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Infelicità e carcere: un problema di identità di Adriano Tonegato (Psicologo Psicoterapeuta)
Questa relazione deriva da osservazioni nelle quali necessariamente mi sono trovato immerso svolgendo una parte della mia attività professionale come consulente psicologico in carcere. Essa non vuole essere una trattazione, ma solamente l’occasione di riflettere su di un contesto che è assai problematico e complesso. Parlare d’infelicità e carcere vuol dire parlare anche di carcerario. Senza fare la storia della nascita e dell’evoluzione del carcere, ma partendo dalla situazione odierna, si può dire che il carcere è un luogo chiuso dove una persona è ristretta per ragioni custodialistiche. Tale persona o è imputata o è colpevole di un reato e perciò lo Stato, per conto della società, l’ha privata della libertà personale al fine di essere rieducata tramite l’espiazione di una pena. Che cosa succede quindi ad una persona incarcerata? Senza entrare nel dettaglio della vita carceraria, ma cercando di cogliervi invece aspetti comuni a tutti coloro che sono carcerati, si può rilevare che esiste la mancanza di un luogo privato dove la persona non possa essere osservata; che esiste una pioggia d’ordini e direttive unitamente ad informazioni indefinite; che il linguaggio è assai semplificato, limitato ad ordini, senza accenti individualizzati; che la memoria personale piano piano è convogliata ad una nuova versione dei fatti adatta alle circostanze del momento (il che provoca una perdita di continuità col passato); che spesso vengono fomentate paure d’ignote punizioni. Queste situazioni che potremmo chiamare sia di necessità sia di pericolo non possono che rendere infelice qualsiasi individuo poiché in realtà esse rappresentano un attacco all’identità ed il binomio "infelicità-non identità" è pur sempre vero. Tutte queste ragioni giustificano il titolo della relazione: lo stato d’infelicità del carcerario va in parallelo con il problema d’identità, anzi con l’attacco che viene diretto all’identità e che agisce attraverso la regressione indotta, che porta l’individuo ad uno stato di dipendenza infantile da parte di un’autorità totalitaria. A tutto ciò si aggiunga la mancanza d’informazioni generali e di stimoli nonché un flusso continuo d’informazioni umilianti. Tali deprivazioni accrescendo la necessità, contribuiscono allo smantellamento dell’autonomia personale e determinano uno sfondo adeguato all’impatto costante di un ambiente conoscitivo il cui contesto esistenziale è tale da ridurre l’individuo abbandonato a sé stesso. Se infatti pensiamo alla formazione dell’identità e la accettiamo in quanto "fatto di percepire il Sé come unità organizzata e differenziata, separata e distinta dall’ambiente che la circonda, dotata di continuità e avente la capacità di continuare ad essere la medesima nella successione dei cambiamenti, che costituiscono appunto la base dell’esperienza emozionale dell’identità stessa", per quanto sopra esposto non si può certo non dire che l’identità sia messa in crisi. Infatti cercando una rappresentazione del Sé nell’Io, non è più possibile ritrovare elemento molto importanti quali: le caratteristiche, la potenzialità, le funzioni e la figura del corpo, la sua anatomia e fisiologia; l’immagine dell’Io, dei sentimenti, pensieri, desideri, impulsi e atteggiamenti consci e preconsci, l’idea della propria condotta fisica e mentale; l’ideale dell’Io e del Super-Io, ideali e scale di valori consci e preconsci, una valutazione dell’efficienza dell’autocritica; la parte dell’Es che comunica con l’Io; un concetto della somma totale degli aspetti parziali sopramenzionati, che integra il Sé in un’entità organizzata e differenziata dell’ambiente. In altre parole viene meno l’identità in base al rapporto spaziale, cioè la capacità di sentirsi separati e diversi dagli altri, sia l’identità in base al rapporto temporale, cioè la capacità che l’individuo ha di stabilire connessioni tra le varie rappresentazioni del Sé e aspetti degli oggetti. Se accettiamo quindi l’ipotesi che la capacità di continuare a sentirsi sé stessi, pur nel succedersi dei cambiamenti, è la base dell’esperienza emozionale dell’identità e implica il mantenimento della stabilità, è vero anche che la vita stessa di un individuo è una serie di continui cambiamenti attraverso l’elaborazione e l’assimilazione dei quali si stabilisce il sentimento di identità. Quando però, come nel caso di una persona che passa da uno stato di libertà individuale ad uno stato di privazione della libertà, il cambiamento è troppo grande, l’individuo reagisce non solo con angoscia per la nuova situazione, ma anche con sentimenti depressivi, dato che cambiare significa perdere precedenti rapporti cioè trovarsi in situazione di lutto per l’oggetto e anche perdere aspetti del proprio Sé cioè trovarsi in situazione di lutto per il Sé. Per la verità nella condizione detentiva è assai difficile elaborare un lutto e ciò è causa spesso oltre che di infelicità, di resistenza al cambiamento stesso. Tale infelicità altro non è che perdita appunto di identità che induce alla depressione generata dall’angoscia per una situazione di difficile cambiamento e perciò di elaborazione. M. Klein ha osservato che l’angoscia è determinata dal vissuto del pericolo di annichilimento dell’organismo proveniente dall’istinto di morte e suggerisce che questa è la causa prima dell’ansia strettamente legata ai sentimenti di colpa e di riparazione. Ella stabilisce anche una differenziazione tra due forme primarie di angoscia: l’angoscia persecutoria e l’angoscia depressiva. La prima è in rapporto essenzialmente con la fantasia di una minaccia di annichilimento del Sé. La seconda con la fantasia di un danno causato agli oggetti interni ed esterni da parte degli impulsi distruttivi del soggetto. Nella prassi del lavoro ho rilevato che quest’ultima formulazione teorica kleiniana può essere verificata nella realtà con una frequenza inquietante. Infatti considerando che le persone in carcere per qualche ragione hanno avuto dei comportamenti devianti in fatto di rispetto della libertà dei mèmbri della società e che perciò da questa esse sono state punite da un punto di vista dinamico, è possibile operare un riscontro con la teoria kleiniana in termini di vissuto dell’angoscia come una colpa persecutoria o una colpa depressiva. In molti casi, sempre da un punto di vista psicodinamico, gli atti criminosi tendono a soddisfare richieste inconsce provenienti da aspetti criminosi interiorizzati dalla relazione genitoriale, oppure, in altri casi, rappresentano difese contro l’ansia di separazione e la minaccia di annientamento. Molti di tali soggetti provengono da famiglie in cui hanno subito ripetute esperienze di abbandono o di maltrattamento da parte dei genitori. Ciò quasi sempre ha comportato una perdita oggettuale; senonché invece di incorporare l’oggetto perduto, come accade generalmente nel lutto normale, questi soggetti tendono, sfogando il disinganno, a proiettarlo nel mondo esterno. Perciò il comportamento antisociale è un modo di attaccare l’oggetto posto al di fuori quasi a scopo di vendetta e di controllo. Nelle realtà carcerarie degli ultimi cinque/sei anni e particolarmente in quella attuale, dove la popolazione detenuta è rappresentata da circa il 70-80% di tossicodipendenti, l’ipotesi dinamica appena esposta trova ulteriore riscontro. Infatti nei tossicodipendenti si possono rilevare gravi privazioni orali nelle prime fasi della loro vita. Sembra infatti dimostrata la conflittualità dell’immagine materna del tutto inadatta a soddisfare i bisogni dei figli sui quali anzi era stata proiettata una profonda insicurezza e un bisogno di dipendenza. E quindi ben ipotizzabile che all’inizio di una tossicodipendenza ci sia anche uno stato di lutto che porta ad una situazione depressiva. Poiché l’Io del tossicodipendente è debole e fragile e non è in grado di fronteggiare il dolore depressivo, ricorre a meccanismi maniacali posti in essere soltanto con l’aiuto di droghe. In questo modo la dipendenza da esse costituisce una difesa contro la depressione più o meno grave. Infatti, come succede nella melanconia, anche il tossicodipendente introietta un oggetto d’amore frustrante la madre che egli aggredisce e tenta di distruggere dentro di sé. altre volte proietta gli aspetti persecutori dell’oggetto sul mondo esterno e reagisce in modo fortemente ostile all’ambiente sociale che rappresenta un sostituto della madre e della famiglia. Da tutto quanto finora esposto, per ritornare al titolo della relazione, si evidenzia che l’infelicità, ovvero la realtà che abbiamo individuato come crisi di identità in carcere, è non solo inevitabile, ma anche assai delicata da gestire. Viene da sé che trasformare in un carcere l’infelicità in felicità, almeno nella accezione esistenziale del termine, è impossibile. E però possibile, a mio avviso, arrivare a stati di infelicità minori di quelli dei primi tempi dopo l’ingresso in carcere e soprattutto è possibile trasformarli recuperando il vissuto della speranza in termini di proiezione verso il futuro. E quanto ho potuto osservare e constatare nel mio lavoro di "trattamento" laddove si sia presentata la possibilità di intervenire ad un livello psicodinamico. Nelle persone con colpa persecutoria la nozione del tempo funziona con le caratteristiche del processo primario, cioè dell’inconscio, per cui la persona stessa si manifesta in un quadro di atemporalità dove il passato e il presente si confondono. Le principali emozioni che intervengono nella colpa persecutoria sono: il risentimento, il dolore, la disperazione, il timore, gli autorimproveri. I casi estremi della colpa persecutoria possono condurre alla dissociazione e alla melanconia intesa come lutto patologico. La caratteristica è l’attuazione masochista dell’Io che ha luogo sotto il segno dell’istinto di morte. Nella colpa depressiva, al contrario, il tempo si configura secondo le leggi del processo secondario, cioè del cosciente. Esiste discriminazione tra passato e presente e c’è anche prospettiva e futuro. I sentimenti più importanti della colpa depressiva sono: la preoccupazione per l’oggetto e per l’Io, la pena, la nostalgia, la responsabilità, la colpa depressiva specialmente nel lutto normale con attività di sublimazione e di riparazione e si trova sotto il primato dell’istinto di vita. Così talvolta è stato possibile operare in modo tale da far passare un soggetto dallo stato iniziale quasi sempre presente di colpa persecutoria, ad uno stato di colpa depressiva, il che vuoi dire anche facilitare il passaggio da una crisi di identità psicotica ad una crisi di identità nevrotica.
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