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Psicologia e qualità nel carcere di Adriano Tonegato (Psicologo e terapeuta)
Anzitutto ringrazio i promotori di questo convegno, l’Ordine Nazionale degli Psicologi ed il Comune di Lecce che ha offerto la possibilità di questo congresso. Ho pensato di formulare il mio contributo su un piano generale astratto anziché su un piano specifico operativo. Ciò perché, in qualità di rappresentante degli esperti presso l’ordine degli psicologi della regione Veneto, ho avuto occasione di sentire e rilevare situazioni assai diverse di colleghi che operano nei servizi penitenziari dei diversi istituti e quindi ho cercato di considerare la dimensione di contenitore generale anziché quella dei contenuti singoli. Specificando quindi il mio contributo in questo convegno, desidero premettere che esso non vuole rappresentare una trattazione esaustiva, ma desidera solo essere l’occasione per cogliere l’opportunità di socializzare e illustrare degli aspetti multidimensionali, e non certo con l’intenzione di trovare soluzioni immediate. Il mio intervento ha solo lo scopo di cercare di aprire e provocare un dibattito, anche se oltremodo complesso e difficile, e individuare caso mai, attraverso il confronto, ulteriori direzioni da approfondire. Come partecipante al congresso nel gruppo dell’area della psicologia penitenziaria, in quanto operatore in essa, vorrei parlare di un aspetto innovativo che la può riguardare e che nel futuro potrà essere assai stimolante anche per nuovi colleghi sul piano professionale: la qualità nel carcere. A mio avviso, infatti, l’oggetto ed i contenuti di questo convegno possono essere spunti e stimoli per parlare di ciò, vale a dire di qualità, perché tale dimensione culturale ed organizzativa potrebbe essere il naturale contenitore di quelle contraddizioni ed antinomie evidenziatesi, dal dopoguerra ad oggi, nelle problematiche del contesto penitenziario. Problematiche che tuttora rischiano di continuare ad essere inconciliabili nell’ambiente carcerario. Invece, rileggendole e superandole con approccio ed ottica diversi, esse potrebbero ridefinire e prefigurare l’istituzione detentiva sempre meno lontana e differente, quindi conflittuale, da tutte le altre organizzazioni sia private che pubbliche della società. L’espressione "psicologia nel carcere" porta obbligatoriamente a pensare ai servizi di "trattamento ed osservazione", "nuovi giunti" e "presidio sanitario", istituiti dall’amministrazione penitenziaria. Essi hanno trovato ragione di esistere a seguito delle difficoltà di trattamento da effettuare verso i detenuti che dagli anni 80 in poi sono aumentati progressivamente e molto rapidamente trovando l’organizzazione carceraria non sempre pronta a gestire il fenomeno. Da qui la necessità di istituire servizi ad hoc con l’ausilio, quando possibile, anche d’Enti esterni territoriali (u.s.l., s.e.r.t., comuni).Ciò è stato sicuramente necessario in relazione alle caratteristiche personologiche peculiari dei detenuti, ad es. Di quelli affetti da dipendenze, qualsiasi esse siano, e sieropositivi. Tali soggetti, infatti, sono quasi sempre persone che non riescono a non avere e non evitare certi comportamenti ovvero che vivono ed agiscono in modo compulsivo ( all’interno di questo stile di vivere si trova sempre l’incapacità di rimandare nel tempo le proprie pulsioni, oltre che tratti sia d’onnipotenza sia d’autodistruzione), soggetti in altre parole che sono capaci di intendere, ma non di volere. E così per l’amministrazione penitenziaria è stato inevitabile delegare all’esterno una componente di gestione carceraria che all’interno non poteva essere garantita in quanto molto specializzata, e, di conseguenza, una parte di quell’istituzionale del servizio della rieducazione, quindi anche del trattamento psicologico. Ciò, in ogni caso, avviene per persone condannate per un reato commesso e perciò private della libertà, all’interno di quel processo attuato dallo Stato che è chiamato controllo sociale. Controllo sociale che è applicato e trova esecuzione nella giustizia penale, in relazione a comportamenti codificati come devianti. Comportamenti che una volta attuati da cittadini e poi giudicati dalla giustizia tramite un tribunale, se ritenuti appunto devianti rispetto alla norma, sono retribuiti con l’irrogazione di una pena. Pena che tramite la sua espiazione dovrebbe portare alla rieducazione. Ora, senza voler affrontare la filosofia della pena, questo non è il luogo, vorrei semplicemente ricordare che dal momento in cui la pena si è dovuta emancipare dal "castigo divino", si è trovata con la minaccia di essere svelata per quello che, dietro l’intenzione o la finzione di ciò che vuol far apparire d’essere, è nella contingenza. Ovvero, finché essa era "giusta", ha resistito alla critica dei fini, ma quando essa è stata costretta a divenire "utile", nella realtà il suo fine è stato smascherato come irraggiungibile, rischiando così di divenire falso o inconfessabile. Così, se la pena non è più in grado di giustificarsi, si deve mostrare per quello che effettivamente è nel carcere: prevalentemente momento afflittivo se non punitivo. È pure vero però che se l’espiazione della pena è il contenuto centrale dell’organizzazione carceraria, anche quest’ultima allora, a mio avviso, dovrebbe nuovamente e diversamente giustificarsi. E in quest’augurabile contingenza allora non è più pensabile che il carcere possa offrirsi ancora con i caratteri della "separatezza" dalla società civile. Per meglio ampliare queste ultime cose dette, è opportuno osservare che, in attesa di studiare e realizzare pene alternative alla detenzione, è necessario accettare in parte le situazioni esistenti. Cioè, in primo luogo, ridefinire la presenza, magari sempre più limitata per il futuro, del momento coercitivo rappresentato dal carcere com’espressione della politica di controllo sociale. In secondo luogo, farsi carico della necessità attuale di quest’istituzione in un’ottica orientata alla maggiore riduzione possibile di ciò che è afflittivo ancor oggi senza indispensabili ragioni. Ciò potrebbe essere possibile assumendo la filosofia della qualità " nei " e "dei" servizi come oltre sarà illustrato. L’antinomia della pena come sopra accennata, l’ho costatato anch’io ed in modo conclamato nel recente passato con i soggetti tossicodipendenti e, nel presente, con i cittadini extracomunitari. E per questi gruppi sociali, per le caratteristiche di cui si parlava prima, vorrei affermare che il tutto è drammatico. Se è vero che rieducare ha in sé obbligatoriamente una dimensione d’apprendimento in termini di un contenuto e di un sapere psicoeducativo, certamente tutta la storia di tale sapere ha dimostrato che non può esistere apprendimento in termini di miglioramento di se stessi senza la partecipazione emotivo - affettiva vissuta dall’interessato. L’autoritarismo o il paternalismo di una pena anche se più o meno umanizzata sono antitetici alla collaborazione e partecipazione affettiva. Ovvero, a mio avviso: "o si cura o si punisce". In altri termini non si può curare punendo e ciò in particolare modo per persone in stato di dipendenza oppure di cultura transnazionale. Preciso che con ciò intendo riferirmi al contesto globale dello scenario carcerario, perché è ovvio che nel rapporto interpersonale psicologo - detenuto, sicuramente la relazione terapeutica è creata e sviluppata, anche se in uno spazio ed un tempo sicuramente insufficiente se non inadeguato. Penso che a giusta ragione, ad esempio, siano state previste, anche se sono ancora poco attuate, le sezioni a custodia attenuata per tossicodipendenti, dove essi possono trovare delle condizioni di vita diverse da quelle comuni. Per queste ragioni ed altre, le riflessioni sul trattamento in particolare delle dipendenze e della realtà multietnica in carcere, mi hanno indotto ad avvicinarmi ad un’ottica che nella società dell’economia privata, da tempo, non è più una novità: la cultura della qualità. Tale cultura solo negli ultimi anni si è avvicinata all’economia pubblica e quindi si è spostata da una qualità concernente i beni di consumo ad una qualità riguardante i servizi. Sicuramente anche l’amministrazione penitenziaria potrebbe considerare tale nuova dimensione organizzativa che potrebbe poi esprimersi soprattutto a livello d’istituti penitenziari, perlomeno quelli piccoli e medi. Se, infatti, come di fatto è, si considera il carcere l’espressione di un servizio dello Stato verso la collettività, tale servizio certamente potrebbe essere riletto e rivisto in una nuova filosofia organizzativa, all’interno della quale un carcere può divenire una micro collettività permeabile ed in osmosi continua con la macro collettività. All’interno di questa micro collettività anziché esistere solo norme di comportamento delimitanti i ruoli dei vari attori, attori ineluttabilmente divisi fra attivi e passivi, potrebbero esistere sì delle norme di riferimento e di base, ma inglobate in una gestione che renda operativi i principi di "servizi e qualità" secondo modelli organizzativi già esistenti e collaudati. In tale contesto il primo elemento da riconsiderare è il concetto di "servizio" e "destinatario del servizio" che in tale accezione diviene "utente" del servizio, quindi fruitore e dunque, in qualche misura, compartecipe al definirsi stesso del servizio ed al suo evolversi nel tempo. In un tale contesto il cambiamento rappresenterebbe un’accelerazione intesa come capacità d’innovazione e rinnovamento e non come stabilità degli obiettivi da raggiungere e da ampliare. La capacità di innovare e trasformare diventa così strategica e più importante della capacità di razionalizzare.
La nuova logica
Da qui l’evidenziazione di una nuova logica caratterizzata dalla centralità del binomio "professionalità - custodia" che dovrebbe sostituire la logica classica del sistema carcerario centrato sul binomio "carcerazione - espiazione della pena". Si potrebbero enucleare quattro elementi d’esemplificazioni di questa nuova logica. La tendenza in atto a rendere centrale la capacità innovativa a scapito di quella di razionalizzazione. I risultati dell’azione dipendono allora, dalla capacità di innovare il rapporto con il destinatario del servizio da considerarsi così come utente. Quest’ultimo elemento rende conseguentemente sfumato il concetto di carcerazione punitiva ed afflittiva, mentre rende centrale la custodia intesa come rapporto. Tal espiazione può creare un bisogno, non più attraverso il condizionamento della paura della punizione, ma attraverso una maggiore comprensione della capacità dell’utente e una migliore simbiosi con le sue realtà remote e prossime. L’elaborazione di una nuova concezione di servizio di rieducazione o risocializzazione (in relazione altresì delle possibilità offerte dalla professionalità), diventa un atto creativo importante quanto nel privato la scoperta di un nuovo procedimento produttivo. Il secondo elemento è così costituito dal capovolgimento del rapporto espiazione - rieducazione. La logica dell’attuale carcerazione è basata sulle norme o sul regolamento che non ha inoltre come corollario la qualità della rieducazione. La nuova logica di un servizio carcerario e dello sviluppo ad alta professionalità sarebbe fondata sulla priorità della qualità ovvero del miglioramento del detenuto su base emotiva - affettiva. Se questa qualità risulta accettabile sia per quanto riguarda il suo interesse potenziale sia per quanto riguarda la sua riproducibilità, essa genererà anche modifiche strutturali e il concetto di rieducazione tradizionale non avrà più senso ( tipo quello ad es., di non essere più deviante solamente per evitare il carcere). Il terzo elemento è rappresentato dalla centralità della risorsa umana. La risorsa umana non è più solamente concepita come attivatrice di una rieducazione astratta in funzione del controllo sociale: la priorità data alla qualità rende "obbligatoriamente" decisiva anche la risorsa umana. Non esiste un servizio efficace senza un prestatore disposto a fornirlo, senza un beneficiario capace di riceverlo e senza capacità di relazione tra entrambi. Non ci si riferisce qui, però, alla risorsa umana di cui direttamente l’individuo è portatore, ma alla risorsa organizzativa che egli rappresenta e rende possibile. La risorsa umana pertinente non è riferita all’insieme d’individui, quanto all’organizzazione ossia all’insieme di relazioni organizzate con una propria cultura. Così la risorsa umana non è più quella analizzata e rappresentata all’interno della tradizionale concezione del controllo sociale caratterizzato da norme e trasgressioni, ma dal controllo sociale formato di partecipazione, impegno e sviluppo. L’ultimo elemento si riferisce alla capacità di innovare, sviluppare nuovi servizi e raggiungere una qualità sempre maggiore non tanto grazie solo all’adeguatezza degli investimenti materiali, quanto alla pertinenza e qualità degli investimenti immateriali nelle persone, nel sistema di relazioni, nella cultura. Il concetto chiave su cui si basa lo sviluppo dell’investimento immateriale è così costituito dall’apprendimento in quanto il detenuto non è più solo portatore di una capacità specifica valutabile con test, prove, ma è riconosciuto come capace di apprendere individualmente e collettivamente attraverso la formazione e l’esperienza di cooperazione e, attraverso l’apprendimento, capace di trasformare se stesso e indirettamente l’organizzazione in cui è inserito. Quindi il buon esito di una siffatta impostazione dipenderà essenzialmente dallo sviluppo delle capacità d’apprendimento di tutti gli attori coinvolti, apprendimento però con coinvolgimento. E ciò è egualmente vero sia per la mobilitazione delle risorse umane all’interno di un carcere che per le relazioni con l’utente che, in tale contesto, non possono che essere emotive ed affettive e per la creazione ed il mantenimento di collegamento fra le organizzazioni sociali
Nuovi principi d’organizzazione
Quindi per poter dar corpo a questa nuova logica è necessario che essa si traduca in nuovi rapporti umani all’interno di un sistema d’organizzazione che, tradizionalmente, obbedisce ad altri principi che nel contesto carcerario sono le norme o il regolamento penitenziario. Ciò equivale alla necessità di disporre di nuove forme d’organizzazione. Per far questo è necessario ritornare non tanto "ai" principi, ma "sui" principi su cui l’organizzazione tradizionale si basa per farli modificare ed evolvere. I tre principi fondamentali che la nuova logica potrebbe porre a fondamento della nuova organizzazione sono: il principio di semplicità, il principio d’autonomia il principio della direzione attraverso la cultura. Il principio di semplicità non consiste nel dire: è necessario essere semplici, ma la migliore risposta alla complessità del rapporti umani di cui ha bisogno qualsiasi organizzazione comune è la semplicità dell’organizzazione. La vecchia teoria dell’organizzazione scientifica del lavoro consisteva nel concepire il pensiero organizzativo solo attraverso strutture e procedure, mentre si scopre ora che lo spirito umano è i1 migliore strumento d’integrazione che permette di affrontare la complessità. Ad es., se deve essere un esperto psicologo a rispondere al problema, è necessario che quest’operatore abbia la libertà e la responsabilità di agire. Da qui scaturisce la necessita del secondo principio, il principio dell’autonomia. Non è certo nuovo, ma è vissuto ormai in modo totalmente differente, in quanto non si tratta più’ di rispettare il detenuto e i suoi diritti di fronte ai vincoli dell’istituzione, ma di scoprire il bisogno, insito nell’istituzione stessa, del rispetto della libertà della persona. Il terzo principio, la direzione attraverso la cultura, è la risposta logica ai problemi posti dai primi due. Un’organizzazione semplificata, fondata sull’autonomia delle persone e delle unita di base, non può più essere governata solo da norme procedurali, né attraverso ordini gerarchici che tendono a negare l’autonomia delle persone. Se non è più possibile governare attraverso norme od ordini, l’unico modo per mantenere quei vincoli indispensabili al coordinamento degli sforzi, consiste nell’appoggiarsi alla cultura che qualsiasi gruppo umano con una comunanza d’obiettivi produce. La scoperta dell’importanza del culturale nell’orientamento del comportamento diventa quindi un nuovo elemento essenziale del pensiero sull’agire. Il problema centrale, allora, di siffatto modello deriva dall’articolazione del rapporto tra la volontà istituente, lo Stato, e le sue strutture organizzative. Cioè di come le strutture stesse, nella fattispecie quelle carcerarie, devono seguire tale volontà del potere. Un conto è l’istituzione di valori attraverso una volontà sovrana con la relativa allocazione di risorse, altro è creare e gestire le strutture organizzative e operative perché quei valori diventino fatti. La cultura organizzativa degli istituti carcerari è quasi sempre riferibile al modello burocratico. E alla fine, il detenuto di fronte alla gran burocrazia della quale ha pur bisogno, si sente più che rieducato, asservito. L’unica possibilità per il detenuto è l’istanza e la richiesta verbale dove è possibile o nel migliore dei casi, la partecipazione alla gestione dei servizi di commissione rappresentativi di loro stessi.
I servizi e la qualità in un carcere
Il Servizio, nell’ambito carcerario, si presenta com’erogazione di un prodotto per lo più immateriale (la rieducazione) fornito dall’attività prestata da persone (Direzione, custodia, operatori professionali) per l’utilità, la soddisfazione, il supporto alle necessità d’altre (detenuti). Il Servizio induce quindi un cambiamento sulle condizioni di un detenuto (ad es. tramite la rieducazione modificare degli atteggiamenti e comportamenti devianti). Anche se nei servizi ci sarà molta attività preparatrice dell’erogazione, sta di fatto che il detenuto-utente ottiene sempre il servizio da un’altra persona (erogatore) sia pure con il supporto di un fornitore remoto (stato), che non entra in contatto con il fruitore. La soddisfazione o insoddisfazione del detenuto si manifesta nel corso di questa relazione, poiché, di fatto, il fruitore partecipa con la sua condotta a ciò che si definisce il front-line, ossia la coproduzione complessiva del Servizio. Il front-line è l’area della comunicazione, del contatto, dello scambio diretto fra erogatore, il carcere, ed il fornitore del servizio, lo Stato, mediante una serie di processi che sono, contemporaneamente: strumentali (soddisfare un bisogno, risolvere un problema), razionali (argomentare, dimostrare, provare), operativi (redigere documenti, manipolare e consegnare oggetti), comunicativi (intendersi, impegnarsi), affettivi (fidarsi, affidarsi) simbolici (identificarsi), libidici (relativi all’investimento rivolto al soddisfacimento del bisogno). Il Servizio allora non è come nel caso del prodotto materiale un sostituto della comunicazione, ma è il medium attraverso cui la comunicazione passa. La "organization idea", nel caso dei servizi, incorpora i suddetti processi comunicativi, affettivi e simbolici in quella che è stata definita la "service idea". In base a questo si sta sviluppando una nuova esperienza e una letteratura sulla "service organization". Poiché dare e ricevere un servizio vuol dire porre due soggetti in comunicazione, le tecnologie e la professionalità del servizio non possono trascurare il modo con cui l’erogazione del servizio stesso si mette in contatto con i desideri, le immagini (aspettative), le identificazioni, le ansie dell’utente. Questo pone il problema dell’organizzazione dei servizi in modo completamente diverso. Infatti l’organizzazione pensata può essere perfetta, ma se la comunicazione tra front-line ed utente salta, viene a mancare il servizio stesso. Questo avviene quando, in definitiva, il servizio non interessa o serve all’utente. Il rapporto tra front-line ed utente è, quindi, l’imbuto in cui passa tutto il processo di servizio. È quindi presumibile che i modelli d’unità organizzative nei servizi, porteranno le organizzazioni di servizio ad essere più istituzioni di rete piuttosto che verticalizzate e gerarchiche.
La qualità
Su questa base, nel contesto dei servizi carcerari diviene imprescindibile avere come primo e necessario obbiettivo non la quantità delle prestazioni, bensì la loro qualità. Anzi, il binomio servizio/qualità è praticamente inscindibile. Si presentano quindi due condizioni essenziali per il servizio che vuole essere di qualità: la capacità di risolvere anche situazioni critiche e difficili e la sua completezza. Di fatto non esiste un solo concetto di qualità ma tante qualità relativamente alle diverse attese-necessità del fruitore. Quando si parla di qualità ci si riferisce quindi: alla qualità del prodotto/servizio (rieducazione-restrizione/custodia); alla qualità dei processi o dei sistemi d’attuazione dei servizi stessi; ovvero alla qualità come cultura generale che permea un’intera organizzazione. Si passa quindi da un concetto di qualità limitato al sistema di sola gestione ad un concetto di qualità che enfatizza l’intero processo dell’organizzazione. Soprattutto, quando si parla di servizi pubblici si deve tenere conto che nei servizi , efficienza vuol dire qualità, cioè comunicazione, visibilità, cooperazione tra operatori ed utenti, piuttosto che, in senso classico, quantità d’operazioni o rapporto rispetto a standard prefissati. Nel front-line e nelle aree creative del servizio, si richiede all’operatore non esecutività, ma innovazione. È la cultura, l’abilità, il comportamento del lavoratore che definiscono il contenuto reale di quello che viene fatto: ed è questo che dà valore e produttività alla prestazione. Ciò significa che nei servizi la qualità non può che essere una "cultura diffusa" supportata da metodologie che promuovano in continuazione la ricerca del meglio e mobilitino a questo fine tutti gli operatori e la loro capacità propositiva. Un miglioramento globale sull’intero fronte di tutte queste caratteristiche richiede uno sforzo che può essere portato avanti solo perseguendo quattro distinti obbiettivi: tener conto della qualità del servizio sin dalla sua progettualità, utilizzare al massimo la professionalità, reclutare e formare il personale idoneo, elevare le aspirazioni sociali relative ai servizi. Nella gestione del sistema qualità si possono distinguere allora, le tre componenti fondamentali della qualità: la qualità materiale, inerente agli aspetti materiali del servizio; la qualità immateriale che attiene alle procedure e ai processi, all’addestramento, ai sistemi di comunicazione, alle norme di comportamento; la qualità umana espressione di quella cultura del servizio indispensabile per l’acquisizione da parte del personale d’atteggiamenti, comportamenti e mentalità rivolte al consenso dell’utente. Secondo le indicazioni "del modello concettuale di qualità dei servizi" elaborato da Parasuramars, Teithame E Barry, uno dei fattori determinanti la qualità del servizio potrebbe essere: "la formazione del giudizio dell’utente.
La formazione del giudizio dell’utente
Il detenuto-utente valuta la qualità del servizio confrontando le sue aspettative con i risultati effettivamente percepiti. Sul risultato di questo confronto (fra aspettative e percezione del servizio), giocano un ruolo fondamentale: la percezione che la direzione del fornitore (stato) del servizio ha della qualità relativa desiderata; la sua capacità di trasmettere/tradurre questa percezione a livello esecutivo (es. ministero) mediante specifiche di qualità del servizio; la capacità dell’organizzazione (istituzione carceraria) di eseguire le istruzioni cioè di fornire il servizio; infine, il modo con cui l’offerta viene presentata all’utente-detenuto È assai probabile che a decidere questo scarto (aspettativa-risultato) sia la modificazione dei fattori predeterminanti la qualità del servizio a livello delle aspettative rispetto alla definizione della percezione del servizio effettivamente svolto. È possibile a questo punto, valutare come il giudizio di qualità del servizio sia la risultante di tre principali meccanismi attraverso i quali si fondano i giudizi : si tratta delle percezioni di "efficacia, efficienza, empatia".
La percezione d’efficacia
L’utente percepisce il servizio com’efficace nel momento in cui si convince che ha risolto il suo problema, poiché la domanda di servizio ha sempre come aspetto caratterizzante la richiesta di soluzione di un problema. Dal punto di vista dell’approccio alla qualità non basta che il servizio abbia in se le risorse tecniche e umane per risolvere il problema posto dall’utente. È necessario che quest’attitudine venga percepita dall’utente stesso ed il modo migliore acciocché questo avvenga è quello di farlo partecipare concretamente all’erogazione del servizio. La partecipazione diretta e attiva dell’utente alla fase d’erogazione del servizio aiuta sia l’operatore sia l’utente stesso a focalizzare meglio il problema (bisogno) rispetto al quale misurare l’efficacia della soluzione.
La percezione d’efficienza
Se l’utente partecipa in modo diretto o indiretto all’erogazione del servizio , ciò significa che può osservare in toto od in parte l’organizzazione attivata per l’erogazione stessa. Queste informazioni vengono elaborate dall’utente fino a diventare un giudizio sulla qualità dell’organizzazione nel senso dell’efficienza (l’individuazione di strumenti più idonei al raggiungimento dei fini). Il passo immediatamente successivo è quello di confrontare l’efficienza percepita con la prassi ed eventualmente con il costo del servizio. Alla percezione d’efficacia che si realizza attraverso la sperimentazione del servizio si giustappone, dunque, la percezione d’efficienza che si realizza invece attraverso l’osservazione dello sfondo organizzativo dell’erogazione. Questi due ordini di percezione co-determinano il giudizio più generale di qualità del servizio, ma, normalmente, in forma gerarchica: vi è di fatto una priorità del giudizio d’efficacia che, se negativo, rende indifferente ogni giudizio d’efficienza.
La percezione d’empatia
È il terzo canale attraverso cui si forma il giudizio di qualità complessiva dell’utente rispetto al servizio. Si realizza una relazione empatica quando gli operatori del servizio riescono a mettersi nei panni dell’utente cioè a condividere le problematiche, i bisogni dell’utente. In questo caso si ha una reale produzione di cultura del servizio che è, ad un tempo, prodotto dall’attività di servizio, ma anche suo prerequisito nei termini in cui è proprio la cultura del servizio il fattore dominante che concorre alla riduzione del gap, delle distanze tra aspettative e reale percezione del servizio.
Servizi e misurazione della qualità
Accettando comunque la valenza complessa e paradossalmente indeterminata del concetto di qualità, è pur possibile individuare uno schema di riferimento per modificare-orientare-riorientare i processi in direzione della qualità. È questo un modello di comodo che sviluppa in se possibilità di tarare fasi ed elementi che attengono al processo di sviluppo organizzativo al modello potrebbe prevedere quattro categorie d’azione: Descrivere ogni servizio mediante un gruppo di caratteristiche di prestazione; Identificare la necessità, il bisogno dell’utente e le caratteristiche di prestazione applicabili a ciascun servizio. Tradurre queste caratteristiche in misure di processo e per ciascuna misura determinare il livello di prestazione che il processo è capace di produrre. Capire quando sono soddisfatti gli utenti per il livello di prestazione attuale e l’importanza relativa che attribuiscono a ciascun cambiamento di livello. All’interno di questo modello le implicazioni relative al problema della misurazione di standard di qualità, sono scontati.
La professione e la professionalità dell’esperto psicologo
L’attività dell’esperto psicologo nei servizi carcerari si caratterizza poi diversamente da quello nelle organizzazioni di produzione. In queste ultime ad essere assicurati e protetti sono dei diritti e, in particolare, i diritti di conseguire un guadagno pecuniario. Le organizzazioni di servizio invece, sono tali prevalentemente per l’adempimento di doveri. L’elemento fondamentale è che nel mentre ci si dedica alla professione per guadagnarsi da vivere, la misura del risultato professionale dipende dalla qualità del servizio che viene prestato. La professione esprime in sé fini superiori che consistono nel servizio. La professione si caratterizza per tre aspetti fondamentali: consiste nel fornire prestazioni tecniche documentate in relazione al proprio percorso formativo; essa è insieme un’attività lavorativa che è orientata da una serie di norme professionali, cioè ha una deontologia; viene svolta prevalentemente nell’interesse precipuo dell’utente anche se su committenza di un fornitore e di un erogatore. Il potere reale del professionista è, di regola, la competenza superiore a quella del committente, in relazione a ciò per cui è chiamato. Quest’ultimo per altro dovrebbe retribuire la prestazione professionale verificandone la qualità (aspetto che oggi ad es. non è considerato). La professionalità dell’operatore di servizi, passa attraverso un accordo individuale che stabilisce i limiti del servire attraverso definizioni di prestazioni, mansioni e ruoli molto generici. I limiti nel servire potrebbero essere la base, nell’ambito dell’eventuale pianificazione dell’istituzione carceraria, per stabilire gli standard di servizio. Nel mondo del lavoro così organizzato si accentua, allora, l’importanza della competenza rispetto all’appartenenza. Allora, le particolari competenze contenute nelle professionalità potrebbero divenire modalità con cui le risorse umane operano entro gli istituti penitenziari con un grado sempre maggiore d’autonomia fornendo sì riconoscimento e soddisfazione agli individui, ma offrendo valore aggiunto all’organizzazione penitenziaria conferendole così identità, capacità e validità. Fonte d’organizzazione non è allora soltanto l’istituzione, perché essa, in tale contesto potrebbe derivare anche dalla professione stessa. Rispetto al modello odierno di servizio sempre maggior peso assume il triangolo istituzione - utente - professionista. Il collaboratore professionale gioca, quindi, le sua identità e il suo potere confrontandosi con un’articolazione di riferimenti: si riferisce all’organizzazione che lo retribuisce, tiene conto del sapere e dell’etica professionale, s’impegna spesso di persona nel dialogo con gli interlocutori del servizio, producendo, in tendenza, una doppia identificazione con l’organizzazione e con l’utenza.
La qualità minima
Tutti questi elementi vanno, inevitabilmente, verso la necessità di inquadrare la problematica della qualità di Servizi penitenziari o, perlomeno, di definire alcuni requisiti che potremmo individuare come indicatori di una qualità minima. La sola qualità intrinseca nel prodotto - servizio, la sua affidabilità non sono più sufficienti a garantire successi. Come precedentemente esposto, viene allora posta e ricercata la centralità dell’espressività e delle risorse immateriali e della qualità umana. La qualità totale di un servizio comprende, quindi, la qualità dei soggetti che gestiscono l’organizzazione e, anche, il suo front-line. Il nesso forte tra valorizzazione della persona e qualità governano così l’organizzazione. Queste due realtà costituiscono il territorio di senso (teorico e pratico) all’interno del quale, ad esempio, gli interessi (dell’esperto) ego - riferiti (i propri bisogni) e gli interessi etero - riferiti (la convivenza con i bisogni sia del committente sia dell’utente) potrebbero essere in sinergia. Osservando la scena delle interazioni di Servizi, a volta densa d’emozioni e sentimenti, è stata utilizzata l’espressione di "manodopera emozionale" per significare che la gestione delle relazioni interpersonali con gli utenti è un lavoro. Soprattutto nei Servizi molto personalizzati, come possono essere quelli per i detenuti, in altre parole quando lo stato di bisogno dell’utente è molto alto, l’attività d’ascolto, l’uso attivo dell’empatia, l’atteggiamento di comprensione e totale disponibilità, comportano e implicano, senza dubbio, fatica. Non a caso con il termine "sindrome di burnout" si è voluto indicare il logoramento della personalità che l’esposizione intensa ai rapporti interpersonali può indurre. È certo che tale sindrome assume maggior complessità soprattutto in relazione al fatto che, molto spesso, l’operatore del servizio vive la sua routine quotidiana come completa banalizzazione e perdita di senso delle sue funzioni e, in definitiva, come venir meno d’elementi che attengono alla sua identità. Sulla scena adulta del Servizio si dovrebbero, quindi, poter rappresentare: una professionalità derivata dalla solidità soggettiva e dall’abitudine (non routinaria, ma frutto di formazione) a trattare con il bisogno e con i1 desiderio altrui, senza incorrere in vissuti di sopraffazione e negazione, la possibilità di "rifornimento emozionale" come spazio d’attenzioni rivolte a se stesso. In un certo senso chi dirige od opera con il personale e, in particolare con quello di front - line che deve contenere la domanda di servizio degli utenti, dovrà fare a sua volta da contenitore a coloro che svolgono questo ruolo. Una sorta di "maternage", quindi, carico però di valenze conoscitive. Si tratterebbe quindi, di valorizzare la risorsa - operatore esperto come individuatore di profili di bisogni e d’elementi d’educazione della domanda; la riconciliazione personale dell’operatore con il motivo del sistema, del servire, quindi con il suo vissuto di dipendenza verso obiettivi e problemi altrui, il compenso adeguato delle proprie prestazioni. Tutto questo può essere cementato da quella consapevolezza (cultura del Servizio) per cui l’operatore nel mentre fornisce i1 servizio recupera elementi di crescita e maturazione personale, ossia alimenta se stesso e l’organizzazione di nuovi elementi conoscitivi. Nella fattispecie, i comportamenti e gli atteggiamenti che potrebbero costituire la componente della qualità unitamente al fondamento etico del servizio dell’esperto, potrebbero essere: Essere consapevoli che il detenuto è un soggetto, portatore di bisogni propri e peculiari. Conoscere e saper soddisfare il bisogno per cui l’utente entra in relazione con noi, assumendo il suo problema come problema da risolvere assieme. Stabilire una relazione con il detenuto, ricercando un rapporto comunicativo, anche emozionale, fortemente orientato al suo vantaggio. Porre la soddisfazione del detenuto come misura fondamentale della nostra azione e a tal fine far si che egli riceva dal servizio qualcosa in più di quanto non si aspettasse. Favorire la crescita di maturità da parte dei detenuti, collaborando a chiarificare le loro aspettative e a renderli consapevoli dei loro diritti nei nostri confronti. Diffondere e sostenere l’etica del servizio all’interno delle istituzioni in cui prestiamo la nostra opera professionale. Contribuire a far si che l’etica del servizio si traduca in precise scelte di priorità nell’organizzazione del lavoro. Partecipare e collaborare ad un approfondimento culturale sui vari aspetti dell’etica del servizio della carcerazione e sulle sue implicazioni. Promuovere l’insegnamento dell’etica del servizio carcerario a cominciare dalla scuola dell’obbligo, come elemento integrante dell’educazione civica. Contribuire ad una sensibilizzazione dell’opinione pubblica alle problematiche dell’etica del servizio. Concludendo quindi, vorrei dire che il detenuto, se non ha la possibilità di elaborare e trasformare la propria esperienza coercitiva di privazione della libertà in una esperienza di apprendimento e cambiamento di se stesso in funzione della propria vita, tale esperienza rimarrà solo come memoria di paura e di evitamento, del carcere. E se egli malauguratamente si troverà in situazioni di ricaduta nella dipendenza o di emarginazione sociale, e non sarà difficile nella società odierna specie appena uscito dal carcere, si troverà anche a rischio di nuovi comportamenti devianti. Questi però saranno effettuati sicuramente nell’ottica di evitare il carcere, tramite una devianza migliorata dall’esperienza passata, anzi vorrei dire, provocatoriamente, con una qualità della devianza. Qualità della devianza però, che potrebbe essere prevenuta dalla sinergia derivante sia da una qualità del carcere, sia da una qualità dei servizi territoriali.
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