|
Terapie e psicofarmaci
Nei precedenti paragrafi abbiamo potuto vedere che il carcere è un'istituzione totale il cui mandato contenitivo e repressivo mal si concilia con le esigenze terapeutiche che possono presentarsi al suo interno. Tale contrasto si fa ancora più forte quando a richiedere l'intervento medico sono detenuti che soffrono di un disagio psichico. L'ambiente ostile e l'estrema delicatezza delle patologie in questione condizionano la scelta delle terapie da adottare. La terapia che più comunemente viene utilizzata in ambiente penitenziario per il trattamento dei soggetti "malati di mente" è la psicoterapia. Accanto ad essa è, però, molto spesso necessario anche l'uso di psicofarmaci. Se partiamo dal presupposto che il compito principale dello psichiatra penitenziario non è quello di prevenire il delitto, bensì quello di alleviare la sofferenza umana che un detenuto può sentire, allora possiamo sicuramente affermare che la psicoterapia può dare importanti risultati. Secondo Seymour Halleck, infatti, se un criminale, attraverso la psicoterapia, è in grado di reagire contro una depressione "incapacitante" verificatasi durante la sua carcerazione, e poi al momento della sua rimessa in libertà compie un altro delitto, non possiamo dire che la psicoterapia abbia fallito, ma, piuttosto, si può sostenere che essa ha avuto un ragionevole successo nel raggiungere almeno un fine umanitario. Il fatto che la psicoterapia, nell'ambiente correzionale, possa avere fini diversi da quello della diminuzione del recidivismo, rende più facile affrontare il problema delle motivazioni che spingono un detenuto alla psicoterapia. Spesso si sostiene che il criminale non desidera cambiare, che non sente il dolore psichico e, poiché è scarsamente motivato, non è un buon candidato alla psicoterapia. In realtà, vi sono molti motivi, diversi dal desiderio di cambiare il comportamento criminale, atti ad indurre un detenuto ad intraprendere la psicoterapia. Un gran numero di detenuti soffre di disturbi nevrotici, disaffettivi, o psicotici, tali da causare loro forti sofferenze; per non parlare dei disagi causati dalla carcerazione stessa. Spesso, questi individui accetterebbero il trattamento solo allo scopo di trovare aiuto per alleviare o scemare la loro malattia. Ciò non toglie che molti detenuti si servono della psicoterapia per dimostrare di essere cambiati, di essere meno pericolosi e, quindi, meritevoli di certi benefici. Tale motivazione, naturalmente, non è la più apprezzabile. È comunque vero che spesso, delinquenti che sembrano entrare in psicoterapia per motivi diretti, primariamente, a manipolare il sistema correzionale, spesso finiscono per rimanere turbati dal loro stesso comportamento. Alcuni di questi individui presentano una "facciata" manipolatrice, mentre, in effetti desiderano cambiare. Altri che iniziano la psicoterapia con atteggiamento manipolatore possono, durante il trattamento, cambiare la loro prospettiva e cominciare a realizzare spontaneamente il loro bisogno di aiuto. La psicoterapia può essere sia individuale che di gruppo. Molti autori ritengono che in ambiente penitenziario sia più conveniente la terapia di gruppo, dato che permette di agire contemporaneamente su di un numero relativamente alto di soggetti, utilizzando al massimo lo scarso personale disponibile. La psicoterapia di gruppo è stata definita da Corsini come "l'insieme dei processi che si verificano in gruppi formalmente organizzati e protetti, calcolati in modo da ottenere un rapido miglioramento della personalità e del comportamento dei membri individuali del gruppo, attraverso interazioni specifiche e controllate del gruppo stesso". I detenuti diventano, nelle riunioni di gruppo, persone con un ruolo ed uno status in contrasto con la concezione che frequentemente si ha di essi e che li identifica con numeri. Essi possono portare nel gruppo i loro problemi e, se lo desiderano, criticare, lamentarsi, valutare, discutere ed analizzare le regole che guidano la comunità penitenziaria o i problemi personali che li preoccupano. Dopo la riunione di gruppo, i detenuti discutono di ciò che è stato detto nel gruppo stesso, difendono o attaccano il terapista, formulano opinioni sul programma, ecc. Così le riunioni di gruppo tendono a combattere la monotona esistenza di molti detenuti, costringendoli ad una presa di coscienza del loro passato e del loro futuro. Clinard, in un volume sugli aspetti sociologici del comportamento deviante, ha elencato sette mete che la terapia di gruppo permette di raggiungere nell'ambiente penitenziario:
Alcune di queste mete sono raggiungibili anche attraverso la psicoterapia individuale, altre rimangono tipiche di quella di gruppo. La maggior parte dei medici psichiatri penitenziari con cui ho affrontato questo argomento si è detta più favorevole alla psicoterapia individuale la quale permette di concentrarsi completamente su un unico paziente e su tutti i suoi problemi. Non solo. La terapia di gruppo ha un inconveniente molto grave: impedisce ad alcuni detenuti di aprirsi completamente con il terapeuta, a causa del senso di vergogna provato nel raccontare determinate situazioni personali di fronte ad altre persone dalle quali temono di essere derisi. Inoltre, lo stesso rapporto di fiducia e di empatia che più facilmente si instaura all'interno di una terapia individuale fa sì che il detenuto non si senta trascurato, ma al contrario, genera in lui la sicurezza di essere assistito e curato con la massima attenzione. Tale sentimento rafforza in lui la volontà di proseguire la psicoterapia. In ogni forma di psicoterapia, comunque, il cambiamento avviene perché lo psichiatra crea un "nuovo" ambiente, nel quale ha luogo una nuova forma di apprendimento. Nella psicoterapia il comportamento del detenuto è cambiato dal modo in cui il terapeuta risponde alle manifestazioni emotive e verbali del detenuto stesso. Lo psichiatra può rafforzare o scoraggiare taluni comportamenti del paziente oppure incoraggiarlo a sperimentarne di nuovi. Inoltre molti pazienti traggono beneficio da un spiegazione cognitiva dei loro disturbi emotivi; tale spiegazione ingenera un senso di dominio su se stessi. In sintesi, secondo molti psichiatri non vi è alcuna prova che la psicoterapia, nell'ambiente penitenziario, sia né più né meno efficace di quanto non lo sia in altri ambienti. Altro punto molto delicato e controverso è, come accennavo all'inizio, quello dell'uso degli psicofarmaci in ambiente penitenziario. Si pone, infatti, una serie di questioni connesse con l'utilizzazione di farmaci capaci di interferire con le funzioni più elevate del sistema nervoso, aumentandone o deprimendone alcune, alterandone altre. Abbiamo già visto, nei precedenti paragrafi, quanto numerose siano le sofferenze psichiatriche, più o meno gravi, che affliggono la popolazione carceraria. Abbiamo visto che per la maggior parte di queste persone avrebbe molte possibilità di sortire un vantaggioso effetto la psicoterapia, ma abbiamo anche visto quali e quanti siano i problemi che troppo spesso impediscono l'applicazione di essa. Così il rimedio più "semplice" finisce per essere, molte volte, la prescrizione dello psicofarmaco. Ho affrontato questo argomento con alcuni psichiatri penitenziari, ai quali ho chiesto per prima cosa, se il ricorso agli psicofarmaci ha carattere "curativo" delle varie forme di disagio psichico o "repressivo" di fasi critiche della malattia che altrimenti diventa difficile gestire. C'è stato, addirittura, chi mi ha "accusato" di rispecchiare con tale domanda l'atteggiamento di vituperazione post-sessantottina dello psicofarmaco, visto più come camicia di forza chimica che come strumento terapeutico. Tutti gli psichiatri con cui ho parlato sono fermamente convinti che senza la relazione, la disposizione all'ascolto e la comprensione non è possibile contenere nessun disturbo psichico ricorrendo esclusivamente al farmaco. Ciò sarà possibile solo momentaneamente, ma la crisi successiva che inevitabilmente si manifesterà, sarà forse ancor più intensa e incontenibile. È comunque vero che lo psicofarmaco ha caratteristiche chimiche capaci di indurre variazioni "biochimiche" centrali. Ma non è sufficiente. Una cosa è l'azione sul sintomo (che inevitabilmente il farmaco produce), altra cosa è un cambiamento stabile che si raggiunge solo attraverso un percorso lungo e travagliato di psicoterapia. Così, lo psicofarmaco per come viene usato in carcere, non è né strumento di contenimento, né unico fattore terapeutico. Le richieste di psicofarmaci che provengono dagli stessi detenuti sono molto numerose e di varia natura. Prima di procedere all'analisi di esse, però, vorrei tentare una classificazione degli psicofarmaci, allo scopo di facilitare l'inquadramento delle stesse richieste e delle prescrizioni che ad esse conseguono. Gli psicofarmaci possono essere distinti in tre grandi gruppi:
Come ho già detto, per quanto riguarda i casi di malattia mentale è lo psichiatra che ricorre allo psicofarmaco per sedare disturbi psicotici acuti che si rivelano pericolosi non solo in senso eterodistruttivo, ma anche autodistruttivo. Per quanto riguarda i calmanti, c'è una richiesta molto elevata da parte degli stessi detenuti. Molti di loro ne fanno richiesta quando entrano in carcere. Anche chi non ha mai sofferto di disagio psichico, può infatti rimanere vittima di quello che Raspa ha definito "trauma da ingresso in carcere". L'insonnia è, comprensibilmente, il primo sintomo di tale trauma. Generalmente, la richiesta di tranquillanti che ne consegue viene presa in considerazione dallo psichiatra e per i primi giorni vengono somministrati farmaci, seppur in dosaggi piuttosto bassi, fino all'eliminazione totale. I medici cercano di parlare con i detenuti rendendoli consapevoli dei danni che l'assuefazione a questi farmaci produce e informandoli che nell'assunzione di essi è necessario adottare un dosaggio a scalare. 8.1. Psicofarmaci e tossicodipendenti
Molte richieste di psicofarmaci sono fatte soprattutto dai detenuti tossicodipendenti che, come ho già detto, cercano di sostituire con essi la sostanza stupefacente. Le maggiori richieste sono rivolte alle benzodiazepine, i tranquillanti che riuscivano a trovare "sulla piazza" e che usavano anche prima della carcerazione nei periodi di astinenza. I tossicodipendenti cercano di procurarsene dosi molto elevate. Fingendo di ingoiare la compressa per poi sputarla non appena l'infermiere o l'agente se ne va, riescono ad accumulare più dosi per ottenerne una consistente e quindi più forte, quasi quanto una vera dose di droga. Tutto ciò ha costretto il corpo dei medici penitenziari alla prescrizione di formulazioni farmaceutiche in gocce che, a differenza delle compresse, se assunte davanti all'infermiere, difficilmente possono essere nascoste sotto la lingua. Per l'esperienza accumulata all'esterno i tossicodipendenti conoscono i farmaci molto bene. Scrive Gonin: "Il Transene 5 o 10 per esempio gli sembra ridicolo; per loro una vera prescrizione non ha senso che a partire da una compressa di 50 mg"; e frasi come "La compressa rosa dottore, quella rosa e non la capsula rosa e bianca o tutta bianca" sono assai frequenti. Continua Gonin: "È coi drogati che ho imparato a conoscere i diversi colori delle medicine alle quali prima non sapevo che dare un nome, o attribuire una formula molecolare difficile da ricordare. Ma il valium bianco, giallo o blu, o meglio ancora il Xanax color pesca... li avevo ignorati!" È chiaro quindi che il problema della richiesta di psicofarmaci da parte dei tossicodipendenti è particolarmente difficile: da una parte l'inevitabile sofferenza del detenuto e dall'altra la necessità di tutelare la sua salute e di intraprendere la strada della disintossicazione. Il "divezzamento" è fonte, secondo Gonin, di molteplici controversie. Egli si chiede se sia lecito fornire legalmente una droga illecita oppure somministrare una droga di sostituzione come il metadone, che crea minori rischi per la salute dei consumatori, permettendo loro al contempo, di ottenere un discreto inserimento sociale; o se sia più opportuno rimpiazzare la droga con dei medicinali dei quali si diminuirà progressivamente la dose per permettere una disintossicazione senza traumi: questo atteggiamento terapeutico ha il vantaggio di alleviare rapidamente l'astinenza e di procurarsi la riconoscenza del drogato, ma non è privo di effetti di natura tossicomanica. Inoltre risulta estremamente difficile ridurre le dosi dei medicinali prescritti, il che conferma chiaramente l'instaurazione di una nuova forma di tossicodipendenza nel soggetto. Infine l'autore si chiede se non sia più opportuno astenersi, rifiutando qualsiasi prescrizione di una molecola chimica e lasciare che il processo di disintossicazione segua il suo corso, onde evitare di cadere da una consumazione di sostanze tossiche in un'altra. In Toscana la terapia adottata in carcere per la disintossicazione è costituita dalla somministrazione del metadone cloridrato, uno sciroppo ad alta percentuale di zucchero contenente questa sostanza oppiacea (il metadone) che funziona da "sostitutivo" coprendo le crisi di astinenza. Al primo ingresso in carcere la terapia viene iniziata con un dosaggio massimo di 30 cc di metadone per 2 o 3 giorni, dando modo all'organismo di assestarsi, per poi cominciare a scalare di 1 cc al giorno. Nel corso di 30 giorni lo scalaggio è più o meno finito. L'art. 5 del D.M n. 445 del 19 dicembre 1990 stabilisce che il trattamento della tossicodipendenza da oppioidi con farmaci sostitutivi è limitato ai soggetti con comprovata dipendenza fisica. I programmi con metadone sono riservati ai soggetti per i quali altri tipi di trattamento non abbiano determinato la cessazione di assunzione di eroina o di altri oppioidi. Alla fine del trattamento con metadone, il detenuto tossicodipendente può chiedere la somministrazione del Naltrexone, farmaco chimico utilizzato come "scudo" contro l'eroina. Devono trascorrere 7/8 giorni senza che il detenuto assuma nessuna sostanza, nemmeno il metadone, dopodiché viene somministrato il Naltrexone che impedisce all'eroina di produrre qualsiasi effetto. Tale farmaco deve essere assunto per un minimo di 6 mesi, tutti i giorni. Ma credo sia lecito porsi una domanda: è giusto imporre la terapia a scalare? Se il trattamento dei soggetti detenuti tossicodipendenti, come ogni altro trattamento terapeutico, deve essere volontario, la terapia metadonica a scalare come si pone? Il detenuto tossicodipendente che abbia in corso un programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi, può chiedere in ogni momento di essere affidato in prova al servizio sociale, per proseguire o intraprendere l'attività terapeutica sulla base di un programma da lui concordato con una U.S.L. o con uno degli enti previsti dall'art. 115 o privati (art. 94 T.U. legge sugli stupefacenti, D.P.R. 9/10/90). Perché allora non ammettere per il detenuto che rifiuti un programma di disintossicazione presso uno dei suddetti enti (rimanendo quindi in carcere), una terapia metadonica a scalare sì, ma di mantenimento (che non si esaurisca cioè nel volgere di un mese circa)? Non ha il detenuto il diritto a ricevere il metadone anche come sostitutivo e non solo come terapia disintossicante dal momento che ha scelto di rimanere in carcere anziché intraprendere una programma terapeutico? 8.2. Conclusioni
Il consumo molto elevato di psicotropi in prigione è una caratteristica dell'incitamento alla tossicomania da medicinali (farmacodipendenza), tipica dell'ambiente carcerario. La prigione, che già di per sé causa numerosi disturbi postumi nel detenuto tornato alla vita libera, "fabbrica" così dei tossicodipendenti da farmaci. Molti sono gli ex detenuti che non riescono più a vivere senza tranquillanti e sonniferi. Il timore di diventare vittime dell'assuefazione viene spesso sentito già durante il periodo della carcerazione; in questi casi è lo stesso detenuto a chiedere al medico che lo psicofarmaco prescritto sia leggero ("soltanto un piccolo aiuto"), nell'effetto come nella dose e, il suo uso, limitato ad un particolare momento di crisi. Resta comunque vero che il consumo di psicofarmaci all'interno della popolazione carceraria è molto elevato e sarà proporzionalmente maggiore in un carcere di grosse dimensioni (come Sollicciano, anche se all'interno di esso la tendenza è a limitare l'uso di psicofarmaci) rispetto ad uno di più piccole dimensioni (dove, magari, si ricorre a questo tipo di farmaci con molta più facilità). Gemma Brandi, medico psichiatra responsabile della Casa di Cura e Custodia femminile di Sollicciano, si dice particolarmente fiera di essere conosciuta per il basso ricorso agli psicofarmaci, preferendo ad essi la psicoterapia. Il ricorso ad essa però è ostacolato dall'organizzazione sanitaria carceraria che prevedendo un solo psichiatra a fronte di centinaia di detenuti, non permette una "presa in carico" di tutti i pazienti che necessitano di cure psichiatriche, "presa in carico" che, come abbiamo visto, è il presupposto fondamentale della psicoterapia. Per quanto riguarda i dati riportati in questa ricerca, vorrei segnalare che essi mi sono stati rivelati dagli stessi medici psichiatri penitenziari con cui ho affrontato l'argomento e da quel poco che è stato scritto nella letteratura al riguardo. Nessun dato mi è stato invece fornito dal Ministero di Grazia e Giustizia, il cui Ufficio Centrale, Studi, Ricerche, Legislazione e Automazione si è detto privo di qualsiasi statistica riguardante il consumo degli psicofarmaci negli istituti penitenziari.
|