|
"La coscienza di sé", di Kiran Bedi
"L’obiettivo è salvare la prossima vittima e un futuro potenziale ospite di Tiharl".
A cura di Maurizio
Complesso carcerario di Tihar, India, 1993: "Quattro prigioni, 7200 persone detenute, mentre il progetto originale ne prevede 2273, 900% della popolazione ristretta in attesa di giudizio; 300 donne e 50 bambini di età inferiore ai quattro anni; cibo poco igienico e di scarsa qualità; infrastrutture mediche in condizioni disastrose con scarsità di medicinali; personale penitenziario insufficiente e con scarsa preparazione; dilagante corruzione; rischi di epidemie e di rivolte"… Questa è la situazione che la neo-direttrice Kiran Bedi trova nel più grande carcere dell’India e dell’Asia all’atto della sua nomina nel maggio del 1993, situazione che descrive nei dettagli nella prima parte del libro-diario "La coscienza di se", pubblicato in Italia dall’editore Giuffrè. Nella seconda parte la direttrice racconta invece il processo di trasformazione radicale che vive, nei due anni della sua gestione, questa immensa struttura penitenziaria (anche mille, per alcuni periodi, sono gli "ospiti" di Tihar) e non a caso il titolo originale del libro esprime meglio l’esperienza vissuta da qUesta donna indiana: "È sempre possibile trasformare una delle più grandi prigioni del mondo". Il cambiamento avviene tramite un permanente e quotidiano coinvolgimento della popolazione detenuta e parallelamente del personale penitenziario. Una prima decisiva innovazione è rappresentata dalla "cassetta mobile delle petizioni" tramite la quale i detenuti possono avanzare le proprie istanze sulla propria condizione penitenziaria evidenziando i disservizi e le criticità della struttura; a queste l’amministrazione deve rispondere prevedendo delle possibili soluzioni. Contemporaneamente vengono costituiti numerosi comitati tematici (per l’alimentazione, la salute, l’istruzione, le pratiche di meditazione e yoga...) grazie ai quali le persone detenute possono promuovere determinate attività orientate a migliorare la vivibilità del carcere. Il comitato dell’assistenza legale assume una notevole importanza in quanto evidenzia, tramite i principali quotidiani indiani, l’incredibile situazione di ingiustizia che vive il 90% della popolazione detenuta a Tihar in quanto in attesa di giudizio e dove, per i detenuti, "è la legge ad essere in colpa", Anche la comunità esterna e moltissime associazioni iniziano ad avere accesso al carcere per promuovere attività di istruzione, cure mediche omeopatiche e fondamentali servizi sociali, come un asilo per bambini, oltre a mirate attività lavorative,ad esempio il riciclaggio della massa dei rifiuti prodotti dal carcere, attività, come molte altre utili, ad alimentare il cosiddetto fondo previdenziale a favore delle persone detenute. Anche un’antica tecnica di meditazione indiana, il metodo vipassana, diviene un momento centrale della giornata per la maggior parte della popolazione detenuta. l giornalisti vengono ammessi con frequenza a visitare il carcere non solo per conoscere e "controllare" la struttura ma per dar voce e risonanza alle voci dei detenuti e alle loro rimostranze. Il tentativo in definitiva è quello di abbandonare l’approccio meramente retributivo della giustizia per un approccio riparativo indispensabile per favorire il reinserimento sociale delle persone detenute. Il ragionamento si trasferisce al sistema penitenziario italiano e nonostante il recente regolamento si evidenzia una cronica stasi progettuale, considerando anche il secondo rapporto sulla condizione detentiva realizzato da "Antigone". Certo non mancano alcune esperienze originali, come quelle recentemente realizzate a San Vittore sul tema della pace con la produzione da parte dei detenuti di borse arcobaleno e di magliette con la scritta: "ma se perfino i delinquenti sono per la pace...", eppure un’esperienza come quella raccontata e vissuta da Kiran Bedi è ancora di difficile attuazione nel nostro paese. Intanto il balletto sull’indultino continua…
|