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Capitolo II La ricerca
La scelta del metodo
Come già accennato nell’introduzione, l’idea di questa ricerca è nata da un’esperienza precedente di lavoro con i detenuti stranieri in alcuni percorsi formativi. Devo la possibilità stessa della sua realizzazione al riconoscimento e alla fiducia nate dalla relazione con soggetti che a vario titolo lavorano in carcere o vi scontano una pena. Ma oltre a rendere possibile la ricerca, l’aver percorso il campo di indagine in qualità di "attore sociale" ancor prima di (ri)entrarvi in qualità di osservatore ha anche suggerito l’adozione di un approccio e di strumenti di indagine che, invece del distacco e della separazione tradizionalmente richiesti al ricercatore sociale a garanzia dell’oggettività dei risultati, valorizzassero il particolare posizionamento del mio sguardo sul carcere, senza il tentativo - peraltro ingenuo alla luce della riflessione epistemologica contemporanea - di nasconderlo dietro l’ingombro della propria attrezzatura scientifica. Di qui la scelta di privilegiare il metodo proprio della cosiddetta "etnografia sociale", ossia uno stile di ricerca e di analisi che si fonda proprio sulla capacità di "guardarsi intorno" e di "partecipare", di "immergersi", almeno in parte, nella realtà sociale che si osserva, tentando di sospendere (per quanto possibile) sia le gerarchie morali e cognitive del senso comune sia le categorie e le definizioni adottate dalla comunità scientifica, attraverso l’esercizio dell’ironia e del debunking. La definizione di etnografia come "stile di ricerca", lungi dall’essere casuale, rimanda al dibattito che da alcuni decenni attraversa il dominio delle scienze sociali sottoponendolo a tensioni e torsioni disciplinari non indifferenti che a volte sembrano minacciarne l’esistenza stessa in quanto discipline scientifiche. De-finire l’etnografia come stile di ricerca e di analisi piuttosto che come metodologia rigidamente codificata, permette quindi sia di riconoscerne la molteplicità dei suoi metodi e la difficoltà di classificarli, sia di tracciarne comunque il confine identificando i tratti comuni alle varie forme di etnografia sociale. Al centro di ogni ricerca etnografica possiamo individuare l’osservazione e la descrizione delle pratiche sociali (ciò che gli attori fanno e dicono di fare nella loro esperienza quotidiana); l’abbandono della pretesa di esaustività e oggettività per la costruzione di interpretazioni plausibili (anche se parziali) di aspetti o dimensioni della vita sociale; la consapevolezza della non neutralità e del ‘carico di teoria’ di cui ogni sguardo è portatore e infine del carattere costruttivista e parziale di ogni pratica e stile di scrittura, utilizzati dal ricercatore nella redazione dei suoi resoconti.
Una ricerca in carcere: note preliminari
I metodi di osservazione e di descrizione dell’etnografia sono necessariamente plurali non solo poiché dipendenti dal punto di vista del singolo ricercatore ma anche in quanto subordinati alle diverse condizioni di contatto e di ingresso nei mondi sociali studiati. Del resto ogni descrizione etnografica è il risultato di una elaborazione complessa di dati eterogenei acquisiti attingendo a fonti differenti e quasi tutte le ricerche che oggi costituiscono dei modelli di riferimento per la pratica etnografica lo sono in quanto hanno dato vita a nuove tradizioni di ricerca a partire da "eterodosse" innovazioni nell’uso degli strumenti e delle tecniche di osservazione e descrizione tradizionali. Ma, come abbiamo visto, al di là delle con-fusioni di metodi stili e strumenti, l’esserci di persona, il parlare di attori e dinamiche, osservati direttamente, rimane il fulcro indiscusso di un’etnografia rispettabile. Ora, nel caso di una ricerca sulla vita quotidiana delle persone detenute in un carcere, gli ostacoli che si frappongono tra l’etnografo e il suo contesto di osservazione sono di varia natura: innanzitutto, a parte la difficoltà di ottenere le necessarie autorizzazioni dall’amministrazione penitenziaria e l’iter burocratico da affrontare, il primo ostacolo consiste nell’evidente impossibilità di essere sempre presente, di condividere tutti i momenti della giornata di un detenuto (a meno che l’interesse scientifico non lo spinga a farsi arrestare…). Inoltre, ammesso che abbia ottenuto un’autorizzazione all’ingresso in sezione, e dunque ad esserci in alcuni momenti, l’autorizzazione stessa vincolerà l’etnografo a stare sempre in un luogo determinato e in un dato momento, per svolgere una funzione anch’essa predeterminata, in ossequio a quella rigida organizzazione del tempo, degli spazi e dei movimenti perfettamente descritta da Michel Foucault nella sua ricostruzione della nascita della prigione. Difficilmente, dunque, potrà scegliersi liberamente un posto dal quale osservare soggetti e dinamiche, senza dare nell’occhio, come farebbe, ad esempio nella piazza di un quartiere a rischio, per studiare il modo in cui interagiscono gli spacciatori di droga e i loro clienti. Un altro tipo di ostacolo è quello che rimanda, da un lato, alla complessità di ogni relazione tra il ricercatore e gli attori sociali interpellati e, dall’altro, alla specificità di un contesto in cui una comprensibile diffidenza verso la pratica dell’interrogare i testimoni può far quantomeno ‘irrigidire’ i soggetti ai quali si propone di collaborare alla ricerca. Non ultima la difficoltà, essendo l’oggetto in questione la vita quotidiana dei detenuti stranieri, di entrare in relazione con dei soggetti tra i più marginali e a rischio di ulteriore esclusione del mondo carcerario a causa della propria differenza, andando incontro anche a problemi di comunicazione linguistica.
La scelta degli strumenti: vincoli e possibilità.
Nella ricerca in questione, dunque, la scelta degli strumenti di indagine ha assunto un ruolo fondamentale non soltanto nel superamento dei vincoli (se non tutti, almeno di alcuni di essi) posti alla sua realizzazione, ma anche e soprattutto nella trasformazione in risorsa di alcuni di quegli stessi vincoli. Da questo punto di vista, risulta immediatamente chiaro come il privilegiare una sola tecnica di raccolta di informazioni avrebbe esposto al rischio di un resoconto troppo parziale di una situazione già di per sé opaca e sfuggente ad occhi esterni come la realtà chiusa del carcere; ed è altrettanto chiaro che la scelta dell’intervista qualitativa a un gruppo di detenuti stranieri come unico strumento della ricerca, oltre a incontrare le difficoltà descritte nel paragrafo precedente, non avrebbe garantito automaticamente la comprensione delle dinamiche descritte dagli intervistati. È qui che entra in gioco la possibilità stessa di frequentare gli spazi carcerari, indipendentemente dalle esigenze di ricerca, per ricoprire ruoli organizzativi e svolgere docenze nell’ambito di attività formative. Questa circostanza è stata determinante innanzitutto in quanto ha permesso di costruire, sin dall’inizio, il progetto di ricerca sull’osservazione delle dinamiche all’interno di un setting formativo, oltre che tramite interviste individuali; in secondo luogo perché, proprio attraverso la costruzione di legami di rispetto e fiducia reciproci con i corsisti durante i mesi in cui hanno partecipato al corso, è stato possibile proporre l’intervista prima a loro e in seguito allargare progressivamente il campo di indagine ad altri soggetti resisi disponibili sulla base dei rapporti di fiducia instaurati tra me e i compagni di detenzione; infine, poiché il lavoro di rete tra la Direzione, il Centro Servizio Sociale Adulti di Palermo e le associazioni promotrici delle attività formative ha condotto all’inizio del 2002 alla concessione da parte del Tribunale di Sorveglianza della semilibertà ad uno dei detenuti impegnati nel corso. Quest’ultimo evento ha avuto come vedremo subito un ruolo determinante nell’approntare la traccia utilizzata nelle interviste.
Gli strumenti utilizzati nel corso della ricerca
Alla luce di quanto detto finora, si comprende come tra gli strumenti metodologici utilizzati abbia avuto un ruolo assolutamente rilevante l’osservazione partecipante, tecnica descritta per la prima volta da Lindeman e successivamente utilizzata nelle più note ricerche della cosiddetta "Scuola di Chicago" e nella celebre monografia di White, Street Corner Society del 1943, fino alle ricerche degli etnometodologi e di Goffman. L’osservazione partecipante presuppone un ricercatore non neutrale, ma immerso nel campo di osservazione e dunque in relazione con i soggetti osservati. La finalità dello strumento consiste infatti nel ridurre la distanza tra il ricercatore e l’oggetto di studio e nella comprensione di ciò che osserva dal punto di vista dei membri dell’ambiente studiato. I contesti in cui l’osservazione ha avuto luogo sono stati: a) il setting formativo, la cui frequentazione è stata resa possibile senza alterare gli equilibri d’aula, proprio in quanto il ruolo di coordinatore, rendeva "normale" la presenza in aula come "osservatore che prende appunti", anche al di fuori delle mie ore di docenza; b) tutto ciò che è fuori dall’aula, ossia i corridoi dei reparti, gli uffici, il bar dell’istituto, tutti quei luoghi dove prendono corpo (o si discute di) molte delle dinamiche descritte in aula o nelle interviste. Il ruolo organizzativo-gestionale, e quello di docente (da molti agenti ad es. ero percepito esclusivamente come tale), ha consentito non solo di osservare ma anche di esperire direttamente, le dinamiche in questione: rapporti con l’amministrazione, con la polizia penitenziaria, le modalità di interazione vigenti tra gli operatori nell’istituzione e tra essi e gli operatori interni, ecc. Realizzata in queste condizioni per la durata di circa 10 mesi, l’osservazione partecipante ha avuto una dimensione profondamente riflessiva, configurandosi quindi, per molti versi, come auto-osservazione. In questo ambito, una funzione importante ha avuto anche la pratica del colloquio informale, una modalità di interazione che si caratterizza per la sua immediatezza e si basa sulla rete di relazioni personali che il ricercatore riesce a tessere giorno per giorno nel contesto della ricerca. Attraverso la trascrizione per quanto possibile immediata di impressioni, risposte, informazioni raccolte informalmente è stato possibile integrare i dati collezionati attraverso l’osservazione partecipante e gli altri strumenti utilizzati. Utile anche un colloquio in profondità, della durata di alcune ore, con un "testimone significativo", uno dei corsisti, attualmente in semi-libertà. Il colloquio si è svolto nel luogo, esterno al carcere, in cui svolge le attività prevista dal suo programma trattamentale ed ha costituito la base per l’elaborazione della traccia utilizzata nel corso delle interviste. La funzione del colloquio in profondità è stata infatti di esplorazione e di approfondimento dei temi della ricerca e ha avuto come oggetto la esperienza carceraria della persona intervistata. Le informazioni raccolte attraverso l’osservazione partecipante sono state arricchite attraverso lo strumento dell’intervista qualitativa, condotta con modalità semi-strutturata, che ha coinvolto 14 detenuti stranieri. La scelta dell’intervista qualitativa, coerentemente con quanto affermato a proposito dell’osservazione partecipante, parte dal presupposto che la ricerca sociale si costruisca nella relazione tra i ricercatori e gli attori sociali e che proprio la relazione sia l’oggetto da curare per garantire il valore dei risultati finali della ricerca. L’intervista concepita in tal modo diventa uno strumento di costruzione di uno spazio comune in cui, piuttosto che un "drenaggio di informazioni" dal testimone, si verifica uno scambio di saperi tra intervistatore e intervistato. Come ha chiarito Mondada, l’intervista costruisce dunque un "contesto d’interazione" per una ricerca il cui fine "n’est pas de décrire les phénomènes de la vie sociale en s’appuyant sur les discours des acteurs: elle est plutôt de comprendre comment les acteurs sociaux eux-mêmes décrivent la société". Come accennato, lo strumento specifico è stata l’intervista semi-strutturata che si caratterizza per una serie di domande obbligatorie poste nell’ambito di un colloquio relativamente aperto e in cui la modalità di conduzione è stata solo leggermente direttiva e la durata media è stata di circa 1 ora e 15 minuti. I temi affrontati durante la conversazione possono suddividersi in 5 sezioni non necessariamente proposte in sequenza alle persone intervistate.
Le interviste sono state successivamente trascritte aggiungendo soltanto la punteggiatura ed eliminando alcune ripetizioni (quando non significative) per facilitarne la lettura, e inserendo eventuali note dell’intervistatore tra parentesi quadra; i punti di sospensione indicano la durata delle pause (..= breve pausa; …= pausa di almeno due secondi). Eventuali errori grammaticali o di pronuncia compiuti dagli intervistati sono stati trascritti senza alcuna correzione. I testi sono stati successivamente analizzati allo scopo di isolare elementi pertinenti alla ricostruzione dei frame significativi condivisi dai testimoni. Nella esposizione dei risultati ho integrato le trascrizioni delle interviste con account di situazioni e colloqui informali che mi è capitato di poter registrare o trascrivere a mano sul campo. A questo tipo di materiale ho affiancato inoltre citazioni di testi di natura bibliografica ove ciò fosse utile a chiarire i concetti espressi.
Uno spazio disciplinare: il Pagliarelli
A differenza dell’altro penitenziario di Palermo, il noto Ucciardone, sito nei pressi del porto della città, il carcere Pagliarelli è ospitato da un complesso di edifici costruiti recentemente, alla metà degli anni ‘90, nell’omonima contrada alla periferia ovest della città, appena oltre l’asse viario della circonvallazione. L’architettura dei due istituti, costruiti a distanza di poco più di un secolo e mezzo l’uno dall’altro, è il risultato di due diverse concezioni e tecnologie della detenzione penale. L’Ucciardone, costruito tra il 1830 e il 1834 è un edificio a raggiera, concepito secondo il principio del Panopticon di Bentham che risente - come molte carceri antiche - della vetustà delle strutture e della carenza di quegli spazi comuni richiesti dalle attuali normative in materia e dalle finalità rieducative della pena. Il Pagliarelli, inaugurato nel 1995, ha una struttura a blocchi ed è caratterizzato invece da quell’attenzione per la cosiddetta "alta sicurezza" che ha influenzato tutti i progetti di nuove carceri dagli anni ottanta in poi, sotto la spinta della cosiddetta "emergenza terrorismo" e della lotta alla mafia. Secondo il rapporto Antigone, gli istituti di questo tipo "costruiti secondo un modello di architettura penitenziaria diretta a custodire persone definite «pericolose», ospitano oggi detenuti ordinari, che quindi si ritrovano in strutture rigide e poco vivibili: cortili completamente cementati e chiusi da alte mura, celle a due posti […] cancelli e chiavistelli. Le attese dei parenti sono lunghissime, è molto complicato arrivare all’istituto, quasi sempre fuori città e mal servito dalle linee di trasporto pubbliche, è snervante arrivare alle sale-colloqui. Anche per i detenuti, lo svolgimento delle normali attività può risultare piuttosto difficile, se c’è carenza di agenti costretti a svolgere il ruolo di semplici accompagnatori". Alla scarsa vivibilità di spazi pensati in primo luogo in funzione della sicurezza, si deve aggiungere una serie di inconvenienti derivanti da errori di progettazione o dalla scelta di materiali di costruzione scadenti cosicché, a pochi anni dalla inaugurazione, questi edifici appaiono già fatiscenti e richiedono interventi di ristrutturazione. D’altra parte, rispetto ai vecchi penitenziari, le carceri di nuova concezione dispongono di più ampi spazi per le attività scolastiche e di formazione e per le iniziative ricreative e culturali, che permettono di migliorare la qualità della vita delle persone detenute.
Caratteristiche dell’istituto: cenni su tipologia e strutture
Il Pagliarelli è una Casa circondariale ma ospita anche un reparto di reclusione. Vi sono inoltre una sezione di alta sicurezza, una di semilibertà e una per i collaboratori di giustizia. Teoricamente la separazione tra circondariale e reclusione dovrebbe essere netta, tuttavia, come spiegato da un educatore intervistato a proposito della organizzazione interna del Pagliarelli, per vari motivi (tra cui la mancanza di posti), la suddivisione delle due tipologie di detenuti in alcuni casi non può essere garantita e la priorità accordata alle esigenze di sicurezza impone una maggiore rigidità nella gestione della sezione di reclusione. "La reclusione dovrebbe essere molto più aperta: di solito nelle carceri di reclusione aprono le stanze e i detenuti durante il giorno sono liberi di girare, socializzare ecc. Qui è al contrario di solito si deve stare in cella e si può uscire solo in alcuni momenti ben precisi". Per orientarsi all’interno dei reparti e delle diverse sezioni (21 in tutto comprese femminile, e infermeria), forse per sdrammatizzare la condizione di detenzione, sono stati scelti i punti cardinali e nomi che evocano spazi aperti e distese siderali: Mediterraneo, Ionio, Giove, Marte, e così via. La capienza dei detenuti regolare è di 750 persone in celle da 1, 2, 4 posti letto ma, come vedremo, questa cifra è abbondantemente superata fino a raggiungere il massimo consentito anche in casi di necessità che è di 1292 persone. Le celle di conseguenza ospitano in media quasi il doppio delle persone previste. E, a parte i problemi di sovraffollamento, dovranno essere adeguate entro i prossimi tre anni alle nuove normative previste dal regolamento dell’ordinamento penitenziario (Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000 n. 230). L’istituto dispone di spazi comuni ampi e diversificati: strutture sportive (campo sportivo, 2 palestre); ricreative (biblioteca, sale socialità, teatro); religiose (cappella interna, ma nessuno spazio dedicato ad altre confessioni); lavorative (laboratorio teatrale, rilegatoria), un vasto appezzamento terreno coltivabile ed un’area verde per i colloqui dei detenuti con i propri figli. Tuttavia, come si vedrà anche in seguito, la disponibilità degli spazi non comporta automaticamente il loro effettivo uso, legato piuttosto a condizioni e vincoli strutturali e contingenti di varia natura, il che fa prudentemente affermare ad un operatore del carcere che "per quanto riguarda le strutture un conto è averle, un altro è usarle…"
Una città dentro la città: la "popolazione" del Pagliarelli
La presenza effettiva di persone, attualmente detenute al Pagliarelli, va dunque ben oltre la capienza regolare dell’istituto e si attesta intorno alle 1.100 unità. Rispetto alla situazione nazionale delineata nel capitolo precedente, la composizione della popolazione detenuta presenta dei caratteri comuni come l’età media che è di circa 35 anni e alcune peculiarità riguardanti ad esempio la posizione giuridica - i condannati definitivi sono circa il 70% - ed il rapporto tra italiani e stranieri, che a differenza di molte carceri del nord Italia, vede ancora la prevalenza degli autoctoni, circa 800 sugli stranieri il cui numero si attesta intorno alle 200 unità. Da questo punto di vista il Pagliarelli si distingue non solo per il dato quantitativo, ma per il fatto che la maggior parte degli stranieri vengono solitamente trasferiti a Palermo da Milano e da altre carceri del nord Italia dove il rapporto tra italiani e stranieri è invertito. Per quanto riguarda le nazionalità di provenienza, nel mese di giugno il 30% circa era costituito da Marocchini, seguiti da un 21% di Albanesi, il 12,5% di Tunisini, il 6% di nigeriani, il 4,5 di Algerini e la quota restante distribuita più o meno uniformemente tra altre venticinque nazionalità. Se al numero dei detenuti si aggiungono le cifre relative al personale che a vario titolo vi opera, il Pagliarelli si rivela essere una sorta di cittadella fortificata all’interno della città: il personale di Polizia penitenziaria conta poco meno di 700 unità; quello di area educativa 6 educatori coordinatori e 2 agenti P.P. per osservazione e trattamento e per presidio tossicodipendenti; vi sono infine 16 operatori amministrativi, 3 operatori sanitari, 4 tecnici. Una città nella città, dunque, il cui mantenimento costa ogni anno diverse decine di miliardi delle vecchie lire e in cui il rapporto tra "custodi" e "custoditi", come del resto in molte altre carceri italiane, è quasi di uno a uno senza peraltro risultare sufficiente ad assicurare il perfetto funzionamento dell’istituto. Anche se ciò può sembrare assurdo, sia l’amministrazione sia gli agenti di polizia penitenziaria lamentano infatti una strutturale "carenza di personale" che condiziona fortemente la vita quotidiana dei detenuti. Certamente, le elevate misure di sicurezza richieste dall’attuale organizzazione penitenziaria impongono l’impiego di un numero di agenti molto elevato in proporzione ai detenuti su cui vigilare. Tuttavia le ragioni di tale "carenza" sono probabilmente più complesse e profonde: "In Italia, rispetto ad altri paesi, abbiamo il rapporto detenuti - agenti incredibile, quasi 1 a 1. Ma questo non basta a risolvere i problemi per l’incidenza dell’assenteismo. Gli agenti vengono quasi tutti da fuori Palermo quindi devono viaggiare in continuazione, anche se qui ognuno ha una stanza, tutti tendono a tornare a casa se possono. Ci sono difficoltà per organizzare i turni e il lunedì mattina ad es. è un giorno tragico… C’è anche un calcolo economico alla base del fenomeno: per un agente che viene da Caltanissetta ad es. mettersi in malattia in media 10 gg al mese equivale a risparmiare diverse centinaia di migliaia di lire in benzina e altre spese". Almeno in teoria, infatti, il numero degli agenti in organico dovrebbe essere adeguato alle esigenze dell’istituto: il paradosso è che se si presentassero in un giorno tutti gli agenti, non sapremmo dove metterli! Ma se, ad esempio tu devi organizzare un’attività per la quale ti servono 100 agenti devi considerare il 40% di assenze e dunque ne richiedi 140. Il racconto di questo educatore rimanda non tanto ad un mero problema di numeri e dunque ad una oggettiva insufficienza dell’organico, quanto alla diffusione di pratiche, come l’assenteismo generalizzato, che testimoniano l’esistenza di fenomeno di insoddisfazione e sfiducia comune a molti agenti il cui disagio può essere interpretato come un problema di identità e di ruolo professionale come ha dichiarato, in una recente intervista, il Comandante di reparto del Pagliarelli, l’ispettore capo Costanzo Sacco: "Il problema di fondo del Pagliarelli, a mio avviso, è lo stesso che attraversa l’intero Corpo degli agenti di custodia da Trieste a Trapani: un coro unanime di insoddisfazioni e di lamentele, e una sorta di distacco da parte del personale nei confronti dei propri compiti istituzionali. Cerco di far capire ai miei collaboratori che non siamo destinatari passivi delle disposizioni, ma protagonisti per realizzare il fine che la Costituzione ci attribuisce: restituire i detenuti alla società possibilmente in grado di reintegrarsi con essa. Penso che non si tratti di una questione economica, ma piuttosto di una questione di identità di ruolo. Noi siamo un Corpo di Polizia speciale che, oltre a occuparci della prevenzione, della repressione e della sicurezza, ci occupiamo anche di questa funzione fondamentale, di alta rilevanza sociale, che è quella di trattare il detenuto in modo da indurlo a un’autocritica, offrendogli un mezzo per migliorarsi. Per ottimizzare la nostra funzione penso siano necessari corsi di aggiornamento mirati. Ma non solo. La carenza più grave che mi sembra di riscontrare da parte del personale è la mancanza di identità del proprio ruolo". La conferma che alla base delle carenze e più in generale delle difficoltà di gestione del personale vi sia un problema di autopercezione connesso alla difficoltà di ottenere dall’esterno un pieno riconoscimento sociale e che ciò si rifletta nel funzionamento complessivo dell’istituzione penitenziaria è in sostanza confermato da altre due testimonianze, la prima delle quali è della Direttrice del carcere Pagliarelli Rita Barbera, nell’ambito di un’intervista rilasciata alla rivista "Le due Città" (pubblicata nello stesso numero della precedente): "il grande problema resta quello del personale. Sulla carta c’è, ma è un personale che ha delle aspettative che l’Amministrazione non si può permettere di soddisfare. La legge sulla paternità, ad esempio, che toglie un agente per 45 giorni, penalizza fortemente il servizio e i colleghi. Poi rilevo che è sempre più difficile riuscire a coinvolgere il personale. Probabilmente soffre una carenza di identità e di aspettative disattese". La seconda testimonianza appartiene allo stesso educatore che lamentava l’assenteismo come problema diffuso: "ma il problema è che non è chiaro in questo carcere qual è l’utenza, cioè il direttore, l’amministrazione deve spendere gran parte del tempo a occuparsi del personale, delle presenze ecc. Gli agenti, in buona fede, sono convinti di essere loro gli utenti e che i detenuti siano un elemento marginale, e invece no, il loro lavoro è questo e il servizio ha come utenti i detenuti…". Quello che a uno sguardo esterno sembra configurarsi come un problema di natura burocratica tanto ancestrale quanto insolubile, "la cronica mancanza di personale della Pubblica Amministrazione", assolutamente indipendente dalla volontà e dal controllo di coloro i quali lavorano all’interno del carcere, appare agli stessi attori in gioco come un problema di relazione, cioè di identità, di conflitto tra i ruoli, di condivisione di obiettivi e di comunicazione che investe la struttura interna della cittadella fortificata e i suoi rapporti con il mondo esterno. Questo problema si intreccia, in un meccanismo a feedback negativo, con la già citata questione del sovraffollamento e con l’assoluta insufficienza, questa sì definibile oggettiva, delle figure dell’area educativa e trattamentale il cui numero, assolutamente ridicolo rispetto alle esigenze di un carcere con più di 1000 detenuti, fornisce un concreto elemento di riflessione sulle scelte politiche e gli investimenti economici adottati dai vari governi italiani negli ultimi decenni. È in questo complesso sistema di relazioni, oltre che nella trama giuridica e disciplinare tessuta dalle normative vigenti, che si situa la vicenda quotidiana dei detenuti stranieri nel carcere di Pagliarelli.
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