Rieducare è meglio che punire

 

Dei diritti e delle pene. Rieducare è sempre meglio che punire...

 

Il Mattino, 24 giugno 2002

 

Polveriera sempre pronta ad esplodere, palestra di confronto sui diritti umani, la questione carceraria resta sempre centrale, nelle riflessioni sulla funzionalità complessiva del sistema giudiziario italiano. La domanda di sicurezza sociale, la richiesta di «effettività della pena», unite alla necessità di trattamenti detentivi non contrari ai principi d’umanità continuano, per questo, ad offrire spunti, anche negli ultimi tempi, ad una serie di studi sulle leggi nel settore penitenziario. Saggi, purtroppo, troppo spesso confinati nei recinti per iniziati alla materia. Nel suo libro La rieducazione tra realtà penitenziaria e misure alternative (Jovene editore, pagg. 227, euro 23,24), Mariachiara Castaldo, docente alla facoltà di Giurisprudenza, cerca invece di coniugare, superando steccati accademici, rigore scientifico e finalità divulgative, esaminando i problemi delle carceri italiane aggravati da un sovraffollamento diventato «strutturale». «Nella rieducazione, effettività della pena e realtà penitenziaria - scrive l’autrice - si misurano il senso etico di un popolo e il suo grado di civiltà». E cita qualche dato: su una popolazione carceraria tollerabile di 40 mila detenuti, ce ne sono, in media, 54 mila. Di questi, ben 14.373 sono attualmente extracomunitari, 6.500 sieropositivi, 19.000 tossicodipendenti, 400 affetti da Aids conclamata. Numeri da far rabbrividire. Nel dibattito sulla funzione e la gestione delle carceri, mutano di continuo prospettive e problemi.Negli ultimi trent’anni, anche questa materia è stata influenzata da visioni ideologiche, scaturite da una presa di coscienza collettiva sul «pianeta carceri» determinata dagli «anni di piombo» e dalla conseguente crescita di una popolazione carceraria «politicizzata». Afferma Adriano Sofri, citato nel libro della Castaldo: «La storia di un paese è scritta sui muri delle galere; qualunque opinione si abbia del nostro tempo resta vero che la civiltà e l’umanità si misurano nelle sue galere». È questo il punto di partenza del libro, che ha preso forma nei giorni della violenta rivolta nel carcere di Sassari. L’autrice approfondisce le norme succedutesi in materia penitenziaria, per verificare come abbiano unito necessità di tutela della sicurezza pubblica con il recupero ed il reinserimento dei detenuti. Nel 1975 la riforma dell’ordinamento penitenziario. Poi seguita dalla riforma Gozzini (1986), dal 41-bis per i boss mafiosi (1992) e dalla legge Simeone (1998). Senza contare le innovazioni introdotte, in materia, da alcune sentenze della Corte costituzionale. E i problemi scaturiti, negli anni di tangentopoli, dal più frequente ingresso nelle carceri di una forma di criminalità tradizionalmente poco abituata agli istituti di pena: quella dei cosiddetti «colletti bianchi». Ne sono scaturiti incrementi di lavoro consistenti per i magistrati dei Tribunali di sorveglianza, alle prese con la gestione del trattamento penitenziario e l’applicazione, in concreto, delle misure alternative di pena (affidamento sociale, lavoro in prova). L’autrice osserva come le riforme conseguenti si siano preoccupate solo di limitare il sovraffollamento carcerario, aprendo varchi a diffuse preoccupazioni sulla effettiva tutela della sicurezza. Preoccupazioni che, ritenendo prevalenti le finalità «afflittive» della pena, ne sottovalutano l’obiettivo di «recupero e reinserimento sociale». Questione di cultura, non solo giudiziaria. Anche perché, proprio dalla lettura di questo testo si ricava la convinzione, come scrive la Castaldo, che negli ultimi tempi «attraverso la normativa penitenziaria si è pervenuti indirettamente ad una sorta di riforma del sistema penale con la possibilità di interventi sul rapporto pena-libertà nel corso dell’esecuzione».

 

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