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La delinquenza giovanile in Francia, tra educazione e punizione di Jacques Bourdin*
Le Monde Diplomatique, giugno 2002
Sempre più insistentemente, in Francia (come del resto in Italia), si discute dell’eventualità di irrigidire la legislazione per i reati commessi dai minori. Rispondendo ad esigenze di natura securitaria spesso artefatte, questa discussione non tiene conto di un elemento storico essenziale: dal XIX secolo, tutte le esperienze di internamento sono immancabilmente fallite. La legge ha sempre oscillato tra punizione e educazione, considerando spesso i giovani delinquenti semplici colpevoli da punire, piuttosto che vittime da proteggere e reinserire. Quando si parla di protezione del bambino, ci si vuole proteggere da lui o proteggerlo contro se stesso? Questo dibattito, nel quale si ripropone regolarmente la tentazione dei centri chiusi, percorre tutta la storia dell’intervento nei confronti dei minori che hanno avuto problemi con la giustizia. Fin dalla Rivoluzione francese la legislazione si fonda sulla pena educativa e prevede centri di educazione correzionale. Ma i primi di essi sono apparsi in Francia durante la Monarchia di luglio (1830 - 1848) e nel frattempo i ragazzi erano rimasti in carcere, insieme agli adulti. Nel 1836, allo scopo di separare i minorenni dagli adulti, si apre a Parigi il centro di educazione correzionale della Petite - Roquette, ispirato a un modello americano di cui parla Tocqueville nel 1831. Si tratta di un modello cellulare (586 celle) per minorenni delinquenti, vagabondi e bambini sottoposti alla cosiddetta Correction paternelle. In un primo tempo si privilegia il regime cellulare solo per la notte, mentre durante il giorno i giovani detenuti lavorano in silenzio in un’officina, e ricevono una istruzione elementare e religiosa. Si realizza così il desiderio dei legislatori del 1791: collegare pena ed educazione. Tuttavia, la Petite - Roquette si sarebbe molto presto orientata verso il sistema della detenzione integrale in cella, giorno e notte. In un’ottica molto religiosa, l’isolamento e il silenzio appaiono come garanzie di emendamento volto a favorire "il raccoglimento e la contrizione". Nello stesso periodo si rinchiudono le "ragazze perdute" nei "Buonpastore", luoghi a metà strada tra convento e carcere. In seguito, al silenzio redentore della Petite - Roquette si sostituisce la "natura redentrice", con la creazione di colonie agricole, uno spazio fuori dal carcere, per i minorenni condannati dalla giustizia. Nonostante fossero inizialmente apparse come un’alternativa al carcere, in realtà le colonie agricole ne sono soltanto il prolungamento. Con la crescente proletarizzazione urbana, il regime si irrigidisce. Più che al carcere che corregge, la cui efficacia non convince più, si crede al carcere che punisce. Poco a poco, la pietà lascia il posto alla paura sociale. Lentamente, l’immagine del bambino povero e vagabondo, "dell’innocente colpevole", cede il passo a quella del bambino criminale, in sintonia con le nuove teorie del "criminale nato". Nel 1860, svaniti i progetti educativi, rimangono soltanto il castigo e la detenzione in colonie penitenziarie pubbliche, che hanno tutto del carcere fuorché il nome. Lo stato ne crea una gran quantità, dove i minori rimangono per diversi anni, secondo una semplice logica di esclusione e di punizione: poco a poco i dormitori sono suddivisi in "gabbie per polli". Contrariamente a quanto succedeva trent’anni prima, il lavoro non risponde più a preoccupazioni di apprendimento e diventa un elemento strutturale della pena. "Occorre sottomettere il bambino", scrive il direttore dell’amministrazione penitenziaria nel 1890. "Se persiste nell’errore, è perché la disciplina non è sufficiente". L’ammaestramento sarà più duro e più intenso. I battaglioni disciplinari, nell’ambito dell’esercito, proseguiranno poi l’opera di correzione! Tra il XIX e il XX secolo, il ruolo assegnato dalla Terza Repubblica all’educazione e alla tutela dell’infanzia, i primi lavori di psicologia sui problemi della gioventù criminale e la costituzione nei tribunali di comitati di difesa dei ragazzi tratti in giudizio, contribuiscono all’evoluzione della legislazione, come dimostra la legge del 1912, che instaura il primo tribunale minorile. Ma questo non avrà alcun effetto sulle colonie penitenziarie. Un giornalista, Louis Roubaud, le denuncia con forza in un libro uscito nel 1925, Les enfants de Cain, in cui parla di queste "scuole professionali, che non sono altro in realtà che scuole del crimine" e denuncia la "ferocia dei coloni, pari soltanto alla durezza del regime disciplinare". La rivolta dei coloni di Belle Ile en Mer, nel 1934, scatena vigorose campagne di stampa condotte da un altro giornalista, Alexis Danan. Un anno dopo, il legislatore depenalizza il vagabondaggio dei minorenni e prevede provvedimenti di assistenza educativa. L’opinione pubblica si schiera a favore della riforma di questi istituti. Vero è che, all’ epoca, la delinquenza minorile, particolarmente bassa, non preoccupa molto: durante la guerra sono nati pochi bambini e nel 1935 non ci sono molti adolescenti. Le prime riforme appaiono nel 1937 - 1938, con la collaborazione della direzione dell’insegnamento professionale. I giovani delinquenti vengono reinseriti in un ciclo pedagogico normale. Ma ci vorranno ben vent’anni prima che questi istituti perdano totalmente il loro legame con il penitenziario. L’ordinanza del 2 febbraio 1945, spesso citata, mira a privilegiare la dimensione educativa rispetto a quella penale, che deve rimanere un’eccezione. Un passo sembra compiuto: non c’è più ambiguità tra pena e provvedimento educativo. Sulla scia dell’ordinanza, viene istituita, presso il ministero della giustizia, una direzione dell’educazione sorvegliata, totalmente autonoma dall’amministrazione penitenziaria. All’indomani della guerra, l’educazione sorvegliata dispone di tre tipi di risposte all’interno di un istituto:
Da quella data, l’educazione sorvegliata non accoglierà più i minorenni condannati al carcere, ma soltanto quelli colpiti da provvedimenti educativi. Si rispecchia così la logica dell’ordinanza del 1945: la pena detentiva è di competenza dell’amministrazione penitenziaria, mentre il provvedimento educativo è affidato al settore, privato e pubblico, dell’educazione sorvegliata. Nel 1952, preoccupata dal problema dei recidivi e dei minori ribelli agli Ipes, l’educazione sorvegliata apre due istituti speciali (Ises), che sono carceri abbandonate, di cui vengono segate le sbarre. Ogni stabilimento riceve dai 15 ai 20 allievi, per una durata di sei mesi: s’insiste sull’apprendimento artigianale all’esterno e sulla necessità di un’azione pedagogica individualizzata fondata su una conoscenza approfondita delle persone, in collaborazione con il settore psichiatrico. È una timida apertura a un lavoro pluridisciplinare, che va al di là del semplice intervento pedagogico e normativo degli Ipes. Uno di questi centri - quello di Sables d’Olonne, in riva all’Atlantico - sarà chiuso nel 1958, dopo incidenti con i turisti: è probabile che fosse sbagliata la scelta del luogo. Il secondo centro diventerà un centro di accoglienza per adolescenti difficili. Tuttavia, a partire dal 1958, l’aumento della delinquenza giovanile comincia a preoccupare i poteri pubblici, sebbene sia dovuto a ragioni demografiche legate al baby - boom della fine della guerra. I fenomeni di bande di "blousons noirs" accentuano presso l’opinione pubblica il sentimento di un malessere giovanile. L’educazione sorvegliata, pur avviandosi verso politiche di prevenzione, si rivolge di nuovo a strutture penitenziarie. Un passo indietro, secondo il parere di molti giudici minorili ed educatori. Zone riservate ai minorenni sono gestite nelle carceri dall’educazione sorvegliata, sotto la denominazione di Centri speciali di osservazione dell’educazione sorvegliata (Csoes). Si tratta, a quanto si scrive, di "coniugare la detenzione preventiva con una struttura educativa".
Una pentola a pressione pronta a esplodere
Questo induce i giudici istruttori, sempre più investiti di casi riguardanti i minorenni, a privilegiare questo tipo di sistemazione, che sembra offrire al contempo garanzie educative e di sicurezza. Vi si incontrano numerosi delinquenti alla prima condanna, spesso ladri di automobili. A Fresnes, nel dipartimento della Val – de - Marne, sono previsti 60 posti, con un ragazzo per cella; nel 1963, vi si ammucchiano 180 giovani, ossia 3 ragazzi per cella. Per limitare questo sovraffollamento endemico, i minorenni, una volta compiuti i 18 anni, vengono trasferiti nel carcere degli adulti. Stessa sistemazione, dopo il periodo di osservazione, per i recidivi diciassettenni. Bilancio: secondo uno studio sui Csoes, nel 1966 solo il 14% dei minorenni è oggetto di un provvedimento rieducativo come esito del proprio soggiorno. Per gli altri la pena, che vorrebbe essere educativa, non sfocia in alcun trattamento di reinserimento. Al momento della loro chiusura, nel 1979, un rapporto d’ispezione conclude che "il 40% dei minorenni che hanno soggiornato nel Csoes avrebbe potuto essere osservato altrove" e denuncia "il pericolo dell’esistenza di centri chiusi". La tentazione securitaria prosegue con la creazione dei centri di osservazione di sicurezza (Cos), nel 1970. Con essi si vuole in particolare contribuire a limitare a detenzione provvisoria che, negli anni 60, è aumentata due volte più rapidamente della delinquenza giovanile, e consentire un periodo di osservazione di uno - due mesi. Anche se non si tratta di una struttura penitenziaria, l’aspetto esterno resta equivoco, con cancelli, muri di cinta, vetri spessi. Jean Guéry, ultimo direttore del centro di Juvisy, ha recentemente parlato della violenza larvata che vi regnava: "La concentrazione in uno spazio così limitato di giovani così simili dal punto di vista dei disturbi, faceva di questo stabilimento un’immensa pentola a pressione, pronta a esplodere in ogni momento". Dei 735 giovani osservati a Juvisy tra il 1970 e il 1976, il 60% si ritrovava in carcere due anni dopo la fine del proprio soggiorno. Per molti di essi, il centro non era altro che un preludio a una carriera di delinquente. Il fallimento del Cos porterà all’abbandono dell’aspetto chiuso e securitario di queste istituzioni. Un’altra esperienza, più imperniata sul trattamento, è il centro chiuso di Vauhallan, aperto nel 1970 dal dottor Roumajon, ex psichiatra della sezione minorile di Fresnes. Anche se vi prevale l’aspetto della sicurezza (recinti, camere di sicurezza), si è in una logica di cura, con azioni individualizzate sul piano medico, educativo, psicologico. Tuttavia, il personale rileva che questo tipo di struttura, "più adatta a ragazzi con tendenze psicotiche, ha accresciuto l’angoscia dei minorenni delinquenti, con un aumento dei comportamenti violenti e dei tentativi di suicidio". L’esperienza si conclude nel 1974. In questa data, un rapporto del presidente del tribunale minorile di Parigi indirizzato al guardasigilli conclude: "Gli stabilimenti chiusi sono un fallimento". L’azione educativa richiede, per i più giovani, tempo e spazi di libertà e non è compatibile con l’ambiente chiuso". Quattro anni dopo, il ministro della giustizia, Alain Peyrefitte, preoccupato dall’aumento della detenzione provvisoria dei minorenni e dalle recidive che essa genera, pone fine all’esperienza dei Csoes nelle carceri. Nel 1985, un nuovo articolo, aggiunto all’ordinanza del 1945, rende obbligatorio il parere del servizio educativo presso il tribunale, che propone, per ogni minorenne, misure alternative all’incarcerazione. Il centro chiuso risponde soprattutto a esigenze di ordine pubblico, che lo trasformano in un simulacro di carcere. Le misure di tutela giudiziaria non devono sottrarre i minorenni alla loro adolescenza, perché spesso la delinquenza giovanile è solo un fenomeno passeggero aggravato da pesanti handicap sociali e culturali. Più di ogni altro, il minorenne delinquente ha bisogno tanto di accoglienza, disponibilità, formazione, lavoro, quanto di un apprendimento dei limiti e dei confini in luoghi che non siano luoghi di esclusione. L’esperienza dei centri chiusi sottolinea la differenza tra un luogo di contenzione assimilabile al carcere e alla chiusura e un luogo di educazione, che rende possibile l’apprendimento della legge e l’accettazione dei limiti. La protezione giudiziaria dei giovani trova la sua legittimità in questa via educativa. Ultimamente, con la creazione di centri di prima accoglienza (Cpi) e di centri di educazione rafforzata (Cer), si tenta di dare risposta ai giovani più fragili. Essi hanno bisogno di essere costantemente seguiti in piccole strutture non chiuse, che coniughino osservazione, relazioni individuali, vita di gruppo e lavoro con le famiglie. La direzione della protezione giudiziaria dei giovani sta tracciando i primi bilanci di queste esperienze, ma queste nuove strutture avranno un senso solo se, all’uscita di questi soggiorni brevi (dai 3 ai 6 mesi), i ragazzi potranno essere veramente seguiti sul piano educativo. Il magistrato Paul Lutz, pioniere dell’educazione sorvegliata, scriveva nel 1947: "Si dà rieducazione nella misura in cui si è disposti a correre il rischio dell’educazione". Sarebbe il caso di assumersi questo rischio.
* Presidente dell’Associazione per la storia dell’educazione sorvegliata e della tutela giudiziaria dei minori.
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