Diritto di curarsi anche in carcere

 

Diritto di curarsi anche in carcere

di Daniela De Robert

 

Aids ed epatiti croniche. Nei penitenziari italiani malattie come queste sono diffuse e il sistema sanitario è carente di fondi e di organizzazione.

 

Famiglia Cristiana n° 8/2004

"Correre sui prati. Abbracciare i miei cari. Farmi curare".

 

Così un detenuto del carcere romano Rebibbia definisce la libertà. Se le prime due affermazioni non ci stupiscono, la terza invece desta preoccupazione: forse in Italia i cittadini detenuti sono privati del diritto alla salute, sancito dalla Costituzione?

Non dovrebbe essere così, eppure c’è chi segnala gravi problemi. "Il carcere è la nostra Africa", sostiene Giulio Starnini, direttore dello staff tecnico dell’ufficio sanità del ministero di Giustizia. "La percentuale di persone sieropositive al virus dell’Aids o con epatiti croniche è di gran lunga superiore alla media italiana e intervenire in maniera adeguata non è sempre possibile". Muoversi all’interno del mondo penitenziario non è facile: ogni carcere è un pianeta a se e i rapporti con le Asl variano da regione a regione. Secondo una ricerca dell’Istituto superiore di sanità, i sieropositivi in carcere sono quasi l’8 per cento, mentre le infezioni da epatite cronica superano il 40 per cento. Solo ultimamente la commissione nazionale Aids ha messo all’ordine del giorno il problema dei detenuti malati o infetti. Con l’arrivo in massa di persone dai Paesi più poveri, oggi va inoltre aggiunto il rischio tubercolosi.

Mancano soldi, strutture adeguate, chiarezza della legge sul rapporto tra Asl e sistema sanitario penitenziario. Eppure, una sanità penitenziaria migliore garantirebbe una migliore salute di tutti. Un esempio è l’episodio avvenuto l’anno scorso a Como, dove furono segnalati numerosi casi di polmonite in carcere. I medici penitenziari diedero l’allarme ed emerse che si trattava di un’epidemia da febbre trasmessa dagli animali, causata dal passaggio di un gregge infetto. Ospedali e Asl, subito informati, poterono fermare un’epidemia che aveva già colpito alcuni abitanti del quartiere, oltre ad agenti penitenziari.

In questo caso, prendersi cura dei detenuti consentì non solo di curarli, ma anche di fermare una malattia che non fa distinzioni tra detenuti e persone libere. I pregiudizi non ci aiutano ad arginare i problemi. Spesso, anzi, li aggravano. E il carcere, che ci sembra lontano, è in realtà parte delle nostre città.

 

Detenuti, problema aperto

 

Nonostante il continuo aumento della popolazione carceraria (passata da 47 mila detenuti nel 1995 a 54 mila nel 2003), i fondi stanziati per la sanità penitenziaria sono diminuiti progressivamente, con un calo nello stesso periodo di 348 euro pro capite. Inoltre è rimasta inapplicata la legge del 1993 che prevedeva l’attivazione in ogni regione di un reparto ospedaliero riservato ai detenuti. L’unico funzionante a pieno ritmo è a Milano, all’ospedale San Paolo, dove 18 letti hanno ospitato in un anno 1200 ricoveri. Per i detenuti delle altre 20 regioni italiane la ricerca di un posto letto è un terno al lotto.

 

 

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