Psichiatria e carcere

 

Problematiche psichiche e compatibilità carceraria

 

"Nelle istituzioni penitenziarie le manifestazioni psicopatologiche sono particolarmente frequenti. Esse possono essere la continuazione o l'evidenziazione in carcere di disturbi psichici già prima esistenti, o al contrario la strutturazione di una risposta di tipo psicotico ad eventi, particolarmente psicotraumatizzanti, quali l'imprigionamento, il rimorso per il delitto commesso, la previsione di condanna, la condanna stessa. Si possono manifestare con facilità in carcere delle reazioni a livello psichico, con le abituali caratteristiche fenomenologiche, che sono facilitate nel loro sviluppo dalla situazione carceraria, dalle condizioni di vita, non certo facili, che i detenuti sono costretti a sopportare".

I disturbi psichici più frequenti in carcere hanno quindi fondamentalmente duplice natura. Da un lato, è necessaria la gestione delle reazioni depressivo-ansiose in evidente connessione con il sofferto arresto; dall'altro, si impone il trattamento di forme psicopatologiche più o meno gravi, alcune evidenziatesi in carcere, altre manifestatesi già in precedenza sotto la cura dei servizi territoriali o di privati professionisti.

 

6.1. Patogenità d'ingresso

 

Il primo trauma che un detenuto subisce è rappresentato sicuramente dall'ingresso in carcere. "La sindrome da ingresso in carcere, consistente in una serie di disturbi non solo psichici, ma spesso psicosomatici, riguardanti diversi organi ed apparati", compare tanto più frequentemente e manifestamente, quanto più elevato è il grado di educazione, di sensibilità, di cultura dei soggetti detenuti. Il trauma da ingresso in carcere può diventare, quindi, tanto più forte quanto maggiore è il divario fra il tenore di vita condotto in libertà e quello fruibile in carcere.

In passato, allorchè lo stile di vita della popolazione in generale e il suo livello culturale medio erano certamente più bassi di quello attuale, non mancavano casi di soggetti che potevano sperimentare in carcere un tenore di vita non sempre inferiore a quello che conducevano fuori, prima della carcerazione. Anche oggi, è vero, esiste nelle carceri una grossa componente di già emarginati, con pregresse gravi difficoltà di sopravvivenza e che a tali difficoltà si è ormai, per così dire, abituata. Accanto a questa, abbiamo però un'altra categoria di ospiti del carcere, certamente minoritaria, ma diventata più consistente in questi ultimi anni, che è quella dei c.d. colletti bianchi. Ad essa se ne è poi aggiunta un'altra prima raramente rappresentata: quella dei personaggi di elevato livello politico e sociale. Per loro il trauma da carcerazione risulterà ancora più intenso in ragione del maggior divario esistente fra il sistema di vita precedente e quello carcerario.

È chiaro, tuttavia, che non si può generalizzare, poiché varie ed articolate sono le modalità di risposta adattativa in relazione a molteplici variabili, legate alla struttura di personalità, allo "status" di appartenenza, alla reazione personale, familiare e sociale all'avvenimento, alle condizioni ambientali, finanche al tipo di cella e di compagnia. È superfluo ricordare che ben maggiori sono le possibilità adattative da parte di persona che abbia subito precedenti carcerazioni, o che riesca a trovare nel carcere punti di riferimento (detenuti che appartengono alla stessa banda criminale, alla malavita della stessa zona o più semplicemente a piccola delinquenza dello stesso paese o quartiere), tali da consentire un più agevole inserimento tanto nella comunità carceraria globalmente intesa quanto, in particolare, nel microcosmo della sua cella. Più difficile e penoso sarà invece l'adattamento per individui improvvisamente immessi non solo in una struttura difficile da vivere per rigidità organizzativa e limitazione di libertà ma, e forse soprattutto, perché costretti a condividere l'esistenza con una fetta di popolazione sino ad allora sconosciuta, con la quale non desiderano entrare in sintonia comunicativa, e che spesso temono anche sul piano fisico.

È certo comunque che per molti soggetti alla prima detenzione, anche se per ciascuno in modo diverso, l'impatto con la struttura carceraria costituirà uno dei momenti più drammatici dell'esistenza. Vari tentativi di umanizzazione dell'impatto con il carcere e allo stesso tempo di prevenzione dei comportamenti a rischio sono stati fatti. Il più importante è sicuramente la predisposizione, attraverso la Circolare Amato del 30/12/1987 n. 3233/5683, del Servizio Nuovi Giunti effettuato dagli psicologi del carcere attraverso un colloquio con ogni singolo detenuto all'atto di ingresso in istituto; tale colloquio è volto a valutare la personalità del soggetto soprattutto al fine di prevenire eventuali gesti autolesivi

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6.2. Patologie cruente del carcere

 

Prima di passare all'analisi delle problematiche legate al trattamento delle forme psichiatriche maggiori, vorrei spendere due parole su un lavoro intitolato "Dal convergere di clinica e teoria: una ipotesi di ricerca epidemiologica in carcere" apparso sul primo numero della rivista Il reo e il folle.

Allo scopo di fornire agli organi competenti un primo quadro delle problematiche legate alla patologia psichiatrica penitenziaria, alcuni psichiatri del carcere di Sollicciano hanno tentato di fissare "un'istantanea" della situazione, prendendo in esame l'attività sanitaria svolta dall'intero Servizio Psichiatrico nel gennaio 1995, periodo in cui erano ospiti dell'istituto circa 1000 detenuti (in luogo dei 350 previsti).

Gli autori utilizzando una diagnosi "di campo", più maneggevole ed esemplificativa di altre formule diagnostiche, al fine di reperire uno strumento agile, che consentisse al terapeuta di orientarsi rapidamente nella prognosi, nella cura e nella valutazione psichiatrico-forense della capacità di intendere e di volere, hanno suddiviso i disturbi psichici evidenziabili in carcere in sei campi che si sovrappongono in larga misura:

 

  1. psicotico;

  2. parapsicotico;

  3. tossicomanico;

  4. psicosomatico-somatopsichico;

  5. nevrotico;

  6. reattivo;

 

Di quest'ultimo gruppo abbiamo in parte già parlato; vi rientrano quelli che gli autori definiscono "quadri di disordine acuto della competenza relazionale e della capacità di adattamento, prodotto dal crollo dell'autostima in seguito all'evento arresto".

Il campo nevrotico è considerato il meno rappresentato in ambiente penitenziario, intendendo per tale l'ambito dei disturbi nevrotici strutturati, mentre è apprezzabile in carcere un'ampia gamma di manifestazioni nevrotiche, soprattutto di tipo isterico. Vi rientrano i disturbi d'ansia, i disturbi dissociativi, la distimia, la ciclotimia.

Il campo psicosomatico-somatopsichico include:

pazienti affetti da incarnazioni del disagio precedenti la detenzione, coloro che sono andati incontro a tale organizzazione disturbata dopo il soggiorno in carcere e quanti, in seguito alla scoperta di una grave malattia somatica durante la reclusione, hanno manifestato crisi psicopatologiche acute, passibili di uno sviluppo cronico. La capacità di intendere è in genere integra, quella di volere risulta compromessa, come dimostrano l'emergere di desideri autosoppressivi e il potenziale autoaggressivo che sostiene il disturbo somatico. In questo campo rientrano, oltre ai disturbi psicosomatici, i disturbi somatoformi, i disturbi fittizi e i fattori psichici che incidono sulla condizione fisica secondo il DSM-III-R.

Il problema più consistente nel trattamento delle forme psicotiche riguarda soprattutto la gestione del paziente in un contesto così difficile quale quello carcerario. Tale campo dovrebbe essere più opportunamente inquadrato tra le forme di patologia psichica riscontrabile in carcere. Rimando quindi la trattazione al § 6.3.

Dopo questo sommario ma significativo quadro d'insieme dei disturbi psichici aventi carattere reattivo alla carcerazione, credo sia opportuno analizzarne meglio le varie forme e modalità di manifestazione.

Una molteplicità di vissuti soggettivi sono alla base di quella che viene indicata, sul piano nosografico, come sindrome da prigionizzazione, sindrome che si articola in una vasta gamma di quadri psicopatologici che vanno dalla comune e breve reazione ansioso-depressiva sino alla sindrome ganseriana.

Catanesi sostiene che sul piano clinico la comune reazione d'ansia iniziale, che può colorarsi di spunti fobici e varie espressioni somatiche, lascia il posto nel tempo di 2-3 giorni alla sindrome da prigionizzazione vera e propria o si avvia, per lo più nei casi di recidivi, ad un progressivo adattamento.

Ma cosa si intende con il termine "prigionizzazione"? Secondo Clemmer esso indica l'assunzione in grado maggiore o minore del folklore, dei modi di vita, dei costumi e della cultura generale del penitenziario. Le esigenze di ordine e di controllo inducono l'istituzione penitenziaria a ricercare l'uniformità degli atteggiamenti e dei comportamenti dei detenuti, attraverso l'imposizione di "valori" comuni. Questi "valori" sono confacenti le finalità e le funzioni del carcere, e possono essere indotti in vari modi, esplicitamente o implicitamente, tramite un lento e spesso inconsapevole, processo di assimilazione. 

I detenuti acquistano familiarità con i dogmi e i costumi esistenti nella comunità. Sebbene questi cambiamenti non avvengano in tutti gli individui, tutti sono comunque soggetti a certe influenze che possiamo chiamare i fattori universali della prigionizzazione. L'accettazione di un ruolo inferiore, l'acquisizione di dati relativi all'organizzazione della prigione, lo sviluppo di alcuni nuovi modi di mangiare, vestire, lavorare, dormire, l'adozione del linguaggio locale, il riconoscimento che niente è dovuto all'ambiente per la soddisfazione dei bisogni, e l'eventuale desiderio di un buon lavoro sono aspetti della prigionizzazione che possono essere riscontrati in tutti i detenuti. Questi, comunque, non sono gli aspetti che ci preoccupano di più. [...] Le fasi della prigionizzazione che ci preoccupano di più sono le influenze che fomentano o rendono più profonda la criminalità e l'antisocialità e che fanno del detenuto un esponente caratteristico dell'ideologia criminale nella comunità carceraria.

Clemmer però afferma che ogni individuo sente l'influenza di quelli che abbiamo chiamato fattori universali, ma non ogni individuo diventa prigionizzato per altri aspetti della cultura. Se una prigionizzazione avviene o meno - continua Clemmer - dipende in primo luogo dall'individuo stesso, vale a dire dalla sua sensibilità alla cultura che a sua volta dipende soprattutto dal tipo di relazioni che aveva avuto prima dell'incarcerazione, vale a dire dalla sua personalità.

Attraverso la prigionizzazione, quindi, l'istituzione penitenziaria tende ad eliminare le differenze individuali nei ristretti, inducendo abitudini comuni. I bisogni, i desideri e le esigenze personali del detenuto sono, così, annullati e sostituiti da altri eteroindotti e più coerenti con le finalità dell'istituzione.

Sensazioni angosciose ed opprimenti, a tonalità fobica, vengono riscontrate abitualmente, unite ad un timore che può divenire ben presto paura per la propria incolumità fisica. Insonnia, inappetenza, incapacità a gestire la propria emotività sono sensazioni comuni e contribuiscono ad indurre nel detenuto una situazione di allarme ansioso. È l'ansia in questo momento la spina più dolorosa ed è verso il trattamento di quest'ultima, non solo farmacologicamente, che è necessario agire, poiché è questo il momento in cui più facilmente il soggetto, sentendosi perso, può andare incontro ad improvvisi gesti autolesivi.

A questa fase che può avere durata diversa da caso a caso, ma che generalmente si esaurisce nell'ambito di 2-3 settimane e che può essere definita di "iperestesia" verso gli stimoli ambientali, può seguirne un'altra caratterizzata da progressivo distacco, da indifferenza, da ritiro in se stessi. È la fase, cioè, in cui subentra la depressione, in cui lo scoraggiamento prende il posto della paura. Compaiono allora idee di rovina, un senso di annichilimento, un sentirsi oggetto nelle mani altrui.

Come già detto, la possibilità di fronteggiare tale condizione depressiva è intimamente legata alla personalità di base e alla rete di relazioni familiari. Quest'ultima si rivela spesso determinante nell'evoluzione del quadro clinico, perché la possibilità di affrontare i disagi e le sofferenze della detenzione è connessa anche al tipo di risposta che viene adottata dalla famiglia. Sentimenti di colpa, di indegnità, la convinzione di aver trascinato con i propri errori l'intera famiglia nel fango, la vergogna provata verso i propri figli costituiscono elementi sui quali può radicarsi una grave depressione, difficile da affrontare e inoltre temibile in termini di rischio suicida. Sono queste, oltre tutto, le forme - come verrà discusso in seguito - che più di ogni altra pongono il problema della compatibilità con la condizione detentiva.

Continuando nell'analisi dei disturbi psichici, una peculiare forma reattiva alla carcerazione è la sindrome ganseriana (pseudo-demenza psicogena o stato crepuscolare isterico.

Si tratta di reazioni relativamente rare, basate su di una motivazione inconscia del soggetto ad evitare la responsabilità, sforzandosi di apparire infermo di mente. Tra i sintomi psicopatologici più caratteristici è da annotare il fatto che i soggetti non sono capaci di rispondere alle domande più semplici che vengono loro rivolte, sebbene attraverso le risposte appare evidente che essi hanno colto il significato della domanda; nelle loro risposte tradiscono una sconcertante mancanza di conoscenze che essi hanno posseduto e che ancora, senza ombra di dubbio, possiedono. Essi in sostanza parlano fuori tema, contro senso, a vanvera. Trascurano la risposta corretta e ne danno un'altra vicina, ma inesatta. "Il corredo sintomatologico è contraddistinto dal puerilismo che emerge dall'aspetto recitativo o "bamboleggiante" che questi soggetti assumono". Nel contesto della sindrome ganseriana si impone la diagnosi differenziale con la simulazione, rimanendo forti dubbi circa l'essere una simulazione cosciente o incosciente.

 

6.3. Patologie riscontrabili in carcere

 

Rientrano tra le patologie psichiche riscontrabili in carcere, forme gravi come le psicosi, le forme del campo tossicomanico e altre meno gravi, ma non per questo meno pericolose.

Si intende con il termine psicosi quell'insieme di malattie che pongono l'individuo in una situazione, temporanea o permanente, di perdita più o meno totale della capacità di comprendere il significato della realtà in cui vive e di mantenere tra sé e quella realtà un rapporto di sintonia sufficiente a salvaguardare un comportamento autonomo e responsabile. In base ai fattori eziopatogenetici possiamo suddividerle in due gruppi: le psicosi organiche (metaboliche, disendocrine, infettive, vascolari, degenerative, neoplastiche, post-traumatiche, genetiche) e le psicosi endogene (o funzionali), includenti le schizzofrenie e i disturbi dell'umore.

Ad esse nell'ambito dell'istituzione penitenziaria vanno aggiunte le psicosi carcerarie, con veri e propri squilibri psicotici.

Per quanto riguarda il campo tossicomanico, va detto che molti tossicodipendenti presentano disagi e sofferenze che possono trasformarsi in veri e propri disturbi psichici, i quali però nella maggior parte dei casi non si manifestano come reazione alla carcerazione, bensì come evidenziazione in carcere di disturbi già prima esistenti.

Secondo studi e ricerche effettuati a livello internazionale, la prevalenza di sintomi psichiatrici nei tossicodipendenti è significativamente più alta che nella popolazione generale, e la prevalenza dei disturbi tossicomanici è maggiore di quella di tutti gli altri disturbi psichiatrici insieme. Tali rilevazioni sono ritenute valide sia per l'ambiente carcerario che per quello extracarcerario.

"La tossicodipendenza sarebbe, insomma, un fenomeno sintomatico di un disagio psicopatologico che la sostanza stupefacente serve a coprire. I disagi più frequenti sono di tre tipi: depressione, che per lo più viene compensata con l'eroina, vere e proprie psicosi, ma soprattutto disturbi di tipo borderline".

Risale al 1996 uno studio effettuato nel carcere "La Dogaia" di Prato su 57 detenuti tossicodipendenti da eroina, per valutare gli elementi psicopatologici rintracciabili nell'Asse II del D.S.M. III-R (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) e, per quanto riguarda l'Asse I, del disturbo psicotico nella sua globalità. La valutazione è avvenuta attraverso colloqui, utilizzando le categorie ed i criteri diagnostici del DSM-IV. I risultati numerici e percentuali sono i seguenti:

 

Nessun disturbo

14

24,6%

Psicosi

3

5,3%

Borderline

11

19,3%

Tratti borderline

3

5,3%

Borderline + Antisociale

3

5,3%

Tratti Borderline + Antisociale

1

1,7%

Borderline + Antisociale + Paranoico

2

3,5%

Borderline + Istrionico

1

1,7%

Istrionico

2

3,5%

Tratti Paranoide

1

1,7%

Narcisista

3

5,3%

Evitante

2

3,5%

Evitante + Dipendente

1

1,7%

Schizotipico

1

1,7%

Schizoide

1

1,7%

Depressivo

1

1,7%

Ossessivo-Compulsivo

1

1,7%

NAS

6

10,5%

Totale

57

100%

 

Associando alcuni dati notiamo:

 

che il 25 % non ha disturbi in Asse II (ma non è escluso che ne abbia in Asse I), il 5% circa è affetto da psicosi, il 70% da disturbi della personalità;

che il disturbo borderline da solo, o associato ad altri, riguarda 21 detenuti e cioè il 37,5% del totale dei detenuti oggetto di questo studio.

Questi risultati, limitati nel numero ma significativi concettualmente, confermano l'elevata prevalenza del disturbo psichiatrico, in specie del disturbo di personalità, in tossicodipendenti eroinomani. Fra i disturbi di personalità sembrano nettamente prevalere quelli del gruppo B e, all'interno di questo, il disturbo borderline.

Ma il campo più estesamente rappresentato in carcere è quello parapsicotico. In esso confluiscono tutte le diagnosi di confine e le forme psicopatologiche che si esprimono nel comportamento: disturbi di personalità, in particolare il disturbo borderline (BPD), il disturbo narcisistico (NPD) e il disturbo antisociale di personalità (ASPD).

Sono questi i detenuti che impegnano maggiormente gli psichiatri penitenziari poiché reclamano forme nuove e integrate di trattamento. E, come sostengono gli autori della ricerca, sono i malati che rimangono misconosciuti fuori dal carcere.

Accanto agli psicotici e ai tossicomani, troviamo un'altra categoria di persone. Scrive Catanesi:

Insidie si nascondono comunque anche in soggetti apparentemente adattati, o per meglio dire, costretti a mostrarsi adattati per non venire meno alle aspettative del gruppo di appartenenza. Questi individui segnalano in maniera tipica al medico penitenziario difficoltà di altro genere, mascherando in tal modo disturbi psicologici che, se esplicitati (e soprattutto se affrontati con terapia farmacologica e psicoterapica specifica) li esporrebbero a severi giudizi da parte del clan di appartenenza.

Un giudizio di incapacità a "fare la galera" suona infatti, in particolari contesti, come condanna ancor peggiore della detenzione. Così essi ostentano una forza ed una sicurezza che in realtà non hanno e secondo molti medici psichiatri, anch'essi sono detenuti a rischio perché impossibilitati ad esprimere il dolore e la sofferenza, sino a che la situazione non diviene insostenibile e l'angoscia si manifesta all'improvviso con comportamenti insospettati, con esplosioni, ad esempio, auto-eteroaggressive.

 

6.4. Gestione degli stati psicopatologici

 

Il problema più consistente nel trattamento dei disturbi psichici di cui ho fin qui parlato, riguarda la gestione del paziente in un contesto così difficile quale quello carcerario.

De Pietro e D'Ancora sostengono che l'intervento psichiatrico penitenziario deve avere come obiettivo quello di fornire al paziente la percezione chiara che esiste un reale interesse per la sua persona, ed unitamente al trattamento farmacologico devono essere attuate strategie orientate a restituirgli autostima.

Tale affermazione ha carattere generale e vale quindi per tutti i tipi di disagio, indipendentemente dalla loro natura, ma ogni forma patologica va trattata e curata in modo diverso dalle altre.

La sindrome ganseriana per esempio è considerata un "caso di difficile trattamento intramurario" poiché, per definizione, trattasi di reazione che trova soluzione nella rimozione della causa che l'ha prodotta. Interventi farmacologici mostrano infatti scarsa efficacia e quelli psicoterapici appaiono problematici per mancanza di insight.

Catanesi sostiene che alcune peculiari strutturazioni di personalità, soprattutto di tipo borderline e narcisistica grave, pongono poi non pochi problemi all'équipe medica del carcere per la ricorrenza di gesti autolesivi anche di particolare gravità. Si tratta di soggetti che possono anche apparire adeguati sul piano comportamentale e rapidamente adattati al contesto ambientale, ma che manifestano invece in relazione ad una molteplicità di problematiche, sempre diverse e spesso anche poco rilevanti, atteggiamenti ambivalenti e solo apparentemente contraddittori. Ora ricattatori, ora seduttivi, aggressivi o manipolatori, quasi sempre fortemente polemici, manifestano con ampia gamma di possibilità espressive un'unica, costante, pressante richiesta di assistenza, non sollecitata ma pretesa e non solo nei confronti del medico o dello psichiatra, ma soprattutto nei confronti di se stessi. A questa possono seguire, in caso di opposizione o di rifiuto, reazioni che a volte appaiono evidentemente dimostrative, ma che in taluni casi, ed in particolare in alcuni soggetti, possono acquisire elevata valenza distruttiva auto-eterodiretta.

Assai complessa risulta anche la gestione delle forme depressive maggiori, sia per la intrinseca gravità e per l'elevato rischio suicida che ad esse si associa, sia per la difficoltà di poter proseguire alcuni trattamenti farmacologici in carcere. L'utilizzo ad esempio dei sali di litio, terapia mirata in queste forme, richiede un controllo costante della litiemia che può divenire problematico anche per i detenuti ricoverati presso i Centri Clinici dell'Amministrazione penitenziaria. Questi, infatti, non sempre possono assicurare adeguato monitoraggio, essendo per lo più sprovvisti di autonomo laboratorio di analisi. Per l'insieme di questi motivi la necessità di un ricovero in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero diviene, in questi casi, orientamento pressoché costante.

Infine, deve essere considerato un altro aspetto relativo all'intervento psichiatrico. Come afferma Calzolari, infatti, in alcuni casi (soprattutto di psicosi e di schizofrenia) il malato non ha coscienza del proprio stato e ritiene pertanto incomprensibile l'intervento del medico considerandolo un ulteriore atto persecutorio nei propri confronti, potendo scatenare di conseguenza reazioni di aggressività incontrollata.

 

6.5. Incompatibilità carceraria

 

Mentre alcune forme psicopatologiche, pur causando problemi non indifferenti al personale penitenziario, possono essere gestite in carcere, per altre si delinea la necessità di ricorrere alle cure dei servizi esterni.

Per quanto riguarda il caso in cui sopraggiunga, in detenuti condannati o internati, un disturbo psichico tale da impedire l'esecuzione della pena in carcere, l'art. 148 c.p. (infermità psichica sopravvenuta al condannato) prevede il trasferimento in ospedale psichiatrico giudiziario.

Nel caso di detenuti imputati, invece, si ricorre all'art. 275, IV comma c.p.p., la cui formulazione, come modificata dalla legge 8/11/1991 n. 356, prevede, quale criterio ostativo alla custodia cautelare in carcere dell'imputato, quello delle "condizioni di salute particolarmente gravi che non consentono le cure necessarie in stato di detenzione".

Così per la valutazione della patologia psichiatrica che può assumere rilievo ai fini del giudizio di compatibilità, è necessaria l'esatta definizione dei concetti di particolare gravità da un lato e di impossibilità di praticare le cure necessarie dall'altro.

L'espressione "condizioni di salute particolarmente gravi" contiene in sé un carattere di genericità, spesso non risolto neppure dalle sentenze della Suprema Corte che ha utilizzato, di volta in volta, nel tentativo di definirne i contenuti, formule poco chiarificatrici in merito ("...stato patologico idoneo, per la sua serietà ed imponenza, a pregiudicare notevolmente la capacità fisica e psichica ovvero una compromissione seria e notevole dell'integrità fisica e psichica del soggetto..." o ancora "di rilevante pregiudizio per la salute").

Se tali annotazioni hanno validità di carattere generale e dunque sono adattabili a qualunque malattia fisica, non possono non avere ancor maggior valore per quella psichica, ove si ricordi che in più occasioni dalla Suprema Corte è stato ribadito non essere rilevante uno stato morboso di natura psichica, ancorchè sia tale da scemare la capacità di intendere e di volere del soggetto, perché simile stato non è incompatibile con il regime carcerario.

La "particolare gravità" "deve essere tale da un punto di vista soggettivo ed oggettivo" e tali non sono considerati "gli stati morbosi di origine psichica, soprattutto se legati all'afflittività della custodia in vinculis". Ovvero le condizioni di salute devono avere carattere di assoluta gravità "e non possono identificarsi con uno stato morboso di carattere psichico, specie se esso trova origine nella stessa condizione carceraria".

Come sostiene Catanesi, non si può non aderire a questo orientamento, se solo ci si limita a prendere atto che un certo grado di sofferenza psichica è implicito ed inevitabile nell'applicazione del regime detentivo, a prescindere dalla qualità delle condizioni di vita che quel determinato carcere può offrire.

Non mancano, tuttavia, sentenze più recenti che mostrano maggiore attenzione anche verso i problemi psichici. Ad esempio, è stata considerata ostativa alla persistenza della custodia cautelare in carcere "una sindrome neuropsichica che abbia condotto il detenuto in breve arco di tempo a tre successivi tentativi di suicidio, l'ultimo dei quali compiuto con modalità tali da rendere molto probabile il realizzarsi dell'evento letale".

È innegabile che periti e consulenti chiamati a svolgere perizie psichiatriche al fine di accertare la gravità della malattia debbano tener conto di una duplice esigenza: da un lato il rispetto per la tutela della salute psichica dell'imputato e dall'altro la necessità di evitare elastiche e troppo soggettive interpretazioni rese ancor più agevoli dalla prevalente dimensione soggettiva della sintomatologia psichica.

Ed è proprio per rispettare la reale dimensione della sofferenza psichica che la letteratura più autorevole ritiene corretto aderire, per la qualificazione del concetto di particolare gravità, ad un orientamento rigoroso, tale da prevedere che, nei casi di esclusivo carattere psichico,

debba essere presente un quid pluris identificabile in una sindrome psicopatologica specifica di rilevanza tale da rendere lo stato di privazione della libertà, in qualunque modo attuato, idoneo ad interferire negativamente sulla efficacia del trattamento terapeutico, che si rende indispensabile nella specie, in modo da compromettere l'esito e così produrre ulteriore nocumento alla persona dell'interessato con caratteristiche di prevedibile irreversibilità o comunque tali da rendere ancora più grave il già di lui compromesso stato di salute.

Secondo Catanesi, la gravità della condizione deve essere tale da consentire di orientare verso uno sfavorevole giudizio prognostico "quoad vitam" o "quoad valetudinem", quest'ultima da intendere quale compromissione in grado di produrre danni psichici difficilmente emendabili o che possano comunque lasciare con ragionevole probabilità tracce profonde nell'equilibrio psichico di un individuo. Il riferimento, in questa prospettiva, è a casi di soggetti già affetti da patologia psichiatrica di rilievo (ad es. alcune forme psicotiche) e che con grande difficoltà siano riusciti ad ottenere una condizione di parziale - e spesso fragile - compenso, non solo con il ricorso ad adeguati interventi farmacologici, ma attraverso una strategia più complessa che tenga conto dell'intero contesto relazionale. L'inserimento di tali soggetti in un ambiente difficile, rigido, conflittuale qual è quello carcerario può, in alcuni casi, costituire di per sé motivo di nuovi e più gravi scompensi, non sempre facilmente risolvibili all'interno delle mura carcerarie proprio per l'effetto negativo prodotto dal contesto ambientale. Non è naturalmente detto che ogni caso di psicosi debba avere analogo andamento, ma è anche vero che per alcuni pazienti psicotici la permanenza in carcere può vanificare il difficile lavoro svolto all'esterno e incrinare problematici equilibri non solo psicopatologici ma anche familiari.

Nel caso invece la patologia psichiatrica sia direttamente riconducibile allo stato detentivo (come ad esempio nel caso delle reazioni depressive), essa può acquisire connotati di particolare gravità tali da integrare gli estremi previsti dall'art. 275 c.p.p. solo eccezionalmente, e cioè quando per intensità ed espressività produca un complesso morboso (nel caso della depressione, inappetenza o rifiuto del cibo fino a grave decadimento psicofisico, oppure idee di morte o di rovina con concreti timori di suicidio) tale da esporre a seri ed attuali rischi l'incolumità psicofisica del detenuto.

La determinazione del concetto di gravità è poi essa stessa dipendente da quella di trattamento, poiché diviene "grave" una patologia nella misura in cui risultano vane, o del tutto inefficaci, le misure terapeutiche intraprese. Espressione clinica e trattamento divengono quindi inscindibili al punto che la seconda locuzione (non consentono le cure necessarie in stato di detenzione) pare acquisire quasi significato di rinforzo della prima.

Nel valutare le possibilità di trattamento tuttavia, Crestani e Bordignon affermano la necessità di ricordarsi che obiettivo della terapia non può essere sempre la totale remissione della sintomatologia sino al recupero della precedente condizione di benessere. L'afflizione della detenzione infatti produce implicitamente una sofferenza che non è eliminabile ma solo accettabile; finalità del trattamento può essere quella di fornire adeguato sostegno psicologico all'individuo con l'intento di ridurre, ed in alcuni casi anche solo non aggravare, la sintomatologia presentata.

Un esempio paradigmatico in tal senso è quello della sindrome di Ganser. Sul piano espressivo, non c'è dubbio che tale condizione si presenti con un quadro di una certa gravità, ovvero apparentemente si qualifichi per la ricorrenza di sensibili alterazioni delle funzioni psichiche (dell'orientamento, della memoria, dell'attenzione). "Ma si tratta di sintomatologia "pseudo-demenziale", a metà strada cioè fra la simulazione e la reazione inconscia e con pressochè costante componente isterica a sostegno; può apparire psicotica ma la somiglianza è solo superficiale, a meno che naturalmente il quadro clinico non sia spia di una reale forma psicotica".

Se, come più spesso accade, la somiglianza con quadri ben più gravi (demenza o comunque deterioramento su base organica da un lato e psicosi dall'altro) è solo superficiale, "se manca quell'uniformità sintomatologica che riflette la globale, reale compromissione dello psichismo e che si traduce in più gravi alterazioni del comportamento che tipicamente compaiono nelle condizioni alle quali il Ganseriano tenta di assomigliare, il giudizio non potrà che essere negativo". In altri termini, la sola ricorrenza dei sintomi più esteriori della Sindrome di Ganser, ovvero un parziale disorientamento unito ad apparente perdita del patrimonio conoscitivo, non costituisce condizione sufficiente ad integrare quei requisiti di particolare gravità richiesti dal IV comma dell'art. 275 c.p.p.

Sul piano prognostico, infatti, secondo molti psichiatri penitenziari, tenuto conto della matrice sostanzialmente psicogena della sintomatologia, non vi sono motivi per ritenere che la permanenza in carcere possa produrre un aggravamento della sintomatologia soprattutto in termini di irreversibilità della salute psicofisica.

Diversamente, spiegano Giusti e Ferracuti, si potrà operare nel caso in cui al quadro innanzi descritto si sovrappongano aspetti realmente psicotici, quali disturbi deliranti o allucinatori (questi ultimi presenti anche nelle forme puramente psicogene), stati confusionali o altre condizioni (decadimento psicofisico da rifiuto del cibo, rifiuto persistente di cura per la propria persona, gravi irregolarità del comportamento, idee suicide, ecc.) che orientino diversamente la sintomatologia ganseriana, nel senso cioè non di forma crepuscolare isterica ma, ad esempio, di psicosi endogena o di cerebropatia, che possono presentarsi con quadri clinici simili.

Più complessa appare la problematica dei disturbi di personalità. L'intervento dello psichiatra in questi casi viene sollecitato, più che per sintomatologia soggettivamente lamentata o direttamente verificata, per le turbe del comportamento che pongono spesso in crisi i medici chiamati ad intervenire. Allo psichiatra del carcere, in sostanza, viene richiesto di "contenere" i comportamenti, specie quelli autolesivi che così tanto preoccupano tutti i responsabili - non solo quelli sanitari - dell'Amministrazione penitenziaria.

Rimane comunque un problema di non facile soluzione perché tali disturbi di personalità e i comportamenti che ne scaturiscono non sono facilmente aggredibili sul piano terapeutico con i soli strumenti psicofarmacologici e, anche se strategie psicoterapiche possono e debbono essere intraprese, le possibilità di incidere in tal senso risultano modeste. Da un lato, infatti, il paziente è immerso in un contesto complesso e conflittuale, sotto la pressione di un numero elevato di variabili non controllabili dal terapeuta; dall'altro i rapporti paziente-psichiatra soffrono di discontinuità, di frammentarietà d'intervento e spesso di mancanza di coordinamento con le altre figure sanitarie.

Ciò nonostante, la possibilità che tali disturbi possano concretamente acquisire quei connotati di "gravità" innanzi delineati è estremamente rara e limitata a pochi peculiari casi nei quali la tendenza al discontrollo appare particolarmente marcata. Anche in questi casi, tuttavia, la soluzione del ricovero presso strutture ospedaliere del servizio psichiatrico di diagnosi e cura nella quasi totalità dei casi è in grado di rispondere alle esigenze di trattamento e di assicurare una adeguata prevenzione di comportamenti a rischio.

Un'ulteriore modifica all'art. 275, IV comma c.p.p è stata apportata dalla legge 8 agosto 1995 n. 332 di riforma della custodia cautelare. In base ad essa, quale condizione ostativa alla custodia cautelare in carcere vengono attualmente previste "condizioni di salute particolarmente gravi incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere".

L'interpretazione della nuova norma, se a prima lettura non sembra allontanarsi molto dallo spirito della precedente, ad una più attenta analisi risulta, addirittura, non del tutto chiara.

Esprimersi sulla "compatibilità" presuppone infatti che i margini di questo concetto siano ben delimitati. Sino alla legge 332/95, come abbiamo visto, essi erano chiaramente indicati nella coesistenza di condizioni di salute particolarmente gravi che non consentivano le cure necessarie in regime detentivo. Ma l'attuale formulazione sembra lasciare aperta l'interpretazione a diverse, più ampie possibilità: non solo cioè alle condizioni di salute particolarmente gravi incompatibili con il regime detentivo (non solo carcerario dunque), ma anche alle condizioni di salute particolarmente gravi che non consentano adeguate cure in caso di detenzione in carcere e forse, come alcuni sostengono, anche alle sole condizioni di salute che non consentono adeguate cure in caso di detenzione in carcere.

Le prime due ipotesi non contengono elementi di grande novità: nel primo caso si fa riferimento a quelle condizioni di salute che a prescindere dalle possibilità terapeutiche risultino, per così dire, oggettivamente incompatibili con lo stato detentivo. Pensiamo ad esempio, per restare nell'ambito psichiatrico, a forme demenziali o esiti di gravi traumatismi, nelle quali l'impoverimento della personalità, la condizione di decadimento è così marcata da non consentire più alcuna forma di restrizione della libertà in ragione della necessità di una continua e puntuale assistenza. Per queste forme oggettivamente gravi sul piano clinico, possono anche non esservi concrete possibilità di trattamento, intra o extramurario, ma la incompatibilità è dettata dalla espressività stessa della patologia. Con questa ipotesi si ritorna, per certi versi, alla formulazione precedente alla l. 356/91 che faceva riferimento alle sole condizioni di salute particolarmente gravi.

La seconda ipotesi (condizioni di salute particolarmente gravi che non consentono adeguate cure in caso di detenzione in carcere) ricalca in sostanza la vecchia formulazione normativa, con la sola modifica della "adeguatezza" delle cure, in luogo della loro "necessità". Si tratta solo di sfumatura, che però lascia intravedere la volontà di ampliare lo spazio destinato alla tutela della salute del detenuto, se è vero che adeguato è solo ciò che è "proporzionato a particolari esigenze", mentre necessario è "ciò che non può essere in modo diverso" ovvero "obbligatorio e indispensabile".

Dubbi consistenti pone invece la terza ipotesi. Come già detto, a giudizio di alcuni, sarebbe prospettabile, dalla lettura della norma, anche l'incompatibilità per condizioni di salute anche non particolarmente gravi ma che non possono trovare adeguate cure in carcere. Catanesi afferma che si presta ad una simile interpretazione l'incertezza della formulazione che ha prescelto per unire le due locuzioni l'uso della congiunzione "e" al posto della forse più opportuna "o". Pare un'interpretazione forzata perché se così fosse, si creerebbe una evidente ed insanabile sproporzione con le prime due ipotesi; se, in altri termini, qualsiasi condizione morbosa che non possa ottenere cure "adeguate" divenisse causa di non compatibilità, non vi sarebbe stato motivo per inserire nell'articolo anche le condizioni di salute particolarmente gravi incompatibili con il regime detentivo. Sarebbe stato sufficiente cioè far riferimento all'ultima ipotesi.

In ambito psichiatrico una simile interpretazione condurrebbe alla quasi totalità di giudizi di incompatibilità, poiché per qualsiasi forma di sofferenza psichica intracarceraria "cura adeguata" (e non quella necessaria) è, in primo luogo, l'eliminazione dell'evento irritativo, ovvero la detenzione stessa.

Anche se l'intento di riformulazione della norma è stato senza dubbio permeato dalla volontà di meglio tutelare il diritto alla salute del detenuto (come confermano le discussioni sul tema contenute negli atti parlamentari), rimane in definitiva condizione preliminare necessaria per dichiarare la incompatibilità con il regime carcerario la presenza di condizioni di salute particolarmente gravi.

Prima di concludere vorrei riportare uno studio effettuato negli ultimi anni per incarico della Procura della Repubblica di Roma e dell'Ufficio di Istruzione del Tribunale di Roma, consistente nell'esame di 51 casi clinici, nei quali le principali connotazioni della malattia erano di natura psichica, al fine di valutare la compatibilità di tali disturbi con il regime carcerario; per incarico della Difesa ne sono poi stati esaminati altri 14. La casistica, apparsa in un articolo di Giusti e Ferracuti, è stata suddivisa nelle seguenti tabelle:

 

TABELLA I - Parere negativo per la concessione dei benefici (27 casi su 51 d'ufficio, pari al 53%)

  1. m. 53 a. modesta sindrome depressiva carceraria

  2. m. 49 a. sindrome depressiva, lieve sindrome di Barré-Liéou

  3. m. 47 a. sindrome depressiva, sciopero della fame

  4. m. 25 a. sindrome nevrastenica, tachicardia sinuale

  5. m. 31 a. sindrome reattiva carceraria,sciatalgia

  6. m. 39 a. sindrome depressiva, duodenite, artrosi

  7. m. 37 a. lieve eretismo psichico

  8. m. 38 a. neurosi reattiva, ernia inguinale

  9. f. 24 a. lieve sindrome ansiosa reattiva

  10. m. 35 a. depressione da astinenza da cocaina

  11. m. 25 a. farmacodipendente da eroina

  12. m. 22 a. sindrome depressiva, sciopero della fame

  13. m. 38 a. sindrome depressiva reattiva, piccola insufficienza epatica

  14. m. 36 a. sindrome ansioso-depressiva carceraria

  15. f .35 a. sindrome depressiva e anoressia con scadimento delle condizioni generali

  16. m. 36 a. idee ossessive di morte (evidente simulazione)

  17. m. 28 a. sindrome depressiva reattiva carceraria

  18. m. 51 a. sindrome ansioso-depressiva, tachicardia sinusale, bronchite cronica

  19. m. 46 a. reazione psico-somatica da carcerazione

  20. m. 36 a. sindrome ansioso-depressiva, reattiva

  21. m. 27 a. stato depressivo-reattivo in personalità psicopatica

  22. m. 42 a. reazione depressiva, ernia inguinale

  23. m. 60 a. reazione ansioso-depresiva carceraria, stenocardia

  24. m. 26 a. sindrome depressiva carceraria decorrente con anoressia

  25. m. 26 a. sindrome reattiva carceraria, postumi di frattura

  26. m. 35 a. sindrome depressiva reattiva carceraria

  27. m. 30 a. sindrome depressiva reattiva


TABELLA II - Parere negativo per la concessione dei benefici a condizione del trasferimento dell'imputato in ambito sanitario (centri clinici, ospedali, comunità terapeutiche): 12 casi su 51 d'ufficio, pari a circa il 23%)

  1. m. 49 a. frequenti crisi fobiche

  2. m. 52 a. crisi neurodistoniche

  3. m. 18 a. sindrome depressiva con rapido dimagrimento ed alterazione EEG

  4. m. 30 a. sindrome depressiva reattiva, grave deperimento organico, disturbi del ritmo cardiaco, ulcera duodenale

  5. m. 25 a. rilevante sindrome depressiva reattiva

  6. m. 62 a. psiconevrosi d'ansia, ipertensione grave

  7. m. 33 a. sindrome depressiva con anoressia, grave deperimento organico

  8. f. 26 a. cocainomane con spunti psicotici e validi tentativi di suicidio

  9. m. 40 a. grave reazione depressiva con spunti psicotici

  10. m. 61 a. nevrosi d'ansia, spondilo artrosi grave, bronchite cronica

  11. m. 45 a. sindrome reattiva, sciopero della fame

  12. m. 34 a. schizofrenia paranoide

Consulenze di parte

  1. m. 30 a. sindrome depressiva, sofferenza endocranica da proiettile ritenuto

  2. m. 31 a. politossicodipendente in svezzamento

  3. m. 41 a. grave reazione depressiva ansiosa con spunti fobici


TABELLA III - Parere positivo per la concessione dei benefici (arresti domiciliari, o libertà provvisoria): 12 casi su 51 d'ufficio, pari a circa il 23%; 14 consulenze di parte)

  1. m. 64 a. grave sindrome depressiva con grave deperimento organico

  2. m. 35 a. gravissima reazione depressiva carceraria con grave deperimento organico

  3. m. 25 a. sindrome depressiva d'alto grado e grave deperimento delle condizioni generali

  4. m. 35 a. sindrome depressiva, gravissimo dimagrimento

  5. m. 22 a. sindrome reattiva con anoressia e grave decadimento delle condizioni generali

  6. m. 35 a. sindrome depressiva cachessia da digiuno

  7. f. 40 a. sindrome reattiva gravissima, decadimento delle condizioni generali

  8. m. 35 a. grave condizione depressiva maggiore, grave dimagrimento

  9. m. 57 a. grave reazione ansioso-depressiva

  10. m. 21 a. grave depressione reattiva, anoressia, grave dimagrimento

  11. f. 56 a. grave depressione reattiva, diabete mellito

  12. m. 57 a. grave depressione endoreattiva, bronchite cronica, arteriopatia obliterante

Consulenze di parte

  1. m. 24 a. personalità schizoide

  2. f. 30 a. stato psichico schizoaffettivo, tossicomane compulsivo

  3. m. 32 a. grave reazione ansioso-depressiva, forte calo ponderale

  4. f. 40 a sindrome ansioso-depressiva reattiva

  5. m. 40 a. sindrome depressivo maggiore

  6. f. 23 a. sindrome depressiva, L.A.S. (HIV pos)

  7. m. 30 a. sindrome disforico-depressiva, ipertensione

  8. m. 34 a. sindrome depressiva con episodi psicotici

  9. m. 29 a. sindrome depressiva maggiore endoreattiva

  10. m. 44 a. sindrome depressivo-ansiosa maggiore con spunti ipocondriaci

  11. m. 33 a. sindrome depressiva maggiore

  12. f. 20 a. sindrome depressiva maggiore

  13. m. 45 a. sindrome depressiva maggiore

  14. m. 24 a. sindrome depressiva maggiore, disendocrinia

 

Il tema che concerne la gravità delle condizioni del detenuto in attesa di giudizio, sta ricevendo, anche in dottrina, un'attenzione sempre maggiore da parte della letteratura medico-legale, poiché, in molti casi, il parere tecnico al riguardo può rappresentare, di fatto, la differenza fra attendere il giudizio in carcere o attenderlo in libertà o, quantomeno, in stato di arresto fra le mura domestiche.

Nella casistica riportata, delle 50 osservazioni relative ai detenuti in attesa di giudizio, ben 17 attengono a problemi, principali o secondari, di natura psichiatrica: 11 sono stati ritenuti "incompatibili" con lo stato di detenzione.

In tale casistica, suddivisa secondo il parere espresso e secondo la posizione (d'ufficio o di parte) del medico legale, emerge molto nettamente che la massima incidenza riguarda le reazioni carcerarie di tipo ansioso-depressivo, e che queste assai facilmente si accompagnano ad una patologia di tipo psicosomatico e/o con anoressia, cui segue o consegue un rapido decadimento delle condizioni generali.

Le forme psicosomatiche più usuali attengono al tratto gastro-enterico (coliche, ulcere, ecc.) e al sistema cardiocircolatorio (tachiaritmie, ipertensione, angina, ecc.).

Non possiamo tuttavia ignorare la possibilità che la malattia venga usata come mezzo per ottenere indebiti benefici, e che essa possa essere provocata o simulata a questo fine. E ciò risulta più probabile nell'ambito della patologia psichiatrica. Per questo motivo Giusti e Ferracuti ritengono che la metodologia dell'indagine debba seguire delle linee rappresentate dal seguente schema:

  1. accertare le infermità da cui l'imputato è affetto;

  2. stabilire se, per effetto delle infermità riscontrate, l'imputato versi in condizioni di salute particolarmente gravi, con riferimento diretto al quadro morboso in atto;

  3. in caso di risposta positiva al precedente quesito, accertare gradatamente:

     

se gli accertamenti diagnostici e le cure di cui l'imputato ha bisogno possono essere praticati nell'infermeria del carcere o in centri clinici carcerari, provvisti di strumentazioni e di personale idoneo;

se, in carenza di detta organizzazione sanitaria, le cure necessarie ed indilazionabili possono essere apprestate in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura, fermo restando lo stato di detenzione dell'imputato, da attuarsi mediante servizio di piantonamento;

se, per la natura delle infermità e per le particolarità delle cure o la durata delle stesse, lo stato di detenzione dell'imputato in ospedale civile o in altro luogo esterno di cura, con le modalità sopra indicate, si riveli obiettivamente incompatibile con il trattamento terapeutico che nel caso si rende necessario ed indilazionabile;

se, in presenza di una sindrome psicopatologica specifica o di altre condizioni obiettive non altrimenti eliminabili, lo stato di privazione della libertà personale dell'imputato, in qualunque luogo attuato, si riveli idoneo ad interferire negativamente sull'efficacia del trattamento terapeutico che si rende indispensabile nella specie, in modo da comprometterne l'esito e così produrre ulteriore nocumento alla persona dell'interessato, con caratteristiche di irreversibilità o comunque tali da rendere ancor più grave il suo già compromesso stato di salute.

 

Il problema vero è, naturalmente, quello della "particolare gravità" della forma morbosa, la cui valutazione rimane eminentemente soggettiva.

 

 

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