Ricerca sugli stranieri detenuti

 

Capitolo I

Il contesto, fuori e dentro

 

Una società globale

 

L’incalzante susseguirsi degli avvenimenti che condussero poco più di dieci anni fa alla disgregazione dell’Unione Sovietica e al crollo dei regimi socialisti dell’Europa orientale, spinse alcuni futurologi (Fukuyama in testa) a proclamare – non senza una certa teleologica soddisfazione – la "Fine della Storia". In quella prospettiva, la caduta del muro di Berlino, simbolo doloroso di cinquanta anni di contrapposizione ideologica e di guerra fredda, rappresentava una delle ultime tappe di un processo che avrebbe portato l’intera umanità a godere degli indiscussi benefici del sistema capitalistico occidentale e del suo strumento principale - il mercato - ormai elevato a modello unico dello sviluppo economico e sociale e, in definitiva, delle relazioni umane in senso lato. Ma il sorgere o l’acuirsi di una moltitudine di conflitti locali, l’aggravarsi delle emergenze ecologiche, l’imperversare della povertà e del sottosviluppo nei paesi del Sud del Mondo e l’attuale precarietà delle condizioni economiche in molti paesi occidentali indicano che la scomparsa del socialismo reale ed il trionfo del libero mercato non sembrano aver assicurato quella pace e prosperità universali che gli ideologi del Liberismo avevano promesso. E oggi, mentre i media di tutto il pianeta continuano incessantemente a trasmettere le immagini di un altro crollo epocale, quello delle Twin Towers di New York, sembra molto più difficile accettare una visione così lineare e semplicistica dei processi storici. Infatti, la crescita poderosa del sistema economico occidentale e il suo incontrastato estendersi fino a coincidere con i confini stessi del pianeta, non solo non hanno ‘fermato’ la Storia, ma l’hanno spinta in una fase nuova in cui ogni fenomeno ed evento assumono immediatamente una dimensione mondiale. Un attentato terroristico, sia pure al cuore della più grande potenza industriale del mondo, fa tremare le finanza di tutto il pianeta, una crisi politica localizzata in una regione dell’Asia o del Sud America può avere effetti imprevedibili in Europa, una normativa comunitaria adottata dall’Unione Europea può avere conseguenze disastrose sull’economia di intere nazioni africane, e così via. La rapidità sempre maggiore con cui uomini, merci e informazioni possono spostarsi da un capo all’altro della Terra ha profondamente modificato la dimensione spazio-temporale delle relazioni tra continenti e popoli influenzando radicalmente l’evoluzione di valori e stili di vita all’interno di gran parte delle società umane. L’improvvisa accelerazione data ai processi di trasformazione dei sistemi produttivi dall’innovazione tecnologica ha accresciuto esponenzialmente l’originaria capacità propria del capitalismo nascente di darsi un ampio raggio d’azione e di costruire elaborate reti di interdipendenza tra territori anche lontanissimi fra loro, riducendo tuttavia, in maniera sensibile, i tempi di decisione e di scelta nei campi dell’economia e della politica.

Ciò che è avvenuto nell’intervallo trascorso dalla caduta del muro fino a quella delle torri gemelle è stato dunque l’affermarsi della cosiddetta "globalizzazione" come orizzonte all’interno del quale inquadrare tutti quei fenomeni che in precedenza potevano essere percepiti come "locali" o comunque riguardanti aree circoscritte del pianeta. Così Alessandro Dal Lago sintetizza il carattere distintivo della società globale:

"Un mondo globalizzato conosce come legge suprema il movimento. Movimento spaziale, in quanto la riduzione o l’eliminazione dei confini (economici e comunicativi) consente una circolazione sempre più ampia e rapida di beni, simboli e idee. Movimento temporale, poiché la supposta contemporaneità degli eventi comporta l’accelerazione dei tempi di decisione nei campi strategici dell’economia e della politica".

 

La globalizzazione trova inoltre alcuni dei suoi simboli più evidenti nella omologazione planetaria dei consumi (che ci permette di acquistare la medesima bevanda nella foresta amazzonica così come a Piccadilly Circus e un originale flauto andino alla fiera di un paesino bavarese) e nell’espansione pervasiva di quella "rete di marchi" che rappresenta l’onnipresenza delle imprese multinazionali e transnazionali, in grado di condizionare attraverso il proprio potere finanziario le economie di interi paesi.

Ma il dato ancora più peculiare di questa fase storica è la possibilità apparentemente illimitata che le aziende, anche quelle di piccolissime dimensioni, hanno di delocalizzare la produzione industriale trasferendola di volta in volta nei luoghi in cui vi siano le condizioni più favorevoli all’accrescimento dei loro profitti, vale a dire quelle aree geografiche che per varie contingenze siano in grado di offrire agevolazioni fiscali, disinvolte legislazioni in materia ambientale, basso costo della manodopera, scarsa sindacalizzazione dei lavoratori, norme permissive o addirittura assenza di regolamentazioni per quanto concerne il lavoro minorile.

La cronaca di questi anni mostra come la delocalizzazione delle imprese, insieme alla progressiva automazione dei processi produttivi, abbiano gravi ricadute non solo nei paesi che accolgono le produzioni industriali, ma coinvolgano anche l’esistenza quotidiana di milioni di persone nei cosiddetti paesi avanzati, mettendone a rischio il posto di lavoro, aggravando la crisi delle strutture dello stato sociale e incrementando in tal modo ansia ed incertezza sul futuro.

Quella che chiamiamo "Era della globalizzazione" è dunque un’epoca segnata da gravi contraddizioni e profonde ambivalenze, una travagliata fase di transizione in cui la capacità produttiva convive con una distribuzione ineguale della ricchezza, l’omologazione culturale con il ritorno ai fondamentalismi, ibridazioni e meticciati con nostalgie di purezza identitaria, la retorica della fine della contrapposizione in blocchi con la formazione di un apparato militare in grado di difendere con guerre non convenzionali gli attuali rapporti di forza, la nascita di organismi di governo sovranazionale che superano i confini degli stati-nazione con l’insorgere di localismi e pericolosi neonazionalismi che riprendono trite ideologie dello stato-patria se non addirittura quelle delle comunità tribali. Ma è anche un’epoca in cui i medesimi fattori (la facilità delle comunicazioni, in primo luogo) che hanno contribuito a produrre ed acuire gli squilibri e le ingiustizie sociali, permettono allo stesso tempo ad aggregazioni di soggetti e gruppi di varia provenienza ed estrazione di coalizzarsi e promuovere movimenti per la biodiversità e la difesa dei diritti civili, per il diritto alla salute e al lavoro, per la protezione delle culture indigene e per la diffusione del commercio equo e solidale. Coalizioni che, pur muovendosi tra le contraddizioni proprie di tutti movimenti, hanno dato vita ad una rete di eventi, attività, network informativi che esercitano una forte pressione sulle multinazionali, contrastano ed in alcuni casi riescono ad incidere almeno parzialmente sulle decisioni di governi ed organismi internazionali.

 

Le migrazioni all’epoca della Globalizzazione: sguardo di insieme

 

Questi dunque, in sintesi, alcuni elementi del contesto nel quale occorre inscrivere l’incremento esponenziale della mobilità degli individui e, in particolare, i fenomeni migratori nelle loro forme attuali. Quella "circolazione sempre più rapida di beni, simboli e idee", che costituisce - come abbiamo visto - l’essenza della società globale attuale e che riproduce quotidianamente un sistema di interrelazioni complesse tra le diverse regioni del pianeta, ha infatti tra i suoi effetti più vistosi quello di indurre masse crescenti di individui a lasciare la propria patria, temporaneamente o in via definitiva. Questo fenomeno, come vedremo, non dipende sempre (o comunque non solo) dalla mera ricerca dei mezzi di sussistenza materiale, ma si spiega anche con la forza d’attrazione esercitata dai modelli di vita occidentale (o, forse meglio, dalla loro rappresentazione mediatica) sull’immaginario e sulle aspirazioni di coloro i quali, pur rimanendone esclusi, vengono in contatto con essi in svariati modi.

Per completare lo scenario fin qui delineato, occorre poi tenere presente la grande influenza esercitata dalle tendenze demografiche e dalle caratteristiche della distribuzione della ricchezza a livello planetario. È evidente che non sempre a partire dai dati statistici si possono spiegare la molteplicità di ragioni che spingono milioni di individui a migrare dal proprio paese e ad accettare condizioni di vita spesso molto dure e rischi enormi anche solo per spostarsi; tuttavia alcune cifre possono contribuire ad illuminare le condizioni strutturali all’origine dei principali flussi migratori.

 

Alcune cifre: demografia e distribuzione del reddito nel mondo

 

Secondo le stime del World Bank Atlas, la popolazione mondiale contava nel luglio 2000 circa sei miliardi di persone, la maggioranza delle quali concentrate in Asia (6 individui su 10), continente caratterizzato anche da una spiccata crescita demografica, come d’altra parte l’Africa che, al terzo posto per numero di abitanti dopo l’America, ha espresso tra il 1999 e il 2000 una crescita demografica del 3,2% (e cioè molto al di sopra della media mondiale, che era dell’1,7%). Se nel Nord America la popolazione è leggermente diminuita, l’Europa nel suo insieme, invece, mostra una sostanziale staticità demografica.

Per quanto concerne la distribuzione del reddito (calcolato utilizzando il tradizionale criterio indicatore del reddito medio interno ad un’area e cioè il Prodotto Interno Lordo), le differenze tra i vari continenti e subcontinenti indicano un processo di crescente polarizzazione che vede, in una schematizzazione apparentemente semplicistica ma efficace, da un lato i cosiddetti Paesi in via di Sviluppo (PSV), in cui si concentra l’85,9% della popolazione mondiale ed il 45% del PIL complessivo e dall’altro i Paesi a Sviluppo Avanzato (PSA) in cui vive il 14,1% degli abitanti del pianeta, i quali da soli godono del 55% del PIL mondiale.

Il calcolo della media pro capite, che già mostra l’evidente squilibrio nella distribuzione della ricchezza (25.600 USD il reddito medio di un abitante dei PSA contro i 3500 USD di chi vive nei PVS), fornisce risultati ancora più drammatici se si considerano i dati disaggregati: un esempio per tutti il dato riguardante le aree in assoluto più povere del mondo, il Subcontinente indiano (reddito medio 1800 USD) e l’Africa Subsahariana (1500 USD).

 

Le ragioni dei migranti

 

Le cifre fornite dagli studi sulla distribuzione planetaria della popolazione e del reddito testimoniano il sostanziale fallimento e le disastrose conseguenze delle politiche economiche condotte negli ultimi decenni dalle grandi istituzioni mondiali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale innanzitutto) e dai governi dei paesi più ricchi: strategie economiche e finanziarie che non soltanto non sono riuscite a creare opportunità di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni dei paesi poveri ma hanno anzi contribuito ad accelerarne i processi di impoverimento economico e indebolimento politico.

Tuttavia, come ho accennato, le condizioni di estrema povertà di alcune zone della terra non costituiscono l’unico elemento di spiegazione dei nuovi flussi migratori. Lungi dall’essere solo una risposta meccanica alla domanda di lavoro da un lato e al bisogno di manodopera dall’altro - una sorta di movimento idraulico di travaso da una zona all’altra del pianeta- le nuove migrazioni si situano in relazione complessa con quei fenomeni sopra descritti che coinvolgono molte aree dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina e dell’Europa Orientale in un fitto scambio comunicativo tra loro e con i paesi occidentali. Un flusso continuo che concorre senz’altro ad alimentare le aspirazioni di milioni di individui ad entrare in un mondo che si lascia intravedere, nei propri paesi o in quelli più vicini, attraverso gli investimenti produttivi occidentali, i flussi turistici a senso unico di cittadini dei paesi ricchi, le narrazioni di chi è già partito, le parabole televisive e le reti informatiche e di telefonia cellulare. Come nota Matilde Callari Galli, se è vero che le migrazioni sono un elemento costitutivo della storia e dell’evoluzione umana, "quello che è completamente nuovo è che questi movimenti, queste diaspore, si muovono all’interno di un sistema di comunicazione ignoto nel passato, che a un tempo dà forma al desiderio e all’oltraggio ma anche agli adattamenti, alle scelte, alle ribellioni".

Una volta inserite in questo contesto, le migrazioni nell’epoca della globalizzazione economica e culturale si spiegano certamente col bisogno di intere masse fuggire dalla desertificazione, dalla guerra o da una dittatura militare, ma vanno rilette anche alla luce della volontà di milioni di individui di costruirsi un futuro di maggiore benessere cercando un reddito superiore a quello che già percepiscono in patria, del desiderio di viaggiare e conoscere luoghi nuovi o di migliorare la propria formazione professionale. In questa chiave si comprendono fenomeni nuovi come la migrazione di minori non accompagnati che lasciano i paesi d’origine anche quando la loro sussistenza è assicurata dalle proprie famiglie.

A partire dalla pluralità di fattori che costituiscono una sollecitazione al movimento migratorio, perdono di senso e vengono messe in discussione anche le tradizionali categorie su cui si sono storicamente basate le normative e le procedure per l’accoglienza e la concessione del diritto d’asilo ai profughi.

 

L’Europa e il bacino mediterraneo.

 

Come risulta dall’ultimo rapporto pubblicato dalla Caritas Italiana sull’immigrazione, "l’Unione Europea costituisce nel panorama mondiale una delle aree più dinamiche per lo sbocco dei flussi dall’estero", anche se, a scanso di equivoci e inutili allarmismi su presunte invasioni alle porte del Nord industrializzato, occorre considerare che sui circa 130 milioni di migranti presenti nel mondo (stima della Banca Mondiale) solo un terzo riguarda il Nord America e l’Europa e che la stragrande maggioranza degli spostamenti avviene dunque, per così dire da Sud a Sud.

 

Tendenze delle migrazioni internazionali.

 

Il quadro statistico che emerge dal Dossier della Caritas mostra un’Europa in cui è aumentato l’impatto demografico della popolazione straniera, senza tuttavia riuscire a compensare il declino demografico del Vecchio continente; si è accresciuta l’incidenza dei ricongiungimenti familiari e delle presenze per asilo o motivi umanitari; si registra un profondo mutamento del ruolo degli stranieri nel mondo del lavoro. A questi elementi si aggiungono da un lato l’aumento dei flussi regolari e la diversificazione dei paesi di provenienza, dall’altro la persistenza dell’immigrazione irregolare, chiaro indice delle difficoltà strutturali di controllo e repressione dei flussi.

Limitando il campo, in questa sede, ad alcune considerazioni sulla situazione dell’Unione Europea, la tabella 2 mostra con tutta evidenza come l’incidenza percentuale della presenza straniera sulla popolazione europea sia ancora tutto sommato limitata, specie se confrontata con la situazione dei paesi anglosassoni d’oltreoceano. Ciononostante, a partire dai primi anni novanta, i paesi europei di vecchia immigrazione hanno inaugurato una politica migratoria sempre più restrittiva nei confronti di migranti e profughi e hanno esercitato forti pressioni sui paesi di nuova immigrazione - tra cui l’Italia -, ponendo tra le condizioni per far entrare a far parte dell’Unione l’adozione di rigide strategie di chiusura delle frontiere. Alla tradizionale migrazione verso i paesi industrializzati del Nord Europa si è affiancato infatti, in epoca relativamente recente, un fatto innovativo che coinvolge i paesi dell’Europa meridionale, i quali da terre di emigrazione, con un processo di transizione complesso e contraddittorio durato circa un trentennio, si sono trasformati in importanti aree di immigrazione, prima di transito e poi nell’ultimo decennio anche di permanenza. Tra i fattori che spiegano il mutamento vengono indicati: "la chiusura delle frontiere dei paesi dell’Europa settentrionale verso la metà degli anni settanta, la mancanza di una tradizione in materia di politica dell’immigrazione e di procedure adeguate di registrazione e controllo dei flussi, la conformazione geografica di questi paesi e la loro vicinanza a quelli di emigrazione, e soprattutto la profonda modernizzazione che è andata caratterizzando anche l’Europa mediterranea".

Sulle sponde del Mediterraneo si concentrano inoltre, da un lato, aree caratterizzate da andamento demografico negativo e richiesta di manodopera e dall’altro paesi con una forte crescita demografica e assenza di valide opportunità occupazionali. Ma la peculiarità dei nuovi flussi verso l’Italia, la Spagna o la Grecia è che gli immigrati si insediano anche in zone ad alta disoccupazione e in zone agricole. La novità di questi flussi migratori è data inoltre dalla composizione di genere dei migranti. Se infatti l’emigrazione verso aree industrializzate per andare a soddisfare la richiesta di manodopera delle fabbriche del Nord Europa riguardava quasi esclusivamente uomini, nei paesi del Sud grande è la richiesta di lavoratori nel terziario, nel turismo, nei settori dei servizi alla persona e del lavoro domestico e maggiore è di conseguenza il ruolo delle donne in questi nuovi flussi. Altro elemento è l’intreccio spesso perverso tra i fenomeni migratori e la diffusione dell’economia sommersa nei paesi del Sud Europa (lavoro nero, tratta di esseri umani, sfruttamento minorile ecc.).

 

Il contesto italiano

 

Gli interventi legislativi che si sono susseguiti in Italia a partire dal 1995 con la regolarizzazione disposta dal Governo Dini (DL 489/1995 e L. 617/1996) e quella seguita (con DL113/1999) all’approvazione della legge organica n. 40/1998 (la cosiddetta Legge Turco-Napolitano) offrono oggi la possibilità di esaminare l’evoluzione del fenomeno migratorio in Italia. E se ancora prematura la valutazione sugli effetti reali della Legge Bossi – Fini entrata in vigore, non senza polemiche, il 9 settembre 2002, si può già come vedremo in seguito valutarne le conseguenze potenziali.

Nel quinquennio 1994-1999 la popolazione straniera residente nel nostro paese è raddoppiata e complessivamente i migranti muniti di permesso di soggiorno ammontano attualmente a circa 1.686.000 unità. Nonostante la pressione migratoria sia ancora molto bassa (nel 2000 è entrato uno straniero ogni 400 persone residenti) e non sufficiente ad incidere sul declino demografico nazionale, la presenza di migranti è dunque costantemente in crescita specie nel Nord Est e al Sud.

Tra le caratteristiche principali vi sono un’elevata mobilità territoriale dei migranti (sia da sud a nord del paese, sia verso altri paesi del Nord Europa) e la loro presenza nelle piccole e medie imprese del nord e nei servizi domestici e nel terziario dequalificato in tutto il paese.

A differenza di altri paesi europei (come la Francia o la Germania), la distribuzione per provenienza geografica mostra il carattere essenzialmente policentrico dell’immigrazione italiana: la contiguità geografica, oltre che una certa affinità storica e culturale incidono molto, ma vi sono anche flussi consistenti dall’estremo oriente e dal subcontinente indiano. Ai primi posti per numero di presenze vi sono il Marocco (159.599) i cui flussi hanno assunto ormai un andamento fisiologico, l’Albania (142.066) sulla cui situazione incidono invece gli eventi che hanno recentemente coinvolto l’area dei Balcani. Seguono Romania (68.929), Filippine (65.353) e Cina (60.075). A parte alcune eccezioni, gli stranieri vengono in Italia da realtà in cui è stata superata la condizione di estrema miseria. Anche nel nostro caso infatti è possibile notare che maggiore è l’integrazione delle economie, più ampia la circolazione globale di beni, capitali, e informazioni, crescente è il volume delle migrazioni. I dati degli ultimi anni, ad es. quelli riguardanti la scadenza dei nuovi permessi di soggiorno, gli inserimenti stabili, lavorativi e familiari o i ricongiungimenti familiari (aumentati del 25% nel 2000 rispetto all’anno precedente), mostrano inoltre una sempre maggiore tendenza dei migranti a recarsi nel nostro paese per un insediamento stabile. Si modifica il ruolo della presenza femminile, aumentano i matrimoni misti, cresce l’associazionismo e le cosiddette ‘reti migratorie’ assumono un ruolo sempre più attivo nello stimolare i nuovi flussi in arrivo.

La Sicilia ha assunto negli ultimi anni un’importanza strategica sempre crescente a causa della posizione geografica che fa dell’isola un tradizionale "ponte naturale" nel mezzo del Mediterraneo e di conseguenza una terra di passaggio di forti flussi di migranti diretti verso il nord italiano ed europeo. Inoltre, a partire dall’applicazione degli accordi di Schengen del 1985, le sue frontiere corrispondono a quelle dell’Unione Europea e dunque la gestione dei flussi l’ha investita di una responsabilità istituzionale non indifferente: drammatico indicatore di tale ruolo la diffusione dei centri di permanenza temporanea previsti dalla legge del 1998. La Sicilia tuttavia non è solo una terra di passaggio dei flussi verso nord: nell’ultimo decennio, un numero sempre maggiore di immigrati extracomunitari ha scelto di risiedere nell’isola, trovando occupazione nel settore agricolo, nel commercio e nei servizi alla persona. Oltre ad essere cresciute numericamente, le comunità straniere residenti in Sicilia sono cambiate demograficamente. Gli interventi legislativi degli anni 1995-1998 hanno infatti favorito, da un lato, l’uscita dal sommerso di molti stranieri senza permesso di soggiorno, dall’altra il ricongiungimento dei nuclei familiari di quegli stranieri giunti tra gli anni ‘70 e ‘90.

 

Di fronte al cambiamento.

 

Dall’intreccio dei fenomeni descritti sinteticamente nelle pagine precedenti si delinea uno scenario i cui sviluppi futuri sono ancora fluidi ed incerti. E, come si è visto più volte in passato, le previsioni dei futurologi ma anche le proiezioni dei demografi sono spesso soggette a clamorose smentite. Tuttavia, da uno sguardo di insieme su questo mondo globalizzato o in via di definitiva globalizzazione dominanto dall’istantaneo sovrapporsi di eterogenei scambi attraversamenti e ibridazioni, almeno una certezza emerge in maniera evidente e cioè l’impossibilità sul breve e medio periodo (si parla dunque in termini di decenni) di contenere pacificamente entro i confini delle singole nazioni la legittima aspirazione di milioni di individui al miglioramento delle proprie condizioni e alla realizzazione dei propri progetti di vita. Questa situazione richiederebbe ai governi dei singoli paesi ed agli organismi internazionali di assumere un approccio sistemico e realmente cooperativo ai temi dello sviluppo, delle migrazioni e della convivenza interetnica.

Tuttavia le politiche migratorie adottate dai cosiddetti paesi a sviluppo avanzato, indicano la scelta di una risposta di segno opposto, improntata essenzialmente alla ricerca di meccanismi di controllo e repressione dei flussi migratori e di chiusura più o meno rigida delle frontiere attraverso restrizioni nei criteri di ingresso legale, rafforzamento dei controlli transfrontalieri, accordi bilaterali e procedure speciali per il perseguimento e l’espulsione degli immigrati non regolari. Nonostante gli indubbi problemi di natura politica, economica, sociale ed etica che tali politiche restrittive sollevano, è questo il modello scelto nell’ultimo decennio dai paesi dell’Unione Europea. Al di là dei discorsi sui diritti umani, sull’integrazione degli stranieri e sul futuro multietnico delle società occidentali ma anche a prescindere dalle derive xenofobe più grossolane, gli anni novanta hanno visto crescere in Europa la percezione del fenomeno migratorio come una "emergenza" da cui difendersi. Come mostrano i più recenti sondaggi (vedi infra) e innumerevoli fatti di cronaca, nel giro di pochi anni si è progressivamente diffuso tra i cittadini europei un sentimento di paura e di ostilità da parte nei confronti dei migranti che ha dato origine a meccanismi più o meno striscianti di esclusione sociale fino a sconfinare spesso in aperti episodi di razzismo.

 

La costruzione sociale del nemico: i migranti come non-persone

 

Nel già citato saggio dal titolo Non-Persone, Alessandro Dal Lago ha studiato analiticamente il complesso processo di costruzione sociale che ha condotto, in poco più di un decennio, la società italiana da una sostanziale indifferenza istituzionale e marginalità sociale alla identificazione dello straniero non solo come alieno ma anche come nemico. Utilizzando materiale di provenienza eterogenea (titoli di giornali e articoli di cronaca, analisi degli interventi legislativi, interviste a testimoni privilegiati, manifesti elettorali), lo studioso mostra come, con un procedimento non nuovo nella storia dell’Europa moderna, la figura del migrante sia di fatto divenuta il capro espiatorio sul quale riversare le ansie di una società in crisi sotto la pressione dell’incertezza economica, della trasformazione del Welfare, della fine della cosiddetta Prima Repubblica. Ciò ovviamente non può essere spiegato dalle cifre citate sopra e dunque si tratta di un fenomeno che sfugge alla presa interpretativa delle categorie tradizionali della sociologia delle migrazioni: la dimensione quantitativa dell’immigrazione, non può spiegare in quanto tale, l’ostilità. Attraverso una interazione a feedback, drammatica per le sue vere vittime e cioè gli stranieri, una serie di immagini, dicerie e luoghi comuni privi di fondamenti rimbalzano dai bar e dalle piazze alle pagine dei giornali e ai talk show, fino alle sedi istituzionali e politiche e viceversa, guadagnando ad ogni passaggio in legittimazione e amplificazione. In questo modo grazie ad un perverso meccanismo di "tautologia della paura, la metafora dell’emergenza immigrazione diviene progressivamente una realtà che giustifica nuove paure e diffidenze e a seguire controlli più rigidi, nuove restrizioni ecc. Ma ciò avviene anche grazie ad un dispositivo molto più raffinato e pericoloso di neutralizzazione e di spersonalizzazione per il quale la terminologia che identifica lo straniero non come persona, individuo concreto ma come categoria astratta (e dunque ontologicamente extracomunitario, clandestino, irregolare) passa dalle pagine di cronaca agli onori del lessico prima politico e poi addirittura giuridico.

Tra le conseguenze più evidenti della riduzione dei migranti a non-persone e dello spostamento dell’interesse dell’opinione pubblica, dei mezzi di informazione e del sistema politico sui temi della "sicurezza" e della "legalità" (vd. infra) vi è la pressoché totale sparizione dal dibattito pubblico italiano di questioni centrali del nostro tempo quali la riflessione sul rapporto tra la costruzione dell’identità e l’interazione delle differenze nelle società complesse o la discussione sull’evoluzione delle forme della cittadinanza, e dei diritti ad essa connessi, in rapporto ai fenomeni migratori. Fatti complessi come le migrazioni che coinvolgono l’ambito giuridico, politico, geografico ed economico sono stati costretti nell’ambito di improbabili argomentazioni basate su concetti quali razza, etnia, nazione. Non è un caso dunque che le ricerche più recenti sul rapporto tra cittadini e stranieri mostrino il sostanziale fallimento delle politiche di integrazione, nonostante vi sia stato qualche sforzo nell’ambito della legge 40/1998 (per la verità assai moderato se confrontato con quelli ben più poderosi in campo repressivo) per favorire la conoscenza reciproca, il dialogo interculturale e la pacifica convivenza: "Credo si possa dire che, rispetto al passato, si sia aggravata la schizofrenia di cui soffre il nostro modo di guardare all’immigrazione. Parallelamente ad una maggiore consapevolezza del fenomeno migratorio nel suo complesso, è subentrato, ad una generica paura dell’altro perché sconosciuto, un atteggiamento più articolato: l’accettazione dell’immigrato lavoratore da un lato e la paura di alcuni particolari immigrati, quelli di religione islamica ad esempio. Si vogliono braccia, ma spesso anche teste per lavorare, si rifiutano le persone, si vogliono servizi, ma si ha paura del rapporto con l’altro, si ha paura di mettere in discussione la propria identità, di popolo di persone. Immigrati come robot quindi, non persone, che si attivano quando il mercato ne ha bisogno".

 

La situazione legislativa come specchio delle contraddizioni sociali

 

Le profonde contraddizioni di una società culturalmente impreparata ad affrontare la complessità dei nuovi problemi derivanti dalle sfide dell’accoglienza si manifestano nel panorama normativo che disciplina il fenomeno migratorio in Italia, anch’esso in continua trasformazione. La situazione già preoccupante dell’attuale quadro legislativo, secondo molti osservatori verrà probabilmente aggravata dalla recente entrata in vigore della L. 106/02 il cui titolo recita: "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 aprile 2002, n. 51, concernente disposizioni urgenti recanti misure di contrasto all’immigrazione clandestina e garanzie per soggetti colpiti da provvedimenti di accompagnamento alla frontiera". Già fin dalla sua prima pubblicazione e prima che venisse approvato, il testo - elaborato senza essere preceduto da alcun confronto tra governo, opposizione e società civile - ha suscitato numerose polemiche da parte degli operatori sociali, di gran parte dell’associazionismo cattolico e laico, di varie associazioni di imprenditori e della consulta degli immigrati, in quanto esso si concentra unicamente sugli aspetti legati alla repressione della immigrazione clandestina e al ruolo dei migranti nel sistema produttivo, trascurando tra l’altro le questioni relative ai diritti ed alle politiche di integrazione e inasprendo le tendenze, peraltro già presenti nella legge 40/1998, alla militarizzazione delle frontiere ed all’irrigidimento delle norme sul soggiorno legale. Secondo i suoi critici inoltre, scorrendo la nuova proposta di legge, quell’atteggiamento "schizofrenico" di bisogno ed esclusione dei lavoratori stranieri denunciato dall’ex Ministro Turco si svela come espressione di un approccio strumentale che vede nella precarizzazione dei migranti e nella negazione dei loro diritti sociali un vantaggioso strumento per la competitività del sistema produttivo.

 

Da vittime a carnefici: gli stranieri tra criminalizzazione e criminalità.

 

Tra gli effetti più vistosi della nuova legge, vi sarebbe dunque una sostanziale diminuzione delle garanzie di tutela democratica degli stranieri residenti in Italia ed il rischio continuo e sempre più concreto, anche per i cosiddetti "regolari", di scivolare nella clandestinità ed entrare con più facilità in contatto con ambienti e attività illegali. Da questo punto di vista, la legge Bossi-Fini riprende, estremizzandola, la tendenza ormai pluriennale a percepire l’arrivo dei migranti come un potenziale attacco alle condizioni di sicurezza dei cittadini europei, secondo l’equazione, empiricamente indimostrabile, "più immigrazione = più criminalità" e le specifiche affermazioni da essa derivanti (tra questi luoghi comuni del tipo: "tra gli immigrati, gli albanesi o i marocchini hanno una maggiore attitudine al crimine"). Ora, i dati più recenti sugli aspetti giudiziari del fenomeno migratorio, anch’essi oggetto di analisi nel Dossier Statistico della Caritas, escludono la possibilità di ascrivere agli "immigrati" come categoria una maggiore pericolosità sociale rispetto alla categoria degli "italiani" e la crescente presenza di stranieri nel circuito penale e nelle carceri italiane deriva - come vedremo successivamente - da fattori e circostanze di altra natura. Ma un sondaggio condotto dall’Osservatorio europeo contro il razzismo su 16.000 cittadini europei mostra che il 72% degli italiani (solo in Grecia si riscontra una percentuale più elevata) sono convinti che i migranti compiano più crimini rispetto ai locali. Questo dato concorda con i risultati della già citata ricerca su immigrazione e cittadinanza in Europa secondo i quali il 43% degli italiani condivide il timore che gli immigrati possano minacciare l’ordine pubblico (un dato inferiore di 3,3 punti percentuali rispetto all’anno 1999 ma pur sempre superiore alla media dell’UE di circa 11 punti, salita quest’ultima del 3,5%). Questa diffusa percezione ha fatto diventare l’immigrazione una minaccia, un’emergenza da affrontare militarmente e - alimentata incessantemente dai mass-media e ripresa nelle sedi istituzionali - ha contribuito a creare intorno alla figura dello "straniero" una indebita generalizzazione secondo cui esso sarebbe un soggetto tendenzialmente caratterizzato da una forte inclinazione al crimine.

L’immagine degli stranieri come potenziali criminali ha fornito al tempo stesso all’opinione pubblica una "giustificazione" più o meno esplicita al verificarsi sempre più frequente di episodi di discriminazione e di vera e propria violenza, negandone da un lato la matrice razzista e dall’altro tendendo spesso a "contestualizzare" tali fenomeni all’interno di una situazione considerata "oggettivamente" difficile. Ma il dato nuovo e senz’altro più preoccupante è che a parte gli atti perpetrati da frange estremistiche e dichiaratamente razziste come i naziskin, la violenza contro stranieri si diffonde anche tra le cosiddette "persone normali": "Gli autori di questi delitti vengono sempre più individuati anche tra "gruppi di cittadini" e "persone normali", ovvero tra individui che non si connotano con una evidente pericolosità sociale (in quanto appartenenti a gruppi marginali o ideologicamente definiti, come avveniva maggiormente nel passato), il che lascerebbe intuire che una certa aggressività xenofoba inizia ad insinuarsi anche negli strati sociali che conducono una vita ordinaria".

La crescita per numero e gravità degli atti di discriminazione e degli atti violenti contro gli stranieri residenti nel nostro paese costituisce dunque un indicatore del diffondersi di un atteggiamento di rifiuto dell’altro che attraversa l’intera società. Questo rifiuto coinvolge certamente chi è più altro, chi esprime una differenza immediatamente evidente, chi ha una carnagione più scura o si guadagna da vivere lavando i vetri delle nostre auto ai semafori, chi non è immediatamente percepibile come uno di noi. Ma come ha mostrato l’analisi foucaultiana, i meccanismi su cui si fonda l’esclusione di una data categoria sociale, nel nostro caso dei migranti, possono coinvolgere con un movimento progressivo anche altri, quelli ad esempio che pur essendo italiani, che per varie ragioni sono posizionati ai margini della normalità in quanto esprimono comportamenti, stili di vita, disagi, percepiti come devianti dalla norma. E proprio quando la normalità dell’esistenza quotidiana attraversa momenti di crisi e ne vengono messi in discussione, come nell’attuale fase storica, i pilastri sui quali si è regge; quando la capacità dell’individuo e della comunità di prevedere e progettare il proprio futuro deve fare i conti con l’ansia e l’incertezza del cambiamento e della trasformazione, è in quel momento che può verificarsi che le identità, scoprendosi fragili, si guardino intorno alla ricerca di un deviante, di un diverso, di un alieno per costruirsi un nemico sul quale riversare la responsabilità di una crisi le cui cause stanno da un’altra parte.

E può avvenire così, come di fatto sta avvenendo in Italia negli ultimi anni, che da un lato le cifre riguardanti i tassi di criminalità non destino particolari allarmi e mostrino un progressivo calo dei reati commessi ma, dall’altro lato, si diffonda nel tessuto sociale la paura e la richiesta di maggiore "sicurezza" e si assista alla crescita esponenziale di individui, stranieri, ma non solo, rinchiusi nelle nostre carceri.

 

Dentro

 

Il carcere in Italia: quadro complessivo.

 

"Il sistema penale, con una elasticità sconosciuta al procedimento legislativo, tira e allenta le briglie del penitenziario a seconda della domanda di controllo dell’opinione pubblica".

 

Il Carcere Trasparente

 

Grazie all’impegno dell’associazione Antigone, attiva da anni sul fronte dei diritti dei detenuti, l’analisi della situazione penitenziaria in Italia può avvalersi dallo scorso anno di un utile strumento che fotografa la realtà delle carceri e del circuito penale nel suo complesso. Frutto di un lungo lavoro di indagine che ha coinvolto decine di penitenziari in tutta la penisola, il Rapporto di Antigone tenta di dare trasparenza ad un luogo opaco per definizione, il carcere, e ad un’istituzione quella penitenziaria che, apparentemente separata, risente invece come e forse più di altre istituzioni dei mutamenti nel corpo sociale. Dalla ricerca, che prende in considerazione i vari fattori che contribuiscono a determinare le condizioni di detenzione (profilo socioanagrafico della popolazione detenuta, caratteristiche delle strutture penitenziarie, attività, ecc.), emerge un quadro abbastanza desolante.

 

La popolazione detenuta: alcuni dati.

 

Il primo elemento di preoccupata riflessione è dato dalle cifre del rapporto sulla popolazione detenuta che al 31 dicembre 1999 contava 51.814 unità, con un aumento di circa 4000 persone (ben l’8,37%) rispetto all’anno precedente. Ma già quelle della nuova edizione non ancora pubblicata, anticipate nel pre-rapporto 2001, costituiscono una conferma ulteriore di questa tendenza: "Nei 202 istituti penitenziari, nelle 24 case mandamentali, e nei 6 ospedali psichiatrici giudiziari italiani il 31 maggio 2001 erano «ospiti» complessivamente 55.383 detenuti. Di questi 25.181 imputati, 28.762 condannati, di cui 1.729 semiliberi. 1.440 internati (ossia sottoposti a misura di sicurezza detentiva), di cui 1265 ricoverati in ospedali psichiatrici giudiziari. Le forme del controllo penale non si fermano però nelle mura delle carceri. Infatti i dati conclusivi dell’anno 2000 riferiti ai casi di misure alternative seguite dai centri di servizio sociale per adulti ci dicono che sono ben 24.991 i casi di affidamento in prova al servizio sociale e 9.489 quelli di detenzione domiciliare. A questi numeri vanno aggiunti i 1.593 casi di sanzioni sostitutive alla detenzione e le 1.881 persone sottoposte a libertà vigilata. Infine le poche persone al momento sottoposte in via sperimentale a controllo elettronico, tramite cavigliera. Si sfiorano le 95 mila unità totali".

Come notano gli estensori del pre-rapporto 2001, era da 49 anni che in Italia non si registrava un tasso di detenzione così elevato (95 detenuti ogni 100.000 abitanti; era di 54 dieci anni prima). La ragione principale di tale aumento può essere spiegata a partire dall’analisi della sua composizione per posizione giuridica che mostra come su di esso incida più che la generalità della popolazione detenuta, la quota della persone in attesa di giudizio ed in particolare del primo grado. Ciò significa che, non essendo intervenuti sostanziali mutamenti nella commissione dei reati, l’aumento dei reclusi è di fatto ascrivibile ad una pronta risposta del sistema penale alle pressioni e alle richieste di "sicurezza" provenienti dall’opinione pubblica, dai mezzi di informazione nonché dal sistema politico nel suo complesso.

Per quanto riguarda la posizione giuridica, dunque, al 31 maggio 2001 i detenuti in attesa di giudizio erano 25.181, il 45,47% del totale contro i 28.762 condannati definitivi: 13.701 in attesa di primo giudizio, 7.844 appellanti, 3.298 ricorrenti in Cassazione. Si registra quindi un accrescimento di 1.200 unità rispetto all’anno precedente, nonostante siano diminuite di 80 unità le persone giudicabili detenute.

Infine, uno sguardo ai dati socioanagrafici della popolazione detenuta mostra che purtroppo, nonostante la legge sia almeno in teoria "uguale per tutti", le norme penali si applicano selettivamente rispecchiando rapporti di disuguaglianza e creando a loro volta nuove disuguaglianze. Il carcere seleziona suoi utenti per sesso, per area geografica di provenienza, per età, status occupazionale e istruzione, per stili di vita e per condizioni di salute mentale e non.

In altre parole, il carcere è popolato da coloro i quali hanno meno opportunità sociali e meno garanzie nella vita civile e durante i processi. Abitato quasi esclusivamente da uomini (le donne rappresentano il 5% circa), il carcere ospita in maggioranza persone appartenenti alla fascia giovanile: il 49.83% della popolazione in carcere al primo gennaio 2000, hanno un’età compresa fra i 18 e i 35 anni. La percentuale complessiva dei disoccupati e degli inoccupati è del 30,6%, Ma ben il 41,81% aveva una condizione lavorativa non rilevabile prima di entrare in carcere. Solo 13.322 i detenuti che all’ingresso in carcere risultavano titolari di una posizione lavorativa definita. Il profilo delineato dal grado di istruzione medio conferma l’ipotesi di una forte selezione sociale alla base della composizione della popolazione detenuta. Nella stessa direzione vanno infine le cifre sull’incidenza dei tossicodipendenti (27,23%) sul numero complessivo di detenuti, a cui vanno aggiunti i 3001 tossicodipendenti in "affidamento in prova al servizio sociale in casi particolare".

 

Problemi strutturali

 

L’ossessione sicuritaria, che come abbiamo visto ha trovato nella figura dei migranti un importante capro espiatorio, si è dunque riversata sul sistema penitenziario e quest’ultimo si trova oggi a far fronte ad un esponenziale aumento di detenuti senza disporre di risorse adeguate a garantire almeno la vivibilità delle carceri. D’altra parte, già nel 1996 un Rapporto al Governo Italiano del Consiglio d’Europa, relativo alla visita effettuata in Italia dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura raccomandava alle autorità del nostro paese di accordare la massima priorità al problema della obsolescenza delle strutture penitenziarie e del sovraffollamento. L’approvazione del nuovo regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, entrato in vigore il 20 settembre 2000, impone d’altra parte nuovi standard strutturali la cui applicazione dovrebbe garantire maggiormente i diritti fondamentali delle persone detenute. E questo costituirà certamente nei prossimi anni un indicatore della capacità del nostro sistema penale di adeguare la realtà dei fatti al proprio impianto normativo.

L’inadeguatezza degli edifici non è tuttavia l’unico problema che affligge il sistema penitenziario italiano, alle prese tra l’altro con una cronica carenza di personale, sia nell’ambito delle funzioni di custodia, sia (con conseguenze disastrose per la riuscita dei percorsi di reinserimento sociale) in quello delle attività di recupero e "risocializzazione" (educatori, psicologi ecc.). La somma di questi due ordini di problemi produce enormi difficoltà a garantire l’accesso alle attività che dovrebbero costituire il cosiddetto "percorso trattamentale". Avviene così che il diritto al lavoro, elemento centrale dei processi di reinserimento reale, sia assicurato attualmente a un detenuto su quattro mentre solo dieci anni fa lavorava il 43% della popolazione carceraria. Quest’ultima, come abbiamo visto è cresciuta, ma le opportunità di lavoro sono rimaste le stesse per quantità e qualità (circa 13.000 posti legati essenzialmente ai servizi interni ai penitenziari).

Questo scenario impietoso mostra senza ombra di dubbio l’inadeguatezza del carcere come è configurato attualmente a garantire lo scopo per cui esiste e cioè il "recupero" del detenuto ed il suo "reinserimento" nella società. Ma occorre anche notare come non solo il carcere non faccia bene agli individui detenuti (e dunque alla società) ma che al contrario costituisca spesso una ulteriore fonte di disagio malessere e sofferenza al di là della pena giuridicamente inflitta. Esemplari da questo punto di vista i dati sui casi di autolesionismo e i suicidi registrati ogni anno nelle carceri italiane che mostrano anch’essi un notevole incremento rispetto agli anni precedenti: "si tratta di un fenomeno preoccupante che testimonia di uno spostamento progressivo della soglia di umanità del trattamento penitenziario". Inoltre, come nota il rapporto di Antigone "Molto spesso protagonisti degli atti più efferati di autolesionismo sono detenuti extra comunitari, per lo più magrebini: ricorrono a queste forme estreme di protesta, quasi non riuscissero a trovare altre forme di espressione del proprio disagio e della propria situazione".

 

Stranieri in carcere

 

La questione dell’autolesionismo anticipa la peculiarità e la drammaticità della condizione degli stranieri in carcere. Come ho accennato nelle pagine precedenti, il processo di esclusione dei migranti nella nostra società si è tradotto nell’ultimo decennio in concrete pratiche di criminalizzazione della figura dello straniero, percepito come tendenzialmente incline agli atti criminosi, nonostante le statistiche non forniscano alcun elemento che possa avvalorare tale idea. Tuttavia se le cifre a nostra disposizione mostrano che "l’incidenza dei detenuti stranieri sulla stima totale degli stranieri soggiornanti è pari e forse leggermente inferiore (tranne in alcune regioni), a quella dei detenuti italiani sulla popolazione residente autoctona", assistiamo da alcuni anni ad una notevole crescita del numero di stranieri nei penitenziari italiani. Al 31 maggio 2001 gli stranieri in carcere erano 16.330, 1500 in più rispetto all’anno precedente e 370 in più rispetto a soli due mesi prima. In percentuale dunque il 29,5% sul totale della popolazione detenuta. Ma il dato assume una rilevanza ancora maggiore se si considera che ben il 60,78% dei detenuti stranieri è rappresentato da individui non ancora definitivamente condannati e la metà di questa categoria (48,8%) è costituita da indagati e/o imputati, persone che stando al dettato costituzionale, sono da considerare dunque presuntivamente innocenti. I motivi per cui queste persone entrano in carcere e vi restano sono eterogenei: "A parità di reato gli stranieri vanno più in carcere che gli italiani. In primo luogo perché sono più denunciati e controllati dalle forze dell’ordine. In secondo luogo hanno meno opportunità di accesso alle misure cautelari non detentive e al complesso delle misure alternative al carcere. Un giudice seppur volenteroso, ha difficoltà a concedere gli arresti domiciliari a chi non ha un domicilio fisso e un’identità certa. Infine spesso sono privi di difesa legale".

Siamo in effetti di fronte ad un processo di criminalizzazione prima fuori, nella società libera, e ad una vera e propria "penalizzazione" dopo, una volta entrati dentro il circuito penale. Se infatti il sistema penale accoglie in sé tutta una serie di figure marginali o disagiate del corpo sociale, gli stranieri appaiono come i marginali tra i marginali, i più deboli tra i deboli.

 

 

 

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