Giornalismo dal carcere

 

Il Sestante - Giornale dalla Casa Circondariale di Vigevano

Anno 2, numero 3: novembre 2005 - gennaio 2006

 

Amnistia e indulto. È il solito teatrino

Regolamento interno, in attesa di approvazione

Genitori e figli: quale rapporto?

Rapporti tra detenuti e famiglia. Un’ora di colloquio: è come rinascere

Voglio costruire un’oasi nel mio cuore per accogliere chi ha più bisogno d’affetto

L’informazione dal carcere si mette in rete

Giornali carcerari: uno stimolo per media e politici

Settantadue gradini

La mia identità, solo un numero

Quando si riaprono le porte del carcere

Premio Letterario Nazionale "Emanuele Casalini": Francesco ha fatto il bis

Terra Promessa

Concorso "Giornali studenteschi – Scuola di giornalismo"

Amnistia e indulto. È il solito teatrino

 

Avevamo preparato l’articolo di fondo quando, appena prima di andare in stampa, è giunta la notizia che il Parlamento ha bocciato la proposta di legge su amnistia e indulto.

Il pezzo si intitolava "Amnistia. Ottimismo del cuore, pessimismo della ragione". È vero che più voci si erano levate nei giorni precedenti per invitare i politici a non suscitare vane speranze nei detenuti. Sarebbe bastato un sì o un no.

Anche il quorum dei due terzi, necessario per l’approvazione di qualunque provvedimento, era un severo richiamo a restare con i piedi per terra. Ma, si sa, la speranza si attacca anche al filo più tenue, resiste, non vuole arrendersi.

Alla fine è stato il voto congiunto di Alleanza Nazionale e Lega Nord da una parte, Democratici di Sinistra e Margherita dall’altra, ad affossare prima l’ipotesi di amnistia e poi quella di indulto.

Gli oppositori più accesi a qualunque tipo di provvedimento erano la Lega Nord e A.N., secondo le quali sarebbe più opportuno migliorare l’ambiente carcerario e costruire nuovi istituti penitenziari piuttosto che liberare dei detenuti, compromettendo il principio della certezza della pena, oltre alla sicurezza dei cittadini. Ma teniamo presente che l’amnistia avrebbe cancellato sì i reati, ma (in base alle ipotesi che circolavano) solo quelli punibili con una pena massima di quattro anni, commessi fino al primo giugno 2001. L’indulto, che è invece uno sconto di pena ma non estingue il reato, avrebbe cancellato due anni di reclusione per i condannati che avessero già espiato almeno un quarto della pena, ma non sarebbe stata applicata ai recidivi. Forza Italia e U.D.C. erano favorevoli a entrambi i provvedimenti, ma niente indulto senza amnistia. Su questa distinzione si basava la contrarietà dei DS e della Margherita all’amnistia, che avrebbe potuto sembrare un colpo di spugna, soprattutto in questo delicato momento di indagini su reati finanziari, e il loro parere favorevole all’indulto. Le altre forze dell’Unione erano favorevoli a tutti e due i provvedimenti.

Il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, all’indomani della bocciatura, si è definito "facile profeta" e ha affermato: "Non ci voleva tanto a capire che questo sarebbe stato l’esito, non si doveva essere un Einstein della politica. Ci sono stati troppi condizionamenti esterni e c’è chi ha giocato con la vicenda per interessi politici che poco avevano a che fare con il problema". Mentre il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha dichiarato: "Ancora una volta i detenuti sono stati illusi…".

Dopo alcuni mesi di silenzio, in cui l’argomento sembrava essere stato rimosso, si è tornati a parlare di amnistia e indulto. È accaduto in occasione del Natale e a un mese dallo scioglimento delle Camere per fine legislatura. E qui era sorta la prima domanda: perché aspettare gli ultimissimi giorni per discutere un provvedimento auspicato da tempo? Almeno dall’anno del Giubileo, quando Giovanni Paolo II aveva chiesto un atto di clemenza a favore della popolazione detenuta; richiesta ribadita, tra gli applausi dell’aula, nel 2002, in occasione della visita a Montecitorio.

A riaprire il dibattito era stato ancora una volta il leader radicale Marco Pannella che, dopo l’ennesimo sciopero della fame, aveva indetto una manifestazione per chiedere al parlamento di deliberare l’amnistia prima della fine della legislatura. La Marcia di Natale, svoltasi a Roma, aveva visto la partecipazione di numerosi esponenti politici di primo piano (Massimo D’Alema, Fausto Bertinotti, Emma Bonino, Luigi Manconi), rappresentanti di associazioni (don Mazzi, don Gallo), familiari dei detenuti e sostenitori della causa.

Entrambi i provvedimenti furono messi in opera quindici anni fa, per motivi gravi e precisi, oggi acutizzati dal sovraffollamento e da mille altri problemi, che incidono pesantemente sulle condizioni di vita delle persone recluse. Ma, in vista delle imminenti elezioni, ci eravamo chiesti se tutto quel parlare fosse soltanto un cinico gioco politico o se ci fosse qualche serio proposito di cambiamento. Sull’onda della mobilitazione della Marcia di Natale e a seguito di una raccolta di firme tra i parlamentari, il 27 dicembre scorso il presidente Casini aveva convocato una seduta straordinaria della Camera. Erano presenti circa 120 onorevoli, numero certamente esiguo, che aveva indignato molti, ma certo in periodo natalizio e tenendo conto del normale assenteismo dei nostri parlamentari. In quella sede non era stata presa alcuna decisione, ma erano state fatte solo dichiarazioni di principio ed era stata rinviata la patata bollente all’anno nuovo.

Ora i nostri interrogativi hanno avuto una risposta.

 

Serena e Lianka

 

Regolamento interno, in attesa di approvazione

 

La dott.ssa Antonella Tucci da otto anni lavora come vicedirettrice del carcere di Vigevano ed è alla sua prima nomina. Laureata in Giurisprudenza, è abilitata anche ad esercitare la professione di avvocato.

 

Sarebbe bene avere allo ingresso in carcere una persona preposta a spiegare i diritti e i doveri del detenuto e il regolamento interno. Si potrebbe pensare ad un gruppo di detenuti con una adeguata formazione incaricati di studiare un "vademecum" da distribuire ai nuovi giunti?

Diritti e doveri dei detenuti, procedure e modalità per sapersi muovere all’interno del carcere, sono spiegati nel Regolamento interno che la Direzione ha redatto e consegnato al Provveditorato Regionale per l’approvazione. Quando ci sarà restituito il testo approvato, sarà portato a conoscenza tramite affissione nelle sezioni. È questo l’unico testo adeguato allo scopo. I tempi burocratici purtroppo sono lunghi.

 

Su cosa si basa la "sintesi"? Quali sono i parametri di valutazione? Come mai i tempi sono così lunghi?

La sintesi viene elaborata da un’équipe formata da educatori, assistenti sociali, personale sanitario e della Polizia penitenziaria, che confrontano le loro informazioni, tenendo conto anche del comportamento della persona e delle attività a cui partecipa.

In Camera di Consiglio si arriva sempre con la sintesi completata per ciò che riguarda le competenze della Direzione di Vigevano. Essendo però sotto il Tribunale di Milano, ci possono essere ritardi dovuti alla mole di lavoro che esso deve sbrigare.

 

Perché i colloqui con gli educatori e assistenti sociali sono così rari? In altri Istituti sono figure molto più presenti…

A Vigevano sono previsti tre educatori e ce ne sono due. Se voi li vedete raramente è perché, per ogni persona reclusa, hanno un grosso lavoro d’ufficio da svolgere: telefonate, relazioni scritte, contatti con il pubblico.

 

A metà pena si dovrebbero ottenere i permessi e a due terzi l’affidamento in prova, come da Ordinamento penitenziario. Perché invece vengono negati, dicendo che si deve scontare fino alla fine il reato ostativo?

A due terzi della pena potrebbe andare in permesso anche chi ha un reato ostativo da scontare ma il permesso non è dovuto. Il Magistrato di sorveglianza, oltre alle informazioni ricevute dall’Istituto penitenziario, può avere anche informazioni di cui la Direzione è all’oscuro. Inoltre, leggendo la sentenza di condanna, si rende conto se la persona delinquiva saltuariamente o abitualmente, e si informa sulle modalità del compimento dell’azione criminosa. Anche il comportamento all’interno del carcere e la situazione all’esterno contano per ottenere o meno il permesso premio. Che non è fine a se stesso ma serve a prendere contatti lavorativi, a riallacciare rapporti familiari o ad accordarsi con istituti di accoglienza (comunità, case famiglia) per essere ospitati durante i permessi successivi.

 

È possibile incontrare il Magistrato di sorveglianza per avere delucidazioni, come incontrammo tempo fa il Magistrato dott. Fabris?

Il Magistrato, quando riceve almeno una decina di richieste di colloquio da parte dei detenuti di un Istituto, dovrebbe andare di persona per soddisfare la richiesta. Ogni colloquio è riservato e concerne il singolo caso. Ovviamente, sta a lui decidere se e quando sia opportuno muoversi in questo senso.

 

È vero che esiste in Lombardia la figura del "Garante" che dovrebbe tutelare i diritti dei detenuti? Come valuta questa nuova figura? La ritiene importante?

La figura del "Garante" è presente in Lombardia, a San Vittore, Opera, Bollate. È stata istituita dalla Provincia di Milano per tutelare i diritti dei detenuti. Il suo compito è quello di garantire, per ogni detenuto, prestazioni inerenti al diritto alla salute, all’affettività, alla qualità della vita, all’istruzione e formazione professionale, al lavoro. Nell’ottica dei principi di recupero e reintegrazione sociale, segnala agli organi competenti eventuali condizioni di rischio o danno dei quali venga a conoscenza. Il Garante riferisce al Presidente, alla Giunta, al Consiglio provinciale e alla Commissione consigliare. Annualmente presenta al Consiglio una relazione sul lavoro svolto.

La mia opinione? La difesa dei diritti delle persone ristrette, per legge, compete al Magistrato di Sorveglianza. Quindi, a rigore, non sarebbe necessario istituire una seconda figura. Comunque, benvenga, se può avere qualche utilità. Ma il problema è: a cosa serve evidenziare certe situazioni di degrado se la Direzione non dispone degli strumenti per porvi rimedio?

 

Elena e Lianka

 

Genitori e figli: quale rapporto?

 

L’articolo 27 della Costituzione viene disatteso in materia di rieducazione del condannato e di umanità della pena. Anche le famiglie sono penalizzate.

Quando si scrive un articolo di giornale, la prima regola da tenere presente è quella di non scriverlo in prima persona. Ma, a volte, ti trovi davanti a un pezzo dove ti accorgi che, se anche lo scrivessi in modo personale, non sviliresti affatto la regola, perché quello che scrivi riguarda migliaia di persone che vivono il tuo stesso stato d’animo e la tua stessa esperienza. Consapevole di tutto questo, affronterò il tema degli affetti del detenuto verso la propria famiglia.

L’art. 27 della Costituzione della Repubblica italiana recita: "La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra".

Inizio citando quest’articolo perché in alcuni punti, a mio avviso, è del tutto disatteso.

Si dice che le colpe dei genitori non devono ricadere sui figli, specialmente quando essi hanno uno o entrambi i genitori detenuti. Fior di psicologi e sociologi mettono la loro esperienza al servizio di sportelli comunali che si occupano di politiche sociali e cercano in qualche modo di sostenere il minore (la fascia più esposta) a vivere in modo non traumatico la detenzione del genitore. Ma, inevitabilmente, la notizia si diffonde e il bambino inizia a conoscere le prime forme di emarginazione nell’ambito scolastico e amicale, venendo spesso additato e ghettizzato dai compagni e, in alcuni casi, anche da qualche inetto docente. Poi, quando quell’unica volta a settimana ( e non succede a tutti) si reca in carcere a trovare il genitore, è costretto a subire ulteriori violenze psicologiche.

Durante il colloquio incontra il padre in una stanza squallida, con decine di altre persone sconosciute, senza che vi sia la minima intimità, il minimo senso di familiarità. E si trova davanti una persona che in una sola ora deve affrontare tutti i discorsi che un padre normale affronta nelle mille situazioni della quotidianità. Poi, l’ora vola via e ti accorgi che non sei riuscito a dire proprio niente a tuo figlio e che più passano gli anni, più quel bambino cresce, vedendoti come un estraneo o, nel migliore dei casi, avendo di te l’immagine che i racconti dei parenti gli trasmettono.

"La responsabilità penale è personale", quindi la privazione di essere genitore dovrebbe toccare solo il padre reo, invece in questo caso esiste anche la privazione di essere figlio. In aggiunta, "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Dopo che hai trascorso quindici anni di detenzione e ritrovi a casa (se mai ne hai una) una figlia che hai lasciato a cinque mesi, fai due conti e ti accorgi che in tutta la sua vita ti ha visto per la bellezza di 780 ore (incontrandola tutte le settimane) che equivalgono a ben 32 giorni consecutivi, cioè hai avuto a disposizione ben un mese e un giorno in tre lustri: il sogno di ogni padre! Nessuno si preoccupa se non hai sentito la sua prima parola, visto il suo primo passo, osservato crescere e perdere il suo primo dentino e se non sai quali siano i suoi gusti, le sue gioie, i suoi timori, cosa abbia provato il primo giorno di scuola o cosa sia accaduto nel suo animo incontrando il primo ragazzino che le ha fatto palpitare il cuore. Ma allora, come possono affermare che il trattamento che ti è stato riservato rispecchia il senso di umanità, che ti hanno riconsegnato alla società pienamente "rieducato", se nessuno ti ha dato la possibilità di imparare a essere padre?

Ma quello che incoraggia davvero, è sapere che esiste un Dio che dice: " I figli sono un dono che viene dal Signore; il frutto del grembo materno è un premio" (Salmo 127:3) e nessuno può toglierti una tale benedizione.

 

Francesco Dipasquale

 

Rapporti tra detenuti e famiglia. Un’ora di colloquio: è come rinascere

 

Dentro me sento delle forti emozioni. Penso alla mia famiglia, genitori, fratelli, ma soprattutto ai miei figli: Fabio e Flora,di 22 e 20 anni. Provo gioia e allo stesso tempo dolore. Gioia per avere una famiglia che con il proprio amore mi aiuta ad affrontare questa sofferta detenzione, dolore perché la sua lontananza mi fa soffrire e non avrei mai immaginato di provare questa angoscia. Qui vivo momenti di tristezza, la mia mente è sempre rivolta verso i miei figli, non mi interesso di quello che accade intorno a me. Quello che mi fa andare avanti è il coraggio che mi infondono con le loro parole, ogni volta che ho l’opportunità di vederli. Sono poche le volte che posso avere il colloquio, una volta al mese, ma quell’ora è come rinascere dentro me. Possiamo avere un contatto visivo, un abbraccio, la possibilità di tenerci per mano, loro riescono a trasmettermi positività e per me questo è vitale. La paura che mi ha sempre angosciata in questa detenzione era che il rapporto con i miei figli mutasse, avevo paura che la mia assenza li allontanasse da me. Paura infondata, perché questa esperienza ha rafforzato ancora di più questo nostro legame tra madre e figli. Per questo, a parte i momenti di malinconia, posso dire di vivere abbastanza serenamente. Non è che mi scrivono spesso, anche perché, conoscendoli, so che preferiscono parlarmi a voce. Mi rendono partecipe della loro vita, mi parlano con tanto entusiasmo dei loro progetti, quando sarò nuovamente una persona libera. Spesso, direi ogni giorno, i miei occhi guardano fuori dalla finestra di questa cella, guardano al di là di queste mura, al di là c’è la libertà, c’è il mio futuro, una nuova vita, ma soprattutto al di là ci sono loro, Fabio e Flora.

 

Cinzia

 

Voglio costruire un’oasi nel mio cuore per accogliere chi ha più bisogno d’affetto

 

Viviamo in un mondo in cui i valori più elementari insegnatici da generazioni, famiglia, affetti, amore, sembra siano stati messi da parte. Ebbene, in carcere, questi stessi valori, a causa del vuoto creato dalla loro mancanza, vengono riscoperti più che mai.

Qui la mancanza di affetti è molto sentita da chi, come me, ha il dono di un animo sensibile. Essa non riguarda solo il nucleo famigliare, ma ogni genere di affetto che si possa provare nei confronti di amici, parenti e, perché no, anche di animali. Sarà paradossale, penserete voi, paragonare l’affetto di un familiare a quello di un cane o un gatto, ma quello che io provavo nei confronti del mio cane credo che superi ogni immaginazione. Non a caso l’aggettivo "fedele" è abbinato proprio al cane e va di pari passo con l’affetto che esso sa donare incondizionatamente e che viene a mancare in questo luogo. Sradicando i sentimenti e gli affetti che fuori ti mantenevano viva, vieni lasciata in balia di te stessa e l’unica concessione è quella di poter vedere quattro volte al mese qualcuno dei tuoi cari per regalargli, durante una sola ora, un po’ di amore, d’affetto, o a volte anche di rabbia e di disperazione, delle quali farebbero volentieri a meno, ma che a te servono per poterti "ricaricare" anima e cuore fino al prossimo colloquio. Qui veramente impari a vivere sola con te stessa. A me spesso capita di riempire fogli bianchi con fiumi di parole rivolte a chi amo maggiormente, lettere che non invio mai, ma che mi aiutano a comunicare le emozioni che mi invadono in quel momento.

Per vivere lontano dagli affetti devi avere una grande forza d’animo, devi riuscire a controllare i tuoi sentimenti, usare il raziocinio e perfino l’indifferenza, per evitare di soffrire troppo.

Hanno alzato un muro di cemento dinanzi a noi, ma è il muro dell’ipocrisia, del potere e del menefreghismo che io lotto ogni giorno per abbattere, per lasciarmi trasportare ancora dal cuore, per condividere con chi, come me, è stato spogliato di tutto, attimi di solidale comprensione. Io cerco di costruire la mia piccola "oasi" dove portare chi ha più bisogno di affetto. Un’ "oasi" costruita in un angolo del mio cuore dove, chi vuole,può entrare accoccolandosi. Quest’affetto, che qui ci è quasi negato, dato solo a piccole dosi, quasi come una sorta di "punizione", quest’affetto però così vivo e presente, che io custodisco come il più prezioso dei tesori, lo restituirò, una volta libera, a chi mi ha sostenuta anche solo con piccoli gesti o con un sorriso, durante questo mio doloroso cammino.

 

Elena alias Petra

 

L’informazione dal carcere si mette in rete

 

La Federazione Nazionale dell’Informazione sul Carcere, nata a Bologna in novembre, ha lo scopo di produrre un’informazione corretta e puntuale, alternativa o complementare a quella dei media. Mette in rete varie realtà che operano da tempo in questo settore.

È nata la Federazione Nazionale dell’Informazione dal e sul carcere. L’atto di nascita è avvenuto il 24 novembre scorso, a Bologna, anche grazie alla collaborazione dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna. "Ristretti Orizzonti", la redazione del carcere di Padova, in qualità di capofila, ha messo attorno a un tavolo rappresentanti di varie realtà che, con strumenti diversi, giornali e siti internet, rubriche radiofoniche e televisive, pubblicazioni, fanno informazione sui temi della legalità e del disagio, del mondo penitenziario e del reinserimento sociale. Lo scopo - come si legge nello statuto approvato al termine dei lavori - è quello di "produrre un’informazione corretta, puntuale ed equilibrata, che possa essere alternativa – o complementare – a quella prodotta dai media generalisti".

Questo è solo l’ultimo atto di un percorso iniziato nell’ottobre 2004, quando a Roma si decise di dare vita a una "rete informale" tra chi, istituzione o volontario, opera in questo ambito. Nell’aprile successivo, a Firenze, un passo avanti, la decisione di costituire una federazione a livello nazionale, con tempi, scopi, strumenti precisati. Adesso la nascita dell’organismo, che ha in "Ristretti Orizzonti" la segreteria organizzativa e che si pone l’ambizioso obiettivo del riconoscimento da parte dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti e della Federazione Nazionale della Stampa.

Perché l’esigenza di creare un collegamento permanente tra realtà che operano in contesti anche molto diversi tra loro? La stampa e la televisione fanno spesso informazione a senso unico, poiché la tentazione del sensazionalismo e la scarsa attenzione per la realtà quotidiana (che, è noto, non fa notizia), finiscono per porre l’accento soprattutto sui casi più eclatanti (vedi caso Izzo o Sofri), dimenticando che la realtà carceraria è molto più complessa e trascende il caso singolo.

È emersa pertanto la necessità di consolidare l’esperienza nata un anno fa, chiarendo una serie di finalità da perseguire nel prossimo futuro: promuovere il rispetto della legalità all’interno degli istituti di pena; favorire e rafforzare le esperienze di informazione dal e sul carcere; coordinare campagne di informazione, denuncia politica e proposta legislativa; migliorare la qualità delle testate giornalistiche attraverso giornate di formazione e confronto tra operatori istituzionali e volontari; reperire risorse economiche per implementare queste attività. E ancora, favorire la registrazione delle pubblicazioni presso il Registro del Tribunale delle singole province, per garantire una maggiore autonomia nella gestione e diffusione dell’informazione.

Un ultimo punto che ha trovato gli operatori concordi è la necessità di "parlare" con la Direzione dell’Amministrazione Penitenziaria per la soluzione di problemi pratici (per esempio, l’applicazione dell’articolo 17 del Regolamento penitenziario in tema di accesso di persone esterne al carcere per attività rieducative) che vengono trattati in modo non omogeneo dalle varie direzioni carcerarie.

 

La Redazione

 

Anche "Il Sestante" ha aderito alla Federazione Nazionale dell’Informazione in quanto, attraverso il contatto e le sollecitazioni provenienti da realtà più avanzate e consolidate, spera di trovare stimoli e strumenti per migliorare la qualità della propria informazione. Naturalmente, può esistere solo se trova persone appassionate che, dall’interno o dall’esterno delle redazioni, lo sappiano nutrire con idee e argomenti sempre nuovi e di interesse comune.

 

Giornali carcerari: uno stimolo per media e politici

 

Appassionato dibattito tra i partecipanti alla giornata bolognese. L’approvazione dello statuto della Federazione Nazionale dell’Informazione dal carcere e sul carcere è stata il momento conclusivo di una giornata, svoltasi a Bologna il 24 novembre scorso, densa di dibattito e scambio di opinioni su cosa significhi operare in questo ambito. Ne sono emersi una realtà variegata, fatta di esperienze ben strutturate e altre di recente formazione, e molti interrogativi ancora senza risposta. Un mondo in fermento ed evoluzione, che può contare sulla dedizione di tanti operatori istituzionali e non, ma che si scontra anche quotidianamente con una miriade di non-sensi, rigidità, autoritarismi.

In apertura il Presidente dell’Ordine Giornalisti dell’Emilia Romagna, Gerardo Bombonato, nelle vesti di padrone di casa, ha sottolineato come, in materia penitenziaria, la Costituzione sia disattesa nella totale indifferenza della classe politica e dell’opinione pubblica. I problemi di cui soffre il sistema sono sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere. L’applicazione della cosiddetta ex Cirielli avrà "effetti devastanti" soprattutto sulle categorie più a disagio (rom, tossicodipendenti), che spesso cadono nella reiterazione del reato.

Come raccontare tutto questo, uscendo dagli stereotipi? "Occorre rafforzare la rete - ha detto Bombonato - tra le varie testate, anche quelle più fragili, e non essere autoreferenziali, arrivare cioè a incidere sulla mentalità della gente". Ornella Favero, responsabile e anima di "Ristretti Orizzonti", ha posto una serie di questioni che sono diventate oggetto di discussione: rapporto con la grande stampa e necessità di dare un’informazione corretta e talvolta scomoda; difficoltà, in alcuni casi, di verificare le fonti d’informazione; autonomia rispetto alla direzione del carcere e figura del direttore del giornale; tematiche da trattare o da evitare; necessità di autoformazione e di prendere posizioni comuni su alcune tematiche di grande impatto sociale; fonti di finanziamento.

Sergio Segio, ex leader di Prima Linea ora impegnato nel Gruppo Abele di don Ciotti, ha parlato della censura da parte degli organi di informazione nazionali. Pochi giorni prima, dai microfoni di Radio Radicale, è stata lanciata da Marco Pannella la proposta "amnistia per Natale", a cui hanno aderito, tra gli altri, il senatore DS Cesare Salvi e l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. La notizia è passata sotto silenzio. Ma la censura esiste anche come autocensura. Del carcere si dà generalmente l’immagine o di un luogo infernale, dove accadono violenze di ogni genere, o di una sorta di "parco-giochi" dove si svolgono attività ludico-ricreative a tutto spiano. "Invece" - ha detto Segio - "il carcere è soprattutto altro e non bisogna accontentarsi di mostrare solo le sezioni modello. Pertanto, il giornalismo da e sul carcere deve avere un ruolo di stimolo sia per i media sia per il mondo politico".

Sergio Cusani, ex imputato simbolo di Mani Pulite, ora esponente di spicco dell’Associazione Società INformazione, a proposito della scarsa sensibilità della classe politica sui temi relativi al carcere, ha detto di aver parlato pochi giorni prima con un’ "alta autorità dello stato"che non era neppure informata sul progetto di legge fermo in parlamento per l’istituzione della figura del garante dei diritti dei detenuti. Nel pomeriggio hanno preso la parola diversi esponenti di testate prodotte del tutto o in parte negli istituti penitenziari della penisola. Da "Carte bollate", del carcere a trattamento avanzato di Bollate, un’isola felice quanto ad attenzione alle attività trattamentali; a "Uomini liberi", il giornale del carcere di Lodi, negli ultimi tempi nella bufera perché pesantemente censurato dalla direzione; a "Ragazze fuori", il trimestrale della Casa a custodia attenuata femminile di Empoli, con una redazione tutta al femminile e interamente finanziato dal Comune. Dal confronto sono emerse mille differenze in termini di stabilità e professionalità delle redazioni, diffusione sul territorio, rapporti con le istituzioni e il volontariato, finanziamenti, qualità del "prodotto" offerto. Alcune costanti però non sono mancate: in primo luogo, la soluzione di uscire come inserti sui giornali cittadini o diocesani (adottata, per esempio, da "Sosta forzata" di Piacenza, "Opinione libera" di Monza e dallo stesso "Sestante") garantisce un’ampia diffusione sul territorio, con la possibilità di raggiungere un pubblico di lettori di tutto rispetto. Secondariamente, il pericolo sperimentato che la coincidenza tra direttore del giornale e direttore del carcere soffochi l’autonomia del giornale.

 

La redazione

 

Settantadue gradini

 

Una persona in detenzione è sottoposta a notevoli restrizioni: di spazio, di luogo e d’orario. La carcerazione è scandita da tempi precisi, movimenti ordinati e attività regolate. In questo complesso sistema di regole e di condotte, le cose che circondano il detenuto assumono valori particolari. Quello che ad un osservatore poco attento può sembrare inutile o banale, finisce per scandire tempi, azioni, stati d’animo. In questo articolo ci si vuole soffermare su ciò che una persona detenuta usa tutti i giorni: le scale.

Qualcuno ha inventato il detto: " La vita è fatta a scale, c’è chi le scende e chi le sale" intendendo soffermarsi sulla varietà della vita, che a volte innalza socialmente le persone e a volte le abbassa. Poi esiste la scala musicale, quella di valori e mille altre che servono per misurare qualcosa, ma la scala che davvero segna l’individuo ristretto è quella che si sale e si scende ogni giorno.

I nostri scalini, non li scendiamo quando usciamo di casa per recarci al lavoro, né li saliamo per fare ritorno al focolare domestico; i gradini che noi pestiamo sono pieni di racconti e trasudano umori diversi.

Settantadue sono i gradini che separano il nostro piano al terreno e questi tante volte vengono scesi con sensazioni contrastanti: in modo del tutto normale quando ti rechi al passeggio mattutino o pomeridiano, in modo allegro se vai al colloquio, con apprensione se diretto in qualche ufficio. Ma c’è un modo di scendere le scale che tutti aspettano, quello che ti mette le ali ai piedi e ti fa saltare i gradini a quattro a quattro: è quando li percorri per l’ultima volta, sapendo che non li salirai più perché libero.

Ma quando scendi l’ultima volta questi gradini, significa che c’è stata la prima volta che li hai saliti e chiunque affronta questo lo fa con l’animo di chi va incontro a qualcosa di ignoto.

Al primo ingresso e con il sacco degli indumenti sulla spalla, inizi la scalata che ti porterà al piano e già si instaura un rapporto di odio tra te e le scale che calpesti, perché più sali più significa che sei nei guai ( le sezioni ad alta sorveglianza, solitamente, stanno in alto) e associ ad ogni gradino il peso che si carica sulle tue spalle.

Poi, tutte le altre volte, in fila al ritorno dall’aria, formi con gli altri "cordate" di uomini stanchi. Le sali dopo aver camminato parecchio e ci si spinge moralmente l’un l’altro per affrontare l’ascesa.

Quante storie possono raccontare quei blocchi di granito! Storie di uomini che le scendono gioiendo e le salgono soffrendo. Storie allegre e storie tristi, ma sempre calpestati da chi vive con l’afflizione, da chi desidera un altro futuro e un’altra scala da calpestare, quella che in cima porta all’uscio di casa. Settantadue gradini da calpestare ogni giorno, settantadue gradini da voler presto scordare.

 

Francesco Dipasquale

 

La mia identità, solo un numero

 

La procedura del mio arresto, avvenuto a casa di mio figlio, è stata un po’atipica, in quanto i carabinieri gentilmente me ne hanno spiegato il motivo, permettendomi di bere il caffè e fumare una sigaretta seduta comodamente in giardino. Poi sono stata trasportata in caserma per rilevare le impronte digitali. Tutto questo in un clima tranquillo e sereno. Successivamente, ho raggiunto il carcere: in quel momento non avevo paura, ma ero piuttosto incuriosita e soprattutto mi sentivo ancora me stessa.

A quel punto, due agenti donne mi hanno prelevata e mi hanno portata in uno stanzino, cominciando a controllare le poche cose contenute nel borsone che avevo con me. Mi hanno preso le impronti digitali e mi hanno chiesto di togliermi la fede e l’orologio, poi di spogliarmi completamente. Sbigottita, rispondo "no" ma, inutile a dirlo, sono costretta a ubbidire. Dopo aver fatto delle flessioni, perché venga accertato che non nascondo nulla all’interno del mio corpo, posso rivestirmi: questa è stata un’esperienza psicologicamente invalidante e in quel momento ho incominciato a perdere la mia identità.

Di lì a poco mi hanno avvertita che il giorno successivo sarei stata trasferita presso il carcere di Vigevano. Così ho fatto anche l’esperienza del blindo. Mi hanno ammanettata, hanno attaccato le manette a una catena, sono salita sul furgone blindato e sono stata rinchiusa in uno spazio molto angusto. Sempre con le manette ho affrontato un viaggio di dieci ore. Durante questo tragitto la realtà si confondeva con l’assurdo. Gli agenti che avrebbero dovuto condurre me e gli altri detenuti in diverse carceri del Nord Italia sembravano persi in un labirinto senza uscita. L’autostrada era diventata un grande enigma e trovare la direzione esatta, una vera utopia. Continue sono state le soste, mille le telefonate ai diversi comandi, ma la retta via sembrava impossibile da trovare. Una volta giunti alla penultima tappa, dopo essermi resa conto che eravamo in una zona che conoscevo, sono stata io a indicare agli agenti la direzione per la mia definitiva collocazione. Sembra ironia, probabilmente un paradosso, ma io, proprio io, che ancora non sapevo bene né perché ero lì né cosa ci facessi, indicavo la strada della mia carcerazione.

Giunta a Vigevano, si è ripetuta la stessa trafila della volta precedente e, dopo alcuni giorni, mi è stato assegnato un numero di matricola da imparare a memoria: ora non sono più io, ma un numero. Gli agenti compiono solo il loro lavoro e non so se si rendono conto che queste violenze, che non lasciano segni sulla pelle ma ferite interne che non si rimargineranno più, ci stanno completamente privando della nostra identità. La notte mi sveglio e penso con terrore a quei momenti paragonandomi un po’ agli Ebrei, costretti a portare la stella di Davide sugli abiti e la matricola tatuata sul braccio. Pur se invisibile, anche noi la portiamo tatuata nell’anima.

 

Laura V.

 

Quando si riaprono le porte del carcere

 

Sono entrata per la seconda volta in questo istituto, conosco bene la situazione, il solo cambiamento è la scuola. Mi sono tornate alla mente cose che credevo dimenticate, le sensazioni e le immagini di un tempo, gli stessi odori, il rumore delle chiavi e quel vocio, come allora! Tutto irreale…

Ho lasciato i miei senza un saluto, un semplice "ciao", convinta che dopo qualche giorno sarei tornata, invece no… volevo farla finita, ecco cosa ho pensato! Mi sentivo così fragile ed avevo paura. Alcune compagne mi tranquillizzavano, ma la mia mente andava oltre... Ora sono qui da qualche mese, sono come in letargo, solo la mia mente è sveglissima perché sono una riflessiva, che valuta attentamente le situazioni.

Penso molto a casa, a mia figlia, alle mie sorelle, scrivo molto.Ho pianto anche, ma mai davanti alle mie compagne, è una cosa che non sopporto perché tutte hanno problemi e soffrono.

Certo i momenti brutti in carcere ci sono sempre, e se non trovi un modo per sfogare la tensione, la rabbia, l’impotenza perché sei chiusa, rischi di andare giù di testa, e diventare quello che in realtà non sei. Avevo un lavoro comunale, fisso, ora con la condanna definitiva l’ho perso.Ho una figlia, a cui mi lega un rapporto bellissimo, ora spezzato, forse. Quando ti si presenta il conto, la tua vita va a pezzi.

 

Iride

 

Premio Letterario Nazionale "Emanuele Casalini": Francesco ha fatto il bis

 

Francesco Di pasquale, recluso nel carcere di Vigevano, ha vinto il 1° premio per la seconda volta consecutiva. "Quando si sono accorti che il racconto scelto era ancora di Francesco – spiega Lucia Casalini, moglie di Emanuele e organizzatrice del premio letterario riservato ai detenuti delle carceri italiane – i membri della giuria si sono guardati in faccia interrogandosi, ma la decisione era presa, per di più all’unanimità". Non c’è stata discussione tra gli esperti, presieduti dallo scrittore Ernesto Ferrero, presidente del Salone del Libro di Torino, nel giudicare il racconto "Terra promessa", di Francesco Di pasquale, meritevole del primo premio per la sezione prosa. La cerimonia di premiazione si è svolta il 22 ottobre scorso presso il carcere delle Vallette a Torino.

Raccontando di una delle tante guerre che si consumano quotidianamente in Africa, di cui non sappiamo nulla perché non sono consacrate dalle riprese televisive, e del dramma dei tanti immigrati che cercano in Italia la "terra promessa" tra l’indifferenza o l’insofferenza di molti, Francesco Di pasquale ha saputo comporre un testo in cui – come recita la motivazione – "le immagini sono necessariamente crude, pur senza alcun compiacimento, ed il dramma così descritto, proprio perché non indulge alla facile emozione e al sentimentalismo, riesce a coinvolgere, con maggiore efficacia, i lettori".

Al momento di ricevere il premio (un assegno da 2.000 euro, una medaglia d’argento del Presidente della Repubblica, una pergamena) Di pasquale ha sottolineato che scrivere è un po’ come raccontarsi ed è quindi importante che si comunichi ad altri e specialmente a chi vive oltre il muro di cinta, che il detenuto non è solo colui che spende la sua vita coricato su una branda a guardare il televisore, lasciando così che il tempo gli passi addosso fino al giorno del ritorno nel mondo libero, ma è anche una persona con sentimenti, emozioni, voglia di vivere e di riscatto.

Al secondo e la terzo posto si sono classificati i racconti "La traduzione", di Filippo Romeo, e "Cronaca di un ingresso " di Giuseppe Frattaruolo.

Il primo racconta, in un linguaggio sobrio e descrittivo, le tante umiliazioni e le inutili sofferenze di cui è vittima un detenuto, per colpa spesso solo di un’applicazione miope del regolamento penitenziario, quando viene trasferito da un istituto a un altro. Il finale è dolorosamente polemico: i detenuti all’interno del cellulare sono come gli animali che vengono trasportati (al mattatoio) su un autotreno, solo che per questi ultimi ci sono gli animalisti che si indignano e protestano.

Il secondo racconta la storia paradossale di un recluso che decide di rinunciare agli arresti domiciliari per tornare in carcere e finire di scontare la sua pena. Non ce la fa più a vivere in quella sorta di limbo, di vita sospesa tra divieti e mezze libertà, ma anche questa impresa rischia di diventare impossibile.

La sezione poesia è stata vinta da Lorenzo Minarelli, autore di "Niente fuoco coi bambini", una filastrocca tutta impostata sul contrasto tra la giocosità della forma e la drammaticità del contenuto. Sull’eco della ballata di Fabrizio De Andrè, che cantava la storia del Michè, uccisosi in cella perché non poteva restare vent’anni lontano dalla sua bella, la composizione di Minarelli ci presenta uno che "del sistema giudiziario fu una vittima impotente", avviato apparentemente al pentimento e alla conversione, scoprì improvvisamente che la via più breve per uscire di galera non era una improbabile amnistia, bensì il suicidio.

Tra le poesie segnalate, quella composta da un altro recluso presso la Casa Circondariale di Vigevano e intitolata "Tachipirina universale", un’ironica e amara rappresentazione della sanità carceraria.

Il premio letterario, giunto alla quarta edizione, è organizzato dalla San Vincenzo dèPaoli di Piombino e dall’Università delle Tre Età di Porto Azzurro in ricordo di Emanuele Casalini, medaglia d’argento del Presidente della Repubblica, professore di letteratura italiana e consigliere comunale, che ebbe il merito di istituire, all’interno della Casa di Reclusione della cittadina elbana, una sezione dell’UNITRE.

Quest’anno sono giunti all’esame della giuria più di 350 scritti, molti dei quali privi di reale valore letterario, ma sicuramente testimonianza della voglia di raccontare e di raccontarsi di persone che spesso vivono nell’isolamento e nella solitudine e che hanno trovato nella scrittura, magari per la prima volta, lo strumento per uscire dal silenzio e dalla desolazione della condizione carceraria.

Durante la premiazione, animata dalla lettura di brani tratti dalle opere premiate, il direttore delle Vallette Pietro Buffa ha affermato che iniziative come queste sono "ponti lanciati verso la città", ma spesso purtroppo sono "ponti levatoi" che si alzano quando, la sera, cala il sipario e si torna in cella.

 

Elena Gorini

 

Terra Promessa

 

La prima volta che uccisi un uomo, lo feci per difendere mia sorella. Quel pomeriggio stavo tornando verso casa con le pecore; dalla collina vidi una jeep con quattro miliziani a bordo fermarsi davanti all’ingresso, scendere, entrare e un istante dopo sentii tre spari. Gettai il bastone con cui mi aiutavo durante il pascolo e corsi giù per la collina. Le gambe sembravano non toccare il suolo e il cuore voleva uscire dal petto tanto batteva forte, correvo, correvo e la distanza che mi separava da casa sembrava infinita.

La costruzione non era molto grande, aveva due camere per dormire, in una ci coricavamo io e i miei due fratelli, nell’altra mia madre e mia sorella. Era costruita in legno e tufo, come ogni casa di contadini; al posto delle finestre, aveva delle aperture, che permettevano la circolazione dell’aria e che si chiudevano con un telo fatto di cannucce e paglia intrecciata. Arrivai dalla parte posteriore e, dall’apertura che dava sulla camera di mia madre, vidi mio fratello giacere per terra in una pozza di sangue che si allargava sotto il suo capo. Sul giaciglio, un soldato si dimenava, emettendo respiri affannosi che si mischiavano al pianto di mia sorella: stava abusando del suo piccolo corpo di dodicenne mentre, dall’altra stanza giungevano risate e rumori.

Appoggiato alla parete, vedo il fucile del soldato, con un balzo sono dentro, imbraccio l’arma, indirizzando la canna verso la sua schiena, e premo il grilletto. La raffica investe l’uomo che cade al suolo senza vita. I suoi complici irrompono nella stanza, sparano a mia sorella e cercano di colpire anche me. Riesco a fuggire dalla finestra, corro più forte e più spaventato di prima; gli uomini continuano a sparare e sento il sibilo delle pallottole fischiare alle orecchie. Mi getto giù per il lato scosceso dell’altura e mi nascondo nel vecchio pozzo d’acqua essiccato. Respirando affannosamente mi inginocchio e inizio a vomitare. Passa del tempo, forse qualche ora, mi rendo conto di essere salvo, mi accascio esausto al suolo. È l’ultima cosa che ricordo.

Mi svegliai alle prime luci dell’alba e tornai a casa. I miliziani non c’erano più e con loro avevano portato via le tre pecore, le due galline e quel po’ di cibo che c’era in dispensa. Anche il corpo del violentatore non c’era più, invece mia sorella giaceva ancora sul letto, con la veste strappata e il corpo crivellato di colpi. La guardai, il cuore si stringeva, pensai a quando era nata, l’unica femmina, si chiamava Sali, che nella nostra lingua Krio significa "salva", ma quel nome non le aveva reso giustizia. La coprii istintivamente con una stuoia raccolta dal pavimento, mentre le lacrime mi offuscavano la vista. A terra, mio fratello Sedu era nella stessa posizione del giorno prima, un acre odore di sangue impregnava l’ambiente e le mie narici. Nell’altra stanza, mio fratello Bengali, la gola squarciata, tagliata da un colpo di machete e, poco lontano, mia madre, a terra, anche lei senza vita. Mi chiamo Jhakka, che vuol dire "piangere per un motivo", e tutto questo avvenne in Liberia quattro anni fa.

Passarono due settimane, non avevo seppellito nessuno della mia famiglia, ma avevo dato fuoco alla casa. Privo di tutto e con il cuore pieno di odio, mi arruolai con i ribelli. In quel tempo il mio paese era governato da un presidente despota: il soldo per i suoi mercenari sarebbe bastato per sfamare metà Liberia; invece aveva sprofondato il paese in una guerra tra poveri, combattuta sul fronte della fame, e le vite che i miliziani e la carestia risparmiavano erano preda dell’AIDS. A me non interessavano i motivi patriottici, unirmi ai ribelli significava vendicarmi, solo questo mi spingeva, la mia vita era bruciata insieme al rogo che aveva consumato la mia casa e, il futuro, per me, significava soltanto rimanere vivo un altro giorno.

Fratello Michele era un missionario italiano, viveva in una casa fatta di legno insieme a tre confratelli che lo aiutavano e una cinquantina di bambini. Da quando era arrivato, quattro anni prima, aveva percorso tutta la Liberia portando la parola di Dio nei villaggi sperduti. Era spinto da una sana fede e lo Spirito di Dio lo guidava nel suo peregrinare. Ben presto fu conosciuto e la sua fama di pastore dei corpi e delle anime si sparse in molti villaggi, non chiedeva denaro e aveva dimestichezza con la medicina. Fu per questa sua qualità di medico che le nostre strade s’incrociarono, quando i miei compagni mi portarono da lui dopo una battaglia contro i miliziani; il guaritore, a cui ci rivolgevamo solitamente, non aveva potuto fare nulla per me. Ero ferito e avevo perso molto sangue. Arrivai di notte alla missione, mi lasciarono davanti alla porta e dopo aver bussato andarono via. Fratello Michele mi portò dentro e iniziò a prendersi cura di me. Rimasi sei mesi con lui e quel piccolo uomo di Dio riuscì a guarirmi nel corpo e nello spirito. La sua opera di redenzione mi convinse ad abbandonare definitivamente le armi.

Una mattina all’alba, arrivarono i miliziani, entrarono e iniziarono a rovistare dovunque. I bambini urlavano, Michele e i suoi confratelli protestavano con il più alto in grado, ma per tutta risposta fu preso e caricato di forza sulla camionetta. Passarono due giorni senza avere alcuna notizia, poi, verso la sera del secondo giorno, una jeep si fermò davanti la missione e ne discese il pastore. Aveva il viso pallido ed era fisicamente provato, lo avevano interrogato per tutto il tempo, lo avevano falsamente accusato di simpatizzare per i ribelli e lo avevano liberato, minacciando una nuova visita. Capii in quel momento che la mia permanenza alla missione era terminata.

In quei giorni, la guerra civile aveva costretto migliaia di persone a fuggire dalla Liberia e il flusso umano carico di disperazione si riversava nell’unica strada costiera che conduceva in Costa D’Avorio. Dissi a Michele che sarei andato anch’io con i profughi, per uscire più facilmente dal paese. Fu in quell’ occasione che mi convinse a venire in Italia. Sapevamo entrambi che il viaggio da clandestino non sarebbe stato semplice, ma ormai non avevo più molta scelta: restare significava mettere in pericolo la missione e, del resto, ero troppo cambiato per tornare ad imbracciare le armi.

L’indomani mi alzai all’alba, preparai un fagotto con dentro il necessario, passai a rivedere per l’ultima volta i bambini senza svegliarli e andai nella camera dei conduttori. Fratello Michele era lì con i suoi confratelli, gli occhi lucidi, mi diede un rotolino di banconote, duemila dollari, tutto quello che era arrivato dalle offerte italiane; sapeva che in quel momento ne avevo più bisogno di lui per il viaggio. Ci abbracciammo, piansi in silenzio e ci promettemmo di rivederci in Italia. In quel momento non immaginavo quello a cui sarei andato incontro.

Chiunque avesse militato contro le milizie sapeva che, in caso di fuga, poteva recarsi in Costa D’Avorio dove, a Sassandra, avrebbe potuto prendere contatto con alcune persone che si occupavano d’emigrazione clandestina. Così feci anch’io. La mattina convenuta per la partenza, al mio contatto di Sassandra avrei dovuto versare la quota di cinquecento dollari; questo mi avrebbe permesso di pagarmi il trasporto fino a Filinguè, in Niger. Così accadde. Pagai e, insieme ad un altro sciagurato della Sierra Leone, fui caricato su un camion e nascosto dietro al carico regolare. Impiegammo quattro giorni per percorrere milleseicento chilometri e solo quattro volte i nostri trasportatori si fermarono per farci respirare e dissetare. Arrivati a Tera, in Niger, subito dopo il confine con il Burkina, fummo fatti scendere. Trasbordati su un carro trainato da un asino e affidati ad un’altra guida, attraversammo il fiume Niger, dove potemmo lavarci; l’odore che emanavamo doveva essere irrespirabile per l’uomo che ci guidava, a giudicare dalle sue espressioni di disgusto. A Filinguè fummo tenuti in una capanna malconcia e isolata dalla sera dell’arrivo fino al pomeriggio seguente; pagai cento dollari per un pane rancido, un pezzo di formaggio di pecora e una ghirba d’acqua.

Verso sera, giunse un uomo che ci invitò a spogliarci, temevo che volesse derubarci, ma così non era; aprì un sacco di iuta, tirò fuori due tonache e ci fece capire di indossarle. Mi cambiai velocemente sotto il suo sguardo e quello del mio compagno di viaggio. Quella che avevo indosso era una veste che lui chiamava "silham", ci diede anche un turbante per coprirci il capo. Avrei scoperto in seguito che erano gli abiti più adatti per attraversare il deserto. Finito di vestirci, uscimmo da quel tugurio e quell’uomo ci guidò da un gruppo di cammellieri. Sarebbero stati i nostri conduttori fino in Libia. Il prezzo pattuito era seicento dollari e non impiegai molto a farmi convincere. La mattina seguente ci apprestammo a partire. Notai con stupore che facevo parte di una carovana di uomini che viaggiavano per il deserto commerciando dromedari. Viaggiammo per quaranta giorni attraverso il mare di sabbia, seguimmo la via delle carovane e sostammo parecchie volte per ripararci dai venti che a volte sollevavano la rena, formando un muro invalicabile. Mangiavo quello che mi davano e bevevo dalla mia ghirba senza altro chiedere. Arrivati finalmente a Dhara, con grande stupore vidi che mi stavano aspettando. Il mio nuovo custode mi caricò su un furgone e mi portò in una grotta che dava sul mare vicino a Sidra, in Libia. Quando arrivai, mi accorsi di non essere solo; in quell’antro tenebroso vi erano altre persone che stavano lì da qualche giorno: egiziani, etiopi e qualche iracheno, in tutto una settantina di persone, tra cui due donne e un bambino ancora in fasce, erano i miei nuovi compagni di viaggio. La partenza fu programmata per la notte seguente. Ad uno ad uno fummo perquisiti e il denaro e ogni cosa, anche di poco valore, ci furono portati via. All’ora convenuta ci recammo in spiaggia, era una notte di luna piena e sentimmo il rumore di una barca che si avvicinava. Due erano le persone che ci spingevano in acqua verso il barcone e altri due ci aiutavano a salire. Ci diedero una bottiglia d’acqua a testa, dicevano che bastava per tutto il viaggio e, appena saliti, zuppi e stanchi, partimmo alla volta delle coste italiane. Per ordine del capitano bisognava stare sottocoperta e in silenzio, ne valeva della stessa nostra vita; il suo aiutante aveva una pistola, che non disdegnava di mostrare ogni tanto, ma per essere più sicuro, mise un paletto allo sportello che conduceva nella stiva. Come topi stretti nella tana, ci accalcavamo l’uno addosso all’altro, rubandoci affannosamente la poca aria che entrava dalle fessure, mentre "Caronte" e i suoi uomini ogni tanto ridevano sguaiatamente. Il viaggio sembrava non finire mai e già al secondo giorno alcuni di noi stavano male. Quel rottame avanzava a fatica tra le onde, spinto da un motore che ogni tanto si spegneva e, ondeggiando sull’acqua, il mare diventava sempre più vasto. Sottocoperta un odore nauseabondo avvolgeva tutti noi; ogni tanto, a turno, ci veniva permesso di salire per espletare i bisogni, ma non tutti riuscivano a trattenerli fino a quel momento e, inevitabilmente, i vestiti diventavano latrine, ma la priorità era sopravvivere. Il primo passeggero lo trovammo morto il quarto giorno: la calura e la mancanza d’acqua lo avevano sopraffatto. Fummo incaricati io e un egiziano, sotto la minaccia della pistola, di gettarlo in acqua. L’equipaggio non soffriva la sete, aveva la sua scorta d’acqua e ne diede solo una bottiglia alla donna madre del bambino, che gliela chiedeva implorando. Non lo fece per carità, lei doveva pagarla ma, non avendo denaro, per amore del figlio, fu costretta a versare un prezzo più salato. Il quinto giorno il motore si ruppe definitivamente, le forze erano ormai allo stremo e, in balia della corrente, morì anche il lattante. Altre quattro persone lo seguirono di lì a poco e lo spazio sulla barca aumentava per quella macabra selezione. L’egiziano che mi aiutava a gettare i corpi nell’acqua si appoggiò alla mia spalla e morì anche lui, ma non c’era più nessuno che lo potesse gettare fuoribordo, ero senza energie e anche l’equipaggio era sparito. Solo all’arrivo seppi che era scappato imbarcato da complici.

Quando vidi la luce della vedetta costiera, credevo di essere arrivato in paradiso. I guardacoste salirono a bordo e iniziarono a darci da bere, bevevo e piangevo, e non mi sembrava vero. Fummo trainati fino al porto, era ormai giorno, una meravigliosa mattina d’estate. La brezza che giungeva da terra era carica di mille profumi, tra cui spiccava l’intenso odore del gelsomino. Sulla costa, case colorate riflettevano la propria immagine nell’acqua mossa da onde leggere e rumori lontani richiamavano alla mente il vociare di bambini che giocano. Quello che stavo gustando era il sapore della libertà. Questa era la "mia" terra promessa, gli abitanti locali la chiamano "Sicilia". Allo sbarco erano presenti tante persone, qualcuno ci aiutava e qualcun altro c’ingiuriava, bollandoci come terroristi e dicendoci di ritornare al nostro paese.

Poi il centro d’accoglienza. Oggi mi trovo qua a chiedere asilo. Ho appena compiuto diciotto anni e il regalo che desidero è poter vivere il resto della vita in questo paese.

Jhakka venne rimandato in Liberia poiché quella nazione risultava pacificata. Il mondo aveva sotto gli occhi gli orrori iracheni, gli attentati, i Kamikaze, le decapitazioni degli ostaggi sequestrati e non c’era spazio per una nazione dimenticata. Quella liberiana, per tutti, era una tragedia minore.

 

Francesco Dipasquale

 

Concorso "Giornali studenteschi – Scuola di giornalismo"

 

Anche il Sestante premiato

 

Un premio speciale della giuria di 500 euro, più un attestato di partecipazione, è stato il riconoscimento attribuito al nostro giornale per aver partecipato la primavera scorsa al concorso "Giornali studenteschi-Scuola di giornalismo", promosso dalla Cariparma e Piacenza in collaborazione con il giornale "l’informatore". La premiazione è avvenuta il 28 ottobre scorso, in occasione della Giornata mondiale del risparmio, presso la sede dell’istituto di credito. Erano presenti il sindaco Ambrogio Cotta Ramusino, in qualità di primo cittadino e preside di un istituto superiore, il direttore del bisettimanale Carlo Vella, alcuni dirigenti della banca, oltre ai ragazzi che componevano le altre redazioni premiate. Il primo premio assoluto è andato a "Inchiostriamoci" del liceo "Cairoli"; il premio per i migliori contenuti a "La Voce del Casale", mentre quello per la migliore veste grafica a "Creme Caramuel", l’istituto tecnico industriale cittadino.

La giuria ha ritenuto di conferire un premio speciale al "Sestante", per riconoscere il ruolo che può svolgere una pubblicazione interamente realizzata in carcere nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle tematiche della legalità, prevenzione della devianza, recupero alla società civile.

Un segno tangibile dell’attenzione per questa esperienza è stata la richiesta fatta a Elena Gorini, responsabile del giornale, di spiegare ai presenti cosa significhi coordinare una redazione che lavora oltre le sbarre. "Ogni iniziativa che si concretizza è un piccolo miracolo – ha detto – perché le rigidità della struttura sono tante. Eppure non bisogna adagiarsi e lasciarsi andare all’immobilismo. I redattori non potevano andare sul campo a fare interviste e scattare foto, né navigare in internet, ma la dedizione, la voglia di fare, l’entusiasmo hanno compensato lo svantaggio iniziale. Un premio come questo saprà motivarli e dare loro un po’ di carica".

Giuliana Cazzaniga, insegnante e volontaria, ha chiesto l’aiuto dei vigevanesi nel soddisfare i legittimi bisogni di persone "in cui c’è una voglia di apprendere mai vista". Ha anche sottolineato lo strano rapporto dei detenuti con il tempo, che "passa loro accanto, nelle scadenze e ricorrenze della vita, senza che riescano ad afferrarlo". Nel corso della cerimonia, gli organizzatori hanno lanciato la prossima edizione del concorso, che verrà meglio definita nei prossimi mesi.

 

La redazione

 

 

Precedente Home Su Successiva