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Introduzione
"È probabile che non vi capiti affatto, che ve la caviate. Tuttavia, anche se non andrete dentro, c’entrate. C’entriamo tutti".
Adriano Sofri
La ricerca. Genealogia, Idea, Cenni sul metodo
Genealogia
Il mio rapporto con il carcere è cominciato tra la fine del 1999 e l’inizio del 2000. Un amico, psicologo presso la Seconda Casa Circondariale "Pagliarelli", che era a conoscenza del mio impegno contro il razzismo, per la difesa dei diritti degli migranti e più in generale sulle questioni relative alle relazioni tra le differenze, mi chiese se fossi interessato a svolgere il ruolo di tutor d’aula in un corso per animatori socioculturali destinato a 20 detenuti italiani e stranieri. Decisi di accettare. Non ricordo bene la data esatta in cui sono andato per la prima volta Pagliarelli, ma conservo il ricordo delle sensazioni che mi accompagnarono in quella occasione. Ero un neofita. Quel giorno, superato il primo controllo, mi lasciavo alle spalle l’imponente recinzione che cinge l’immensa area del penitenziario e alcune letture sulle istituzioni totali accumulate negli anni: in quel momento mi venivano in mente solo Foucault e Basaglia…e basta. Man mano che procedevo nell’iter burocratico e fisico che dall’esterno mi portava dentro il penitenziario, come in una sorta di iniziazione, il mio amico mi forniva le coordinate elementari per muovermi al meglio in quel mondo: "la prima volta è così… la cosa x chiedila nella maniera y… probabilmente ti capiterà questo e quello…". Due cose ricordo più di altre. La prima: il tempo, interminabile delle procedure di ingresso nell’area penale con le stesse questioni ciclicamente riproposte ad ogni posto di controllo e registrazione ("generalità? motivi della visita? Autorizzazione? Ha un cellulare? Oggetti di metallo, vetro?…"). La seconda: il rumore di pesanti cancelli aperti e richiusi al passaggio nostro come di chiunque altro, quasi a scandire quello strano tempo "disciplinare". I volti dei detenuti incontrati nei corridoi in quella circostanza li ricordo meno: erano volti come il mio, come quello degli agenti di custodia, come tutti quelli che incontro ogni giorno, fuori, volti normali ai quali sono abituato. Erano quello spazio quei tempi e quei rumori le cose a cui, piuttosto, avrei dovuto abituarmi. Era quello spazio, che si da subito rivelava appartenere ad un altro mondo. Perché in effetti il carcere - per chi come me non ha mai avuto la sfortuna di entrarci per motivi giudiziari - è un altro mondo, un luogo chiuso. Un luogo panottico, fondato sulla massima visibilità di chi vi viene detenuto ma di fatto assolutamente opaco all’esterno. Chiuso, opaco e dunque incomprensibile per chi si trova fuori. Per i più, il carcere di fatto non esiste. Come altre istituzioni totali è un luogo in cui, specie nei momenti di maggiore tensione sociale, è molto facile tendere a rinchiudere i problemi (leggi le persone) senza porsi più di tanto il problema di che cosa vi accade dentro, delle relazioni che vi si instaurano e di quelle che in quanto istituzione esso riproduce: "Il carcere non è un pezzo di società separato, un luogo recintato con meno comodità e meno possibilità di movimento; è un’altra cultura: un intero diverso universo di sentimenti, di pensieri, di percezioni che ti penetra (ti torce…) dentro e tinge di sé ogni tua azione. È l’ingresso in un mondo "altro", normalmente assurdo. Un paesaggio sociale dominato da quella che gli antropologi chiamano "riproduzione stereotipica", in cui ogni mossa riconferma un astratto e stazionario ordine vigente e il tempo è quello della staticità".
Ma se in carcere la dimensione del tempo che sembra dominare è quella della staticità e dell’impossibilità di cambiare alcunché, fuori dal carcere, coi tempi che corrono, le cose cambiano, eccome. Secondo il primo rapporto dell’associazione Antigone, non a caso intitolato "Il carcere trasparente", esauritasi la stagione di investimento in termini di rieducazione e di difesa dei diritti dei detenuti come soggetti di cittadinanza, le carceri mostrano una tendenza generale in atto e probabilmente in brusca accelerazione di cui anticipo solo alcuni elementi che verranno discussi in seguito:
A rendere ancora più complessa la situazione, si registra negli ultimi anni un incremento esponenziale del numero di detenuti stranieri, doppiamente reclusi, nel perimetro chiuso del carcere certamente, ma ancor prima dentro il recinto non meno angusto e non meno fisicamente opprimente del pregiudizio razzista e xenofobo. Gli stranieri sono abbandonati a sé stessi e spinti ai margini dello stesso carcere, per difficoltà di ordine linguistico, culturale, economico ed emotivo. Il carcere si ripropone dunque, ancora una volta, come pattumiera o - meglio, vista l’atmosfera interna - come pentola a pressione sociale in cui eludere la soluzione delle questioni posti dalla presenza dei migranti nel nostro paese. Per queste ed altre ragioni, allora, si può ritenere che il carcere sia sempre più un luogo di verifica della qualità dei meccanismi democratici in Italia, un luogo da riaprire fisicamente e metaforicamente al dibattito collettivo, all’intervento delle associazioni, uno spazio sociale da cui partire per riproporre la difesa e la promozione dei diritti degli stranieri. Ma l’esperienza che ho avuto finora l’opportunità di vivere in carcere, prima come tutor, poi come docente e infine in occasione della presente ricerca mi spingono anche a pensare che il carcere, nella sua componente umana, è in fin dei conti non solo un problema da affrontare ma anche una risorsa e una ricchezza, uno spazio attraversato da migliaia di storie, di esperienze, di saperi e di competenze che sebbene a rischio continuo di essere annichiliti nell’abbrutimento di 18-20 ore al giorno in una cella riescono in qualche modo a sopravvivere. Con la presenza dei migranti, poi, il carcere italiano è da alcuni anni un immenso laboratorio della convivenza multietnica con le tensioni che essa comporta ma anche con le potenzialità di scambio e di coevoluzione che le culture che si incrociano possono comunque generare.
Idea
Da queste esperienze e sensazioni, è nata la presente ricerca che restituisce i risultati di un’indagine, condotta a partire da novembre 2001, sulla vita quotidiana degli stranieri nella seconda Casa Circondariale "Pagliarelli". Il Pagliarelli conta attualmente circa 1.100 detenuti di poco meno di 200 stranieri, in prevalenza provenienti dal Nord Africa. Il loro numero, variabile in relazione a nuovi ingressi, trasferimenti e scarcerazioni, ha mostrato negli ultimi anni un costante incremento, ponendo così all’istituzione penitenziaria locale inediti problemi di gestione della detenzione e delle attività ad essa collegate. Recentemente hanno cominciato a svolgersi in carcere alcune iniziative di recupero espressamente dedicate agli stranieri o che comunque si propongono la loro integrazione con gli italiani presenti in istituto. La ricerca in questione si è inserita in questo contesto di incremento dell’attenzione ai temi della differenza culturale anche all’interno del carcere articolandosi su due piani. Il primo di essi ha riguardato da vicino l’esperienza della detenzione e la rappresentazione di questa che gli immigrati elaborano, focalizzando l’attenzione sulle difficoltà, i bisogni, le aspettative espresse dai detenuti immigrati come individui singoli. Il colloquio individuale e di gruppo con i detenuti stranieri è stato lo spazio in cui indagare questo aspetto della ricerca. Il secondo piano ha coinvolto invece la detenzione come esperienza collettiva, momento di socializzazione in cui il percorso di "risocializzazione" del singolo si intreccia con le questioni poste dalla necessità della convivenza. L’indagine si è concretizzata, a questo livello, nell’osservazione partecipante di un percorso formativo nell’ambito della mediazione culturale che ha coinvolto una decina di detenuti immigrati a partire dalla fine di ottobre 2001 fino a marzo 2002.
Cenni sul metodo
Questa è una ricerca etnografica, condotta dunque mediante l’uso degli strumenti propri di una metodologia di ricerca qualitativa finalizzata principalmente a descrivere le strategie e gli stili di vita degli stranieri all’interno del carcere a partire dalla loro esperienza diretta. Di conseguenza, ho privilegiato l’approccio biografico che, basandosi sui racconti di vita, considerati come rappresentativi e significativi di una certa realtà a partire da percorsi individuali, assegna un ruolo fortemente euristico alla narrazione. Inoltre, come la genealogia della ricerca mostra, appare evidente il fatto che mi trovo all’interno del sistema di relazioni che ho inteso osservare, non solo nel senso ormai quasi universalmente accettato che ogni osservatore è interno al sistema che osserva, ma più specificamente nel senso di un soggetto culturalmente e politicamente, oltre che biologicamente ed epistemologicamente, posizionato. Ciò ha comportato la necessità di una particolare attenzione nella definizione del metodo, nella scelta degli strumenti, e una riflessione sui vincoli e le possibilità insite nel metodo dell’etnografia e della ricerca qualitativa (cfr. cap. secondo). È stato necessario infine non perdere di vista nell’interazione con l’oggetto di ricerca il fatto che la mia descrizione della vita degli stranieri in carcere dipende da un lato dal mio posizionamento dall’altro da quello dei soggetti con i quali sono entrato in relazione per conoscere il mio oggetto di ricerca. Uso il termine relazione non a caso: la ricerca si è configurata infatti come processo cooperativo di costruzione di sapere nuovo sulla e dentro una società i cui membri sono portatori non solo di una cultura diversa, ma in cui ognuno "porta", cioè vive il rapporto con la propria cultura di provenienza in maniera differente. Attraverso lo strumento dell’intervista, quindi, come suggerisce Lorenza Mondada, si è trattato di aprire uno spazio in cui ricercatore e attori coinvolti dei processi studiati cooperano e producono un sapere comune. Gli stranieri nel nostro paese, pur essendo soggetti attivi e risorsa del cambiamento e dunque potenziali produttori di conoscenza sui mutamenti in atto, devono ancora conquistare questo ruolo nella percezione diffusa che li vuole ancora elementi estranei, intrusi pericolosi nel nostro "corpo" sociale. Questo lavoro è la testimonianza del tentativo di aprire insieme agli stranieri uno spazio di narrazione all’interno del carcere: "raccontare le storie di vita (…) è un atto dovuto", non solo nei confronti dei diretti interessati e dei loro drammi. È doveroso anche per motivi di moralità pratica: se il razzismo si afferma laddove è in atto un processo di spersonalizzazione nella percezione del diverso, porre immagini in carne ed ossa è forse il tentativo di antidoto migliore".
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