Giornalismo dal carcere

 

 

Primo Convegno Nazionale Informazione e Giornali dal carcere

Firenze, 3 - 4 dicembre 1999

 

Intervento di Adriano Sofri

 

In questi giorni mi viene da dire “grazie” alla vicenda di Carlo Ciuffreda, anche se in questi casi non si può dire così: ha attirato l’attenzione sulla questione di come si muore in galera, di casi paradossali come questo, nel quale la mancanza di personale per accompagnare questo ragazzo agli arresti domiciliari ha causato un ritardo che gli costato la morte.

A me pare importante sottolineare la relazione assolutamente strettissima che c’è tra le morti in carcere, non tanto per malattia, quanto per disperazione, per solitudine, per tristezza, per eutanasia, per lucida decisione che è meglio morire che stare così.

Sottolineare la relazione strettissima che c’è tra questa cosa e la tossicodipendenza, che è il problema principale della sicurezza in Italia, con la microcriminalità, l’allarme criminalità, e così via.

Non voler vedere questo aspetto è la peggiore colpa, la più demagogica delle colpe da parte di tutti i responsabili, in primo luogo da parte dei responsabili politici, a volte per cecità, stupidità, ignoranza, spesso per demagogia, per interesse elettoralistico, spesso ancora per pregiudizio.

La gran parte dei delitti che allarmano l’opinione pubblica, le persone comuni, sono la conseguenza della tossicodipendenza.

La gran parte del furore torturante di cui si vive nel carcere è condizionato dal fatto che il carcere è l’unica, o perlomeno la prevalente forma di trattamento della tossicodipendenza. L’impossibilità, a mio parere, di qualunque miglioramento, anche minimo, della vita quotidiana nelle carceri, vita quotidiana i cui dettagli hanno una enorme importanza, l’oltraggiosa cattiveria ed idiozia delle minuzie della vita quotidiana in carcere, distrugge la vita delle persone perfino più della prospettiva di rimanere segregati per vent’anni. Venti minuti di imbecillità cattiva in carcere costano in maniera irreparabile.

In questa imbecillità sono coinvolti detenuti e carcerieri. Alcuni dei carcerieri e del personale addetto al trattamento (parola bruttissima, che probabilmente deriva da “maltrattamento”) soffrono moltissimo della situazione in cui si trovano a lavorare; altri vi si rassegnano; altri ancora sembrano fatti apposta per questa condizione e non essere nemmeno in grado di immaginare una condizione diversa.

Nessuna di queste persone ne è meritevole, naturalmente, ne è colpevole della condizione in cui viene messa quando si occupa della galera, ma a me pare ci sia qui un punto assolutamente essenziale: se io dovessi decidere delle persone che si “suicidano” in carcere, di quanto abbia pesato su loro e pesi questa meticolosa cattiveria spicciola e quanto invece la disperazione esistenziale, forse penserei che conta molto di più la prima.

Una volta avevo pensato e proposto, e lo proporrei ancora, che si rendessero pubbliche le denunce ed i rapporti disciplinari fatti in carcere. Che si rendessero pubbliche perlomeno davanti alle autorità competenti, alle commissioni, agli specialisti, che fossero accessibili e quindi giudicabili statisticamente, criticabili giuridicamente e culturalmente.

Io penso che possa essere tecnicamente significativa questa conoscenza, che giaccia lì un materiale documentario straordinario, cioè l’equivalente di quello che sono state le grandi inchieste, non quelle sulle quali si fanno le commissioni parlamentari, che sono spesso deludenti in maniera drammatica, ma le grandi inchieste di cui si può vantare la nostra storia, come le inchieste sul meridione.

Un’inchiesta sullo stato delle carceri, perché nessuno sa cosa sono le carceri in Italia, e nessuno lo vuole sapere. Tutte le commissioni sulle carceri non sanno niente, se ne occupano per un po’, le più simpatiche sono quelle entusiaste che per due mesi pensano davvero di poter fare qualcosa, poi si accorgono che l’inerzia di quell’apparato è tale da schiacciare qualunque buona intenzione, e lasciano perdere.

Questo vuol dire non solo che c’è una ignoranza di cosa sono le galere, ma che c’è un occultamento della verità sulle galere, sulle illegalità, da quelle spicciole, offensive, per le quali ad esempio non si riesce ad avere un paio di scarpe dopo otto mesi che si combatte per averle, fino a quelle gravissime, che costituiscono reato penale, alle botte, ai pestaggi, e così via.

È inaudito che i rapporti delle istituzioni parlino di cinque o sei episodi di denunce per violenze avvenute nelle carceri, quando parlando con un extracomunitario (cioè uno straniero povero, perché gli stranieri ricchi non sono extracomunitari) novantasei volte su cento ti senti riferire che ha subito delle violenze.

Quale quadro dell’Italia verrebbe fuori da un’inchiesta carceraria seria sul rapporto tra nord e sud: tra le carceri del nord e quelle del meridione c’è un divario incomparabilmente più grave e drammatico di quello che c’è per il resto dei problemi di questo paese: le carceri del sud appartengono a un altro stato, a un altro regime politico.

L’impiego dei rapporti e delle denunce darebbe un quadro di fondo a qualunque idea su come modificare la vita quotidiana e dunque i regolamenti in carcere, ma anche come modificare l’arruolamento, la preparazione, la vita quotidiana stessa degli agenti di Polizia Penitenziaria, il rapporto con la magistratura di sorveglianza e con quella normale.

Sarebbe un repertorio sui detenuti, da una parte, e sull’istituzione dall’altra, di fortissimo significato. Capisco che questa proposta, che sembrerebbe un’ovvietà (perché non rendere pubblici dei rapporti e delle denunce giudiziari?), passa per scandalosa perché si ritiene, in maniera neanche ottocentesca, ma barbara, che la sicurezza sia legata a questa specie di garanzia di segretezza.

Intanto le persone detenute, quelle normali, non io che sono un privilegiato e che potevo alzare la voce anche quando stavo in carcere, vivono nella stessa condizione di un animale braccato, nel sospetto permanente che gli succeda qualcosa, di sentire improvvisamente un rumore di passi affrettati e uno sbattere di ferri, che qualcuno, mascherato o meno, entri in cella e li bastoni.

Ora, non dico che questo succeda così spesso, ma che questo possa succedere: questa è la paura di ogni persona che viene messa in galera e che sa di aver perso ogni diritto ed ogni difesa. Questa è la situazione, ancora oggi, e forse lo sarà per sempre, delle carceri italiane. Il fatto che, poi, spesso si muoia anche, in modi più o meno elaborati o più o meno grotteschi, è semplicemente una conseguenza marginale di tutto ciò.

C’è oggi una discussione forte intorno al nome di Caselli, in particolare un giudizio sulla sua attività di procuratore facendone dipendere un pregiudizio sulla sua possibile azione come direttore della amministrazione penitenziaria. Io considero il D.A.P. un ente che potrebbe essere utile e che, nella maggior parte delle circostanze, è inutile, il cui rapporto con la vita quotidiana dei detenuti nelle carceri è simile a quello dello zar con il servo della gleba. Il cielo è vicino, lo zar è lontano; le bastonate sono vicine, gli insulti sono vicini, la minestra schifosa è vicina, il direttore del D.A.P. è lontanissimo, il che gli consente anche di essere buono quasi come lo zar, molto spesso.

Voi sapete che sono stato tra le persone che hanno visto di malissimo occhio l’allontanamento di Margara, nel quale si erano riposte molte speranze, seppur con quello scetticismo che deve sempre dominare quello che riguarda le galere, che sono un ente geologicamente immutabile.

Oggi, però, vedo con grande preoccupazione questo assalto a Caselli: io penso che sarebbe gravissimo se la polemica fosse alimentata solo dal ruolo avuto come procuratore ed il carcere anche questa volta diventasse l’appendice di una polemica che riguarda qualcosa d’altro.

Caselli deve essere discusso e criticato rispetto alle cose che dice e soprattutto a quelle che fa, ma a partire dalla sua specifica azione come direttore del D.A.P. e, da questo punto di vista, a me pare che, almeno per un aspetto decisivo, quello più importante di tutti perché coinvolge tanti giovani italiani e giovani stranieri poveri (noi siamo una società longeva che schiaffa in galera i propri giovani), la tossicodipendenza ed il suo rapporto con la criminalità, Caselli lo affronti con un atteggiamento serio ed apprezzabile.

Penso che le persone che oggi si occupano appassionatamente e scetticamente di carcere, compresi i detenuti, debbano, non dico appoggiare Caselli o essere contrarie a Caselli, ma esigere da tutti, provare ad esigere da tutti, tanto la loro voce non conta niente, che si discuta di Caselli come direttore dell’amministrazione penitenziaria e non delle ricadute del suo ruolo come procuratore capo.

L’ultima cosa che volevo dire, visto che ci sono qui persone che si occupano di questi problemi, è che, dopo aver frequentato a più riprese nella mia vita il carcere, con grande cordoglio mi sono fatto l’opinione che, in una categoria nella quale conto moltissimi amici, quella degli avvocati, esistono un grandissimo numero di persone ciniche, il cui atteggiamento meschino o fatalisticamente rassegnato implica sofferenze mostruose per i corpi e le anime di molte altre persone.

Penso che una scadenza, come quella di un congresso di giovani avvocati, che si terrà tra qualche giorno, cioè di quelli che stanno diventando cinici professionali ma non lo sono ancora diventati del tutto, dovrebbe meritare un’attenzione forte da parte dei detenuti e di chi fa in modo di dare voce ai detenuti: dai giornali, agli educatori, agli psicologi, e così via.

   

 

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