza che deve escludersi che gli atti legittimamente
"compiuti ed esauriti" nel procedimento de libertate in base alla
previgente disciplina, tra cui l'acquisizione e valutazione, ai fini della
sussistenza del grave quadro indiziario, della prova dichiarativa, debbano
ritenersi non più utilizzabili ai fini dello stesso procedimento; tali atti,
una volta che siano stati acquisiti e valutati legittimamente nella vigenza
del pregresso regime e si sia esaurita l'attività di indagine, che ha portato
all'applicazione e alla conferma della misura cautelare; sono, quindi,
utilizzabili nel suddetto procedimento incidentale, comportando l'esaurimento
della fase delle indagini preliminari la loro inutilizzabilità nel giudizio
di merito (Cass., 20 novembre 2001, Andolfi, rv. 221548; 29 gennaio 2002,
Dedato, rv., 221553; 16 ottobre 2001, Calfato, rv. 20042).
Queste sezioni unite ritengono di dovere aderire al primo indirizzo, con
alcune puntualizzazioni.
Secondo cass. , 6 novembre 2001 , Gullace , dal dato letterale delle
disposizioni di diritto transitorio dettate dall'art. 26 si evince che fatte
salve le eccezioni previste nei commi da 3 a 5, che si riferiscono alla fase
del giudizio e mutuano la loro legittimità costituzionale dall'art. 2 della
legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 - "le modifiche introdotte
dalla legge n. 63/2001 devono trovare 'immediata applicazione' non solo nei
processi in corso, in base al disposto di cui al primo comma del citato art.
26, ma anche nella 'fase delle indagini preliminari', avendo il legislatore
espressamente previsto, nel comma due del citato art 26, che il pubblico
ministero deve provvederti a rinnovare l'esame dell'indagato con l'osservanza
delle garanzie di cui all'art. 64 c.p.p., come modificato dalla novella, anche
con riferimento all'ipotesi che questi possa assumere la qualità di
testimone, ai sensi dell'art. 197 bis c.p.p..".
Dal combinato disposto dei primi due commi, dell'art. 26 deriva, quindi, che
"anche nella fase delle indagini. preliminari trova applicazione la
sanzione della inutilizzabilità, ai sensi dell'art. 64, comma 3 bis, c.p.p.,
delle dichiarazioni rese dall'indagato su fatti che concernano la
responsabilità di altri, se l'interrogatorio non è stato preceduto
dall'avvertimento di cui al terzo comma lett. c) del medesimo articolo, ai
fini della valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, alla cui sussistenza
l'art. 273, comma uno, c.p.p. subordina l'applicazione di misure limitative
della libertà personale".
Ebbene, l'interpretazione dell'art. 26, comma 2, della L. n. 65/2001 non può
non essere preceduta, per coglierne il valore, dall'interpretazione del comma
1 dello stesso articolo, il quale dispone che "nei processi penali in
corso alla data di entrata in vigore della presente legge si applicano le
disposizioni degli articoli precedenti salvo quanto stabilito nei commi da 2 a
5".
Come é stato osservato dalla dottrina, non v'è alcuna ragione di dubitare
che il termine processi usato dalla legge debba essere inteso quale sinonimo
di procedimenti, senza alcuna distinzione di fasi o gradi "ed é proprio
la mancanza di un ulteriore limite di riferimento che induce a cogliere, nella
formula impiegata dalla disposizione in esame, una norma singolare dai
contenuti ben diversi dal principio generale tempus regit actum, in virtù del
quale gli atti legittimamente compiutisi in un determinato momento storico
conservano validità".
" L'actus preso in considerazione dalla legge attuativa del giusto
processo non è, infatti, - prosegue la dottrina il singolo atto probatorio
ovvero una fase o un grado dell'iter processuale, ma si identifica con
l'intero arco del procedimento in corso e, all'interno di tale spazio,
l'efficacia immediata della nuova disciplina riguarda, indistintamente tutti
gli atti processuali compiuti o da porre in essere".
Ne consegue che, "se il principio tempu regit actum" neutralizza
l'efficacia della nuova disciplina rispetto agli atti ormai acquisiti, la
norma singolare contenuta nell'art. 26, comma 1, laddove prescrive l'immediata
operatività dello ius superveniens ai 'processi in corso', impone al giudice
di vagliare la legittimità dell'atto probatorio alla luce della disciplina
vigente, non già al momento dell'acquisizione, bensì al tempo della
decisione", e quindi della sua utilizzazione processuale.
Si osserva, dalla stessa dottrina, che "una simile chiave di lettura
comporta, peraltro, conseguenze meno dirompenti di quanto appaia a prima
vista, ove si consideri come i divieti probatori introdotti dalla legge n. 63
del 2001 possiedano una comune ratio ispiratrice individuabile nell'attuazione
del metodo del contraddittorio enunciato all'art. 111, comma 4, della
Costituzione, sicché, poiché i nuovi canoni costituzionali estendono la loro
efficacia a tutte le vicende nate all'indomani del 7 gennaio 2000, l'effetto
retroattivo della L. n. 63 del 2001 interessa uno spazio già investito in
gran parte dal divieto di acquisire conoscenze formate al di fuori del metodo
dialogico e sotto questa luce ben si comprende la scelta a favore di una
parziale retroattività delle nuove regole probatorie compiuta dall'art. 26,
comma 1, non dovendo trascurarsi, inoltre, come il precetto in discorso
conosca varie deroghe, di entità differenziata a seconda della fase del
procedimento presa in considerazione".
Se questo è l'ambito dell'art. 26, comma L. dalla legge in esame, la regola
transitoria del comma due "è destinata ad operare nella fase delle
indagini preliminari e guarda all'ipotesi in cui gli organi investigativi
abbiano già assunto dichiarazioni nel corso di un interrogatorio alla data di
entrata in vigore della legge, facendosi carico, in tal caso, al p.m. di 'rinnovare',
secondo le forme ex artt. 64 e 197 bis, "rispettivamente modificato e
introdotto dalla presente legge , l'esame dei soggetti indicati".
L'art. 26, comma 2, significa, allora, che il p.m. deve procedere ad un nuovo
interrogatorio, avendo voluto il legislatore "meglio garantire la
funzionalità del sistema, premurandosi rispetto al rischio di dispersione
delle conoscenze raccolte nel corso delle indagini.
Lo ius superveniens - la L. n. 63/2001 è stato, dunque, reso applicabile,
anche alla fase delle indagini preliminari e anche ai procedimenti de
libertate, dalla regola di cui al comma 1 dell'art. 26, con la conseguenza
che, dopo l'entrata in vigore della legge, un interrogatorio, assunto ai,
sensi dell'art. 64 nella formulazione anteriore all'intervento delle modifiche
introdotte dalla legge n. 63/2001, é inutilizzabile sia, ovviamente, nel
successivo dibattimento, sia nel corso delle indagini preliminari e, in
particolare, nell'ambito delle decisioni de libertate.
La rinnovazione dell'esame, prevista dal comma 2 dell'art. 26, importa,
invece, che l'interrogatorio possa essere utilizzato nel dibattimento e, prima
ancora, nella fase delle indagini preliminari e nel procedimento de libertate.
Nel caso di specie il p.m. non ha proceduto a rinnovare l'interrogatorio della
G. e questa omissione fa sì che agli atti restino le dichiarazioni,
inutilizzabili, della coindagata rese, in due occasioni, in data antecedente a
quella dell'entrata in vigore della L. n. 63/2001.
Il tribunale del riesame non avrebbe potuto utilizzarle, mentre 1'ordinanza
impugnata dà atto che hanno avuto un ruolo determinante nel rigetto dalla
richiesta di riesame.
-
Una
volta ritenute inutilizzabili le dichiarazioni della G., l'ordinanza
impugnata deve essere annullata con rinvio, spettando al giudice di merito
accertare se e in che misura i gravi indizi di colpevolezza continuino a
sussistere e, conseguentemente, se e in quale misura persistano le esigenze
cautelari.
Per
questi motivi
La Corte di cassazione, a sezioni unite, annulla l'ordinanza impugnata e rinvia
per nuovo esame al tribunale di Taranto;
manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, camma 1-ter, disp.
att. c.p.p..
|