Viaggio negli O.P.G.

 

Viaggio negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Emergenza da matti

 

Fondi tagliati. Strutture fatiscenti. Poco personale. È la realtà degli ex manicomi criminali. Che nonostante questo sono ricchi di iniziative. E di critiche per le strutture alternative

 

L’Espresso, 13 giugno 2002

 

Il matto, l’uxoricida, ti viene incontro in mezzo alle anatre mandarine e ai germani reali dell’area verde, ospedale psichiatrico giudiziario "Filippo Saporito" di Aversa. Non pare denutrito, ma è di cibo che ti parla: "Lo sai quanto spendono per darci da mangiare? Vuoi vedere?". Sì, vogliamo vedere. Un euro e mezzo al giorno, un po’ più di un cappuccino: tanto costa, per colazione, pranzo e cena, il mangiare di un internato in ospedale psichiatrico giudiziario, in sigla o.p.g., quello che una volta si chiamava manicomio criminale. Nel dettaglio, in vecchie lire perché così sta scritto e perché i mezzi centesimi non esistono, latte 180 lire al dì, orzo macinato 15, zucchero 14, e una lira di pangrattato, 2 lire di sale, 99 di pasta, 226 di verdura e 339 di pane; e poi aceto di vino 8 lire solo il giovedì, ma il lunedì 563 lire di merluzzo, il martedì 720 di tacchino, il mercoledì 1.100 di sottilette, bollito 975 lire solo il sabato, per santificare la domenica 160 lire di crostatina. Tutto dettagliato nella "tabella vittuaria ministeriale" di Aversa, che gli internati hanno pubblicato nel loro giornalino "La storia di Nabuc" (anche il re babilonese impazzì sette anni, poi decise di guarire), 15 numeri in quattro anni, non sottoposto a censura alcuna.

L’internato che non s’accontenti può ricorrere, a sue spese, al cosiddetto sopravvitto, acquistando (nella dispensa gestita dallo stesso fornitore a basso costo all’amministrazione penitenziaria) un chilo di pasta all’uovo a 9,93 euro, carne bovina o suina a 6,20 euro al chilo, camomilla a 0,96 euro a confezione, casomai gli venissero i nervi. Lo Stato contiene le spese all’osso sotto il livello di sussistenza, i fornitori compensano, l’internato paga o si tiene lo stomaco semivuoto.

Poiché sul mangiare era arduo risparmiare oltre, si sono tagliati i fondi destinare a pagare gli psicologi. Così i due di Aversa, come i due di Napoli e Montelupo Fiorentino, si sono visti ridurre le ore retribuite da 50 a 42 al mese: il che significa un minuto al giorno a paziente per studiare e attuare i percorsi di riabilitazione che dovrebbero, un giorno, tirarlo fuori di lì e restituirlo a una vita familiare o comunitaria dignitosa e senza pericoli, per lui e per gli altri. A Reggio Emilia e Barcellona Pozzo di Gotto, provincia di Messina, è anche peggio: di ore i due psicologi ne fanno solo 23 al mese. Tanto due o tre volontari poi si trovano, giovani, idealisti e paghi di farsi un po’ le ossa o di preparare la loro prima pubblicazione scientifica: impeccabile interpretazione di quel principio di sussidiarietà così caro alle gerarchie ecclesiastiche e sposato dall’attuale presidente del Consiglio.

Un flash su un paio di internati legati al letto (sì, in qualche caso nel "reparto agitati" lo si fa ancora, quando nessun altro sistema funziona, sostengono gli agenti, il letto di contenzione è l’unica alternativa efficace) e l’articolo di denuncia è bell’e pronto. Invece no. Nei sei o.p.g. italiani sono internate 1.130 persone, un terzo delle quali ha ucciso coniuge o genitore o figlio o altri, e il resto è reo di lesioni, minacce, maltrattamento, stupro, atti osceni.

Se fossero una massa di disperati affidati alle cure di un branco chi più chi meno di aguzzini, non sarebbe forse così arduo intervenire con scelte radicali: radere al suolo tali escrescenze di un Ottocento lombrosiano come auspica Franco Rotelli, direttore della Asl 2 Caserta, un tempo braccio destro di Franco Basaglia, l’uomo della legge 180 che abolì, di nome se non di fatto, tutti i manicomi esclusi i sei giudiziari. Ma le cose non stanno così.

Dentro, nell’istituzione totale, con fondi risibili si attivano mille iniziative, interventi, corsi, trattamenti, intrattenimenti. Fuori, dove da vent’anni si parla di strutture alternative, case-alloggio, reti territoriali di monitoraggio e assistenza a maglie strette, non s’è fatto quasi nulla. Così nessuno lo vuole e nessuno se lo prende, il matto giudicato pericoloso da un tribunale che lo ha prosciolto dai reati addebitatigli, perché incapace di intendere e di volere, comminandogli una misura di sicurezza di due, cinque o dieci anni salvo proroghe. E lui, una volta entrato, resta dentro più del dovuto: dieci anni e dieci mesi è la permanenza media di un internato maschio a Castiglione delle Stiviere, dei sei la sola struttura senza polizia penitenziaria e con una sezione femminile, 75 internate che ci restano in media molto meno, quattro anni.

La contraddizione è insita in un’istituzione che è e resta carcere ma dovrebbe e vorrebbe essere anche ospedale. E il discrimine tra "sorvegliare e punire" e curare, riabilitare, restituire a una vita il più normale possibile attraversa tutte le persone che ci lavorano: polizia penitenziaria (chi arriva dall’Ucciardone o da Poggioreale è abituato a difendersi da mafiosi e camorristi, e devi spiegargli tutto della malattia mentale), psichiatri (chi ci spende l’anima e chi ci passa quando può come terzo o quarto lavoro), infermieri, educatori, volontari esterni, direttori.

Come un viaggio a Napoli, Aversa e Castiglione ci consente di raccontare.

Napoli, o.p.g. Sant’Eframo nel convento cinquecentesco arrampicato per salire al Vomero. Karaoke tutti i giorni, sul palcoscenico del cineteatro Raggio di sole. Gerardo, tarchiato e lisciato nella chioma, canta "Un pugno e una carezza" di Celentano, lui che è qua da tre anni per violenze in famiglia. Carmine, che ha ucciso, rifà "I’ so’ pazzo" di Pino Daniele. Stefano e Flamur, qua per lesioni e minacce, lavoranti alla manutenzione fabbricati per 380 euro il mese, ballano con due infermiere e un’educatrice. Una dozzina di internati assistono sulle file di sedili di legno, quasi tutti fumano, alcuni applaudono, altri guardano fissi davanti a sé per le potenti dosi di farmaci neurolettici che gli hanno somministrato. Attraversi il cortile e in cucina, al corso da cuoco della Regione con dieci iscritti, incroci un fiorentino sdentato che ha ucciso la moglie. Lavora, e manda tutti i soldi alle figlie che non rivedrà probabilmente mai più: "L’erotomane più simpatico che c’è", dice il direttore Umberto Racioppoli. Nella tipografia stampano "33,3 periodico", il giornalino dei matti. Scendi una scala e c’è la palestra. Cambi ala, sali una rampa, e in una stanza altri otto ricoverati dipingono e modellano ceramica, mentre Livia Schettino maestra e Giovanni Frascadore che coordina i corsi ti mostrano le foto delle gite mensili, a gruppi, a Palazzo Reale, Ischia, Sorrento, le solfatare di Pozzuoli, anche a Roma. Nelle camerate, strette e a cinque letti, panni stesi, poster di donne e Schumacher, televisore acceso su Mtv, due internati che nessuno riesce a far alzare. Troppa grazia? Guardi il mazzo di chiavi d’ottone, grandi e a tubo tondo, alla cinta degli agenti di polizia penitenziaria, e cambi idea. Con l’orto, il karaoke, i laboratori medici e i murales di Totò e di Eduardo, Sant’Eframo è un carcere dove si viene perché si è malati di mente e pericolosi. Ma che succede quando il malato supera la fase di grave "irregolarità comportamentale"?

"Metà delle persone qui internate potrebbero già essere affidate senza rischi a strutture territoriali esterne: se esistessero, e se le poche che esistono fossero organizzate per riempire la loro vita, non solo per fornirgli un tetto e un letto": così il direttore Umberto Racioppoli. Ma anche Anna Maria, educatrice da un lustro, una che ti avverte "la 180 non si tocca!" e l’o.p.g. vorrebbe farlo sparire, ti dice: "Alcuni, una volta fuori, mi hanno chiesto di ritornare qua. Capisce? Vanno in comunità, gli svuotano la vita, e vogliono rientrare in o.p.g. O li rimandiamo in famiglia, nessun servizio li segue, e qua di nuovo finiscono". Non c’è descrizione più precisa e attendibile del fallimento della riforma psichiatrica.

Aversa, il primo, il più antico, anno 1872. Giri tra una costruzione e l’altra con Adolfo Ferraro, che lo dirige da cinque anni, e lo fermano ogni secondo da dietro le sbarre: "Diretto’ quando me ne vado di qui?". "Diretto’, sono sei mesi che ho chiesto un colloquio col magistrato". "Diretto’ ce l’hai una sigaretta?" Già, le sigarette. Moneta di scambio per tutto, qua dentro: cibo, maglioni, amicizia, affettuosità, sesso. S’arrangiano. Come Ferraro, del resto, che coi tagli al bilancio della Sanità si ritrova ad arredare le celle con mobilio di risulta, mantenere l’area verde ripopolando in cambio le oasi Wwf di uccelli rari nati qua dentro, recuperare i farmaci antidepressivi necessari sperimentandone uno su pazienti aggressivi per conto di un’industria farmaceutica.

In alto, sulle mura, le garitte degli agenti sono vuote, abbandonate. I vecchi attrezzi della repressione manicomiale, ceppi, catene, macchine da elettroshock, sono finiti nel museo allestito per scuole e curiosi, assieme al pianoforte della contessa Bellentani, qua reclusa di lusso negli anni Quaranta per aver ucciso l’amante. "Tutti vengono a vedere, ma nessuno se li viene a prendere ‘sti disgraziati", scuote la testa Vincenzo Volpe, infermiere da vent’anni, ben prima che nel ‘98 ne arrivassero altri 60, maschi e femmine.

La scoperta, ad Aversa, è la polizia penitenziaria. Restano strascichi di vecchi conflitti tra medici e agenti di custodia. Ma a organizzare e gestire l’area "trattamentale" (sartoria, ceramica, teatro, pittura, fotografia, composizione floreale, musicoterapia, area verde, ogni giorno per metà degli internati) è Salvatore Montesano con altri cinque poliziotti come lui, più due infermieri, tre educatori e un amministrativo. "Per questo bisogna formare gli agenti", dice il comandante Luigi Mosca, "e riconoscerli professionalmente". Non puoi trattare allo stesso modo un carcerato e uno che ti guarda, sgrana gli occhi e dice: "Sai, qua servono un tipo di buchi col formaggio...".

Castiglione delle Stiviere, struttura ospedaliera del "Carlo Poma" di Mantova, convenzionata ma non dipendente dal ministero della Giustizia, e unica sezione femminile di o.p.g., con 75 internate, fascia più affollata fra i 30 e i 40 anni, diagnosi più frequente la schizofrenia paranoide. 14 sono infanticide, quasi tutte hanno ucciso il figlio. C’è un febbrile viavai di detenute dalle carceri di tutta Italia, donne che condannate mostrano segni di squilibrio o depressione, vengono mandate in osservazione psichiatrica per 30 giorni, tentano in genere di rimanerci. Ti raccontano spezzoni di vita: "Ho sempre avuto a che fare con persone molto aggressive, genitori, marito"; "Me l’hanno fatto uccidere, me l’hanno ordinato"; "Eh, l’ho fatto, è la vita. Ma ho un disturbo di personalità".

Uomini e donne insieme li trovi solo al reparto Avalon: in 15 si autogestiscono di giorno, cucinano, studiano computer e falegnameria. Per le altre, alla rete che le separa dagli uomini c’è, di straforo, ressa: per un bacio chiedono una sigaretta, le tossiche una medicina qualsiasi.

 

 

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