|
Simulazione di malattia mentale e gesti autolesivi
Come ho già brevemente accennato in conclusione del precedente paragrafo, nell'ambiente penitenziario risulta molto diffusa la simulazione delle malattie in genere e di quelle mentali in particolare. Lo psichiatra nell'obiettivare l'esistenza di disturbi per lo più comportamentali (confusione, disorientamento, alterazioni deliranti del pensiero, depressione dell'umore, autismo, alterazioni a carico degli istinti fondamentali), deve tenere costantemente presente che essi possono essere sì autentici, ma anche e troppo spesso recitati, al fine evidente di ottenere indebiti benefici, primo fra tutti la sospensione del giudizio. La reclusione, di per sé sola, non può generare un quadro psichico: essa può invece fungere da fattore patoplastico, precipitante o slatentizzante una pregressa condizione di precario equilibrio mentale, o innescare reazioni abnormi o aggravare preesistenti quadri psicotici. È quindi indispensabile cercare di porre, nella maniera più rigorosa possibile e attraverso una protratta e attenta osservazione in ambiente psichiatrico idoneo, una distinzione fra quadri reattivi alla carcerazione (che poi il detenuto in maniera più o meno consapevole magari elabora soggettivamente, enfatizzandoli, ampliandoli e aggravandoli con disturbi di tipo psicotico) e veri quadri psicotici, gli unici rilevanti in ambito forense ai fini anche dell'eventuale determinazione dell'imputabilità del soggetto al momento del fatto-reato. Si tratta, come fa notare Piperno, della rappresentazione scenica grossolana rispecchiante il concetto profano della follia. Tale rappresentazione viene attuata per lo più attraverso la pseudodemenza; i simulatori cercano infatti, attraverso movimenti espressivi idonei, di mettere in risalto un grave decadimento psicofisico. Alle domande più semplici, rispondono costantemente in maniera assurda. Tuttavia, dal contesto della risposta lasciano intendere di avere perfettamente compreso la domanda. Essi mostrano così un sorprendente deficit cognitivo per le cose più elementari, quelle cioè che tutti gli individui tranne gli idioti e i dementi gravi posseggono. La disparità dei pareri di cui spesso si legge in relazione ai quadri reattivi della carcerazione sta nella valutazione delle proporzioni fra ciò che vi è di intenzionale e ciò che vi è di autentico. È da tener presente, infatti, che in molti di questi scompensi psicopatologici, come ho già detto, si cela il progetto di sfuggire al procedimento penale. Come afferma Ugo Fornari, l'analisi psicopatologica è l'unica che può - in tutti questi casi - dimostrare se è per lo meno lecito dubitare del loro "valore di malattia" e discriminare i veri malati da quelli che tali non sono: ciò purché, tra l'altro, l'osservazione psichiatrica sia tempestiva, perché a distanza di mesi e di anni, l'indottrinamento o il contatto con veri malati di mente può assumere una pregnanza tale nel soggetto sottoposto a perizia, che la malattia mentale da egli presentata nel corso degli accertamenti peritali assume caratteristiche di veridicità e di autenticità. E allora diventa impossibile stabilire quanto ci può essere di "simulato" e quanto di "autentico" nel quadro in esame. Quasi tutti gli autori sono d'accordo sulla possibilità di un inizio cosciente e non coerente della sintomatologia psicotica e di un decorso che assume poco per volta una sua progressiva autonomia e coerenza. Non è affatto raro, in altre parole, riscontrare che una sintomatologia ganseriana o diversamente simulata all'inizio, evolva poi verso un quadro praticamente sovrapponibile ad una psicosi. Ciò soprattutto nei deboli di mente, in cui la carenza di critica favorisce l'autosuggestione e l'autoconvincimento di essere veramente malati. Circa i metodi diagnostici per lo smascheramento della simulazione, Piperno afferma che nessuno di quelli proposti fino ad oggi può fornire la certezza, ma solo una percentuale statistica che indirizza il giudizio del medico. Neppure la confessione del simulatore può essere considerata come sintomo "patognomonico" della esistenza di una simulazione e ciò per un'innata tendenza presente in molte personalità psicopatiche, a burlarsi del medico. Secondo Piperno anche il metodo proposto dal Kraff-Ebbing, che consiste nel commentare il caso, fingendo di meravigliarsi per l'assenza di un sintomo e nel constatare dopo qualche giorno la comparsa di esso, induce a grossolani errori specie ove si tratti di personalità isteriche. Non è da prendersi in considerazione - sempre secondo Piperno - nemmeno la cosiddetta narcoanalisi o analisi con amine simpatico-mimetiche proposta da Callieri e Semerari nella diagnosi della simulazione, perché tali pratiche non possono ritenersi giuridicamente lecite in sede medico-legale, ma specialmente perché non corrispondono alle esigenze di ordine morale, che pongono in primo piano nella scala dei valori il rispetto della libertà umana. Fornari, invece, ritiene che alcuni comportamenti tipici e per questo riconoscibili possano essere individuati, ed afferma che, in linea di massima, il simulatore, almeno nei periodi iniziali:
Inoltre:
È chiaro che è impossibile stabilire, neppure approssimativamente, il periodo della durata, se non ribadendo che il quadro, quasi sempre reversibile, durerà tanto quanto durerà la situazione che lo ha scatenato e fino a quando non sarà stato raggiunto lo scopo che il soggetto si era prefissato. Non certo dipenderà da trattamenti psicofarmacologici o da trattamenti psicoterapeutici, ampiamente intesi, nei confronti dei quali, ovviamente, il simulatore è sostanzialmente refrattario e non recettivo: cosa che invece accade nel vero malato di mente. La vera malattia mentale comporta manifestazioni cliniche di destrutturazione ed alterazione della personalità, di deterioramento della stessa, che non possono sfuggire all'osservazione e al controllo carcerario e sono documentabili attraverso la registrazione dei comportamenti cui danno luogo nell'ambito di custodia. Il dott. Jannucci, consulente psichiatra del Ministero di Grazia e Giustizia presso il N.C.P. di Sollicciano, crede in quella che lui stesso ha definito la "teoria della dissimulazione", secondo la quale chi cerca di simulare i disturbi psichiatrici, in realtà li dissimula. Mi spiego: i detenuti, spesso, finiscono per simulare disturbi da cui sono veramente affetti; credendo di simularli, essi pongono in essere dei comportamenti che lasciano emergere molto chiaramente - per l'occhio esperto dello psichiatra - un ben più preciso disturbo psichico. Quello della dissimulazione è un caso diverso da quello spiegato da Fornari in cui la sintomatologia simulata inizialmente si evolve poi, per un fenomeno di autosuggestione e autoconvincimento, in un vero e proprio disturbo psichico. Nella dissimulazione il disturbo è presente fin dall'inizio, ma il detenuto non ne ha, ovviamente, coscienza. 7.1. Il gesto autolesivo in ambiente penitenziario
Il tentativo di ottenere indebiti benefici può spingere il detenuto non solo alla simulazione della malattia mentale, ma anche a gesti ben più gravi, generalmente di natura autoaggressiva, al fine di richiamare l'attenzione degli operatori penitenziari e conseguentemente di raggiungere l'obiettivo prefissato. Molti sono ormai gli studi effettuati sul fenomeno dell'autolesionismo carcerario e in particolare del suicidio, un'azione che possiamo considerare antisociale e che pur non essendo considerata un delitto, assume una gravità ancora superiore. Rizzo ritiene difficile definire il suicidio sebbene tanti da Durkeim a Dalmas, a Esquirol ci abbiano provato. Forse la definizione più semplice può essere quella tecnica che considera il suicidio come la morte dell'uomo conseguita ad una sua azione od omissione indirizzata a questo specifico fine. Il tentato suicidio lo si ha quando indipendentemente dalla volontà dell'autore, la morte non è conseguita alla sua azione od omissione. Le condotte autoaggressive sono senza dubbio fra le più temute dal personale penitenziario e tra le più complesse dal punto di vista trattamentale, quelle cioè che richiedono maggior impegno da parte degli specialisti in psichiatria. Ma perché un detenuto ricorre al gesto autolesivo? Il gesto autodistruttivo è dettato da diverse motivazioni coscienti ed inconsce ed è condizionato sia da fattori estrinseci legati all'ambiente, sia da fattori endogeni legati all'individualità del soggetto. Secondo l'analisi dei significati soggettivi operata da Baechler, esistono almeno otto differenti significati del gesto autolesionistico, e ognuno di essi è associato a fattori causali di differente natura:
A mio avviso gli otto significati indicati da Baechler possono essere racchiusi - più schematicamente - in due grandi gruppi:
Rientrano nel primo tipo quei gesti che sono frutto del crollo dello spirito di conservazione: primo fra tutti il suicidio. "La morte attraverso il suicidio in carcere significa lo sgravio di preoccupazioni, di disgrazie, di difficoltà dell'esistenza. Significa fuggire la vita. Dimenticare tutto. Non soffrire più, non avere più pensieri, più niente". Tutto ciò prefigura più la fuga dalla vita che la ricerca della morte in sé. Il suicidio può costituire la conclusione di numerosi stati psicologici, delle forme paranoidee, dello stato di panico schizofrenico, degli scompensi nevrotici acuti oppure della depressione. Proprio nella depressione l'ovvio epilogo è rappresentato dal suicidio. Nelle sindromi depressive, infatti, il gesto autolesivo si colloca come un tentativo di sfuggire all'angoscia della depressione, ad una situazione priva di significato e di speranza. Il detenuto depresso si suicida nel tentativo di liberarsi da una condizione penosa che sente altrimenti di non poter modificare, convinto di non poter più guarire e convinto infine di poter trovare nella morte l'unico mezzo per far cessare la propria sofferenza. Eliminando se stesso, paradossalmente, elimina il proprio dolore. Il suicidio per depressione non è certo una manifestazione di ribellione, non maschera un'aggressione latente, ma si traduce in un atto di rinuncia. Si tratta della rinuncia alla vita insieme alla rinuncia a combattere. Il detenuto depresso può non cercare subito la morte, ma abbandonarsi ad essa; nel lasciarsi morire si lascia andare senza ribellarsi, smettendo di mangiare, di parlare, di lavarsi, ignorando qualsiasi tipo di stimolo. Il depresso che si sente colpevole, indegno, può trovare inoltre nel suicidio la giusta punizione e allo stesso tempo la riparazione delle sue colpe, quindi la propria espiazione e con essa la salvazione. C'è un altro tipo di autolesionismo che per fortuna risulta minoritario e che, a mio avviso, non può essere inquadrato in nessuno dei due gruppi di cui ho parlato: quello posto in essere da soggetti affetti da sindromi schizofreniche. In questo caso, il proposito suicida si determina in genere in maniera imprevedibile e bizzarra, sostenuta sempre da deliri a sfondo persecutorio o mistico e da fenomeni allucinatori uditivi sotto forma di voci di comando. Mentre nella depressione è la disperazione a spingere l'ammalato al suicidio, lo schizofrenico può suicidarsi senza un'autentica consapevolezza delle conseguenze di tale gesto. Anche se spesso dietro il suicidio è rilevabile una personalità in qualche modo anomala, in situazioni di particolare sofferenza e di disperazione - quale la perdita del bene della libertà ad esempio - possono verificarsi episodi di suicidio compiuti da persone psichicamente normali. Come osserva Rizzo dobbiamo cercare di capire che ciascun individuo di fronte ad una realtà in cui è limitata qualsiasi possibilità di movimento e di libertà di volontà determinatrice, subisce un radicale cambiamento della propria personalità, dovuta al fatto che egli avverte una profonda sofferenza, paura e costrizione. Il tempo può costituire un incubo scandito dai minuti, dalle ore, dai giorni, dagli anni che lo porteranno alla libertà a lungo sospirata. Ma non tutti, anche tra le persone "normali", riescono a superare quest'incubo, a superare il coacervo di frustrazioni, di inibizioni e di repressioni istintuali a cui il soggetto è sottoposto a causa della carcerazione. Inizia allora nel detenuto, presumibilmente, una serie di processi mentali finalizzati all'uscita dal carcere o all'adeguamento ad esso o che rivelano un mancato adattamento. A tali processi sono legati i rischi che il carcere crea, sia in un individuo apparentemente sano che in uno già portatore di patologia psichica. Da tener presente, come rileva Calzolari, che il depresso può aver pensato al suicidio già da molti mesi ma potrà attuare questo comportamento autodistruttivo improvvisamente, con una reazione impulsiva, sproporzionata, ad una frustrazione magari modesta. Qui dovrebbe entrare in causa la sensibilità clinica e l'intuito diagnostico, i soli capaci di cogliere una volontà autodistruttiva al di là di un'apparente comportamento sereno, mascherante un'angoscia esistenziale divenuta intollerabile. La difficoltà di rilevare le condizioni psicologiche che precedono un comportamento suicidario, è stata chiaramente evidenziata da Ringel, secondo il quale, esisterebbe una "sindrome presuicidale", caratterizzata da tre specifiche situazioni:
Rilevare tempestivamente la "sindrome presuicidale" non sarebbe, tuttavia, semplice (come, tra l'altro, dimostra il fatto che un numero notevole di suicidi e di tentativi di suicidio, nella popolazione normale, è compiuto da persone in trattamento psichiatrico e che non avevano destato nel terapeuta alcun sospetto dell'imminente atto suicidario). Gli errori nella valutazione dei comportamenti suicidari, in larga parte, secondo Ringel, dipendono dalle ansie del valutatore di fronte al problema della morte, per cui vengono messi in atto meccanismi di negazione ed evitamento che oscurano la gravità della condizione psicologica del soggetto valutato. Come ho già detto, molto spesso il gesto autolesivo sottintende una condotta di tipo dimostrativo, al fine preciso di richiamare l'attenzione su di sé. Le richieste che provengono dai detenuti, non solo extracomunitari, sono numerose, come numerosi sono gli impegni degli operatori penitenziari; così per i detenuti l'unico modo di farsi ascoltare risulta quello di compiere "qualcosa" che richiami l'attenzione. Nella superficialità e confusione del carcere ciò non può essere ottenuto che attraverso un gesto particolarmente grave: quello autolesivo. Vediamo quali soggetti assumono più frequentemente tali condotte dimostrative, e come esse vengono valutate e gestite dall'istituzione carceraria e dai medici psichiatri. Tra i detenuti che pongono in atto gesti di questo tipo, vengono annoverate da Ceraudo strutture di personalità istrioniche, ma anche soggetti fragili e indecisi. Spesso, in queste persone, in assenza di un evidente quadro psicopatologico, si riscontra un atteggiamento di tipo rivendicativo, ove risultano ipervalutati i torti subiti e trascurate le personali responsabilità. Sempre secondo Ceraudo si possono evidenziare anche strutture di personalità rigide e diffidenti, poco adattabili, che pongono in atto tali gesti con determinazione e ripetitività fino a che le loro rivendicazioni e le loro istanze non vengono recepite. Si tratta di gesti che meritano la massima attenzione da parte dei medici penitenziari e soprattutto degli psichiatri che inevitabilmente vengono chiamati di fronte ad emergenze di questo tipo. Infatti, per ottenere il rilascio di un permesso, l'avvicinamento al proprio nucleo familiare, il trasferimento in un altro carcere, la possibilità di parlare con il magistrato inquirente o un posto di lavoro all'interno dell'istituto, il detenuto spesso compie gesti di violenza su se stesso. In questo modo egli strumentalizza il proprio corpo, rasentando forme di autolesionismo rischiosissime con le quali cerca di richiamare l'attenzione delle Autorità competenti sulla propria posizione processuale o su altre circostanze personali. Tali atti evidenziano un problema non trascurabile, poiché per quanto atti finalizzati ad una sostanziale manipolazione degli operatori, rivelano comunque una scelta di campo, il linguaggio del corpo attraverso la sua lesione, il cui potenziale aggressivo non può passare inosservato. Quando il rischio di atti auto o etero-aggressivi è elevato, lo psichiatra richiede la predisposizione di una sorveglianza particolarmente attenta del detenuto, al fine di prevenire eventuali gesti violenti. Tra i gesti autolesivi compiuti a scopo dimostrativo, ma non ricattatorio, rientrano invece quelli posti in essere dai detenuti extracomunitari. Questi soggetti rappresentano ormai una percentuale molto elevata all'interno delle nostre carceri e non possiamo non prendere in considerazione le loro azioni. Svariate sono le forme e i meccanismi usati, ma ciò che risulta più importante è la comprensione delle motivazioni che spingono ad agire. Ho avuto modo di affrontare questo argomento con alcuni operatori penitenziari, non solo psichiatri, sia del carcere di Prato che di Sollicciano; da tali conversazioni è emerso che sarebbe superficiale e fuorviante ritenere tali gesti una semplice forma di ricatto per ottenere qualcosa (anche se in molti casi è proprio espressione di questo), se non si considerasse che nei loro paesi e nei loro costumi questa forma di violenza contro se stessi, altro non è che un'esternazione di dolore, per la perdita di una persona cara, per uno stato di disagio profondo, o un modo di espellere all'esterno le sofferenze che non si riescono più a tollerare. Molti detenuti extracomunitari hanno il corpo segnato da ferite da taglio, soprattutto agli arti superiori, che essi stessi si sono procurati per liberarsi del proprio dolore. Tale motivazione che non deve essere certo sottovalutata dagli operatori penitenziari, non esclude comunque quella ben più comune di dimostrazione a fini di ricatto per ottenere indebiti benefici. La maggior parte degli extracomunitari che arriva in Italia appartiene alla "massa" disperata, che fugge da condizioni di vita aberranti e prive di speranza, percorrendo strade pericolose pur di raggiungere paesi lontani. Si ritrovano in città dove sono quantomeno "mal visti", a commettere reati per sopravvivere e con la paura di essere scoperti, per di più senza parlare la nostra lingua. Molti di loro subiscono un crollo psicologico quando entrano in carcere. Ciò che chiedono sono solo gli psicofarmaci, niente psicoterapia. Solo un bravo psichiatra può riuscire, con il tempo, a dar loro fiducia e, conseguentemente, un valido motivo per aprirsi e intraprendere una cura psicoterapica. Ma come vengono considerati e ostacolati all'interno del carcere i tentativi di suicidio? Se si tratta di un gesto simulativo, il tentato suicido viene in considerazione come fatto da reprimere in quanto generatore di disordine; colui che ha tentato il suicidio diventa un deviante "ribelle", per questo considerato pericoloso. Al di là dell'attenzione verso l'incolumità del detenuto stesso, traspare una costante preoccupazione per il significato antisociale "eversivo" che viene associato al suicidio, soprattutto se è il risultato di una scelta fredda e razionale. Il suicidio carcerario, più spesso, viene descritto come devianza che si manifesta non tanto attraverso la condotta "criminale", quanto nella forma della condotta del "folle", ossia del deviante delle "norme residuali". I provvedimenti che vengono adottati in carcere nei confronti di colui che tenta il suicidio, infatti, sono gli stessi che verrebbero adottati nei confronti di un soggetto "malato di mente": per prima cosa viene disposta la visita del medico penitenziario, poi quella dello psicologo e dell'educatore che valgono come supporto psicologico; segue la visita psichiatrica, infine l'adozione di una misura preventiva che spesso consiste nell'isolamento o nella "grande sorveglianza". Il problema circa la salute e la sanità mentale del suicida è molto dibattuto. Procura un forte disagio morale e culturale riconoscere che il comportamento suicida possa essere "normale" piuttosto che patologico. L'uso della categoria di devianza patologica in merito al suicida sembra, d'altra parte, avere un effetto maggiormente rassicurante relativamente ai valori psicologici della società, tanto che colui che lo metterà in atto potrà essere rinchiuso e allontanato in quanto pericoloso. Ciò non appare una forzatura, né un'enfatizzazione della figura del suicida, se si considera che, per lo meno nel penitenziario, il soggetto viene in concreto allontanato ed emarginato, adottando appunto la misura dell'isolamento o disponendo nei casi più gravi il trasferimento in O.P.G. 7.1.1 Il "Servizio Nuovi Giunti": una possibilità di prevenzione
Verso la fine degli anni '80 si era andato acuendo nelle carceri il fenomeno di violenze, fisiche e sessuali, auto ed eterodirette. I suicidi erano fortemente aumentati, l'opinione pubblica era molto allarmata, e si chiedeva da più parti un intervento che servisse ad arginare tali fenomeni. Fu per questo che l'allora Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, Nicolò Amato, nel novembre 1987 nominò una commissione di studio perché apportasse una specifica linea di intervento dell'Amministrazione Penitenziaria. Il progetto si concretizzò nella circolare Amato del 30 dicembre 1987 (Tutela della vita e dell'incolumità fisica e psichica dei detenuti e degli internati), istitutiva del Servizio Nuovi Giunti, tuttora in vigore. Nella circolare n. 3233/5683, Amato "esprimendo vivissima preoccupazione per i ricorrenti, gravissimi fenomeni purtroppo in aumento, degli atti di autolesionismo, in specie dei suicidi, posti in essere dai detenuti e dagli internati", ritiene sia assolutamente
necessario che tutte le risorse e le disponibilità dell'amministrazione
Penitenziaria, siano mobilitati per combattere questi fenomeni assolutamente non
accettabili, e cioè per prevenire ed impedire gesti auto- od etero-aggressivi
delle persone ristrette negli istituti di pena, tutelandone nel modo migliore e
più ampio la vita e l'incolumità fisica e psichica. Il contenuto della circolare rivela chiaramente il punto di vista delle istituzioni: il potenziale suicida è considerato una persona soggetta a rischio di atti autolesionistici a causa di una propria vulnerabilità individuale le cui radici sono da individuare nella psiche del soggetto. Infatti, secondo il progetto della circolare, attraverso il colloquio, l'esperto psicologo dovrebbe mettere a nudo la psiche del soggetto, tentando di captare eventuali debolezze o vulnerabilità che possano far pensare al "nuovo giunto" come potenziale suicida. Tutte le misure indicate nella circolare Amato sono ispirate ad una visione "patologica" del soggetto capace di un gesto autolesivo e di conseguenza anche le precauzioni contro il rischio di suicido sono di natura clinica. Infatti, "nei casi di detenuti a rischio, il sottufficiale provvederà alla loro assegnazione in uno specifico reparto per nuovi giunti a rischio, composto da alcune camere da ricavarsi preferibilmente in ambienti sanitari (ad esempio infermerie, centri clinici, infermerie sussidiarie, ecc)". Sottolineando che sarà l'esperto psicologo ad occuparsi del colloquio attraverso il quale pervenire all'esame della personalità, non posso nascondere un dubbio. Perché la circolare Amato affida lo svolgimento del Servizio Nuovi Giunti a psicologi o criminologi e non a psichiatri? Infondo, l'art. 11 dell'Ordinamento Penitenziario prevede espressamente che ogni istituto penitenziario deve disporre dell'opera di almeno uno specialista in psichiatria, mentre nessuna previsione di questo tipo si riscontra a favore dello psicologo. Tale figura infatti è nominata solo tra quelle di cui l'Amministrazione Penitenziaria può avvalersi per lo svolgimento dell'attività di osservazione e trattamento (art. 80, IVº comma, Ord. Penit.), ma nessuna norma prevede la presenza obbligatoria dello psicologo all'interno del carcere. Ciononostante esso sembra avere un ruolo sempre più attivo, svolgendo funzioni importanti come la gestione del servizio Nuovi Giunti e la pressoché regolare partecipazione all'osservazione e trattamento dei detenuti, al contrario degli psichiatri che vi partecipano solo se invitati per discutere casi che essi stessi seguono. Come afferma Serra, gli elementi su cui si basa la valutazione del rischio suicidario da parte degli psicologi sono essenzialmente costituiti dagli aspetti epidemiologico-anamnestici e dagli aspetti affettivi, mentre, di fatto, scarsamente presi in considerazione risultano essere gli aspetti di personalità. All'esito del colloquio, l'esperto dovrà compilare una relazione relativa ai seguenti punti:
A distanza di un anno dalla circolare n. 3233/5683 viene emessa un'altra circolare (n. 3245/5695) allo scopo di apportare chiarimenti relativi all'applicazione della circolare istitutiva del Servizio Nuovi Giunti. È evidente che tale Servizio è un progetto fin troppo ambizioso. In questa seconda circolare sembra infatti che da parte delle Istituzioni vi sia stata una presa di coscienza dei limiti di questo nuovo Servizio: È
chiara la consapevolezza, da parte dell'Amministrazione, della impossibilità,
attraverso il colloquio con il nuovo giunto, di ottenere un esame completo di
personalità ed una diagnosi che portino a previsioni infallibili ed assolute
sui rischi di atti autolesionistici da parte del soggetto o di atti di violenza
su di lui. E, tuttavia, è comunque necessario realizzare, con ogni impegno,
scrupolo ed attenzione, tutti gli interventi possibili, e innanzitutto
l'indagine dettagliata indicata nella circolare 30 dicembre 1987, evitando di
livellare sistematicamente e senza motivazione verso l'alto l'indicazione del
grado di rischio nella stesura della relazione, perché ciò invaliderebbe i
risultati dell'impegno dell'Amministrazione. Ultima cosa da sottolineare, come precisa Niccolò Amato in conclusione della circolare del dicembre '87, è la novità del Servizio istituito il quale "non può non avere, specialmente nella fase di avvio, un carattere sperimentale, che tanto più richiede la necessità del massimo impegno di chi è chiamato a realizzarlo ed anche la necessità di far tesoro degli insegnamenti che l'esperienza concreta man mano indicherà, onde sia possibile un suo ulteriore miglioramento". Nel sottolineare l'utilità dell'iniziativa, non possiamo sorvolare sul fatto che ad essa non si sia dato seguito, e come, pertanto, sia rimasta immutata dal 1987 ad oggi, nonostante la sua dichiarata natura sperimentale, sia in merito ad ulteriori modifiche strutturali, metodiche e strumentali, sia in merito alla qualificazione professionale degli operatori.
|