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IdeeLibere Periodico d’informazione della Casa di Reclusione “Ranza” di San Gimignano - Siena Anno II n° 3 febbraio - marzo 2003
a cura della Redazione
Presentiamo il n. 3 di IdeeLibere ed è già il secondo anno di attività. La "macchina" è ben avviata come ci hanno dimostrato i molti lettori che hanno espresso il loro consenso. Grazie anche a chi ci ha criticato, dandoci così lo stimolo per migliorarci. E grazie a chi ha creduto e crede in noi consentendoci di proseguire questa esperienza utile a noi della Redazione ma, speriamo, anche quale elemento di riflessione per le varie componenti di Ranza e più in generale per chi, magari…molto in alto, saprà trarre indicazioni dai nostri scritti. Il primo numero dell’anno serve anche per un bilancio: consuntivo per l’anno da poco concluso e preventivo per il 2003. Dobbiamo dare atto al Direttore, Dr. D’Onofrio, di aver mantenuto in buona parte le promesse fatteci all’inizio del 2002: Polo Universitario; computer in cella per chi studia o come strumento di lavoro (per chi può permetterselo); piccole-grandi concessioni come l’abbattimento del muretto di separazione dai familiari nelle sale colloqui o il rifacimento di docce e pitturazione delle celle. La nostra speranza è che si prosegua su questa strada, nonostante la cronica mancanza di fondi e le carenze di organico del personale di custodia. E chissà che il 2003 non avvii a soluzione i cronici problemi del Corpo di Polizia Penitenziaria, alcuni dei quali, una volta superati, permetteranno il miglioramento anche delle condizioni di vita dei detenuti. Non dimenticando che, già adesso, tante attività sono svolte grazie all’impegno ed alla collaborazione degli Agenti. Stessa situazione per gli "Educatori", in numero di uno ogni 150 detenuti, che, alla luce di questi dati, riescono a dare anche di più di quanto loro richiesto. Per altri, molti, aspetti, il 2003 dei detenuti appare avvolto in una fitta, gelida nebbia. Dell’attività trattamentale a Ranza, del gesto di clemenza e di altre problematiche trattiamo in altra parte del giornale. E così questa "voce", che da alcuni mesi si è affiancata ad altre che vengono edite in Toscana e nel Paese, si pone l’obiettivo di approfondire bisogni, idee e proposte per una maggiore informazione sul mondo penitenziario. Questo per chi vi è detenuto, per chi vi lavora e per chi, in libertà, è interessato (o ne ha l’obbligo istituzionale) alla vita del carcere. Senza presunzione ma anche con la convinzione di svolgere un lavoro utile per favorire il "diradamento" di quella nebbia che si diceva. Il tutto con il massimo rispetto verso ciascuna componente; quel rispetto che pretendiamo per i nostri diritti e per il nostro essere uomini cui, momentaneamente, viene a mancare uno dei doni più preziosi (la libertà), ma che non per questo sono privi di speranze, di stimoli a fare bene per migliorarsi. Con l’aiuto di coloro che ci sono vicini. E non "contro". di Antonio Morabito
Fino a poco tempo fa pensavo che il primo ingresso presso una struttura carceraria fosse una delle cose più traumatiche che un individuo potesse sopportare. Dopo aver scontato una decina d’anni nelle strutture penitenziarie mi sono dovuto ricredere. Per quanto mi riguarda, il momento più difficile è quando allo scadere di un permesso si deve ritornare alla dura realtà carceraria, con tutte le sue regole e i suoi ritmi. Il solo pensiero che ti consente di sopportare al meglio questo stato d’animo, è la certezza che tra non molto si potrà avere la possibilità di riabbracciare i propri cari e coltivare i propri affetti. Il ritorno in carcere si vive gradualmente, come fosse una discesa negli inferi o un calarsi dentro un pozzo sempre più profondo dal quale è impossibile rivedere la luce. Parti allegro da casa come se quello fosse un giorno normale come tutti gli altri, ma dentro di te sai che così non è. Piano piano che ti avvicini all’istituto il tuo cuore si stringe e la malinconia ha il sopravvento, ricordi con nostalgia i bei momenti passati con i tuoi familiari, sapendo già che tra poco un destino diverso avrà il suo corso e come una vittima sacrificale ritorni in quel luogo, che tanto non ami ma che sai ti farà da casa ancora per un po’ di tempo. Ormai sei già in prossimità dell’ingresso, pensi soltanto ai primi momenti che sarai costretto ad affrontare una volta all’interno dell’istituto per non addolorarti più di quanto già sei. Ecco, sono arrivato, l’agente all’ingresso mi chiede il foglio del permesso e mentre aspetto che l’addetto della matricola venga a prendermi per verificare la documentazione, faccio una telefonata a casa per dire che sono arrivato e mi accorgo che di solito dico la stessa frase "tutto a posto adesso rientro", poi ridiscendo nel mio purgatorio attendendo di sapere al più presto quando potrò riuscire. Nell’incamminarmi verso la mia cella, continuo a toccarmi la tasca posteriore del pantalone, mi manca qualcosa, è il portafoglio che ho dovuto lasciare in magazzino, ma tanto qui non serve, sanno già chi sono e per gli acquisti non è necessario il denaro. di Jmila Hammou
Questo è un sussidiario per capire meglio la posizione della donna, in un assemblaggio poderoso che chiamiamo Islam: un miliardo e duecentomila persone, dalla Bosnia all’Iran, all’Indonesia passando per il Nord Africa, il Sudan ed il Bangladesh. L’Islam bolle e fermenta, cosa ne sortirà? L’aceto del pregiudizio che nutre e alimenta il razzismo, ovvero, il nettare onesto dell’ac-culturazione che porta alla conoscenza? Mi pongo tanti interrogativi parlando con persone di culture diverse e, guardando in TV o sfogliando qualche rivista, mi rendo conto che, spesso, si esprimono giudizi sull’Islam frequentemente negativi, dovuti all’ignoranza della materia o per un interesse politico o economico, che tende a dirottare l’opinione pubblica ed a soffocare la sensibilità della gente. Ultimamente si è primeggiata la questione di una voce del mondo "femminile". L’hijab: il velo, non mortifica la donna veramente musulmana, sia che faccia la casalinga, sia che diriga una banca. L’hijab è il recinto e la tenda. Come sudario occulta gli organi femminili che sono, al tempo stesso, "l’occhio del ciclone". Esso trasferisce nella vita, quella differenza che Dio ha scritto nei corpi, dividendo l’uomo dalla donna, e gli ha raccomandato di nascondere e proteggere le sue parti femminili non con un mezzo vestito o un vestito che mette in evidenza tutte le sue curve, tranne che agli occhi del marito. Ma Dio non ha imposto il Burka, tipico velo afgano imposto dai capi tribù: un velo che copre persino gli occhi e, con il tempo, può danneggiare la vista. Questa è una confusione fra le usanze di un maschilismo radicale e possessivo verso le proprie donne e, l’interpretazione della Shria’, che è il corpus legislativo dell’Islam. Costruito nei secoli dai vari califfi che hanno dato una lettura ed interpretazione degli Hadith della Sunna dei detti del Profeta Mohammed, tanto che esso si limita a raccomandare la modestia alla donna. Nell’Arabia pre islamica, nel tempo del Giahiliya, cioè l’ignoranza, la donna era strame: quando nasceva una femminuccia, si seppelliva viva, perché temevano che ella portasse disonore alla propria famiglia. E’ Mohammed che riconosce e dà dignità alla donna, assegnandole pari diritti nel divorzio, preoccupandosi delle vedove, ecc… Il Profeta parla prima d’ogni altro, della rivelazione, a sua moglie: la fedele Qhadìja, ad una donna dunque. Alla donna nell’Islam è dovuto rispetto, gratitudine, possibilità di studiare, ed esercitare varie funzioni importanti nella società. E il velo non discrimina la donna. Io inviterei, piuttosto, a riflettere sull’uso e lo sfruttamento, diretto o indiretto, della donna d’oggi nelle varie società così dette moderne. Basta guardare la TV per accorgersi che in ogni programma ci sono dei begl’organi femminili in evidenza, per fare "audience", o per vendere un prodotto anche estraneo al mondo femminile. di Silvano Lanzutti
Una proposta che ha molti aspetti positivi
"Non ci sono più le mezze stagioni" direbbe oggi un saggio. Sante parole! Ci consola il fatto di sapere che evidentemente non siamo i soli, noi detenuti, a piangere sul latte versato; da anni la scienza si è resa conto che "c’è qualcosa di strano nell’aria"!!! Nei mesi scorsi si sono susseguite vere e proprie tragedie: il terremoto in Molise e in Sicilia, anche il Nord Italia ha avuto i suoi bei problemi con il maltempo. Veneto, Lombardia, Liguria, Piemonte, regioni interamente allagate. Oggi ci si trova a dover far fronte a migliaia di sfollati dalle loro abitazioni, case rese inagibili e città devastate dalla furia dell’acqua. Anche questo potrebbe essere un "banco di prova" per alcuni detenuti, ospiti delle carceri italiane: aiutare concretamente chi soffre. Ci siamo sempre chiesti "ma un detenuto sarà pur capace di fare qualcosa di buono, oppure no?"; oggi abbiamo maturato la ferma convinzione che un detenuto può e deve dimostrare le sue positive possibilità. Dobbiamo quindi modificare la domanda e chiederci "ma il Governo sarà pur capace di dimostrare al detenuto che c’è sempre una possibilità di riscatto per lui?". Spesso si è detto che un detenuto reinserito è una risorsa per la società. Allora perché non iniziare a mettere in pratica ciò che finora è rimasto solo teoria? In un paese dove, soprattutto in questo periodo, ci sarebbe bisogno di volontari, in un paese che è stato messo in ginocchio da nord a sud, anche i detenuti potrebbero dare il loro contributo; si è già parlato in altre occasioni di volontariato, come anche di lavori socialmente utili, percorsi che davvero possono responsabilizzare una persona. Si è parlato di fare in modo che il condannato si adoperi in favore della vittima. Un detenuto condannato può adoperarsi in favore di tutta la società la dove ce né sia il bisogno; questo sarebbe sicuramente un ottimo reinserimento! Per esempio possiamo far riferimento all’Opera don Calabria, che opera nelle carceri napoletane e lavora con i detenuti anche fuori dal carcere. "Succede sempre più spesso", rivela un volontario,"che alcuni di essi diventino poi nostri volontari. Questo è il segno più evidente del successo del nostro lavoro ". Altro esempio: i detenuti della Casa di Reclusione Ranza hanno organizzato, come è avvenuto in altri istituti italiani, una raccolta fondi a favore delle vittime del terremoto in Molise. Questo andrebbe, secondo me, interpretato come un segnale, da parte di chi è realmente intenzionato a reinserirsi. Ecco che allora ci si dovrebbe sedere intorno ad un tavolo e...provare a scommettere! Sissignori, scommettere, perché è di questo che si tratta. Una scommessa che potrebbe rivelarsi vincente sotto molti aspetti. Per tutti! Riflettere sul volontariato in tal senso, coinvolgendo anche la popolazione detenuta, sarebbe davvero qualcosa di eccezionalmente importante. Anche così si potrebbero concretizzare le previsioni della nostra Costituzione in materia di reinserimento e si darebbe una possibilità aggiuntiva a chi sente il bisogno di essere utile agli altri. Anche dal carcere. di
Quando la fabbrica torinese era quasi una seconda famiglia
Avevo 7 anni quando, una sera di luglio, i miei genitori mi accompagnarono, insieme a mio fratello in una grande palestra di Torino. La palestra era affollatissima, colma di bambini accompagnati dai loro genitori, che da lì a poco avrebbero dovuto lasciare per partire. Meta prestabilita: la colonia Fiat di Marina di Massa. Se non ricordo male, quella sarebbe stata la mia prima vacanza, ma trascorrerla lontano dai miei genitori non mi sembrava piacevole. Bastarono però pochi giorni per essere conquistato dall’infa-ticabile entusiasmo della Fiat. La colonia era immersa in un ambiente stupendo dove respiravi l’aria rinfrescata dall’im.mensa pineta e dai giardini coltivati dai fiori variopinti. Le lunghe passeggiate, i corsi di nuoto e barca a vela, i tornei di calcio e pallavolo, le merende, i capricci e le novità di vivere insieme a tantissimi coetanei. Tutto faceva parte di quello stupore tipicamente infantile ed io ne venni conquistato. Riuscii persino ad innamorarmi della signorina che si occupava del mio gruppo e il ritorno a Torino, dopo tre settimane, fu piuttosto triste. La colonia Fiat divenne per i quattro anni successivi una vacanza costruttiva ed entusiasmante. Poi, quando mio padre decise di staccarsi dalla fabbrica, organizzando una piccola azienda privata, tutti in famiglia vivemmo la fatica di ambientarci in modelli di vita differenti. L’amicizia e la solidarietà fra operai, la sensazione di appartenenza e protezione di quell’ambiente ci mancava e mio padre non riuscì ad esercitare nella sua azienda l’impegno e la passione che per anni aveva dedicato alla Fiat. Fu come abbandonare una grande famiglia. Quelli, però, erano tempi non ancora oscurati dall’ingiustizia senza scampo del presente, in cui i padroni erano amati e rispettati. Oggi, per colpa di proprie incapacità e non solo per congiunture sfavorevoli, sono diventati dispensatori di disoccupazione e gli operai che li amavano e li rispettavano si sentono traditi e abbandonati. L’operaio, fedele, passionale, a volte ingenuo, oggi combatte contro il gigante e ancora una volta ne usciranno meglio coloro che avrebbero trovato ingiusto comportarsi così, se non l’avessero fatto loro stessi ma altri. Vincerà chi ha torto e cambierà un’intera classe sociale, vittima dei meccanismi dell’economia e degli errori dei dirigenti Fiat. Fedeltà, passione, ingenuità e pudore lasceranno il posto alla scaltrezza, al cinismo, all’interesse personale, obbligando l'operaio a rinunciare per sempre a quello spirito etico e poetico che accompagna questa categoria, che ne alimenta le azioni e che faceva della Fiat l’orgoglio di una Città, di una nazione. Spesso negli ultimi mesi ho pensato alla crisi Fiat, alla difficile situazione di quegli operai costretti a vivere con l'incubo licenziamenti ed ora, a questa condizione, si aggiunge la morte dell'Avvocato Agnelli, un grande uomo, una leggenda, colui che ha regnato sull'azienda che ha monopolizzato nell'ultimo secolo tutti i settori della città Sabauda che ora dovrà risorgere senza di lui. Da torinese, figlio di un ex operai Fiat questa crisi non può che preoccuparmi, ma sono convinto che città e azienda risponderanno con l'identità e l'orgoglio che l'accomunano. di Enzo Falorni
Nel "Borro", un torrente che scende dalle colline del Vald’Arno Fiorentino di Poggio alla Croce, e sfocia nel fiume Arno nel paese d’Incisa. Per gli abitanti di questo paese, il borro è sempre stato fonte di lavoro. Infatti, molti residenti, partendo dalle loro case risalivano il borro e la in piccoli appezzamenti, vi facevano l’orto visto l’abbondanza d’acqua nei mesi estivi e, non meno, per la purezza di quest’acqua di sorgente. Di questi orticelli se ne contavano a decine, ed erano motivo di soddisfazione per chi li coltivava. Spesso, fra di loro, si sfottevano magnificando i cavoli, pomodori, piselli e legumi vari coltivati, nei confronti dei dirimpettai d’orto e non. Ogni giorno una piccola carovana d’uomini e donne si muoveva, avanti e indietro lungo il percorso del borro, per raggiungere o tornare dai rispettivi orti. Noi ragazzi (all’epoca avevo otto anni), seguivamo i nostri genitori in questa processione e, anch’io, o per meglio dire, mia madre, avevamo il nostro orticello. Con i compagni della mia età avevamo il compito di riempire un bel bottiglione di acqua che, da una fontanella appositamente costruita dal comune per prelevare da una sorgentella attigua al borro, quest’acqua pura e gelata come se sgorgasse dalle viscere della terra e, forse, era proprio così. Non mancava certo il divertimento per noi ragazzi in quel borro, infatti, vi erano delle larghe pozze che sembravano piccoli laghetti, dove l’estate ci facevamo il bagno oppure pescavamo i pesci rossi che c’erano in abbondanza e che portavamo a casa mettendoli, poi, in un vaso a "palla" di vetro. Ricordo che n’avevo sempre in continuazione e mettevo loro dei nomi fra i più bizzarri. Gli orti lungo il borro, terminavano ad una cascata dove l’acqua spiccava un salto di diversi metri schiumeggiando. Sopra questa cascata, proprio in cima alla collina, c’era una casetta di pietra e legno, più assomigliante ad una capanna che ad una casa vera e propria. Là vi abitava una vecchia sempre vestita di nero che, dicevano i paesani, non si sapeva quanti anni avesse, poiché, anche i più anziani l’avevano conosciuta sempre di quell’età. Era una vecchietta che non socializzava con nessuno, non si sapeva come e di cosa vivesse e, nessuno, tanto meno noi ragazzi, si avvicinava alla sua casa dove, estate e inverno, un filo di fumo usciva sempre dal camino. Gli unici amici di questa vecchietta erano i gatti. Infatti, si affermava che ne possedesse intorno alla casa e in casa, non meno di una ventina. Per questo la vecchietta era chiamata la "Regina dei gatti". Durante le ore notturne questi gatti scendevano in paese in cerca di cibo guidati, si racconta, da una magnifica gatta dal pelo nero e lucido e dagli occhi gialli, che sembravano due fari accesi nella notte. Gli abitanti del paese mal sopportavano quest’invasione notturna, specie quando nel periodo dell’amore, i gatti miagolavano per tutta la notte disturbando il sonno del paese. Fu così che, una sera, un gruppo di uomini decisero di aspettare al varco questi gatti per cercare di catturare la gatta nera che gli guidava. I paesani, infatti, pensavano che eliminato questa gatta, forse, gli altri gatti si sarebbero dispersi sciogliendo questo miagolante gruppo. Cosi fecero! Dopo tante peripezie da "Safari", riuscirono a catturare la gatta; la rinchiusero in una "balla" (sacco) di iuta, e la gettarono giù da un dirupo. In quella notte ricordo che nel paese nessuno dormì per il miagolio, simile ad un lamento, degli altri gatti che avevano perso la loro "guida". Il giorno dopo un paesano di buon mattino si recò al suo orto e, strada facendo, passò proprio sopra al dirupo dove la notte precedente vi fu gettato la gatta nera dentro il sacco. Ebbene: con sua meraviglia, il sacco nella caduta si era aperto e, ora per terra, da questo sacco fuoriuscivano le gambe della vecchietta regina dei gatti. Si: la gatta nera era proprio la vecchietta, che nella morte si trasformò da gatta in essere umano. Tempo dopo la casa della "strega", così ora la chiamavano i paesani, fu bruciata, mentre in fondo al dirupo dove aveva trovato la morte vi nacquero dei roveti pieni di spine ma che, nella loro stagione, si riempivano di magnifiche more, nere come la pece e come nessun altro roveto non n’aveva mai fatte di così belle. Nessuno però non si è mai azzardato a coglierle o mangiarle, i paesani dicevano che, nel succo di quelle more, vi era il sangue della strega. Anche i merli, che sono fra i volatili più ghiotti di more, non le hanno mai beccate. Il succo di quelle more sarà stato realmente sangue della strega? Nessuno lo saprà mai, né gli uomini né gli animali. Così è nata la storia della strega regina dei gatti. Storia o leggenda? Boh? di Massimo Ruggiero
Ognuno, dentro di sé, conosce il significato di un termine così profondo, ma difficilmente riesce poi a mettere a nudo le sensazioni, i timori, le preoccupazioni, i disagi, le gioie e tutte le altre emozioni che tale parola poi può provocare dentro noi stessi. L'affettività, in quanto tale, non dovrebbe essere un diritto precluso, reciso, o addirittura centellinato con il conta gocce, per il timore di concederne troppo. Esso dovrebbe piuttosto essere considerato il diritto per eccellenza, al pari della vita, della salute e dell'istruzione. A tale scopo, i semplici colloqui settimanali, non alleviano concretamente una situazione di disagio che una detenzione comporta. Essi hanno una durata di tempo alquanto minima e, se si considerano i vari regolamenti, che impediscono anche i più semplici gesti d'affetto all'interno di una sala colloqui, il tutto assume un valore ancora più drammatico. In alcuni Istituti, ancora oggi, un padre detenuto non può tenere in braccio suo figlio e questo può essere fortemente distruttivo, a livello psicologico, per entrambi. Un semplice bacio, con le proprie mogli o i propri mariti, un qualsiasi gesto affettuoso, viene impedito da regolamenti che vorrebbero tendere al rispetto di non si capisce bene che cosa, e che invece tendono a lacerare anche l’ultima cosa che ad un detenuto gli è rimato: il legame con la propria famiglia. Ma affettività è anche qualcosa di più profondo, di più personale, di più intimo! Non si tratta esclusivamente di istinto sessuale, come molte persone vorrebbero far credere, ma molto più semplicemente, ed umanamente, di qualcosa che da sempre appartiene all'essere umano. Poter trascorrere qualche ora insieme alla propria compagna, al proprio compagno, ma anche insieme ai figli o alle famiglie in generale, in luoghi dove veramente si può essere al riparo da occhi ed orecchie "indiscrete", dovrebbe essere considerato qualcosa che va al di là del semplice "beneficio"; dovrebbe essere considerato semplicemente un diritto innegabile, una parte fondamentale della rieducazione e del reinserimento del detenuto. In alcuni paesi, come ad esempio la Svizzera, da tempo le strutture carcerarie hanno sollevato la questione e trovato una soluzione che tutela questo diritto. Esistono strutture simili a veri e propri mini appartamenti, all'interno del carcere, di cui il detenuto può usufruire una volta al mese, trascorrendo alcune ore (da 6 a 24) con la propria famiglia, la moglie, i figli, ma anche con un semplice amico, perché l'affettività non dev'essere per forza sesso, come qualcuno si ostina a credere. Quando si parla di reinserimento, troppe volte ci si dimentica degli elementi principali per raggiungere tale scopo. L'affettività è uno di questi e lo si dovrebbe tenere bene a mente, per poter progettare un sistema che consenta, alle persone che sopravvivono nelle carceri, di non perdere quello che di buono hanno lasciato fuori da queste mura, visto che un giorno torneranno ad essere cittadini liberi. La Svizzera non è il solo paese ad aver trovato la giusta soluzione; la lista si allunga e speriamo che presto, a questa, possa e voglia aggiungersi anche il nostro paese. Questa è una, fra le tante speranze, che ci auguriamo per il 2003. di Santi Pullarà
Traggo spunto dall’intervista al direttore dell’area Pedagogica, Dr.ssa Amelia Ciompi, pubblicata sul n° 1 di "IdeeLibere" per esprimere la mia opinione sul progetto del Polo Universitario nell’istituto Ranza. Lo sforzo profuso dalla direzione per dare la possibilità ai detenuti di potersi iscrivere ad una facoltà universitaria è un segnale indiscutibilmente positivo che entusiasma quanti possono investire in cultura il tempo che altrimenti trascorrerebbe nell’ozio perpetuo. Questo lo dico dopo aver visto riaffiorare interessi e stimoli in coloro che frequentano il corso IGEA nel carcere, malgrado difficoltà fisiologiche conseguenti alla convergenza di esigenze scolastiche con i problemi di una struttura di reclusione. La cultura in carcere non ha il solo scopo di mantenere impegnate, laddove le possibilità di lavoro sono esigue, tante individualità e colmare lacune di chi non ha avuto la possibilità di studiare quando doveva e poteva, ma è una componente non indifferente per sensibilizzare le coscienze, suscitare soggettive riflessioni, e non per ultimo, rappresenta un’occasione privilegiata capace di agevolare il reinserimento sociale e il dialogo con gli operatori trattamentali. Pertanto ritengo che l’esperienza del corso IGEA non debba estinguersi con l’esame di maturità e rimanere un fatto episodico, ma possa trovare una continuazione ideale con l’Università e la maturazione intellettuale che da essa può provenire. Auspico, perciò, che il progetto del Polo Universitario, non rimanga circoscritto ai soli detenuti ristretti nella Media Sorveglianza, ma che possa estendersi, per la prima volta nelle carceri italiane,anche nel circuito dell’Alta Sorveglianza. Questo sarebbe accolto come un segnale di attenzione e di apertura verso coloro che da anni subiscono discriminazioni e preclusioni a tante iniziative. di Lino Lupone
Circa quattro anni fa, una carissima amica, mi donò un libro perché mi aiutasse ad attenuare la pesantezza della detenzione. Il libro era di uno scrittore norvegese, Jostein Gaarder, ed era intitolato "Il mondo di Sofia". Si trattava di un romanzo avvincente, che narrava in modo esauriente argomenti di storia e filosofia, ma era soprattutto una storia molto originale del pensiero e della conoscenza dell’uomo. Di quel romanzo (che conservo ancora con affetto) ricordo una frase che mi colpì in modo particolare e diceva: " Colui che non è in grado di darsi conto di tremila anni rimane al buio e vive alla giornata". Fu allora, dopo aver letto quel romanzo e dopo aver interiorizzato quella frase, che decisi di non voler più vivere nel buio. Non credo di poter spiegare in modo razionale cosa successe in quel periodo nel quale il mio cuore si preparava ad aprirsi verso nuovi orizzonti. Sentivo di dover dare una svolta alla mia vita e di dover fare qualcosa di costruttivo, ma l’unico gesto che sembrava aver senso era aprire un libro ed imparare qualcosa. Iniziai a dedicarmi con impegno, ad una sorta di ri-programmazione della mia vita, sostenuto dal bisogno di approfondire le mie conoscenze e dalla necessità di compiere un cammino più motivato che mi permettesse di valorizzare la mia personalità, di esprimere un pensiero o un giudizio personale, intimo. Riversai grande interesse nell’apprendimento di tematiche filosofiche , storiche , psicologiche e dopo un anno circa decisi di iscrivermi da privatista al liceo socio-psico pedagogico rincorrendo il sogno di un futuro universitario. Ora che sono molto vicino all’esame di maturità, mi capita spesso di ripercorrere a ritroso questi ultimi anni e ciò che mi rende felice e la soddisfazione nel riconoscere di aver costruito, di essermi trasformato, di aver donato a me stesso un segnale di crescita. Investire questo tempo nello studio, oltre che ripagarmi sotto l’aspetto culturale (gran cosa…credetemi), mi ha aiutato a riacquistare la mia stessa identità nella sua parte più intima e profonda. Mi ha permesso di respirare l’atmosfera di quei mondi, in cui oggi capita sempre più raramente di entrare: quello della filosofia, della storia e della poesia sono frammenti d’esperienze vive come le nostre pene, che parlano la nostra stessa lingua, trasmettono le nostre stesse emozioni. Se non avessi intrapreso questa via forse oggi sarei nella stessa posizione passiva e di autocommiserazione in cui mi trovavo qualche anno fa. La costruzione della mia coscienza passa ogni giorno attraverso la conoscenza , di qualunque specie essa sia, e questo mi permette di sentirmi l’ispiratore fedele del mio sogno di futuro. di
Un po’ per scherzo e un po’ sul serio…
Aria: Formula chimica H2O2, agente atmosferico a volte minaccioso e persino violento. Nel nostro caso NO: solo ed esclusivamente tempo di respirazione, esterna, concesso gentilmente in locali o aree ben delimitate da "basse" mura o, se fortunati, in ampi "fioriti" campi sportivi, comunque tutto all’attenta e vigile sorveglianza degli "Angeli".
Bar: visita di uno o più inquilini ad un "dirimpettaio" per degustare una buona tazza di caffè "napoletano" d’inverno, freddo d’estate, o altri liquidi forniti dalla dispensa del povero malcapitato di turno.
Buono: Aggettivo qualificativo in alcuni casi… ovviamente non nel nostro! Trattasi invece di piccola tessera formato "monopoli" per il ritiro di n°1 bomboletta di gas per fornello da campeggio… e che campeggio!!!
Bidet: Oggetto nel nostro caso particolarmente… curioso! Trattasi di vasca in miniatura dell’altezza poco superiore a 20 centimetri. Il tutto non lascia però meravigliato l’inquilino fino a quando non viene preso in considerazione un particolare: tale "oggetto" è letteralmente piantato al suolo!!! Capolavoro d’architettura.
Colloquio: Visita dei familiari o semplici colloqui telefonici con gli stessi. Questi, durante gli incontri, possono portare alimenti o altri oggetti da consegnare poi ai detenuti, purché il tutto sia consentito dal capo villaggio e soltanto dopo un’accurata (molto accurata) perquisizione.
Domandina: Modulo di tipo cartaceo sul quale, previa accurata compilazione, e dopo estenuanti consultazioni, viene effettuata una richiesta di tipo pseudo – intelligente a cui il capoposto dovrebbe dare una risposta. Attraverso questo modulo, si ha l’accesso a tutti (o quasi) i servizi offerti dalla casa. Si possono inoltre acquistare generi di necessità, richiedere colloqui particolari, ecc…
Espulsione: Forma di trasferimento della serie "vada al suo (quel) paese".
Fine pena: Tragico e spiacevolissimo evento, a volte addirittura scioccante per il "malcapitato", che si vede, dopo anni e anni trascorsi in giocosità e sotto l’attenta cura di tutti, sfrattato ignobilmente e gettato alla mercé della strada, in mezzo a pericoli d’ogni genere. Tale evento porta spesso il povero malcapitato di turno a compiere atti di autolesionismo o, nella migliore delle ipotesi, ad inscenare atti del tipo cartoni animati come "Gli antenati", in cui il povero sfrattato bussa tutta la notte in attesa di essere riammesso nel villaggio.
Hotel: di prima, seconda, terza o altre categorie, trattasi di albergo ben attrezzato, in cui vivono gli inquilini. Questo termine è talmente piaciuto, che il Ministro Castelli lo ha utilizzato in una trasmissione televisiva del TG3!!!
Nodo: Semplicissimo nodo che viene effettuato sulle lenzuola per tenerle tese il più a lungo possibile. Ne esistono di vari tipi, anche quello…scorsoio. Tuttavia ne si sconsiglia l’uso se non si è pratici!
Orologio: Oggetto insulso, ormai inutile ed in disuso presso gli inquilini. Per la serie "c’è chi pensa a noi". Vi sono tuttavia inquilini incalliti, esagitati che, presi da malinconia e frenesia, continuano imperterriti a visionare tale oggetto ogni decimo di secondo.
Quartino: Non è un piccolo quarto ma un comodissimo bric plastificato, contenente una miscela di colore rossastro o giallo – bilioso, dal gusto delicato e relativamente (molto relativamente) assomigliante a quello che nelle campagne chiamano vino!
Sbattimento: Stato pseudo – comatoso – vigile, permanente e continuo in cui vivono gli inquilini.
Televisore: Oggetto sotto forma di scatola infernale, che giorno dopo giorno rincitrullisce i poveri cervelli già sballati dei poveri inquilini. Posto ad un’altezza studiata da un architetto cervelloso, probabilmente alto circa tre metri, costringe gli inquilini a contorsioni e ad avvitamenti del collo anchilosanti. Da qui malattie ortopediche di vario genere: problemi visivi con orbite roteanti, retine sballate e, col tempo tendenza a non riconoscere più i colori. Uomini e animali. Un confronto nel quale non sempre vincono i primi di
Tanto di guinzaglio per il cane e di aia per la gallina, ma dell’uomo? Per gli animali, si sa, non esiste una "carta dei diritti", comunque il loro trattamento è costantemente sorvegliato dalle associazioni animaliste sparse nel territorio. Per gli uomini, invece, è l’Ordinamento giuridico che ne prevede i diritti e gli obblighi. Pertanto, quando un individuo infrange le regole del diritto penale nocendo alla collettività, è giusto che paghi. Il prezzo più alto previsto dalla Legge è la perdita della libertà personale, in alcuni casi aggravata dalle pene accessorie. Tutto qui! Null’altro impone la legge. Norme interne e convenzioni internazionali puniscono e al tempo stesso tutelano chi delinque, garantendo così anche nelle estreme situazioni, come lo stato detentivo, un livello di dignità, valore cristiano universalmente riconosciuto al passo dei tempi. Ma da quando "gli stilisti del blindo" hanno rifatto il look dei furgoni dell’A.P., utilizzati per il trasferimento dei detenuti da un istituto penitenziario ad un altro, e lo spazio – celle è stato "atomizzato", il "passo" è stato compiuto all’incontrario. E in simili condizioni l’uomo affronta traversate dell’intero stivale. Spazio, di sicuro, ne avrà avuto di più quel cane di una signora di Torino, prontamente multata da un vigile urbano accortosi che la padrona lo aveva rinchiuso nel bagagliaio dell’auto, per uno shopping durato forse troppo. Le cronache nazionali parlarono di quasi un’ora. Quindi, chi si preoccupa per i polli di allevamento, che non hanno spazi sufficienti, dimostra sensibilità, perché: polli, conigli, cavalli e rane, sono animali del creato privi di ragione ma, secondo recenti studi scientifici, capaci di provare emozioni proprio come noi esseri umani. Due punti di vista, un unico obiettivo: migliorare il carcere Intervista al Comandante dell’Istituto di Ranza - San Gimignano - Ispettore Massimiliano Vegni
Intervista di Francesco Cascone
Comandante ci dia un suo parere su questo giornale che ha forme e contenuti nuovi e vuole essere uno strumento di comunicazione esteso anche all’esterno. Ritengo di poter esprimere nel merito un parere sicuramente positivo, ravvisando la necessità che nell’ambiente esterno venga diffusa la reale immagine del carcere, che risulta tuttora sconosciuta a larga parte dell’opinione pubblica. Quel è il suo pensiero sulla riforma che coinvolge la polizia penitenziaria nell’attività trattamentale? Sarà possibile cambiare l’attuale mentalità custodiale in quella trattamentale? La Legge di riforma risale ormai al lontano 1990 ed è stata un grosso paso avanti per lo sviluppo della professionalità del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria in precedenza relegato, sostanzialmente, al mero compito custodiale. Vorrei sul punto rappresentare tale Legge è stata frutto di lunghi anni di rivendicazioni del Personale del disciolto Corpo degli Agenti di Custodia, che si sentiva già da tempo pronto ad operare nel carcere da protagonista nel recupero e nel reinserimento sociale della persona detenuta. Ritengo pertanto che la Legge 395/90 sia in tale senso stata concepita, valorizzando professionalità e potenzialità fino ad allora soffocate da un regolamento che non era più al passo con i tempi né, tanto meno, con la Legge 354/75 (Nuovo Ordinamento Penitenziario) e suo successivo Regolamento di Esecuzione. Circa "l’attuale mentalità custodiale" attribuita al Personale di Polizia Penitenziaria, ritengo che tale affermazione non corrisponda alla realtà che si vive in questo Istituto. E alla luce dei fatti che nessuno ostacolo viene posto alle numerose iniziative trattamentali esistenti che coinvolgono anche in modo diretto, malgrado sussista una forte carenza di organico. Ritengo pertanto che tale mentalità sia del tutto residuale e che si debba lavorare ancora è per superarla definitivamente, ma senza eccedere né drammatizzare. Quali ritiene che possano essere i passi e gli atteggiamenti necessari per rendere ancora più costruttivo il "rapporto" tra Polizia Penitenziaria e soggetto detenuto? Un rapporto si costruisce sul reciproco rispetto tra le parti e su una pacifica convivenza improntata sul rispetto di Leggi e di Regolamenti vigenti. Solo in presenza di tali elementi si può pensare di costruire un rapporto ancor più costruttivo di quello attuale che, sostanzialmente, già esiste e può solamente, come del resto tutte le cose, essere migliorato. Vista la positiva scelta di ampliare l’attività didattica in favore de detenuti, quasi sono a suo avviso le iniziative da assumere affinché chi si dedica allo studio possa ottimizzare il risultato (ad esempio: lavoro e studio contemporaneamente, apertura di nuova sezione e/o cos’altro)? L’attività scolastica, nel recupero del detenuto, svolge, unitamente al lavoro, un ruolo che ritengo fondamentale e determinante. Purtroppo una non adeguata assegnazione dei fondi sul relativo capitolo di bilancio, impedisce sostanzialmente di dare vita ad una organizzazione del lavoro che consenta il poter impiegare anche i detenuti studenti in attività lavorative. L’ipotesi poi di destinare un’altra sezione agli studenti, era già stata presa in esame dalla Direzione e sarà attentamente vagliata e valutata, auspicando un positivo esito nel merito. Sarebbero poi tante le cose da poter fare per migliorare il rendimento scolastico del detenuto, una delle quali il garantirgli allocazione in camera singola, per esempio, ma dobbiamo pur sempre, ed aggiungerei purtroppo, confrontarci con la realtà, che sovente ci impedisce di assumere iniziative in tal senso. Quali sono le principali problematiche del personale di custodia che necessitano di soluzione affinché gli agenti possano svolgere il loro compito istituzionale con soddisfazione loro e dei detenuti? L’unico problema che intravedo relativamente al Personale di Polizia Penitenziaria consiste nella carenza di organico che spesso genera eccessivi carichi di lavoro, che vanno poi a ripercuotersi sulla qualità del servizio reso. Impegnarsi contemporaneamente in più attività non è sicuramente da valutare in positivo e non può, obbiettivamente, garantire risultati sempre ottimali e soddisfacenti.
Esistono nell’istituto piccoli-grandi problemi la cui soluzione non appare impossibile. Ne elenchiamo alcuni chiedendo il suo pensiero: a) La necessità di dividere i fumatori dai non fumatori come recenti leggi statali impongono; b) I tempi lunghissimi per la consegna, in cella, di computer di proprietà del singolo detenuto e la mancata istallazione di prese di corrente; c) Il ritardo nella consegna di lettere e giornali; d) L’eccessiva permanenza in cella che, al momento, copre ben diciotto ore della giornata: dalle 15 alle 9 del giorno successivo. Le problematiche esposte non sono del tutto condivisibili, ma meritevoli di risposta analitica, punto per punto: a) La salute del detenuto non fumatore viene tutelata su più aspetti, inquadrabili nell’assegnazione in camere con un altro detenuto non fumatore e nell’aver apposto, come da vigenti normative in materia, cartelli di "VIETATO FUMARE" in tutti gli ambienti chiusi frequentati da più persone, compresi i corridoi. Qualora per un qualsiasi motivo, venga meno quanto in primis riferito, la richiesta del detenuto di cambiare camera viene sempre accolta con la dovuta tempestività, ammesso che la stessa, come sovente capita, non sia del tutto strumentale e mirata ad ottenere altro. b) Il problema della consegna dei Personal Computer inizialmente esistente, è stato superato con specifico incarico affidato al Personale di Polizia Penitenziaria con adeguate conoscenze in materia di informatica, così come previsto dalle attuali Circolari Ministeriali in materia. Circa l’istallazione di prese elettriche da 220 volts nelle camere di detenzione, trattasi di problematica strutturale che richiederà uno sforzo notevole non improvvisabile con attenta valutazione circa le modalità possibili per effettuare i necessari valori. Bisogna comunque porre in evidenza che nell’anno 2002 sono stati effettuati numerosi lavori di ristrutturazione (sala colloqui, tetti, docce e prossimamente sarà rinnovata interamente anche la cucina detenuti) che hanno richiesto un notevole dispendio di energie non impiegabili altrove. c) Il ritardo nella consegna della corrispondenza dipende da cause non imputabili alla Direzione, ma bensì alla nuova organizzazione degli Uffici Postali, oggi non più Ente Statale, ma settore privatizzato, ed il problema non sarà di facile soluzione, considerata anche la posizione logistica dell’istituto. È da evidenziare che il problema non riguarda solamente la popolazione detenuta di questo istituto, ma bensì da collettività. d) In ordine poi alla citata permanenza in camera di detenzione, quantificata in 18 ore giornaliere, è da porre in evidenza che, il detenuto che socializza negli appositi locali, che partecipa alle numerose attività trattamentale, che si impegna nell’attività lavorativa o scolastica e che manifesti in tal senso interesse, dal mattino alle 9.00 alla 20.00 di sera, ha l’opportunità di rimanere in cella, in tale arco di tempo, ben poche ore, e non le 18 lamentate. Il problema è soggettivo e le opportunità esistenti di gestirsi al meglio la giornata sono numerose, ovviamente per chi le vuole sfruttare. Concludo augurando a tutti buon lavoro ed auspicando che questa iniziativa perduri nel tempo, essendo motivo di crescita per tutti e strumento utile a far si che il carcere venga conosciuto sotto il suo vero aspetto, sfatando i tanti tabù che si porta dietro, ed apprezzato come istituzione utile al reinserimento nel tessuto sociale della persona detenuta. L’attività trattamentale a Ranza di Amelia Ciompi Con leggero dispiacere replico alla scherzosa (?) definizione che Franco Russo ha voluto dare nel suo glossario del carcere all’attività trattamentale – "termine linguistico vasto, complesso e articolato. Praticamente inesistente per i più svariati motivi." Certo non è il massimo per un educatore che lavora ormai da parecchi anni con impegno non modesto, (sono gli altri che ci devono valutare), ma con discreto sacrificio personale (questo di certo sono autorizzata a dirlo), leggere sul periodico che da voce ai detenuti ristretti nell’istituto in cui opera una frase di questo tipo, ma la verità impone di riconoscere che la vita trattamentale all’in-terno delle carceri è oggi piuttosto triste, ed anche gli operatori dell’area pedagogica sembra a volte che ogni sforzo ed ogni idea rischiano di essere vanificati dalle incoerenze di un organizzazione complessa, le cui strategie sembrano sfuggire. Le aree educative degli istituti di pena sono oggi afflitte da gravissima carenza di personale che rischia di paralizzare ogni iniziativa che vada al di là dell’ordinaria routine, anche quest’ultima del resto divenuta di difficile gestione con le presenze numeriche attuali degli addetti al trattamento, coadiuvati generosamente ma insufficientemente rispetto alla necessità da operatori appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, inseriti negli uffici degli istituti per sopperire alle emergenze, e tratti da organici anch’essi largamente carenti. Nonostante l’attività trattamentale sia – per motivi istituzionali – una delle ragioni stesse dell’as-sistenza all’Amministrazione Penitenziaria, la situazione nella quale versa oggi il settore fa quasi pensare ad una tendenza verso l’auto-referenzialità assoluta dell’organizza-zione. Io continuo a credere che la formazione ed il lavoro siano gli elementi cardine del trattamento, e che negli istituti di pena in cui la permanenza e spesso lunga, ogni detenuti debba cercare di dare un senso alla sua reclusione impegnandosi in un programma di personale cambiamento e preparazione alla vita che sia giustificazione per un futuro che altrimenti potrebbe riuscire difficile anche immaginare, e spero fortemente che i programmi trattamentale che nell’ultimo anno sono stati pensati per i detenuti di Ranza imperniati sulla formazione in profili professionali qualificati ed appositamente individuati in base alle richieste del mercato del lavoro (ne abbiamo parlato su queste pagine in occasione dell’uscita del primo numero di IdeeLibere), possano effettivamente realizzarsi e concretizzarsi in breve tempo, consapevole come sono che tutte le attività ricreative attualmente esistenti sono solo palliativi che scarsamente incidono sui reali problemi e gli effettivi bisogni delle persone che vivono qui. Per poter concretamente realizzare questi progetti di interventi, finanziariamente onerosi e tecnicamente complessi l’Amministrazione ricerca accordi sinergici con enti locali ed istituzioni del territorio e di raggiungere intese la cui definizione richiede un certo tempo. Sino a che non saranno attivati questi percorsi trattamentali non credo si possa dire che la pena scontata abbia avuto, nello spirito dell’ordina-mento penitenziario, valenza risocializzante, ed in questo senso posso condividere i rilievi appuntati dai detenuti contro le mancanze dell’Amministrazione Penitenziaria. L’adeguamento del trattamento ai mutati scenari sociali ed economici richiede un ingente sforzo ed interventi complessi i cui esiti non possono essere immediati; c’è da dire che non tutti condannati rilevano interesse effettivo per percorsi impegnativi e richiedenti applicazione e disciplina; la mia esperienza di lavoro e la continua segnalazione di comportamenti ripetuti e frequenti in questo senso mi induce ad affermare che non tutti i detenuti scelgono di impegnarsi con costanza nelle attività organizzate che richiedono maggiore impegno (è molto diffuso il fenomeno della dispersione scolastica e dell’assenteismo dalle lezioni); l’ab-bandono di attività scelte strumentalmente come passaporto per l’accesso ai benefici talvolta rivela la mancanza di un effettivo convincimento per un’esperienza utile per se stessi ed il proprio avvenire in un continuum esistenziale rispetto ai vissuti precedenti, che certo non lascia ben sperare per quanto attiene all’acquisizione di una maggiore consapevolezza critica e ripensamento del passato. Per continuare a fare decorosamente questo lavoro dopo un certo numero di anni e numerose delusioni credo che occorra essere sorretti dalla speranza che quello che facciamo possa sempre servire a qualcuno e molta passione. L’augurio che faccio a me stessa e ai miei colleghi per il 2003 e di poter continuare a conservarle nonostante tutto. di Fabio Perrone
In scena al Ranza di San Gimignano la metafora della vita è un’importante metamorfosi. Un manipolo di attori rinchiusi nel reparto di alta sicurezza si è esibito con un testo piuttosto impegnativo, liberamente tratto da "L’ACCORDO" di Bertolt Brecht. Stando agli apprezzamenti della platea, lo spettacolo è ben riuscito. Mesi di prove accurate ma anche divertenti, condotte dal regista Altero Borghi, hanno preceduto il debutto e varie repliche. La scenografia è stata allestita all’interno dello stesso laboratorio, teatro del lungo periodo di preparazione. Un luogo abbastanza ristretto come nella migliore tradizione "carceraria". Ricorrendo alla sua fucina di idee sempre in fermento, il dott. Borghi ha pensato di rivestire con dei teli neri le pareti e il soffitto dello spazio scenico. Come sfondo, dipinto su lenzuolo bianco, il Barone Rosso: un gigantesco aereo da guerra tedesco del primo conflitto mondiale. Sotto è stata collocata la strumentazione musicale ( niente di tecnologico ) poggiata sul pavimento dove, appena più avanti andando verso la platea, si alza il palcoscenico formato da cinque pedane. A vedere il tutto, sembra di stare all’interno di una scatola illuminata da qualche faretto. Una concezione innovativa dei canoni architettonici delle strutture teatrali. Ha inizio lo spettacolo. Entrano i due musicisti con bombetta e sombrero in tuta da meccanico e da falegname, identiche a quelle indossate da altri personaggi ancora dietro le quinte. Ecco apparire una tuta bianca con cilindro nero e giannettina in mani inguantate di giallo. E poi di seguito un alternarsi di tute blu da meccanico e marroni da falegname: il tripudio della classe operaia tanto cara a Brecht. Il tema dello spettacolo rappresenta la metafora sulla capacità dell’uomo di aiutare l’uomo. Tute blu e marroni hanno volato alto con i loro aerei, sono precipitate al suolo e ora chiedono soccorso. L’uomo aiuta l’uomo? Due tute blu entrano in scena insieme ad una tuta da falegname che chiede il loro aiuto. Tra movenze e toni burleschi si assiste alla "mutilazione" del bisogno di soccorso. L’uomo non aiuta l’uomo… E siamo ancora alle battute iniziali. A spettacolo concluso il miracolo. Quel manipolo di attori si è trasformato in un acclamatissimo gruppo teatrale che si è anche dato un nome: alter ego, in omaggio al suo convinto fondatore Altero Borghi. venite a vederci. di Renzo Traballesi (Capogruppo A.N. al Comune di Siena)
Parlare di indulto significa guardare dentro la propria coscienza; in effetti il tema è talmente profondo e legato al credo che ciascuno di noi ha in termini religiosi, etici, sociali e, anche, politici che solo una valutazione che tenga conto della propria coscienza è, pur nei limiti del personale, giusta ed onesta. Ecco che, quindi, la mia posizione, pur essendo un esponente di Alleanza Nazionale (Capogruppo al Comune di Siena), ha motivazioni che si rifanno più al proprio sentire che non a direttive partitiche, che del resto non ci sono. Sono contrario all’indulto. La ragione sta che non vedo al momento le motivazioni storiche e/o sociali che ne giustificano il ricorso; non osservo, infatti, in questo frangente storico argomenti significativi a favore dell’indulto. Da un lato non verifico miglioramenti sostanziali sulla sicurezza in Italia (e specificatamente sul versante del terrorismo interno ed esterno, della pericolosità sociale e criminale, delle devianze delittuose legate alle tossicodipendenze, ecc.) tali da consentirmi di giustificare con me stesso e con gli altri un provvedimento di clemenza. Dall’altro, non c’è all’orizzonte l’apertura di una reale svolta nella politica della Giustizia in Italia; solamente se si aprisse una pagina giudiziaria realmente nuova, cosa che invece non sta accadendo, si potrebbe parlare di provvedimento di indulgenza come momento eccezionale di transizione fra due fasi. Non lo trovo, quindi, ragionevole perché è inutile, intempestivo, dannoso, ingiusto. Inutile perché, adottato fuori da una strategia di politica criminale, è destinato a diventare più che l’ultimo di una lunga serie, il penultimo prima del prossimo. Intempestivo perché la sua applicazione, svincolata da una profonda riflessione riconciliativa a livello nazionale, rischierebbe di bruciare una occasione di larga intesa fra gli italiani. Dannoso, perché senza essere accompagnato da interventi di sostegno all’edilizia carceraria, rinvia il problema del sovraffollamento (motivo, questo, evocato da molti come base giustificativa dell’indulto), ma non crea alcun elemento realmente migliorativo per la vita nelle carceri. Ingiusto, perché preso per mera clemenza, di fatto premia i soggetti forti del rapporto criminale, cioè i condannati, e punisce ulteriormente i soggetti deboli, cioè i danneggiati. D’altronde è oggettivamente vero che le carceri sono sovraffollate e che questo elemento, insieme ad altri che in questa sede non affronterò, è un aspetto che deve essere immediatamente affrontato dal governo della nazione. La dignità dell’uomo, e quindi anche del carcerato, è un diritto sacrosanto. Luoghi dove questo diritto fondamentale non è rispettato, in uno Stato che si definisce civile non hanno luogo d’essere. Ecco, quindi, che è necessario migliorare le condizioni di vita nelle carceri e, magari, sfoltire la presenza nei penitenziari con forme alternative di pena che impegnino i detenuti in lavori utili alla collettività, come accade in altri paesi. Devono essere rapidamente poste in essere forme di espiazione diverse dal carcere e provvedimenti concreti sulla detenzione in famiglia o comunque in istituzioni fuori dal carcere; deve essere ampliato l’uso delle pene alternative fino a modificare la configurazione di alcuni reati minori per ridurre il numero dei carcerati. Penso, in particolare, ai giovani al primo reato che devono star fuori dalla "scuola del crimine" quali talvolta sono le carceri per essere inseriti in apposite strutture dove parallelamente all’espiazione della pena vi sia anche la possibilità di apprendere un mestiere, di studiare se meritevoli, di fare una vita attiva e utile per la società. Credo, quindi, fermamente che ogni uomo abbia diritto alle massime garanzie prima della condanna. Credo, altrettanto fermamente, che mai la dignità dell’uomo debba essere sopraffatta o, addirittura, annullata e che, sotto tale profilo, si debba urgentemente intervenire. Credo, infine, che pari rispetto e dignità debba essere rivolta a coloro che, avendo subito un crimine, hanno il legittimo diritto di veder applicata la giustizia. di Francesco Cascone e Lino Lupone
Ci avevamo creduto. La strada che portava all'indulto sembrava davvero molto favorevole, ma anche questa volta, non ci rimane che apprendere con tristezza, che con le parole non si costruisce niente, anzi, spesso si sprecano solo energie. Hanno tentato di impressionarci, di ingannarci con le apparenze attraverso un dibattito serrato, concentrato su proclami, appelli e discussioni e alla fine, inevitabile, è calato il silenzio, proprio quando ci sarebbe stato bisogno, tra le forze politiche, di tralasciare le cose inutili, le rivalità, le divergenze e di raccogliere le ultime energie attorno all'obiettivo. Non vorremmo fare del vittimismo, ma ciclicamente, negli ultimi anni, il tema dell'indulto ha attirato l'attenzione della politica, dei media, dell'opinione pubblica: tutti attorno, tutti attenti e sensibili a ciò che succede dietro le sbarre, tutti disponibili a trovare soluzioni, a sbilanciarsi (chissà perché). Poi, in breve, quest'attenzione svanisce, le luci attorno al carcere si spengono e i problemi rimangono immutati. Ricordiamoli: crescente e penoso sovraffollamento, carenza del personale di polizia penitenziaria, inadeguatezza strutturale ed igienico-sanitaria delle metà delle carceri italiane; assistenti sociali ed educatori in numero del tutto insufficiente ad interpretare lo scopo rieducativo della detenzione, per non parlare poi dell’uso del carcere come risposta alla tossicodipendenza e all’emarginazione. E poi i suicidi, i tentati suicidi e gli atti di autolesionismo. Esistono in Italia delle strutture penitenziarie in cui le condizioni di vita dei detenuti sono drammatiche e questi posti non dovrebbero esistere né accogliere degli uomini. Le promesse (implicite) disattese non aiutano nessuno ne tanto meno la propaganda sulla costruzione di nuove carceri, proposta che si spegne insieme alle varie soluzioni di clemenza. Eppure quello che chiediamo e di rendere vivibili le carceri esistenti, di scontare la nostra pena dignitosamente e non di essere considerati grate della nostra stessa prigione. Questi sono alcuni aspetti che ci portano a riflettere su un'unica interrogazione, che riguarda, essenzialmente, la paura di non appartenere più a questa società, di esserne "fuori", perché non esiste perdono, rispetto e verità per noi. Tra l’incertezza emerge un unico confronto con due "genitori", la custodia e l’area educativa, tanto diversi quanto impotenti di fronte al dilagare di differenze, disperazione e sovraffollamento. Anche noi in questo piccolo microcosmo abbiamo la (s)fortuna di abitare questa terra, di affrontare le difficoltà connesse al vivere associati, la divisione dello spazio comune, il rapporto fra individui spesso in termini di violenta opposizione d’identità, di cultura, di nazionalità. Oggi il nostro destino è sospeso da logiche di esclusione e confinamento e questa sensazione, intrecciandosi al disagio e ai vuoti affettivi, si prolunga trasformandosi in un’inesauribile agonia. Vogliamo la verità! Il carcere è concepito ai fini della rieducazione e il ravvedimento oppure è un contenitore, uno strumento più sbrigativo per stipare migliaia di individui scomodi, spesso tra i più deboli della società? Continua, tra alti e bassi, il dibattito su questo tema. Qualcuno favorevole, qualcun altro contrario e così, sono state avanzate varie proposte tra cui quella tanto discussa, o meglio, più al centro dell’attenzione, che è definita indultino, ovvero la sospensione della pena inferiore ad anni tre, anche se costituente parte residua di maggior pena. Onestamente, come detenuto, mi sento un po’ preso in giro da proposte tipo quest’ultima. Con questo famoso "atto di clemenza", che poi così non è, e vi spiegherò anche il perché, si è prevista la scarcerazione di migliaia di detenuti ed un elevato risparmio economico. Perché mi sento, come penso gran parte dei detenuti, preso in giro? L’indultino, non è un atto di clemenza, bensì un provvedimento svuota carceri. Si è parlato molto di carceri affollate e di trovare un rimedio veloce per risolvere questo problema, ma perché allora definirlo atto di clemenza? Sarei curioso di capire quante, delle persone che ne hanno parlato, sarebbero disposte a concedere, non in caso di necessità, come quella del sovraffollamento, un vero atto di clemenza. Per raggiungere gli stessi risultati dell’indultino, basterebbe applicare tutte quelle leggi che sono già presenti nel nostro Ordinamento Penitenziario o nel Codice di Procedura Penale. La proposta in questione, prevede, come detto, la sospensione degli ultimi tre anni di pena, con delle prescrizioni simili a quelle dell’Affidamento in prova al Servizio Sociale: obbligo di soggiorno, obbligo di firma, ecc… Cioè nient’altro che l’applicazione di leggi come la Gozzini o Simeone - Saraceni, che prevedono: sospensione pena, permessi premio, affidamento e, molto altro. Con l’applicazione di queste leggi, si otterrebbero, appunto, gli stessi risultati dell’indultino, ma in questo caso non ci sarebbe bisogno di "atti di clemenza" che non vorrebbero essere dati, se non per far fronte all’emergenza del sovraffollamento. Qualcuno, in televisione, ha addirittura menzionato tutte queste leggi, affermando che il triplo della popolazione detenuta è in libertà grazie a questi benefici. Su questo non posso pronunciarmi perché non ho dati concreti a mia disposizione, anche se sono molto scettico, ma ho una certezza: tra i 56.000 detenuti italiani, una gran parte tornerebbe in libertà se le leggi vigenti venissero applicate in modo coerente a come sono state scritte e, ora, non ci si ritroverebbe con le carceri sovraffollate. In conclusione: non mascheriamo come presunti atti di clemenza diritti già acquisiti. Almeno per legge!
Sovraffollamento, condizioni di vita poco dignitose, clemenza, sicurezza. Questi alcuni dei temi trattati nello "Speciale indulto". Mentre il Parlamento lavora su un’ipotesi di clemenza la redazione di IdeeLibere si adopera per informare i suoi lettori attraverso la voce dei detenuti e di un esponente politico di Alleanza Nazionale. di Luigi D’Onofrio
Quando Niccolò Tornabuoni introdusse in Italia la pianta del tabacco, nel corso del XVI secolo, non poteva immaginare che ai giorni nostri un quarto degli adulti fumatori soccombe a causa di patologie da fumo. Alla fine dell’Ottocento la moda della sigaretta prese definitivamente il via con la realizzazione di rivoluzionari macchinari che, avviando una massiccia produzione di sigarette, favorirono la crescita dei consumi a basso costo. Da allora la diffusione del fumo si è mossa in maniera esponenziale fino ad oggi, con le conseguenze ormai a tutti note. Soltanto verso la fine dello scorso millennio, si è accresciuta la conoscenza scientifica sui veri pericoli del fumo, con il conseguente oscuramento di un falso mito. Così, le opinioni orientate verso l’attenuazione dei dannosi effetti provocati dal tabacco sulla salute, oggi assumono non soltanto un rilievo antiscientifico, ma si configurano come banale tentativo di giustificare rischi di sproporzionate dimensioni. Da qualche tempo siamo adeguatamente informati anche nei riguardi di un altro perverso e subdolo pericolo, quello provocato dagli additivi immessi nelle sigarette per aumentare la dipendenza. Taluni di questi elementi sarebbero in grado di creare assuefazione ancor più della nicotina e delle altre droghe, quali eroina e cocaina. Recentemente, la portata delle iniziative contro il fumo si è sviluppata in maniera sempre più consistente e persuasiva, sia sotto l’aspetto della diffusione di messaggi che ne informano l’opinione pubblica sulle dannose conseguenze, sia sul versante normativo, attraverso divieti e sanzioni. Ancor più interessante, al di là dell’informazione mediatica e delle iniziative legislative, si presenta una decisa presa di coscienza della società verso il problema, percepito ormai anche in termini di molestia nei confronti di coloro che subiscono il fumo passivo. Buona parte degli stessi fumatori, mentre avverte una sorta di "ghettizzazione" legata alla più incisiva applicazione delle limitazioni e dei divieti introdotti, acquisisce maggior consapevolezza sui rischi correlati alla propria ed all’altrui salute. Coloro che fumano, in una società dalle prospettive di vita sensibilmente accresciute rispetto al passato, non possono oggi fare a meno di chiedersi se sia ancora opportuno procedere in controtendenza, con la previsione dell’assottigliamento delle aspettative della propria esistenza di circa 10 anni. Nel carcere, luogo ove il disagio acquista una connotazione del tutto particolare, il fumo viene ad assumere una portata considerevole; ciò nonostante, è pur sempre possibile allontanarsene. In tal senso, nel corso della detenzione possono essere sviluppate numerose iniziative nei confronti di coloro che avvertono l’esigenza di superare il rapporto forzato col fumo. Le Regioni ed il servizio Sanitario Nazionale, insieme alle strutture penitenziarie, hanno la possibilità di avviare iniziative ed aiuti adeguati per combattere tale dipendenza. Più specificatamente, il Sert, organo deputato contro le tossicodipendenze, già attivo negli istituti penitenziari, detiene competenze e risorse adeguate per sviluppare interventi contro il tabagismo nell’ambito dei luoghi di detenzione. Appare comunque necessario costituire, in seno a ciascun istituto, gruppi permanenti per la discussione e l’approfondimento delle tematiche relative al fumo, privilegiando il ricorso all’auto-aiuto. La guida ed il monitoraggio di sanitari e di professionisti qualificati assume, a tal fine, un ruolo fondamentale. Non può essere poi ignorato l’apporto di appropriate terapie farmacologiche nell’ambito dei programmi finalizzati al superamento della stessa indipendenza. Per i casi più difficili, relativi ai soggetti nei quali il tabagismo si presenta maggiormente radicato o correlato a particolari fattori di rischio, potrà rivelarsi ancor più efficace il ricorso ad interventi psicologici individuali associati, secondo le esigenze, a specifiche terapie. Metodologie, quali l’agopuntura e la pranoterapia, che in svariati casi si sono rivelate valide potrebbero essere adottate anche in ambito intramurario. L’assegnazione in una stanza o in una sezione per non fumatori costituisce un aspetto fondamentale per quanti vogliono interrompere il rapporto con la sigaretta, senza correre il rischio di ricadute che possano vanificare eventuali sacrifici sostenuti. La decisione assunta nei confronti del tabagismo dovrà essere costantemente sorretta con determinazione per superare positivamente le inevitabili conseguenze legate alla crisi d’astinenza.
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