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Firenze, 3 - 4 dicembre 1999
Intervento di Pasquale Abatangelo Sono
un detenuto politico e ho scontato già venti anni, trascorsi nelle carceri
speciali italiane, quindi le conosco praticamente tutte. Da cinque anni sto in
semilibertà a S. Teresa. Non
ho l’ergastolo, quindi è facile fare i conti e capire l’assurdità di
questa mia situazione, che non è solo mia, ma di tanti altri detenuti che negli
anni 70 fecero la scelta di impugnare le armi, pensando così di trasformare
questo paese. Oggi, molti di noi si trovano ancora in carcere, praticamente
dimenticati, e per questo sono venuto, su invito di Giuliano Capecchi, al
convegno su informazione e carcere: per richiamare l’attenzione di tutti gli
organismi che, che si occupano di questi problemi, anche sulla detenzione
politica. Quando si parla di detenzione politica viene subito da pensare a
tangentopoli ed ai suoi inquisiti, non a quelli come me, che negli anni 70 hanno
militato nelle organizzazioni rivoluzionarie. Ma di tangentisti, in carcere, ce
ne sono stati pochi e ci sono stati anche per poco tempo; non per augurargli il
carcere, questo no, perché secondo me, anche per l’esperienza che ho vissuto,
il carcere è una struttura che va superata, che può solo peggiorare le persone
e non migliorarle. I
detenuti politici, che sono in carcere da oltre venticinque anni e per reati
che, se venissero processati oggi, prenderebbero al massimo cinque anni, sono
una cosa scandalosa, una vergogna, un’inciviltà che passa sotto silenzio.
Nessuno ne parla, nessuno conosce i nomi ed i cognomi di queste persone. Si
tratta di ex operai, gente abbandonata, nomi che non fanno notizia,
probabilmente; come Maurizio Ferrari, uno dei primi militanti delle Brigate
Rosse, che praticamente non ha quasi mai visto un’arma ed è ancora nelle
carceri speciali dopo venticinque anni, perché nessuno si è interessato alla
sua vicenda e ai suoi problemi. Ritengo
che sia assurdo trascinare ancora queste situazioni, quando tutto il contesto
storico che ha dato vita alle nostre esperienze è superato: vivevamo in un
contesto in cui esisteva ancora il muro di Berlino. In Italia esistevano partiti
che oggi non esistono più: c’è stata la trasformazione genetica del Partito
Comunista, il Partito Socialista è stato spazzato via da tangentopoli, la
Democrazia Cristiana si è frammentata in tanti piccoli partiti; non esistono più
i soggetti che erano presenti in quel periodo storico. L’unico elemento di
continuità è rappresentato appunto dalla presenza dei detenuti politici e dei
centinaia di esuli, che magari all’estero conducono una vita regolare e non
hanno bisogno di nascondersi, ma se tornano in Italia si ritrovano condanne
assurde sulle spalle. Solo
a livello politico questa contraddizione può essere chiusa, contraddizione che
è il solo ponte che esiste con il passato e che è anche pericoloso, a mio
avviso. Perché
chi rimane in carcere, in contesti nei quali gli viene negato tutto, ci sta
anche che si abbruttisca ulteriormente e, senza alcuna ragione politica o
sociale, trovi ragionevole l’universo suo, che si è costruito dentro una
cella: una prospettiva che non porta da nessuna parte, ma che può provocare
altre vittime, come purtroppo è successo di recente. Tengo
a ribadire che non ci può essere alcun rapporto, nessuna continuità, tra la
nostra esperienza e quanto è successo recentemente, perché siamo in un altro
mondo, con altre persone. Non basta che qualcuno, di sua iniziativa, decida di
impugnare ancora le armi per dare una dignità di continuità politica a
un’esperienza che è oramai definitivamente conclusa. Sarebbe
come se, per assurdo, dopo la fine della Resistenza, un partigiano avesse deciso
di continuare la lotta armata per conto suo e, su questa base, si decidesse che
la lotta partigiana stava continuando. Il paragone, anche se sembra
improponibile, sta in questi termini. Quindi non può essere preso per alibi quello che è successo e che, speriamo di no, potrebbe succedere in futuro, per ostacolare, per non portare avanti il disegno di legge per l’indulto sui reati degli anni 70, che giace dimenticato in Parlamento. |