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Quelle "povere cose" da sistemare lontano da noi di Giuseppe Dell’Acqua, Direttore dipartimento salute mentale di Trieste
Fuoriluogo, 25 gennaio 2002
Il 7 aprile di quest’anno, l’O.M.S. (Organizzazione mondiale della sanità) in occasione della giornata mondiale della salute mentale additava la legge italiana "dei manicomi", meglio nota come legge 180, come l’unica in grado di affrontare in termini di lotta all’esclusione e di costruzione di percorsi di cura, di reintegrazione e di rimonta sociale lo stigma e la discriminazione che ancora in ogni paese, specie in quelli occidentali, colpisce le persone affette da disturbo mentale. Stigma e discriminazione che ostacolano l’accesso alle cure e rendono più ardui i percorsi di guarigione. Da oltre due decenni lo sforzo per avviare il cambiamento delle istituzioni della psichiatria negli altri paesi europei, di recente la Francia, e del resto del mondo non può prescindere dall’esperienza italiana. Esperienza che, malgrado ritardi amministrativi colpevoli e severe inadempienze anche in quelle regioni del paese notoriamente all’avanguardia nella gestione della salute pubblica, ha prodotto un cambiamento epocale, in primo luogo nella vita delle persone che soffrono di disturbo mentale e, con estrema evidenza, nelle forme dell’organizzazione delle reti dei servizi. Il patrimonio di culture innovative e di promozione di protagonismo prodotto dal movimento di trasformazione è ancora da valutare tanto è vasto. Niente oggi in Italia è più come prima. Tutti gli operatori e le operatrici, i volontari, i familiari, gli amministratori, i cittadini, i pazienti stessi, ora sempre più presenti con le loro associazioni, hanno sperimentato culture e pratiche innovative ed hanno contribuito con gesti piccoli e quotidiani al cambiamento. Sono cresciute esperienze di eccellenza, per fortuna non pochissime (se mai poco conosciute e valorizzate), e una rete di servizi ormai presente in ogni provincia, bene o male. Sebbene le risorse messe in campo abbiano sofferto di approssimazioni amministrative e siano tuttora insufficienti, tuttavia la riforma ha mutato profondamente il quadro. Più di 6.000 sono gli psichiatri attivi nei servizi pubblici (700 alla fine degli anni 70), più di 3.000 gli psicologi (alcune decine poco più di vent’anni fa), più di 40.000 gli infermieri. Nuove professionalità vanno ad integrare e ad arricchire il quadro delle risorse umane messe in campo. Le cooperative sociali sono cresciute nel campo dei processi abilitativi e di integrazione. Le "imprese sociali" sviluppano risorse e percorsi diversificati, utilizzabili subito, e promuovono traguardi nuovi e sconosciuti finora per le persone affette da disturbo mentale; ma anche lavoro e lavori nuovi per migliaia di giovani, spesso molto motivati, che, con i loro sguardi incondizionati, introducono prospettive ed attese, progetti e scambi finora inusuali ed insperati nei campi aridi della psichiatria. A distanza di pochi mesi dal lusinghiero rapporto dell’O.M.S., si sta facendo strada in Italia una proposta di legge che, qualora votata, stravolgerebbe, tradendoli, i principi fondanti della legge di riforma, soprattutto il diritto alla cura nel rispetto della dignità umana e quello di cittadinanza. E un segnale in questo senso la riproposizione dell’uso illimitato, prolungato e fuori da ogni controllo dell’ospedalizzazione coatta, che per di più "...può essere richiesta da chiunque ne abbia interesse". I reparti di "psichiatria" (così sono definiti) sono presenti ovunque senza limitazione, negli ospedali, nelle cliniche private ed universitarie. Prevedendo la creazione di ospedali pubblici e privati, detti eufemisticamente "residenze", con 50 posti letto, si riaprono di fatto i manicomi. Lo stesso dipartimento di salute mentale può essere, nella sua interezza, appaltato a privati. Come si vede, il sistema "salute mentale" ne risulta sregolato. In altre parole: se oggi in Italia, pur con tutte le contraddizioni e le stridenti differenze tra regione e regione, in ogni azienda sanitaria esiste, bene o male, un servizio di salute mentale territoriale connesso alla rete dei servizi sociali e sanitari, la nuova legge, per come è stata concepita, lo cancellerebbe e in tempi rapidissimi e definitivi. In sostanza, la proposta ci farebbe ritornare indietro di cento anni. Ritorniamo per un momento ai risultati fin qui raggiunti dalla legge 180. Il malato torna ad essere una persona, un cittadino, un soggetto di diritto che sta nell’ordine costituzionale e che esprime il suo diritto alla salute e alle cure, i suoi molteplici bisogni. Si scoprono così una quantità di contraddizioni e si attivano conflitti, da sempre sepolti nelle istituzioni, che, se sono necessari per avviare i percorsi di inclusione dei "malati di mente", risultano alla fine indispensabili alla crescita e al benessere dell’intera comunità. La cura e la riabilitazione si spostano sul fronte della comunità, della vita, delle relazioni. La scelta della comunità in ogni settore della salute pubblica è oggi ineludibile: sono sempre più numerose le persone che vedono compromesse le loro potenzialità relazionali e produttive ed hanno bisogno di cure e sostegno a lungo termine, per l’intera vita. Vecchi e grandi vecchi, portatori di handicap, persone con malattie croniche, sopravvissuti a incidenti gravissimi come a impegnativi interventi chirurgici impongono strategie volte a individuare reti e risorse, sistemi di servizi coerenti ed integrati e programmi capaci di sviluppare sostegno nella comunità assieme a politiche di educazione sanitaria, campagne di prevenzione e comunicazione sociale. Su questa questione l’accordo sembra essere saldo e generale: non è più tollerabile per nessun governo sostenere istituzioni che, inducendo dipendenza, producono costi sempre maggiori a fronte di un peggioramento inevitabile della qualità della vita. La scelta del territorio della comunità asseconda la presenza sulla scena di una molteplicità di attori (familiari, volontariato, cooperative, cittadini, professionisti non direttamente legati alla salute mentale); attiva risorse naturali (a costo zero, si potrebbe dire) che, mentre rendono concreta la riabilitazione e l’integrazione sociale, contribuiscono alla creazione di un clima di "socialità" e di "normalità" utile per tutti. Con la fine dei manicomi, "i matti per strada" non hanno causato incremento della criminalità legata alla malattia mentale: in questo primo ventennio, il numero degli internati nei manicomi giudiziari ha subito un’evidente flessione. Si è detto che la legge di riforma è stata sostenuta da una minoranza giacobina di psichiatri. Lo scorso ottobre la Società Italiana di Psichiatria, che conta 6.700 iscritti, la quasi totalità degli psichiatri italiani, nel suo congresso ha ribadito il suo sostegno alla riforma e al progetto obiettivo 98/2000 per lo sviluppo ulteriore dei sevizi comunitari. L’assurdo tentativo di cambiare la legge 180 viene a disegnare uno scenario diametralmente opposto che, in pochi punti, si potrebbe così riassumere: l’oggetto malattia si ricompone in un quadro tra i più arretrati con tutte le tragiche conseguenze per le persone affette da disturbo mentale che ridiventano "malati di mente" pericolosi, "povere cose" da sistemare altrove; l’assetto organizzativo comunitario, così faticosamente perseguito in questi anni, viene disarticolato e distrutto; si apre a un privato sociale mercantile, sregolato e incontrollabile. Il costo di un tale confuso assetto dei servizi triplicherebbe, a fronte di un peggioramento complessivo della risposta e di una verticale perdita di soggettività e di diritto delle persone. E tuttavia, questa proposta deve essere presa come un segnale che denuncia l’inconsistenza delle politiche fin qui adottate: mancanze di risorse, ritardi e disattenzioni politiche e amministrative, la solitudine dei familiari, e, non ultime, le resistenze al cambiamento della stessa psichiatria. In un recente commento sulla vita di Holderlin, che citava gli anni della follia del grande poeta tedesco, si poteva leggere: "Ebbe un trattamento assolutamente d’avanguardia per quei tempi. Dopo essere stato dimesso da una clinica psichiatrica che gli aveva dato al massimo tre anni di vita, all’età di 37 anni fu accolto nella famiglia del falegname Zimmer, che lo trattò con grande umanità". Holderlin morì 36 anni dopo in casa Zimmer, amorevolmente assistito, e in quei 36 anni scrisse alcuni tra i versi più belli della poesia di tutti i tempi. Un caso più unico che raro, se si pensa che siamo a metà ‘800. Oggi, a distanza di 150 anni, grazie alla coraggiosa campagna intrapresa da Franco Basaglia, casi come quello di Holderlin sono sempre più la norma. Non possiamo ne dobbiamo permettere che una simile civile e umana conquista vada persa.
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