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Seminario
del CESVOT sul lavoro in carcere
Relazione di Romeo Gatti, Responsabile Regionale della Toscana per il P.I.L.D. (Punto Informazione Lavoro Detenuti)
Il tema della formazione professionale per i detenuti è strettamente collegato alla questione del lavoro in ambito penitenziario, così come si è imposta nel dibattito più recente muovendo su due direzioni principali di marcia: a) portare attività produttive nelle carceri; b) accrescere le opportunità per gli sbocchi occupazionali all’esterno. I due aspetti sono strettamente collegati tra loro per altrettante ragioni: il bisogno di reddito per chi è detenuto e solitamente manca del sostegno economico della famiglia; la formazione mirata e interna al momento lavorativo - "in situazione" - che superi l’handicap della generale scarsa qualificazione e fornisca così risposte immediatamente spendibili anche all’esterno. Un’adeguata risposta a tali esigenze consentirebbe di ricondurre finalmente il lavoro in ambito penale alla sua funzione istituzionale di strumento principale del trattamento rieducativo che, con l’introduzione delle misure alternative, ha visto l’esecuzione della condanna svolgersi non più soltanto all’interno del carcere ma anche sul territorio: affidamento ai servizi sociali, semilibertà, arresti domiciliari, etc. Pertanto la risultante di un intervento forte a sostegno del lavoro per i detenuti ed ex tali, dovrebbe condurre ad una decisiva riduzione della recidività che, evidentemente, rimanda ad una miscela di fattori soggettivi ed oggettivi tali da distanziare, anche a fronte di una effettiva volontà di reinserimento, la capacità personale di collocarsi nel mondo del lavoro in maniera soddisfacente. Infatti bisogna prendere atto che per chiunque, e tanto più per chi ha avuto modo di ricorrere per così dire a "facili proventi", il lavoro non è solo un’esigenza economica ma deve rispondere anche ad un bisogno di promozione individuale che certamente la precarietà e le limitate competenze non favoriscono. E’ altresì importante ricordare, per non arrivare a considerare il lavoro come la panacea per tutti i problemi, che i fattori motivazionali possono giungere per altre vie come, ad esempio, la costruzione di solidi legami affettivi ai quali finalizzare un impegno lavorativo non sempre edificante. Sicuramente l’insieme di questi aspetti andrebbero approfonditi e ricollegati tra loro per meglio rispondere al mandato costituzionale che intende la pena in funzione rieducativa e non punitiva. In questo senso manca un dibattito aperto anche ai "non addetti ai lavori" e soprattutto continuativo, in grado cioè di superare l’andamento frammentario basato sugli "umori emergenziali". Se infatti si fa un passo indietro vediamo un procedere della materia se non schizofrenico, quantomeno altalenante. Senza dilungarsi troppo, basta dire che rispetto al "carcere-fabbrica" del dopoguerra, durante cui importanti aziende avevano impiantato numerose produzioni, oggi i lavori sono ridotti al lumicino e in prevalenza relegati ad attività interne di manutenzione, cucina o pulizie. Il fatto che le riforme degli anni ’70 abbiano investito anche il carcere riconducendo le condizioni di lavoro ai parametri sindacali, non può da solo spiegare la fuga degli imprenditori ai quali il legislatore aveva pur lasciato un margine significativo di profitto, consentendo la riduzione di un terzo degli stipendi. Certamente l’esplodere delle rivolte non ha favorito tale freno, ma è altrettanto possibile individuare altri fattori concatenanti che hanno stravolto il panorama carcerario. Da una parte la concezione trattamentale si è decisamente spostata sugli aspetti rieducativi collegati ad attività di socializzazione e di formazione professionale e scolastica, in vista delle misure alternative alla pena e quindi all’idea, giusta, che la permanenza eccessiva in carcere pregiudicasse il riadattamento all’esterno. Dall’altro la composizione stessa dei detenuti è sostanzialmente variata con l’ingresso massiccio di tossicodipendenti e stranieri, portatori di problematiche complesse e non direttamente riconducibili al problema del lavoro. Molto si è investito allora sulla formazione professionale, certamente con un dispendio di risorse eccessivo rispetto agli effettivi risultati sul piano di una qualificazione, che, date le condizioni strutturali in cui i corsi si svolgono, finiscono in genere per risultare un momento più che altro ricreativo, durante il quale si può anche imparare qualcosa di computer e strappare un attestato in genere poco sfruttato una volta fuori. Ma anche là dove la formazione è stato possibile svolgerla in maniera piena, poca attenzione è stata prestata a quell’insieme di aspetti di preparazione al lavoro – la "preformazione" - che rimandano a competenze cosiddette "trasversali" o "di base", ossia l’acquisizione della logica interna al lavoro che è fatta di impegno, precisione, autorganizzazione, rapporto con i colleghi, etc., che a sua volta si attiva se risponde effettivamente alle motivazioni ed aspettative personali. In pratica per formazione bisogna intendere non solo il "saper fare" un determinato lavoro, ma anche "saper essere" in grado di stare nell’ambiente di lavoro, acquisirlo come parte della propria vita ed essere motivati in questo. Per queste ragioni l’aspetto del lavoro andrebbe inquadrato nella sua accezione di propedeutico alla crescita della personalità, oltre che come risposta ad un bisogno immediato. Ossia, ed arriviamo al punto, sarebbe opportuno che finalmente si riuscisse a considerare il lavoro, la formazione ed il momento rieducativo (brutto termine che sostituirei con "riabilitativo inteso come acquisizione, recupero o crescita delle abilità) in un unico disegno che sappia offrire contemporaneamente capacità formative, motivazionali e risposte economiche incentivanti. In questo senso la Legge Smuraglia, che dovrebbe favorire l’ingresso di lavorazioni in carcere, andrebbe orientata su attività in grado di dare anche esperienze formative valide, tanto più se maturate appunto all’interno del momento e della logica lavorativa: la cosiddetta "formazione in situazione". Sarebbe importante, ad esempio, che al momento lavorativo si affiancassero "pause di autovalutazione" dei percorsi individuali, per riflettere sulle acquisizioni in termini di capacità, attitudini, aspirazioni, motivazioni, etc. Per questo scopo esiste ad esempio la figura dell’orientatore al lavoro, oggi decisamente presente nei nuovi Centri per l’Impiego (ex-collocamento) il cui scopo è indirizzare la persona verso le effettive attitudini e abilità personali. Il suo scopo non è di dare passivamente delle informazioni, tantomeno sostituirsi alla persona nella ricerca occupazionale, bensì fornire quegli strumenti e tecniche utili a muoversi ed autopromuoversi nel mercato del lavoro, eventualmente rafforzando i punti più deboli sia sul piano della formazione professionale che dell’autostima (capacità di valutarsi ed insieme valorizzarsi). Per essere più concreti, si pensi a quanti in carcere si vittimizzano senza attivarsi in prima persona per il proprio futuro, sperando che l’educatore o il volontario di turno li aiutino a trovare un lavoro, la casa, etc. Se si occupasse un po’ di quel tempo a ripercorrere le proprie esperienze in maniera positiva, pensando a cosa si sa fare – punti di forza - anche in senso più generale (mi sono sempre dedicato a piccole riparazioni, mi piace dialogare, sono bravo ad organizzare, …) e se contemporaneamente si curasse la raccolta di informazioni sulla realtà del lavoro, le aziende presenti sul territorio, e così via, probabilmente il tempo dell’attesa trascorrerebbe anche con una qualche utilità o perlomeno per prepararsi meglio ad affrontare la sfida con il lavoro. Questa è la funzione del formatore e di chi si occupa di orientamento al lavoro, ridare anzitutto fiducia in se stessi, i cui risultati spesso non sono immediatamente visibili ma vanno riletti a distanza, se cioè si è stati capaci di dare quella giusta spinta e un bagaglio di conoscenze essenziali per favorire quel percorso di reinserimento che solo e soltanto in prima persona può essere affrontato.
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