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Il Sestante - Giornale dalla Casa Circondariale di Vigevano Anno 3 - numero uscito il mese di settembre 2006
Sergio Segio: serve un "Piano Marshall" per le carceri
Parla Sergio Segio, ex leader di Prima Linea, ora giornalista, direttore dell’Associazione Società inFormazione, impegnato nel Gruppo Abele di don Luigi Ciotti. Oggi il carcere è ridotto a mero contenitore di tutti i disagi sociali, sovraffollato di tossicodipendenti, immigrati, malati fisici e psichici. Non assolve minimamente alla funzione che gli è deputata dalla Costituzione: la rieducazione dei detenuti. Non è in grado di fare prevenzione, quindi di produrre "sicurezza sociale", anzi aggrava la condizione di marginalità ed esclusione delle persone che vi finiscono.
Cosa chiedi al governo di centro sinistra in tema di politica sociale e penitenziaria? Di abbandonare l’illusione repressiva, ovvero l’idea che la risposta privilegiata a ogni disagio e conflitto sociale debba essere quella del carcere. Come dimostra l’esperienza di chi questa strada per primo ha perseguito, vale a dire gli USA, è una strada che alimenta solo il business economico dell’edilizia penitenziaria e della privatizzazione dell’esecuzione penale, non certo la sicurezza dei cittadini o la diminuzione del crimine. Dall’inizio degli anni Novanta, quando si è affermata la filosofia della "tolleranza zero", gli USA hanno visto una crescita esponenziale della detenzione, che oggi li porta al vertice mondiale, con oltre 2 milioni di reclusi e circa 5 milioni in libertà vigilata (oltre ad altri 5 milioni di ex detenuti, privati di qualsiasi diritto). L’Italia ha visto e sta vedendo una parabola analoga: siamo arrivati ad avere quasi 200.000 persone sottoposte a misure penali, mentre erano poco più di 30.000 all’inizio degli anni Novanta. In un convegno a Roma di qualche tempo fa, ho sentito il direttore dell’Ufficio Detenuti del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Sebastiano Ardita, affermare una palese verità, quando ha raccontato: «Sono arrivato al DAP pensando di trovare il carcere pieno di criminali, l’ho trovato invece pieno di poveri». Questa è la realtà. Il carcere è diventato il sostituto delle politiche sociali. Farvi fronte con concretezza, per il governo, significa esattamente invertire la situazione e la tendenza: tornare a trattare le questioni sociali (quali sono l’immigrazione, le droghe, le povertà) non con la galera ma con gli strumenti del welfare, dei servizi territoriali, della prevenzione e anche dell’educazione.
Quali sono i provvedimenti più urgenti? Da attuare subito per decongestionare la situazione delle carceri? Quelli stessi che proposi (con Sergio Cusani, quando nel 2000 costituimmo un "cartello" di forze sociali) ormai molti anni fa: amnistia-indulto e un piccolo "Piano Marshall" per le carceri, cioè un piano straordinario di sostegno al reinserimento sociale e lavorativo per quanti escono dal carcere, attraverso la formazione e borse lavoro, l’attivazione delle reti del volontariato e dell’associazionismo. Ma anche, e preliminarmente, attraverso una nuova e radicalmente diversa attenzione delle istituzioni centrali e locali, per sostenere e finanziare questo Piano. Che non sarebbe un aggravio. Basti pensare che il carcere attuale ha un costo enorme, umano ed economico, per giunta a fondo perduto: secondo i dati ufficiali, il costo medio per detenuto nel 2004 è stato di 131,67 euro al giorno, di cui però solo 19 euro vengono effettivamente impiegati per servizi diretti alla persona reclusa, mentre la restante parte va per i costi del personale. Dei 19 euro, circa 4 sono impiegati per garantire il presidio medico e infermieristico; solo 50 centesimi sono spesi per la diagnosi e cura delle malattie e per i medicinali; il costo del vitto è di soli 3,02 euro. Il Piano sarebbe un investimento per garantire, allo stesso tempo, sicurezza ai cittadini, interruzione della spirale della recidiva e concrete opportunità per i detenuti.
Cosa condividi della politica attuata nella scorsa legislatura? In materia di carcere e giustizia la legislatura che si è appena conclusa è stata decisamente negativa. Lo dicono i fatti e le cifre. Record storico di sovraffollamento e penalizzazione (superata la soglia dei 60.000 reclusi, cui ne vanno sommati circa 50.000 in misura alternativa e almeno 70.000 già condannati e in attesa di esecuzione della pena, ai sensi della legge Simeoni-Saraceni), di morti (dal 2001 al 2005 sono stati 776, di cui 287 per suicidio e molti per carenza di cure), di proteste (solo nel corso del 2004 nelle carceri vi sono state 330 manifestazioni di protesta collettive, di cui 149 avevano a motivo la richiesta di amnistia e indulto e 125 denunciavano le precarie condizioni di vita negli istituti, cui hanno partecipato 49.444 detenuti). Sempre nel 2004 vi sono state 16.121 manifestazioni di protesta non collettive, tagli alla spesa sanitaria e ai fondi per il lavoro penitenziario.
Quali i punti su cui sei più critico? Probabilmente l’aspetto legislativo. Perché se è vero che la tragicità della situazione non è imputabile solo a chi ha governato negli ultimi anni, perché la disattenzione, l’incuria, la logica della "tolleranza zero", la carenza di politiche sociali, di prevenzione e di servizi sul territorio vengono da lontano e vedono responsabilità politiche a 360° gradi, è anche vero che negli anni più recenti si è assistito in materia a politiche sistematiche di "doppio binario", vale a dire di una giustizia rigorosa e inflessibile con i più deboli e decisamente accomodante verso i potenti. Basti guardare alle leggi approvate (ad esempio: legge ex Cirielli sulla recidiva, legge sulla legittima difesa, legge Fini-Giovanardi sulle droghe, legge Bossi-Fini sull’immigrazione) o quelle già in vigore ma lasciate inapplicate (ad esempio: il regolamento penitenziario del 2000, la legge sulle detenute madri, quella sugli incentivi per il lavoro, quella sulla scarcerazione dei malati gravi, quella sul trasferimento della sanità penitenziaria alle Regioni).
Come giudichi i programmi dei due schieramenti politici? Quello del centrodestra insiste solo sul conflitto con la magistratura e i suoi poteri, per la verità non sempre infondato, poiché nel processo vi è effettivo disequilibrio tra accusa e difesa e vi sono probabilmente degli eccessi nelle attività di investigazione. Basti sapere che nel 2005 sono stati spesi ben 302 milioni di euro in intercettazioni, quasi il doppio rispetto al 2001, quando erano stati spesi 165 milioni; ma disequilibrio vi è anche nella corretta e costituzionale attribuzione di prerogative tra poteri e funzioni dello Stato: una eredità della cultura dell’emergenza, inaugurata negli anni Settanta. Quello del centrosinistra contempla qualche sforzo maggiore per tentare di affrontare il disastro carcerario (ad esempio, la previsione di favorire la cura delle tossicodipendenze fuori dal carcere), anche se le affermazioni contenute nel programma sono del tutto generiche e indice di una scarsa riflessione e di una incomprensione di fondo di quanto sia necessaria una svolta radicale rispetto alle politiche sin qui seguite, anche dai governi del centrosinistra alla fine degli anni Novanta. Vengono addirittura abbandonate battaglie simboliche importanti, come quella dell’abolizione dell’ergastolo, che in passato avevano sempre trovato posto nelle proposte e nella cultura del centrosinistra.
Il Magistrato: sì all’articolo 21, ma il territorio deve fare la sua parte
Quando si dice Magistrato di Sorveglianza ci si immagina un austero uomo di legge di una certa età. Invece Manuela Casella, in servizio da circa quattro mesi presso il Tribunale di Sorveglianza di Pavia, oltre ad essere donna e giovane, non ispira per niente un’idea di severità. Ci fa accomodare nel suo studio, la sottoscritta, la professoressa Luisa Mirabelli e Franco Vanzati, sindacalista della Camera del Lavoro di Pavia, e ci mette subito a nostro agio, mentre noi dichiariamo che è la prima volta che riusciamo ad avere un contatto con una carica così alta dell’Amministrazione della Giustizia. Quando frequentiamo i corsi di aggiornamento ci viene detto in tutte le salse che bisogna fare rete, dialogare, instaurare relazioni, ma poi sappiamo bene quanto sia difficile trovare interlocutori che abbiano il tempo e la vvoglia di interagire con noi. Con la dottoressa Casella sembra proprio che questa rete si possa fare e la discussione si snoda in modo spontaneo. Il Magistrato di sorveglianza crede nei percorsi di socializzazione dei detenuti, ma all’esterno serve un tessuto sociale e lavorativo in grado di accogliere chi esce dal carcere. La dottoressa Manuela Casella afferma di non conoscere ancora la realtà del territorio lomellino in quanto il suo incarico è molto recente. Ha conosciuto però il tessuto sociale di Cuneo, da cui proviene dopo aver maturato un’esperienza decennale, dove "c’e collaborazione tra istituzioni e volontariato per rendere possibili quei percorsi di risocializzazione dei detenuti che, dati alla mano, possono ridurre i margini di recidiva". E lei crede fermamente che questa sia la strada giusta da battere. "Sono favorevole alla concessione all’articolo 21 (misura di esecuzione penale esterna che prevede il lavoro durante il giorno e il ritorno in cella alla sera) - spiega - purché, naturalmente, ci siano le condizioni previste dalla legge e con le dovute cautele". A Vigevano sono stati attivati diversi articoli 21 intramurari ( per cui il recluso lavora e gode di una certa libertà di movimento ma non può oltrepassare il cancello di cinta) ma uno solo, di recente, extramurario. La decisione è stata presa dal Direttore ed avallata dal Magistrato. Così un muro è stato abbattuto. Ma quali sono le condizioni di cui si parla? Spesso i detenuti ritengono immotivati i rigetti alle loro domande e arbitraria la decisione dell’autorità giudiziaria, ma i fattori di cui si tiene conto sono molteplici. "Prima di tutto - afferma Casella - che il ristretto sia nei termini previsti dalla legge per ottenere il beneficio, poi la gravità del reato commesso e la maturazione di un percorso di ripensamento critico del proprio vissuto, con la presa d’atto degli errori compiuti. Si guarda inoltre che non abbia altri carichi pendenti e si valuta la sua partecipazione alle attività trattamentali (formative, sportive , culturali); infine, l’esistenza all’esterno di un contesto familiare e lavorativo favorevole in grado di accoglierlo". Solo in presenza di questi elementi il magistrato decide per il sì, ma è sempre una decisione sofferta in cui talvolta un semplice dettaglio fa la differenza. Del resto, sono sotto gli occhi di tutti alcuni casi eclatanti in cui a compiere reati anche efferati sono stati detenuti in misura alternativa o in permesso premio. Con il relativo contraccolpo a livello di opinione pubblica e di forze politiche. " La vera sfida - continua Casella - sono la formazione e il lavoro". In carcere si tengono corsi di istruzione e formazione professionale (malgrado i forti tagli degli ultimi anni) ma spesso la loro utilità pratica è limitata o nulla in quanto non si tiene conto dei possibili sbocchi sul mercato del lavoro. In alcuni istituti i detenuti fanno lavori di nicchia, come gli scalpellini di Opera, che fabbricano i pezzi per la fabbrica del duomo, ma sono luminose eccezioni. In certe zone esistono cooperative sociali di tipo B che danno lavoro alle categorie deboli, tra cui detenuti ed ex detenuti; altrove sono gli stessi enti locali a dare in appalto alle cooperative una quota di lavori pubblici (manutenzione delle strade, del verde, recupero di aree dimesse etc.). A Milano Agesol, Agenzia di Solidarietà presieduta da don Virginio Colmegna, ha collocato in pochi anni circa 600 detenuti, disponendo anche di professionisti che accompagnano la persona nei primi passi all’esterno. Il tessuto imprenditoriale e le istituzioni locali - conclude il Magistrato - sono chiamati a prendere atto del problema e a contribuire a dare risposte adeguate. Solo così il territorio può crescere sia socialmente che culturalmente".
Emozioni perdute
La testimonianza di una madre che ha rivisto i propri figli dopo oltre tre anni di lontananza e li ha trovati più adulti e consapevoli. Ma i sensi di colpa sono forti e vivo è il rimpianto per ciò che la vita non restituirà più. Credo che esprimere sulla carta i sentimenti e le sofferenze causati dalla lontananza dei propri figli non sia cosa facile, forse perché il dolore è per me indescrivibile e provarlo sulla propria pelle non è mai come cercare di esprimerlo. Tutto ebbe inizio quel maledetto 13 maggio 2002 quando, atterrando dal volo "Copa - 438", mi ritrovai in un ufficio della dogana cubana in stato d’arresto. Non caddi nella disperazione immediata forse perché, ancor prima che succedesse, un presentimento dentro di me mi aveva già reso consapevole del mio destino. Io, madre di famiglia, con una vita normale, stavo per toccare il fondo. Dopo cinque mesi di detenzione, in cui quotidianamente pensavo ai miei figli e all’idea che potevano essersi fatta di me, finalmente ricevetti una lettera. Bastò una frase a farmi capire che potevo ancora contare sul loro amore: "Mamma, non preoccuparti, noi stiamo bene, ti perdoneremo perché capiamo il motivo per cui lo hai fatto". Era mio figlio, allora sedicenne, mentre mia figlia di appena dieci anni non sapeva quello che mi era successo. Ho vissuto ogni singolo giorno di carcerazione con il desiderio di parlare con loro, ogni singolo giorno mi odiavo per essere lontana da loro, per non essergli accanto, privandoli così del mio amore, del mio sostegno, della mia amicizia. Finalmente, nell’ottobre 2004, parlai con mia figlia, che era stata messa al corrente dell’accaduto. Non fu facile ma fui forte, non volevo causarle altro dolore con i miei pianti, stava già soffrendo abbastanza per colpa mia. Quello che mi rassicurava era la presenza perenne di mio figlio accanto a lei. Sono stata estradata in Italia il 18 gennaio 2005. Ho visto mio figlio, ora diciannovenne, dopo sei mesi dal mio arrivo; quasi non lo riconoscevo perché nella mia mente era ancora impresso quel viso da ragazzino mentre ora di fronte a me c’era quasi un uomo. Mia figlia, invece, l’ho vista il 28 dicembre successivo. Non sapevo che sarebbe venuta, quindi potete immaginarvi l’emozione che ho provato varcando quella porta e ritrovando quel volto sempre dolce in una ragazza ormai più alta di me. Stavolta non ce l’ho fatta, le lacrime sono uscite da sole per la felicità! Mio figlio ci guardava entrambe e nei suoi occhi leggevo la gioia che lui vedeva nei nostri, però al tempo stesso un grande vuoto e un senso di impotenza mi attanagliavano lo stomaco. Dopo tre anni e otto mesi di lontananza, tutte quelle sensazioni e sensi di colpa si erano materializzati guardandola negli occhi, sentendo il tocco delle sue dita, poiché le avevo tolto la cosa più importante: sua madre! Di tutta questa storia ciò che è più duro da sopportare non è l’essere rinchiusa e il dover vivere in un mondo fuori dal mondo, ma il rimpianto di non poter essere partecipe della vita quotidiana dei miei figli; la consapevolezza che le emozioni perdute non torneranno più.
Mariangela
Donne senza maschera Teatro: vita vissuta e recitata tra comico e grottesco
Donne colorate, piene di sfaccettature, multietniche, nelle quali tante si possono riconoscere. Donne recluse ma con estro, creatività e fantasia da vendere. Al teatro del carcere il 10 giugno si portato in scena, per iniziativa del CTP della Scuola Media "Bramante", un laboratorio teatrale con la regia di Marino Spadini. "Frammenti di vita capitolata", questo il titolo dello spettacolo che ha rappresentato molteplici situazioni della vita di tutti i giorni. Si è voluto dare voce e forma a ciò che si vive in carcere, dal tempo scandito da regole, sempre uguale, ai lati "buffi"della quotidianità. Difficile capire dove finiva la vita vera e dove cominciava il palcoscenico. Un palcoscenico senza scenografia, volutamente scarno, solo tredici sedie, ognuna a rappresentare una detenuta. Il quotidiano in carcere, così essenziale, privo di tutto, dove le "attrici" hanno toccato varie tematiche: diffidenza, nostalgia, timidezza, solidarietà, femminilità, sessualità. Dove ognuna si è cimentata nel ballo, nella gestualità, nella comicità e nel grottesco. Tutto ciò per descrivere il duro percorso che porta dalla carcerazione al sogno della libertà, che un giorno sarà realtà. Dietro le quinte la tensione si poteva tagliare con il coltello, a differenza dei giorni precedenti, quando si viveva un clima disteso e ridanciano. Prima dello spettacolo noi tutte eravamo in un quasi religioso silenzio, attente, chi ripassava il copione, chi si truccava, chi fumava di nascosto in bagno per stemperare lo stress della "prima"! Tutte indaffarate a pettinarci, profumarci, aggiustarci alla meglio, come fossimo pronte ad andare ad un gran galà. Il nostro insegnante e amico Marino era più emozionato di noi e, nonostante cercasse di infonderci tranquillità, nei suoi occhi si leggeva la preoccupazione che non filasse tutto per il meglio. Ha dato cuore ed anima per il suo spettacolo e quello che mi ha stupita di più è che con serenità e decisione è riuscito ad estrapolare il meglio da ognuna di noi. Il teatro era pieno di personalità, direttore, sindaco, professori dei vari corsi, comandante, ispettori, ma io credo che ognuna di noi recitasse per un suo "pubblico particolare", i parenti o le amiche seduti in sala. La direzione del carcere, con grande sensibilità, ci ha dato il tempo per poterci preparare, la doccia, il parrucchiere; senza il suo appoggio e la fiducia accordataci, non si sarebbe potuto realizzare un progetto così ambizioso in un ambiente come questo. È stata una giornata diversa, irripetibile, nella quale abbiamo dato sfogo alle nostre emozioni più recondite e spaziato con la fantasia, sentendoci per un giorno libere nella mente e nel cuore. Protagoniste della nostra vita attraverso la magia del teatro.
Elena alias Petra
Niente sesso, siamo detenute Affetti negati, vane fantasie, sogni di vita futura
Tutti conosciamo il detto "niente sesso, siamo Inglesi"; per me sarebbe più appropriato dire "niente sesso, siamo detenute!". L’argomento "sessualità" dovrebbe essere trattato con estrema semplicità e chiarezza, evitando i tabù, retaggio di stili educativi d’altri tempi. Ma nel contesto carcerario diventa difficile parlare di questa tematica così delicata, in quanto qui ogni forma di affetto è negata. Qui dentro, essendo un luogo di privazioni, sia materiali che psicologiche, quando si tenta di confidarsi con qualche amica sulla sessualità, si rischia di accendere anche gli animi più quieti. Eppure, mi sono spesso domandata ciò che potrebbe accadere se, durante l’ora di colloquio, lasciassero le coppie da sole! Sono convinta che ben pochi approfitterebbero della situazione, in quanto si tratterebbe di un puro sfogo fisico, concitato, con i minuti contati e la preoccupazione che qualcuno possa interrompere quell’intimità così lungamente agognata. In verità, ciò che desideriamo di più non è il sesso fine a se stesso, ma sono quei preliminari che precedono l’atto, le carezze, le coccole, le effusioni, l’affetto, il poter respirare il profumo dell’altro guardandosi negli occhi e ricercando quella complicità reciproca che serve al coronamento dell’amplesso vero e proprio. A volte la mia mente rifiuta a priori di pensare o accogliere certe sollecitazioni, quali scene erotiche di un film o messaggi precisi inviati da chi mi desidera. Per me è una sorta di distacco voluto per evitare di soffrire di questa mancanza. A volte invece, mio malgrado, mi abbandono alla fantasia, idealizzando una persona con la quale potrei dare sfogo ai miei sentimenti più intimi, immaginandomi in luoghi idilliaci dove vivere con il partner emozioni senza fine. Quando poi ritorno con la mente alla cruda realtà e mi rendo conto del luogo in cui mi trovo, torno a prendere le distanze da tutto e da tutti per evitare di stare male. Chi amo vive la mia stessa situazione di reclusione e tra di noi c’è piena comprensione; tutto ciò impreziosisce il nostro rapporto, costruito sulla stima, sulle nostre affinità e su veri sentimenti d’affetto. Io vivo il sesso come un traguardo finale da raggiungere solo se il rapporto è supportato da rispetto, amore, complicità, affinità intellettive, vibrazioni, odori, insomma tutte quelle sensazioni che, vissute in due, sublimano l’intesa, rendendola magica e unica. Poiché oggi l’oggetto del mio desiderio è lontano, faccio tesoro di questa "assenza" per investire sul rapporto futuro e costruire le basi per concretizzare un giorno i miei e i suoi sogni. Tanto più il desiderio cresce, tanto più il piacere, sia fisico che psicologico, un giorno potrà arrivare alle vette più alte. Una volta fuori di qui, tutto ciò che mi è stato tolto, negato, sottratto, ritornerà con un sapore nuovo e avrà un profumo inebriante. Il sesso? Dunque, prossimamente sugli schermi di una vita futura.
Petra
"Colori come ali": una mostra per liberare le emozioni
"Colori come ali": questo il titolo della mostra e della serata organizzata dal Centro Territoriale Permanente che ha sede presso la SM "Bramante" il 19 maggio scorso. L’idea di allestire una mostra di quadri dipinti dalle detenute è nata all’inizio dell’anno scolastico, quando la professoressa Anna Soligno, docente di Inglese presso il CTP e pittrice, ha pensato di offrire alle donne dei Piccolini un’opportunità per liberare le emozioni così pesantemente represse dalla reclusione. Ne è uscita un’esplosione di colori, alcuni cupi e tormentati, come certe giornate in cui non si vede uno spiraglio, altri solari e vividi, come le donne sanno essere quando ridono e sono allegre, sapendo guardare oltre. "Non bisogna giudicarli dal punto di vista artistico - ha detto Anna presentando i quadri - ma soprattutto per le emozioni che trasmettono, per le storie che ci sono dietro, per il significato simbolico che assumono". Ne pubblichiamo alcuni, con in calce il commento dell’insegnante, non perché siano i più belli ma perché ciascuno nella propria particolarità esprime una sfaccettatura, ora dolente, ora disperata, ora fiduciosa, di quel mistero che è l’universo femminile.
Parole su carta per colmare il bisogno d’affetto
Mantenere i legami con i familiari è particolarmente difficile per gli stranieri, che spesso comunicano solo per lettera perché i colloqui non solo possibili. Quattro ore di colloquio e venti minuti di telefonate mensili sono tutto ciò che ci viene concesso per mantenere il legame con la nostra famiglia. Ma non tutti hanno questa possibilità; esistono detenuti italiani lontani centinaia di chilometri da casa e stranieri che non usufruiscono nemmeno di una telefonata. Nessun contatto personale, solo lettere, parole su carta, per colmare un immenso bisogno di affetto. Riportiamo le significative testimonianze di tre ragazze, Doris, Daniela e Maria. Doris è una ragazza nigeriana di 31 anni, solare e allegra, che ha formato un gruppo affiatato con altre ragazze africane. È bello, in estate, all’aria, vederle tutte insieme cantare e farsi le treccine ai capelli. Portano il sole dell’Africa anche qui, nel grigiore e nell’afa della periferia vigevanese. Doris non passa giorno in cui non pensi ai suoi familiari lasciati in Nigeria. Ha un fratello in Italia ma, da quando è stata trasferita qui, non ha più potuto vederlo, lui vive lontano, lavora e non può spostarsi facilmente. Come molti stranieri, si tiene in contatto con i propri cari unicamente tramite lettere, lunghe e frequenti. I suoi pensieri sono sempre rivolti alla madre, il momento più pesante per lei è la sera, prima di addormentarsi, e trattenere le lacrime le è impossibile. Ha molti rimpianti, uno fra i tanti è il non avere terminato gli studi nel suo paese per aver deciso di venire in Italia, sacrificando se stessa per aiutare la madre e dare al fratello la possibilità di andare a scuola. Ma la realtà che ha trovato qui è stata molto diversa da come se l’era immaginata. Troppe difficoltà per una ragazza sola in un paese straniero. Quando uscirà di qui, la prima cosa sarà proprio quella di andare a riabbracciare sua madre. Non ha in mente un luogo preciso dove stabilirsi quando otterrà la libertà: "Cerco la felicità e in qualunque posto sia, io sarò lì". Daniela è brasiliana, ha 29 anni e un figlio piccolo, che sta in Brasile con la nonna. È una delle pasticcere più brave della sezione, soprattutto se si tratta di dolci alla cannella. Non parla volentieri perché soffre molto: "Sono circa cinque anni che non vedo mia madre e mio figlio e la nostalgia è tanta". Qui in carcere ha trovato l’amore e, dopo tre anni di fidanzamento, il 14 Febbraio 2005 si è unita in matrimonio e ora divide con lui gioie e dolori. Con i suoi familiari mantiene contatti tramite lettera e per telefono, però va detto che le lettere, quando non vanno perse, arrivano dopo un mese e mezzo o due, ed è terribile stare senza notizie, anche perché telefonare costa, e un problema molto grosso è la differenza di fuso orario. "Del mio paese mi manca tutto - dice -, principalmente l’allegria della gente e il caos della mia città. Quando uscirò di qui, non so ancora cosa farò, una cosa però è certa, lavorerò per poter tornare al mio paese con qualche risparmio e dare ai miei cari l’aiuto che gli è mancato in questi anni". Maria è una ragazza di 22 anni, viene dal Perù, dove ha lasciato una bimba di 3 anni e mezzo. È gentile ma molto riservata e, nonostante il dolore che si porta dentro, ha un sorriso per tutti. Anche lei, come Doris, passa molto del suo tempo con altre ragazze sudamericane e non è difficile durante la socialità sentirle ridere e cantare insieme. Qui in Italia è sola, è riuscita ad ottenere il permesso per telefonare in Perù, ma a causa del costo lo può fare raramente. "Il mio paese rispetto all’Italia è più libero - spiega -, la mia gente è più solare e allegra e, nonostante la povertà, ama molto la vita e le piace divertirsi. Qui ho trovato delle mie paesane, con cui posso parlare la mia lingua e siamo molto solidali. Una volta fuori, se non mi rimpatrieranno, rimarrò qui in Italia, ero l’unica a mantenere la famiglia e il mio unico desiderio è quello di uscire, lavorare e mandare i soldi a casa".
Lianka
"74", un numero che marchia
L’articolo 74 del Codice Penale prevede il reato di associazione a delinquere e comporta un regime detentivo particolarmente duro. Io, donna reclusa oggi per un reato contestatomi nel 1992, ogni volta che penso all’ingiustizia della mia condanna, provo la sensazione di avere una mano che mi strizza nel profondo delle viscere, una rabbia impotente e un urlo così straziante che è quasi tangibile. Alla stregua di un animale ferito e abbandonato, cerco di sopravvivere alla quotidianità, ma un senso di angoscia invade spesso i miei pensieri, impedendomi di ragionare serenamente. Sono considerata "pericolosa", come tutte le mie compagne di sezione, marchiata da un "numero", il "74"! Articolo elargito con tanta generosità e superficialità da giudici, uomini come tutti, che possono sbagliare e a volte interpretano e applicano le leggi a modo loro. Ci sono persone che purtroppo si macchiano di reati efferati, stupro, violenze, schiavitù, sequestri di persona, pedofilia, omicidi, ai quali vengono concessi i benefici di legge perchè non hanno questo maledetto "articolo 74", che prevede il reato associativo e automaticamente la pericolosità sociale, con la conseguenza di tagliare ogni beneficio. Noi siamo mogli, mamme, compagne, quasi sempre cadute in questo baratro a causa di troppo amore, faciloneria, leggerezza e forse troppa fiducia nel nostro uomo, figlio o fidanzato. Non ha senso parlare di associazione quando si tratta di membri dello stesso nucleo familiare. Avremmo forse dovuto denunciare i nostri congiunti, essendo a conoscenza dei loro "affari"? Ci sono persone che hanno lavorato onestamente per quasi tutto l’arco della vita e che, a causa di un solo errore, stanno scontando reati risalenti a dieci, quindici anni or sono. Reinserimento? Rieducazione? Siamo stanche di sentire queste parole: in carcere nessuno si rieduca, anzi qui si possono solo peggiorare le proprie condizioni. I magistrati spesso non vagliano le situazioni soggettivamente, sei colpevole a priori e basta. Per concedere i famosi benefici di legge si basano spesso su informazioni che risalgono al passato, continuando ad ignorare il presente di una persona che vorrebbe riscattarsi e rincominciare a vivere onestamente. Perfino certe razze di cani vengono "riabilitate", per loro si prova una grande pietà, li si toglie dalle gabbie, dai ring dove combattono, per dargli una nuova esistenza. Per noi detenuti è diverso, noi dobbiamo pagare fino all’ultimo perché i potenti vogliono la "certezza della pena" per mettere a tacere l’opinione pubblica. Togliendoci la libertà, ci viene negato il diritto ad una vita autentica e non è certo punendo e basta che un individuo può prendere coscienza degli errori commessi e agire di conseguenza. A chi ci governa vorrei lanciare il mio accorato appello: "Non giocate con la nostra vita! Il "74" non è un numero da mettere al lotto che può farvi vincere, è soltanto un numero che marchia, ma più che la fedina penale, è un marchio indelebile che difficilmente riusciremo a rimuovere dal nostro essere".
Iva
Anna, un arcobaleno d’insegnante
Il primo giorno che scesi al corso di pittura ero molto scettica riguardo alle mie capacità artistiche e pittoriche. Fin da bambina non ero brava a disegnare e anche da grande ciò che producevo risultava infantile: casette, bimbi, animali, fiori disegnati con tratti, a dir poco, da asilo. Così mi avvicinai ad Anna, la mia insegnante, con molta umiltà, dicendole di mettermi alla prova, perché sinceramente pensavo che non sarei stata idonea a frequentare il suo corso. Lei mi mise subito a mio agio e ci spiegò che ognuna di noi sarebbe riuscita a dipingere usando un po’ di fantasia. Io, che fortunatamente ne sono dotata in gran quantità, decisi di imprimere su quel foglio il luogo dove mi sarebbe piaciuto essere in quel preciso momento. Visto che sono un’attrice di professione, disegnai un teatro, con tanto di spettatori in platea, con me sola al centro, le spalle al pubblico, intenta a recitare. Lei raccolse tutti i nostri lavori, guardò il mio e disse: "Hai disegnato il palcoscenico della tua vita e tu ne sei la protagonista". Queste sue parole mi toccarono profondamente e mi resi subito conto di avere di fronte una persona speciale, dotata di una grande sensibilità e generosità d’animo. In realtà, il mio disegno era orribile, anche un bimbo di sei anni l’avrebbe fatto meglio ma, dopo aver sentito Anna, decisi più che mai di frequentare quel corso. Durante le lezioni, non ci ha mai mollate un attimo, cercando di seguirci una per una senza distinzione. Ci ha spronate, sostenute e, quello che più conta, ha creduto nelle capacità di ognuna di noi. Così siamo riuscite, magicamente, a produrre nell’arco di breve tempo dei veri e propri "piccoli capolavori", ognuna con il proprio stile. In ogni lavoro si legge ciò che ognuna di noi ha dentro di sé; c’è chi esprime rabbia, chi sogni, chi sofferenza, chi solarità. Un piccolo mondo, dalle più svariate tonalità, che grazie ad Anna siamo riuscite a tirar fuori. Ora, nell’aula, abbiamo appeso i nostri "capolavori" e ogni volta che scendiamo li guardiamo stupite. Io stessa riguardo i miei quadri con soddisfazione, scambiando consigli ed opinioni con le mie compagne "artiste" e resto incantata davanti ai miei lavori, a quelli delle mie amiche e ancora mi domando come abbiamo potuto realizzare tutto ciò! Anna ci ha insegnato sì a disegnare, a dipingere, ma quello che più ci ha trasmesso è un grande valore: l’autostima. Grazie a lei ognuna di noi ha messo a nudo le proprie emozioni, trasferendole sulla carta. Una volta fuori di qui, riguardando le nostre opere, ci ricorderemo di un cammino ricco di emozioni, fatto di volontà e di tenacia. Ad Anna vorrei dire il mio grazie per il suo sorriso, la disponibilità e la grande umanità. Tu rimarrai indelebile nei nostri cuori, come un dipinto d’autore da ammirare.
Petra
La luce della mia stella Quando di notte non riesco a dormire…
È una delle tante sere in cui sono distesa sul mio letto, o meglio sulla branda della mia cella, e ad una luce lieve e offuscata scrivo nel silenzio della notte. Tra le sbarre intravedo il cielo pieno di stelle, perché è una di quelle notti che di dormire non se ne parla proprio. La mia mente, invece di abbandonarsi al sonno, viaggia indietro nel tempo, a quello che era il mio mondo fuori. Una splendida famiglia, di buoni principi, che non mi ha mai fatto mancare nulla, era la mia; mi ha insegnato che la vita è un dono divino, fatta di sacrifici, piccole rinunce, semplicità, unione e armonia. L’amore totale, per essere chiari. La mia mente mi porta a ricordare quando studiavo all’Istituto Turistico e alle vacanze estive, che passavo a lavorare e, per avere due soldi in più in tasca, spesso mi toccava fare anche il turno di notte. Ma allora ero spensierata, niente e nessuno mi poteva impedire di sognare ad occhi aperti, di vivere emozioni e sensazioni belle e forti. Resto sdraiata e provo a sognare come allora, ma non ci riesco, e con il dolore nel cuore mi accorgo che questa carcerazione mi sta impedendo anche di sognare. È già un anno e mezzo che sono rinchiusa tra queste quattro mura, che vivo in un mondo fatto solo di regole, protocolli, leggi penali, codici, in una situazione dove l’essere umano viene spogliato della sua identità, dei suoi valori, delle sue aspirazioni, ma soprattutto dei suoi sogni e dei suoi progetti. Situazione dove si perde ogni aspettativa per il futuro, e allora si cerca soltanto di sopravvivere ad un presente infame, fatto di nulla. Dentro di me sono cosciente che la colpa è la mia, ho infranto le regole della società, alla ricerca di un qualcosa che ancora oggi non so cosa sia, e la devo pagare, nella maniera più dolorosa. Mi giro e mi rigiro nella branda, cerco di liberare la mente da tutti i pensieri ma non ci riesco; allora mi giro sul fianco, verso il muro, dove ho appesa la foto di mio papà, la stella più grande che vive nel mio cuore, che mi dà la forza giorno dopo giorno di non mollare. Guardo la foto, ed è come se i suoi occhi mi volessero parlare, proprio da quelli prendo il coraggio e penso che mi mancano pochi anni a finire la pena; vedo in lontananza uno spiraglio di luce, purtroppo ancora lontano da raggiungere. Ripenso a tutte le lettere che ho scritto ai miei cari, dove cerco di nascondere il mio dolore, la mia rabbia, le paure che ho dentro; cerco, per quanto mi è possibile, di apparire non infelice ai loro occhi. Penso che la loro sofferenza sia maggiore della mia, che non avevo diritto di farli soffrire così tanto per i miei sbagli, che la soluzione migliore sarebbe farla finita. Ma, per fortuna, giro la testa dall’altra parte e, grazie alla luce della mia stella, questo cattivo pensiero svanisce nel nulla.
Serena
Associazioni Carcere Territorio In provincia esistono ma fanno fatica
Nella tre carceri della provincia di Pavia sono rinchiusi 1200 detenuti, tra i quali 100 donne, "ristrette" nel carcere di Vigevano. Una situazione che andrebbe monitorata con più assiduità, in particolare da parte delle associazioni di volontariato, dal sindacato ecc, perchè il territorio si faccia carico del problema carcere, in particolare per quanto concerne il lavoro e l’istruzione. A Vigevano da poco più di un anno è nata l’Associazione Carcere e Territorio che raggruppa una serie di organizzazioni territoriali che, in una situazione sicuramente non facile, tentano di mettere in pratica quanto sancito dell’art. 25 della Costituzione Italiana, cioè il principio "che il carcere deve tendere al recupero del detenuto". Ma questo dipende da alcuni fattori imprescindibili, il primo dei quali è rappresentato dal lavoro intra ed extramurario e dal conseguente utilizzo della Legge Smuraglia del 2000, che prevede benefici per cooperative e aziende che assumono ex detenuti. Ma, e dobbiamo essere chiari, non esiste ancora una sufficiente maturità delle imprese in tal senso; pregiudizi, ignoranza sui vantaggi derivanti dalla legge citata, ma anche una situazione occupazionale non facile, limitano la possibilità di lavoro nelle imprese, tanto che, per parlare della situazione del Carcere di Vigevano, solo un detenuto sta beneficiando dell’art.21 per il lavoro fuori. Troppo poco per poter parlare di recupero dei detenuti. Nel Super Carcere di Voghera, 9 detenuti-lavoratori, assunti da una cooperativa, hanno scritto alla Cgil per essere tutelati nel reddito. Una novità, perché i detenuti-lavoratori riconoscono nel sindacato l’organizzazione che può tutelarli, ma che dimostra che la strada dei diritti è ancora lastricata da ostacoli. In questa città non esiste un’Associazione Carcere Territorio analoga a quella vigevanese, anche se esistono alcuni organismi che tentano di mettere in cantiere iniziative in maniera non sistematica. A Pavia l’Associazione CT esiste dal 1998 ma di fatto non ha mai operato. In conclusione, se si realizzassero determinate condizioni, il carcere potrebbe essere un luogo inedito per praticare solidarietà e politiche sociali.
Franco Vanzati, Cgil Pavia
Membri dell’Associazione Carcere Territorio di Vigevano: Direzione C.C. Ufficio Esecuzione Penale Esterna Comune di Vigevano Provincia di Pavia ASL Coordinamento Volontariato Caritas Acat le Risaie Cascina Bianca Onlus Centro Territoriale Permanente presso SM "Bramante" Istituto "Casale" Centro Formazione Professionale di Pavia
Matrimonio in carcere
Strano a dirsi, eppure ci si sposa anche dietro le sbarre. Giovedì 23 marzo, una compagna di sezione si è unita in matrimonio con il suo uomo. Già nei giorni precedenti alle nozze c’era un gran fermento per i preparativi, ma non ci saremmo mai aspettate tanta commozione. Il giorno delle nozze la sposina pensava ad agghindarsi mentre altre compagne preparavano la saletta per i festeggiamenti che, naturalmente, si sarebbero svolti senza il marito. Il matrimonio civile si è celebrato alle ore 16. Alle 15.30 la sposa ha sfilato per la sezione, nel suo vestito color oro, lungo, scollato, con uno scialle della stessa stoffa che le copriva le spalle e si chiudeva con un nodo sul seno; scarpe in tinta e una bella acconciatura. Alle 17 abbiamo accolto la sposa, molto commossa ed emozionata, con un battimano generale e urla di gioia; poi ci siamo buttate sul buffet. Tutta la sezione ha partecipato, chi in tuta, chi vestita come sempre, mentre una compagna indossava un abito da cerimonia, tanto da essere scambiata per la sposa. La festa, nonostante i blindi e le sbarre, ha avuto il suo fascino.
Laura
La quotidianità dietro alle sbarre
Mancanza di lavoro, precarie condizioni sanitarie, lontananza dalla famiglia e interrogativi sul dopo. Con il rischio della recidiva sempre in agguato. In questi ultimi tempi si sente molto parlare di carcere, mettendo in risalto che in alcuni istituti modello entrano il lavoro e iniziative di ogni genere, mentre in altri le condizioni di vita sono infernali. Quello di Vigevano non rientra né nel primo né nel secondo tipo, ma in una situazione intermedia, che caratterizza la maggior parte delle carceri italiane e che è comunque pesante da sopportare. Alle sette ci aprono i blindi e fino alle nove non possiamo usufruire delle docce comuni, che anche in inverno sono quasi sempre con l’acqua fredda. Come i termosifoni, spenti dalle dieci alle quindici anche nei mesi più rigidi. Lascio immaginare il freddo che patiamo, sia noi che tutto il personale. Alcune detenute frequentano la scuola e altre attività formative e ricreative, ma non c’è lavoro, se non per una esigua minoranza. Mentre fuori si continua a parlare di reinserimento nella società, non esistono le risorse e gli strumenti perché questo possa avvenire per un numero significativo di noi. Ma le cose vanno anche peggio se si parla di sanità. C’è da augurarsi di non ammalarsi, un vero dramma se avviene. Una visita degna di questo nome non ti viene fatta, dici cosa senti e ti prescrivono un medicinale; tutti i mali sono dovuti alla tensione nervosa, così ti somministrano una buona dose di tranquillanti, mentre i medici si sentono tranquilli. Per non parlare di una visita specialistica (dentista e ginecologo sono per noi delle utopie), passano mesi. Non voglio poi soffermarmi sul trattamento quando devi andare in ospedale, dove vieni portato con le manette e a volte il giuramento di Ippocrate viene meno. Spesso mi soffermo a pensare se di umano mi sia rimasto qualcosa. Secondo la società dobbiamo scontare i nostri errori e posso essere d’accordo, ma a che prezzo e con quali sofferenze dobbiamo pagare? Siamo lontane dai nostri cari, e questa è già una grossa sofferenza, ma un’altra paura vive dentro di noi, minuto per minuto, quella di sentirci dire: "Scarcerata". Cosa faremo una volta fuori da qui? Se abbiamo dei figli, una famiglia pronta a farsi carico in tutto e per tutto, possiamo farcela, ma senza nessuno o non sapendo fare nulla, specialmente se siamo giovani e già con una fedina pesante, c’è solo il rischio della recidiva. L’immagine che alcuni giornali e politici trasmettono è molto diversa dalla realtà: ci fanno passare per ospiti privilegiati delle patrie galere, una sorta di hotel a cinque stelle, mentre dobbiamo pagare molto di quello che consumiamo (che ci costa tre volte tanto) e i parenti (quando ci sono) ci devono mantenere, visto che qui dentro non abbiamo fonti di reddito. Consiglierei ai media di entrare in qualche carcere e molto probabilmente i loro articoli e giudizi sarebbero più veritieri. Anche molti cittadini sono convinti che questa sofferenza sia meritata. Io vorrei solo far notare quanto sia facile giudicare senza conoscere.
Laura
Essere sieropositivo ti emargina Lettera aperta al giornale
Buonasera, mi chiamo E. e mi trovo qui dal 20 giugno. Ero già stato qui, ero uscito nel 2001 ma, come vedo, certi problemi esistono ed esisteranno sempre; credo che le colpe siano al 50% dell’informazione negativa che il carcere fa (cioè non fa) e l’altra metà dei detenuti. Qual è questo problema? Io e l’AIDS. Solo a dirlo fa paura. Ma io, che sono sieropositivo da vent’anni, ci vivo e con me anche i miei familiari, perché mi sono informato ed ho anche messo al corrente dei pericoli molto esigui chi ha deciso di vivere accanto a me. Ma purtroppo la madre dell’ignoranza è sempre incinta (ed è vero!) ed in carcere i suoi figli proliferano. Perché dico questo? Per denunciare che molti detenuti ignoranti pensano che bevendo, mangiando, o, chissà, magari respirando l’aria, si possa prendere l’Aids. Io, come penso chiunque altro, vivo male l’esperienza carceraria, perché siamo additati ed esclusi e purtroppo anche la privacy ci è violata. Perciò, ora io sono disposto a collaborare con voi anche facendo delle consulenze sezione per sezione, per informare i detenuti del problema, per una migliore convivenza tra i detenuti e voi ( agenti e personale), anche perché sono altre le malattie che si prendono in carcere. Spero che almeno facendo così si possa vivere meglio ed onestamente stringere la mano al compagno. Ringrazio per avermi ascoltato e vi faccio i complimenti per la rivista che fate, è molto bella e vi ammiro molto perché ho sempre pensato che se occupi il tempo che hai qui apprendendo le notizie ed il sapere, allora sì che il carcere ti farà guadagnare qualcosa di personale, non stando sdraiati nel letto aspettando che si apra la porta.
Lettera firmata
Cosa resta ai detenuti il giorno dopo lo spettacolo?
Il susseguirsi di iniziative sul carcere è incoraggiante ma non basta per affrontare problemi molto complessi. Gli enti locali sono chiamati a svolgere un ruolo più incisivo. Negli ultimi mesi le iniziative sul carcere si sono susseguite e questo fa ben sperare, nel senso che ogni tentativo di superare steccati e muri di incomunicabilità tra chi sta dentro e chi sta fuori è da percorrere fino in fondo. Le iniziative sono state interessanti e coraggiose. La prima è stata la proiezione di un video sulla vita quotidiana dei detenuti, girato all’interno dell’istituto dei Piccolini e prodotto di un corso di formazione professionale iniziato l’anno scorso e protrattosi ben oltre le 200 ore stabilite inizialmente. Il laboratorio, condotto dalla regista Giovanna Fiorenza, è stato voluto dalla San Vincenzo cittadina e finanziato dalla Fondazione Banca Popolare di Vigevano, dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano e dal liceo "B. Cairoli". Il salone d’onore della Cassa di Risparmio era gremito quella sera di persone vicine al mondo del volontariato, della scuola che opera all’interno, del carcere. Secondo atto: il Centro Territoriale Permanente, che tiene corsi di alfabetizzazione e di scuola media nella Casa Circondariale, ha organizzato il 19 maggio scorso la mostra "Colori come ali", esponendo i quadri dipinti dalle detenute durante un laboratorio di pittura tenuto dalla professoressa Anna Soligno. Anche quella una serata riuscita per le emozioni che ha saputo suscitare nel folto pubblico presente in sala, tra cui il sindaco Ambrogio Cotta Ramusino. Infine, l’organizzazione della prima stagione teatrale intitolata "Liberi di Recitare", che si è avviata il 6 giugno con "L’opera da tre soldi", di Bertold Brecht, messa in scena dalla sezione di Alta Sicurezza Maschile per iniziativa della sezione staccata dell’ITS "Casale". Seguita il 10 dallo spettacolo "Frammenti di vita capitolata", rappresentato dalla sezione di Alta Sicurezza Femminile e promosso dal CTP che ha sede presso la SM "Bramante". La stagione si concluderà a fine settembre con "L’isola delle lettere dimenticate", portata in scena ancora per iniziativa del CTP. A entrambe le rappresentazioni erano presenti alcune autorità cittadine: a quella del maschile, oltre a Monsignor Vescovo, il vice-sindaco Ferdinando Merlo e qualche esponente delle associazioni di categoria. A quella del femminile era presente ancora il sindaco, che si è complimentato con la direzione del carcere per il moltiplicarsi delle attività. Occorre precisare che gli spettacoli teatrali sono diventati negli anni quasi un appuntamento mondano, nel senso che ad ogni manifestazione sono presenti diverse autorità locali, che sono felici, per un paio d’ore, di stringersi attorno ai detenuti, ridere delle loro battute, applaudire le loro performance. Ma di tutto questo cosa resta ai detenuti il giorno dopo? Le attività culturali e ludiche (spettacoli teatrali, partite di calcio) vanno bene per socializzare, ridurre l’aggressività, vincere l’ozio, passare il tempo, ma non risolvono i problemi di una persona ristretta. Che dovrebbe sicuramente fare un percorso di revisione critica del suo passato per abbandonare la strada dell’illegalità quando sarà fuori, ma che deve poter avere una serie di opportunità per non ricadere nel vortice della recidiva. Il problema numero uno è il lavoro. Allora a noi piacerebbe che i nostri amministratori, oltre a venire agli spettacoli teatrali e alle mostre di quadri, il giorno dopo si mettessero attorno a un tavolo per ragionare del reinserimento dei reclusi, almeno di quelli che restano sul nostro territorio, una volta che escono dal carcere o quando sono in misura alternativa. È ben vero che il Comune, nella persona dell’assessore Matteo Loria, si è attivato per trovare lavoro a un detenuto, unico caso di articolo 21 (lavoro esterno di giorno, rientro di sera) nel carcere di Vigevano. Ma questo non basta. Non basta "sistemare" una persona per dirsi soddisfatti. Il ruolo degli enti locali, Comune e Provincia, può essere molto più significativo e propositivo. Possono giungere, come accade altrove, a destinare una quota dei lavori appaltati all’esterno a cooperative che impiegano persone svantaggiate, tra cui i detenuti. Possono reperire fondi per borse lavoro, coinvolgere i datori di lavoro affinché non siano del tutto insensibili alle richieste che provengono da questo mondo. Questo a tutt’oggi non avviene. D’altro canto, all’interno del Comitato Carcere e Territorio, nato un anno e mezzo fa per promuovere progetti di reinserimento sociale, la Provincia è stata assolutamente assente. Ci piace concludere ricordando un evento della primavera scorsa. La Triennale di Milano ha tenuto la manifestazione "La rappresentazione della pena. Carcere invisibile e corpi segregati", un contenitore in cui, dal 23 febbraio al 19 marzo, si sono svolti dibattiti, mostre, incontri, rappresentazioni teatrali e cinematografiche. In quei giorni la Triennale, fondazione tra i cui membri ci sono il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Regione Lombardia e il Comune di Milano, invece di mettere in mostra la città dell’eccellenza, come è solita fare, ha messo in luce ciò che dentro la città esiste ma è invisibile. Usando una metafora forte di Calvino, Aldo Bonomi, coordinatore del Comitato Scientifico, ha affermato che lì era rappresentata la vita nuda, la "città dei topi" per contro a quella "delle rondini", la città degli invisibili, migranti, tossici, nomadi, carcerati. Milano ha dibattuto e riflettuto per più di venti giorni, coinvolgendo forze politiche, economiche e culturali della città, mettendo in campo idee e progetti, sperimentazioni e innovazioni. Fatte le debite proporzioni, possibile che a Vigevano tutto si riduca a uno spettacolo teatrale?
Prof. Elena Gorini (coordinatrice "Sestante")
I rumori della "mia" Lomellina
Tra gli articoli che hanno partecipato al concorso giornalistico "Dal nostro inviato", organizzato dall’Associazione "Rolandi" per gli studenti delle scuole medie superiori, due sono stati scritti da allieve del corso per Ragionieri tenuto in carcere dall’Istituto "Casale". Si tratta di "I rumori della mia Lomellina", di Iris Mendes de Carvacho, classificatosi al quinto posto, e di "Capodanno in carcere", di Francesca Serafino, tra i segnalati.
Non è ancora estate qui in Lomellina: la primavera è ufficialmente entrata a far parte del calendario astrologico, ma si sentono ancora nell’aria strascichi del lungo inverno ed in modo particolare ne risentono le mie ossa, nonostante la giovane età. Sono domiciliata in Lomellina e precisamente alloggio presso la Casa Circondariale dei "Piccolini" da dieci mesi, ma provengo dalla molto più caotica Milano. Qui il tempo pare trascorrere molto più lentamente rispetto alla città, cadenzato dai ritmi naturali delle stagioni e, ora più che mai, mi accorgo della tranquillità della natura che circonda e, se possibile, migliora questo luogo lugubre e grigio. Vivo in campagna, se così si può dire, in una pianura che mi pare eternamente estesa, qualche albero sparso qua e là e tanti campi coltivati a riso… altro non so. Quando sono arrivata non ho avuto la possibilità di vedere molto altro: dal blindo che mi ha condotta fino a qui la visuale era molto ridotta e i miei sensi erano piuttosto rapiti da quell’anello brillante che sono le manette, strette e pesanti per i miei esili polsi. Sono arrivata in una zona che non conoscevo e che ancora ora posso solo immaginare: al di là delle mura di cinta si apre un mondo tutto sconosciuto e da scoprire per me. Quando giunsi qui era estate e la mia percezione della zona è stata solo di grande calore: durante le ore di aria mi trovavo in un piccolo cortile rovente, tenuto in squallide condizioni circondato da mura di cinta sulla sommità delle quali, immuni a sole, pioggia, neve, vento, si vedono sempre gli occhi dei piccioni e delle lucertole. Un silenzio agghiacciante aleggia su tutto, rotto soltanto da qualche schiamazzo, da gridi, litigi, pianti e da rumori segreti che diventano l’unico modo per comunicare in un luogo così irreale dove la dignità umana pare essere semplicemente un’utopia. A volte il rumore concitato dei passi delle agenti e quello felpato, in altri casi, rimbombano nel freddo corridoio e nella mia mente, così come il tintinnio metallico del grosso mazzo di chiavi over- size che, a furia del continuo "apri e chiudi", si auto lucidano e paiono d’oro massiccio e che diventano i miei compagni di vita. Così tra tutti questi rumori, io mi accorgo di prestare particolare attenzione al rombo dei motori dei tanti aerei che sorvolano la "mia" Lomellina e così sogno destinazioni lontane, la libertà… Intanto trascorrono i giorni e io ascolto la pioggia cadere a catinelle attraverso le grate della mia finestra oppure sono rapita dal vento che soffia o dal gracchiare di un corvo in volo o dal cinguettio di qualche uccellino comodamente appollaiato sui chiodi acuminati dalle mura antievasione e penso: "Beato lui, fra qualche istante, se vorrà, potrà andarsene e vivere la sua Lomellina, io invece sono qua". Così ho imparato ad apprezzare tutti, anche i più piccoli rumori che la natura mi offre e mai avrei pensato di poter amare tali piccole cose. Sono diventati miei compagni di vita quotidiana i ragni, le zanzare, le cimici… faccio fatica ad abituarmi a tutto questo, anche perché la cella è un luogo angusto e poco confortevole: umidità infinita e muffa alle pareti sono solo alcuni degli aspetti peggiori, ma non mi perdo d’animo e mi illudo che fuori da qui la Lomellina sia un luogo ameno e accogliente, ma soprattutto che sia la zona che mi offrirà un riscatto sociale e un futuro migliore. Immagino le mondine che lavorano nelle risaie mentre intonano canti popolari e mi torna in mente il mio paese di origine. So che non ci sono più le mondine, ma la loro cantilena è rincuorante e intanto, ora, posso solo sognare ciò che vorrei guardare, domani, in Lomellina
Iris Mendes de Carvacho
Attori per un giorno I detenuti di Alta Sicurezza Maschile si sono cimentati con un testo di Bertold Brecht
"L’opera da tre soldi" è andata in scena il 6 giugno scorso presso il teatro del carcere, rappresentata dagli attori-detenuti della sezione di Alta Sicurezza Maschile e voluta dall’Istituto "Casale", che tiene all’interno della C.C. i corsi per Ragionieri. Lo spettacolo ha avuto inizio alle diciassette, quando il teatro era già gremito di persone: famigliari e parenti degli attori, insegnanti, educatrice, vice-sindaco e autorità locali, vescovo e i nostri amici, gli anziani dell’Università del Tempo Libero di Cilavegna. Ad un gruppo di donne dell’Alta Sicurezza Femminile, me compresa, è stato concesso il permesso di potervi assistere, perché nei giorni precedenti lo spettacolo ci siamo occupate della realizzazione della scenografia. L’opera costituisce una denuncia del perbenismo e dell’ipocrisia della società, che punta ad un onorato e dignitoso stato borghese, dove però alla fine vince sempre la corruzione, perché soldi e potere non guardano in faccia a nessuno, né criminali né persone rispettabili. Gli attori-detenuti, della Compagnia "La Bottega dei sogni - Chi balla c’è", come ci hanno ormai abituati da alcuni anni, sono stati tutti davvero bravi e molto sicuri di loro stessi, e neanche i piccoli inconvenienti delle luci li hanno fermati. Tutto questo però è stato possibile grazie alla guida dei loro insegnanti, Andrea Cereda e il regista Luca Ciancia, della compagnia "Gioco-Fiaba". Dopo la rappresentazione, come di consueto, è stato il momento delle autorità, dei discorsi e dei ringraziamenti. Tanti e per tutti coloro, personale della Casa Circondariale e dell’Istituto "Casale", che a vario titolo si sono prodigati affinché il sipario si potesse aprire ancora una volta, malgrado i mille ostacoli che immancabilmente si presentano quando si ha l’ambizione di allestire uno spettacolo in carcere. Tra tutti ci piace ricordare l’intervento del dottor Aldo Tropea, funzionario dell’Ufficio Scolastico Regionale, abituato a partecipare agli spettacoli realizzati dai detenuti, che si è dichiarato "dispiaciuto" per aver perso qualche elemento portante del laboratorio teatrale (e l’allusione corre a Franco, che da qualche mese usufruisce dell’articolo 21), ma felice di aver trovato nuovi talenti che hanno saputo anche loro trasmettere la voglia di divertire, divertirsi e nel contempo dare spunti di riflessione, come si evince dalle parole di chiusura di Francesco Dipasquale: "Un atto di clemenza non è segno di buonismo o di pietismo ma solo di democrazia e civiltà". E il Dottor. Troppa, nel ricordare il finale dell’opera, in cui un messaggero a cavallo porta la buona notizia della salvezza del protagonista, si riferisce, stavolta esplicitamente, a Franco che incarna la concretizzazone della bella notizia e auspica che essa possa arrivare un giorno anche per gli altri. Tocca a Dipasquale ringraziare il pubblico e ricordare il lavoro faticoso che precede ogni rappresentazione teatrale. Quest’anno non dà appuntamento per l’anno venturo, "porta male - dice -e non si sa mai che io possa essere altrove...".
Serena
Capodanno in carcere: falsa ilarità e compagna tristezza
Oggi 31 dicembre, aspettando la notte, tutte attendono una cena ricca di bontà che si prepara solo nelle festività più importanti dell’anno. Sono appoggiata alla mia porta di ferro e nelle altre celle le ragazze cucinano come se fossero a casa loro: tante voci, tanti odori, non si sa se gradevoli o no, perché siamo qui come in una galleria che non ha deviazioni, solo una, ma non è per noi ora. Guardo i visi delle mie compagne, sembrano tutte contente, ma io so che non è così: noi qua dentro siamo sempre nel periodo di carnevale, sempre con una maschera sul volto nel tentativo di nascondere quella tristezza che traspare anche dalla nostra maschera; è tangibile anche in chi sembra veramente tranquillo, ma non si può arrivare alla completa tranquillità in questo luogo. I preparativi continuano: arriva il momento della socialità, di cinque ragazze per cella dalle 16.30 alle 20.00; così tra canti e sorrisi il tempo è passato, tutti rientrano nelle proprie celle: le ragazze si lamentano che hanno mangiato troppo, dicono che da domani basta… ma è la frase che si dice sempre, poi mangiano allo stesso modo. Arrivano le 23.30: chi ha comprato lo "spumantino" (uno per ogni ragazza, solo per chi non ha la terapia), può brindare e lo passa da una cella all’altra. Tutte urlano, mancano dieci minuti, poi cinque e così fino allo scoccare della mezzanotte; allora la confusione è tanta, gli auguri si sprecano in un’atmosfera di falsa ilarità, in cui la compagna tristezza non ci abbandona, anche tra il caos di cinquanta ragazze. All’una si chiudono i blindi e così piano piano arriva il silenzio. Il risveglio è più tranquillo, si va in chiesa a parlare con Gesù, affinché il nuovo anno sia migliore soprattutto per i nostri figli e i nostri cari, visto che la nostra felicità più grande, la libertà, per ora è lontana.
Francesca Serafino
Carcere: annientamento o rinascita?
Il carcere senza dubbio è un luogo di costrizioni distaccato da tutto e da tutti ma, ognuno se vuole può trovarne anche un lato positivo. La voglia di vivere che è innata dentro di me e la presa di coscienza di ciò che Dio mi ha donato è continuo motivo do riflessione. Il tempo qui, scandito da regole e sempre uguale, permette però di avere momenti dove potersi dedicare al proprio essere frugando la propria interiorità con gli occhi del quotidiano. Ora che avverto più che mai il disagio, il dolore psichico, l’abbandono, esploro la mia coscienza cercando di conoscerla e di inondare il mio cervello di consapevolezza. È la prima volta che osservo la mia tristezza, le mie paure, ma lo faccio arrendevolmente, cercando di capire senza mai giudicare. Ho imparato a contemplare cosa rara fuori per mancanza del tempo, opportunità e forse anche per superficialità. Ho allargato il mio sguardo per vedere il panorama nella sua completezza e coglierne tutti i dettagli. A volte mi ritrovo, soprattutto dopo il tramonto, sdraiata sul letto della mia cella e riesco ad estraniarmi al punto tale da non rendermi conto di ciò che accade attorno a me, percepisco il vuoto e la mia capacità di accoglierlo ricreando così quella tanto agognata pace, e abbandonandomi nell’oceano del "nulla", dove riposa la mia essenza e l’unicità che ciascuno di noi incarna. Ecco che mediante questo percorso introspettivo riesco a ritrovare quell’energia riparatrice in grado, anche se momentaneamente, di allontanare da me sofferenza e solitudine. Di questi momenti della mia giornata, così uguali, riesco comunque a cogliere il lato positivo, carpendo dal silenzio tranquillità e pace, focalizzando dettagli anche i più banali, dove costruire il mio nuovo mondo. Con questa nuova consapevolezza riuscirò un domani a determinare in me cambiamenti e trasformazioni profonde. A volte vivere situazioni estreme può anche essere costruttivo, se ci si rende conto di quanto la nostra fragilità possa rafforzarsi, superando le avversità che la vita ci riserva. A tutte direi: lasciate l’ozio mentale e fisico, cercate di vivere a pieno la vita, anche se non vi appartiene, e fate tesoro di questa terribile esperienza per costruire e affrontare un domani migliore.
Elena alias Petra
Una ferita non guaribile
Il giorno del mio arresto, ero seduta al bar con mia madre e la mia bambina, stavamo aspettando che terminassero le lezioni ed uscisse da scuola la bambina che mia madre accudiva. Nell’attesa ci divertivamo ad aprire gli ovetti della kinder e mia figlia fremeva per vedere la sorpresa che contenevano; era bellissimo vederla sorridente alla scoperta di ogni piccola sorpresa. A un certo punto un uomo si avvicinò e, dopo essersi qualificato come poliziotto, mi spiegò che ero in arresto; pensai subito alla mia bambina, sapevo che andandomene lei avrebbe pianto. Dovevo trovare un modo per distrarla da quel nostro improvviso distacco. Chiesi al poliziotto se potevo portare mia figlia dentro un supermercato lì vicino, dove mia madre l’avrebbe condotta nei vari reparti, dentro ai carelli della spesa, come a lei piaceva. Il poliziotto gentilmente acconsentì a questa mia richiesta. Da quel momento, era il 7 ottobre 2003, non ho più potuto svegliarmi al mattino vicino a lei. È passato molto tempo ma questa ferita non guarisce mai! Ho la fortuna di avere una famiglia meravigliosa ed è grazie a loro che posso vedere Silvia sei volte al mese al colloquio. In quell’ora giochiamo, lei è così bella e con la sua piccola mano mi accarezza i capelli; poi arrivano gli ultimi minuti e dobbiamo salutarci e io la stringo forte, forte, poi scappo via e non mi guardo indietro. Mentre salgo le scale sento le lacrime scorrere sulle guance, so che dovrò aspettare altri sette giorni prima di rivederla. Così sono passati questi anni. Prego ogni giorno perché il Signore protegga la mia piccolina , solo Lui può sapere la sofferenza che c’è dentro il mio cuore. Aspetto il giorno in cui mi risveglierò accanto alla mia bambina.
Francesca
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