Crimine e ordine sociale

 

Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo

di David Garland

 

Una storia del presente

 

L’assistenzialismo penale è la tendenza del XX secolo fino al 1970. Poi c’è una svolta improvvisa ed imprevedibile:

venir meno di una cultura condivisa;

crisi dei ruoli degli operatori;

dissidio tra esperti e politici;

proliferazione di nuova normativa.

Nel XXI secolo il paesaggio tende a chiarirsi. Principali cambiamenti intervenuti:

declino dell’ideale riabilitativo;

riemergere di una giustizia retributiva ed espressiva dei sentimenti delle vittime e della comunità, con aspetti punitivi volutamente umilianti;

attenzione, più che a ridurre i reati, a ridurre la paura della comunità; il delinquente non è più uno svantaggiato da recuperare ma un cinico da reprimere;

la vittima non è più solo chi ha subito il reato, ma è anche il rappresentante della comunità, che deve essere ascoltato; il suo interesse è visto come antitetico a quello del reo (a somma zero); i diritti del reo appaiono menomazioni della vittima;

al primo posto è la sicurezza dei cittadini, non importa se al prezzo di violazioni di altri diritti;

esautoramento degli esperti e delle ricerche, sostituiti dalla demagogia politica;

rilancio del carcere: prima considerato discutibile ed estremo mezzo correzionale, ora insostituibile mezzo di neutralizzazione; negli ultimi 25 anni in USA al diminuire della criminalità le carcerazioni sono aumentate del 500%;

nuovo pensiero criminologico: il crimine non è la patologia di individui disadattati da reinserire, ma la normalità da evitare con l’intensificazione dei controlli;

tendenza delle comunità locali (quartieri, ecc.) ad aumentare e gestire autonomamente il controllo;

fine del monopolio statale e coinvolgimento dei privati nelle funzioni di controllo e perfino nella gestione delle carceri.

Strategia di controllo e riflessioni criminologiche non sono adottate in vista della risoluzione dei problemi, ma perché in sintonia con la cultura dominante. La verifica delle ipotesi si forma prima della valutazione dei loro effetti.

 

La giustizia penale moderna e lo stato penale assistenziale

 

Dal XIX secolo fino agli anni ’60 del XX si affermava il ruolo statale nel controllo della criminalità, affidato a professionisti (come la polizia) che sembrano funzionare bene, al punto da sottovalutare il contemporaneo tessuto di controllo e prevenzione informale (sindacati, parrocchie, comunità locali, ecc.).

Si sviluppa e non viene messo in discussione il modello penale assistenziale, pur nel contrasto di tendenze tra figure, come polizia penitenziaria e procure, che vorrebbero accentuare gli aspetti punitivi, e altre, come assistenti sociali e criminologi, che vorrebbero accentuare gli aspetti riabilitativi.

Dagli anni ’50 si avvertono tensioni tra il linguaggio ufficiale, che sostituisce "trattamento" a "pena", e i sentimenti popolari che conservano indignazione e volontà punitiva. Ma l’opposizione dell’opinione pubblica resta debole.

La criminologia correzionalista è più attenta alla "patologia" della persona delinquente che alla "normalità" di chi commette un reato, quindi più al trattamento individuale a posteriori che alla ricerca sui fattori criminogeni. L’intervento preventivo sul contesto, sulle cause profonde, sociali, della criminalità, non è considerato competenza penale. Per cui il recupero individuale sembra destinato allo scacco. In seguito considera la correlazione tra delinquenza e povertà (anche relativa, anomìa) e ritiene un rimedio l’espansione del benessere.

L’assistenzialismo penale è stato reso possibile dal periodo di welfare e crescita economica del dopoguerra. Tassi di criminalità contenuti, controllo sociale informale, disciplina scolastica e lavorativa, richiesta di manodopera non qualificata facilitavano il buon esito del recupero perseguito.

Fino alla metà degli anni ’70 l’assistenzialismo penale si regge dunque su uno stile complessivo di governo, il controllo sociale, il benessere economico, le competenze di esperti e il sostegno di élites sociali, la percezione di efficacia.

 

La crisi del modernismo penale

 

Negli anni ’70 inizia l’attacco al correzionalismo e al trattamento individualizzato. In un primo momento è originato da motivi di tutela dei diritti dei detenuti, contro la discrezionalità del potere punitivo e le discriminazioni che ne conseguono. Si mettono in rilievo l’inefficacia dell’approccio riabilitativo nella riduzione delle recidive e nella prevenzione della criminalità e la mancanza di fondamenti scientifici nella diagnosi e nel trattamento, che pure è fortemente invasivo.

Si formulano proposte per vincolare la discrezionalità del giudice, ridurre le misure alternative, introdurre pene fisse e proporzionate alla gravità del reato, non rapportate alla personalità del reo.

La criminologia radicale degli anni ’60 riteneva che l’etichettamento e il controllo fossero primari rispetto alla devianza; considerava prevalentemente la devianza minore come aspetto di una nuova normalità criminalizzata e non come una patologia. La diffusa paura del crimine era attribuita più all’influenza dei mezzi d’informazione che all’effettivo aumento di criminalità grave. Il messaggio era di non drammatizzare l’illegalità ma cercare di convivere nella tolleranza. L’assistenzialismo penale era ritenuto mistificante. I progressisti, che dieci anni prima lo sostenevano, ora lo avversavano.

I primi riscontri obiettivi dimostrano gli insuccessi del correzionalismo e l’evidenza che qualcosa non funziona. Ma perché, invece di una revisione, ne è derivato un abbandono totale?

Da questi approcci, ancora utilitaristici, si passa poi infatti a sostenere una filosofia della pena nettamente retributivistica: la retribuzione come fine in sé. Si propone una griglia a doppia entrata per la commisurazione automatica della pena. La deterrenza dev’essere affidata alla severità delle pene.

Questi principi sono introdotti rapidamente in molti Stati (USA), entro 30 anni in quasi tutti. Già negli anni ’80 sono ridotti i finanziamenti ai programmi trattamentali, anche in ambito minorile. Si applicano pene minime obbligatorie e si incrementano vertiginosamente i tassi d’incarcerazione. Si diffonde una nuova fiducia nel carcere come strumento repressivo e di neutralizzazione.

 

Cambiamento sociale e ordine sociale nella tarda modernità

 

Dagli anni ’60 la criminalità aumenta vertiginosamente in tutti i paesi occidentali, in correlazione con i cambiamenti socioculturali.

Il boom consumistico del dopoguerra ha messo in circolazione molti beni mobili di alto valore, appetibili per i ladri, mentre venivano meno certe forme di controllo: ad es. nei self-service, nelle case signorili incustodite, nella diffusione dell’auto, obbiettivo senza sorveglianza e strumento per la commissione di altri reati.

Aumentano i giovani meno controllati dalle famiglie, più spesso fuori casa in contesti sottoculturali, cresciuti in un consumismo che pretende l’immediato soddisfacimento dei desideri. Nella cultura giovanile devianza è sinonimo di libertà, trasgressione sessuale, droghe.

Al venir meno dell’etica del lavoro e del dovere, pensare di "correggere" i devianti appare una pretesa autoritaria e inadeguata. La resistenza all’autorità da parte di delinquenti poveri si carica di connotazioni ideologiche.

A partire poi dagli anni ’70, la diminuzione di opportunità lavorative aggiunge un ostacolo alla riabilitazione.

L’avvento della nuova destra porta a: riduzione dei costi del lavoro, limitazione dell’influenza sindacale, privatizzazione di settori pubblici, cieca fiducia nel mercato, riduzioni fiscali e conseguenti tagli nella spesa sociale, inasprimento delle disuguaglianze, incentivi ai più ricchi.

Si ridesta l’interesse per i temi della tradizione e dell’ordine, la destra religiosa si ripropone come forza politica. La cultura liberal, finora prevalente, è accusata di tutti i mali sociali ed economici e di permissivismo.

L’appello a maggiori controlli non contraddice la liberalizzazione del mercato, perché viene applicato solo ai poveri: libero individualismo morale per i benestanti, disciplina e ritorno ai valori morali di un tempo (famiglia, lavoro…) per i disoccupati, indigenti, immigrati, delinquenti, tossici.

Se nel dopoguerra il controllo economico si accompagnava alla liberazione sociale, negli anni ’80 la libertà economica si accompagna al controllo sociale.

L’accentuarsi delle contraddizioni sociali genera un clima culturale di ipervigilanza e insicurezza. Di contro ai benefici del mercato, ci sono da fronteggiare i rischi di criminalità e violenza, un costo da imputare ai poveri, agli emarginati.

Invece dei vecchi ideali solidaristici, di cittadinanza comune, si afferma una sempre minor tolleranza delle differenze, che pure aumentano.

Crescono violenza, microcriminalità, abuso di droghe da parte degli emarginati. E il crimine diventa a sua volta pretesto per misure repressive contro i poveri.

Sono bandite le spiegazioni sociali della criminalità come segnale di bisogno, di deprivazione, con conseguente ricorso a misure risocializzanti. Ora si può parlare solo di responsabilità individuale, di malvagità personale da punire (retribuzionismo), di efficacia delle pene inasprite, di "tolleranza zero", non più di solidarietà, fratellanza, compassione.

 

Lo stato di cose: adattamento, diniego e acting out

 

Viene meno la fiducia nella giustizia statale, considerata troppo morbida e inutilmente assistenziale. Prevalgono due nuove strategie di risposta alla criminalità.

Gli alti tassi di criminalità sono considerati un fatto sociale normale. Secondo le nuove criminologie, subito coincidenti con gli interessi politici, la criminalità non è una patologia, una deviazione dalla normalità che richieda una spiegazione, ma è la normalità stessa, in continuazione con le comuni motivazioni delle relazioni quotidiane, semplicemente un rischio da calcolare.

Non ci si propone dunque di intervenire sugli autori di reato (con gli strumenti della giustizia penale) ma sulle situazioni criminogenetiche, per renderle meno seducenti e vulnerabili (ad esempio con i controlli di telecamere), sul principio che "l’occasione fa l’uomo ladro". L’individuo è caratterizzato, (e questo è affermato senza critica od ironia), da mancanza di senso morale e di meccanismi interiori di controllo, a fronte di una capacità di calcolo razionale e di una ricerca del piacere.

Questa teoria della scelta razionale rinvia ad una visione puramente utilitaristica del comportamento delinquenziale: per la legge della domanda e dell’offerta, la pena è un costo. Paradossalmente viene così anche rivalutata l’efficacia deterrente della minaccia e delle condanne esemplari. Così si spazzano via secoli di studi e di dati sulla complessità del comportamento e la molteplicità dei fattori. L’eziologia è vista come fiancheggiamento e degenerazione morale.

Provvedimenti conseguenti sono:

riorganizzazione della giustizia per renderla efficiente e ridurre i costi;

commercializzazione (privatizzazione) con delega di funzioni a società private, fino alla costruzione e gestione di carceri, soprattutto a fronte dell’aumento della popolazione detenuta; collaborazione con le polizie private; all’interesse pubblico si sostituisce l’interesse del cliente;

riduzione del concetto di devianza (discrezionalità di fatto delle indagini e dell’azione penale);

ridefinizione dei criteri di valutazione del successo: non più i risultati, ma il monitoraggio e la standardizzazione delle procedure;

attenzione spostata dall’intervento sulle cause del crimine a quello sulle sue conseguenze: sulle vittime, la paura (indipendente dall’effettivo andamento della criminalità), la mediazione, la riparazione;

responsabilizzazione della comunità (comprese le associazioni di volontariato) riconoscendo che il controllo e i processi interni alla società civile sono più efficaci delle sanzioni penali; cooperazione e convenzioni tra agenzie diverse.

Altre risposte hanno invece il carattere di acting out, spesso come reazione ad un fatto eclatante. Lo Stato rinuncia ad intervenire con mezzi razionali, preferendo sistemi che esprimono la rabbia provocata dal crimine: privi di efficacia preventiva, servono solo a soddisfare l’opinione pubblica e il desiderio di ritorsione, negando anche i diritti umani dei puniti.

Si verifica dunque un contrasto tra i politici che rispondono all’elettorato e gli amministratori esperti. Dagli anni ’80 prevale il populismo. Wilson (1983): "La gente malvagia esiste. Niente è così utile come separarla dalla gente innocente".

Ne consegue, negli anni ’90, l’enorme aumento della carcerazione e, negli Usa, delle esecuzioni capitali.

Se le strategie adattative si basavano su una criminologia della continuità tra normalità e crimine, queste risposte politiche si basano su una criminologia della differenza tra buona normalità e archetipo minaccioso del diverso, spesso appartenente ad altri gruppi razziali e culturali: individui e comunità malvagi e capaci di ogni male, bestiali, costruiti sui modelli della stampa popolare.

Sono figure immaginarie utilizzate strategicamente da un potere che si serve del pericolo per ottenere vantaggi politici. Il rischio, l’angoscia suscitata, servono a rinforzare il bisogno di ordine e di risposte forti. Non rappresentano neppure il pericolo della criminalità reale, perché evocano solo la criminalità di strada, trascurando quella organizzata, finanziaria, e quella dei comportamenti automobilistici.

Esemplare è la costruzione della figura del pedofilo, individuo con l’unico scopo di apparire normale per insidiare i bambini, intrinsecamente irrecuperabile e da isolare, non riconoscendogli diritti umani ed ignorando invece la prevalenza degli abusi intrafamiliari.

Tra le opposte criminologie del normale consumatore e del diverso malvagio, terza esclusa è la criminologia dello svantaggiato che affida allo Stato il compito del recupero: non smentita scientificamente, ma non utile politicamente.

 

Il complesso del crimine: la cultura della società con alti tassi di criminalità

 

Le due strategie si possono definire di partnership preventiva (allargamento della responsabilità sociale) e di segregazione punitiva (con la forza statale). Esempi di misure private (di individui, famiglie, comunità):

sistemi di sicurezza

precauzioni

acquisto di armi

fortificazioni ed esclusioni.

Con effetti culturali.

Esempi di segregazione punitiva:

recidive: tre colpi e sei fuori (s’intende: da ogni speranza)

restrizioni al rilascio

pene retributive per i minorenni

carceri di massima sicurezza

pubblicazioni di sentenze e dei nomi dei pedofili

tolleranza zero, ecc.

Rivalutazione delle vittime: le loro immagini, i loro sentimenti sono usati mediaticamente a sostegno di ogni provvedimento. Ogni umanizzazione della pena appare offesa ai sentimenti della vittima. Non è più la tutela della vittima come parte dell’interesse pubblico, ma è l’interesse pubblico che si riconosce nella singola vittima.

Negli anni ’80 il potere decisionale è trasferito dai clinici ed esperti a manager e contabili.

Alla base dei cambiamenti sta l’esperienza di rischio e di paura della criminalità diffusi nella classe media.

E’ la conseguenza della scelta neoliberale di riduzione della pressione fiscale e della politica assistenziale: meno Stato e più mercato. Ma si allenta così anche la rete di solidarietà che dava sicurezza. Il taglio dei fondi pubblici, dei contributi statali, degli investimenti nelle zone degradate, la marginalizzazione dei poveri, generano insicurezza. Prevale una mentalità ipervigilante, iperattiva, reciprocamente diffidente. Inseguire la libertà (morale, di mercato, individuale) reca con sé il rischio dell’insicurezza e la tentazione di risposte repressive.

Grande influenza dei media (soprattutto TV) che comunicano un’immagine distorta della criminalità, sovrastimata soprattutto sui reati di violenza, sull’indulgenza del sistema, sui sentimenti delle vittime, per cui le opinioni correnti si basano su informazioni culturalmente manipolate.

 

La nuova cultura del controllo della criminalità

 

Negli ultimi 20 anni è stato realizzato il programma più imponente di costruzione di edifici penitenziari. Sono aumentati sia il tempo medio di detenzione, sia la probabilità di revoca della misura alternativa, sia le esecuzioni capitali.

Le strutture ed istituzioni preesistenti non vengono smantellate, ma affiancate da un "terzo settore" pubblico-privato in rete, per una prevenzione mirata non sulle persone (i possibili autori di reato) ma sulle situazioni criminogenetiche. La giustizia penale perde la sua autonomia e viene subordinata al politico che si relaziona non con gli esperti ma con l’opinione pubblica, per riceverne vantaggi elettorali o a breve termine. Contro l’opinione degli esperti, si adottano provvedimenti di maggior severità e di ritorsione per rassicurare l’emotività pubblica di fronte ad eventi particolari, anche se statisticamente poco significativi.

La nuova cultura si basa su questi elementi:

Lo spostamento dall’orientamento assistenziale a quello punitivo. Anche la probation non è più considerata un’alternativa socialmente utile, ma solo una pena esterna. Gli istituti per minori diventano simili alle carceri per adulti, rinunciando all’educazione e all’istruzione. La rieducazione non è più un fine ma solo una delle tecniche di riduzione del rischio, a protezione di possibili vittime, accanto alla punizione: un investimento, non un diritto.

Il carcere non è più la misura estrema, ma uno strumento di esclusione e controllo. I muri di cinta perdono la porosità rispetto alla comunità esterna (colloqui con familiari, permessi…). Oggi in Usa le carceri somigliano piuttosto a gulag, per estensione territoriale, campi di lavoro, istituti per 2 milioni di persone, provenienti da ambienti ritenuti problematici. Chi ne esce va in uno spazio ancora fortemente monitorato e vincolato, con probabilità di tornare dentro.

Sempre più conta l’individualizzazione della vittima, sempre meno quella dell’autore del reato, la cui pena tende ad essere applicata automaticamente. I diritti del reo sono considerati antitetici a quelli della vittima, a somma zero. La mediazione, che cerca l’incontro tra gli interessi di entrambi, va in controtendenza. E’ reintrodotto l’etichettamento (pubblicazione di sentenze, registro pedofili, divisa, catene…) che era considerato pregiudizievole al reinserimento. Ora importa di più mettere in guardia la comunità. L’"altro" non è più un cittadino come noi ma un pericolo da controllare.

La criminologia assistenziale mirava a produrre ordine mediante l’integrazione delle persone, quindi l’educazione e il consenso. La nuova criminologia della rete quotidiana mira all’integrazione del sistema per ridurre le possibilità di crimine, con una visione amorale e tecnologica.

Ma se questa criminologia della vita quotidiana sdrammatizza il reato, considerandolo prosecuzione della normalità, la criminologia dell’altro pericoloso lo drammatizza: l’unica difesa contro i malvagi è il muro tra "noi" e "loro". Non può esserci comunicazione, comprendere l’altro significa riconoscergli umanità, avere qualcosa in comune. "Condannare di più capire di meno", anche per attenuare il senso di colpa dell’esclusione di milioni di persone e l’uccisione di molti.

E’ una prospettiva antimoderna. Il consenso si vuole basato sull’identità di valori, non sulla tolleranza e il pluralismo. Chi non aderisce va espulso.

 

Controllo della criminalità e ordine sociale

 

Le istituzioni di controllo della criminalità e di giustizia penale sono cambiate negli anni ’80-’90, dopo il welfare, seguendo l’orientamento culturale, fondato più sull’esclusione che sulla solidarietà, e per adattamento alle nuove condizioni: insicurezza economica, emarginazione di ampi settori di popolazione, consumismo edonistico, che spingono ad isolare e controllare.

Negli ultimi 20 anni i vantaggi fiscali per i gruppi ad alto reddito, la deregulation nella finanza e nel credito, le privatizzazioni, la riduzione dei controlli statali, producono l’arricchimento dei più ricchi e un divario sempre più vistoso rispetto ai poveri, per effetto del mercato. Le classi medie vedono lo Stato sociale come una macchina burocratica che ridistribuisce ai meno meritevoli il denaro che loro hanno faticosamente guadagnato. Ne deriva una politica antiassistenziale, per cui la libertà di mercato e gli interessi dei ceti medi e alti impongono un controllo serrato e non solidaristico sui poveri.

Perché i governi si affidano tanto al carcere per gestire la marginalità? Perché è un dispositivo già esistente, privo di forti opposizioni politiche e soprattutto già mirato sui gruppi emarginati, in modo da lasciare piena libertà di mercato alle grandi imprese e agli strati abbienti.

Ci sono segnali sul fatto che tutto questo processo non è determinato ed inevitabile, ma produce a sua volta difficoltà che fanno intuire una possibilità di inversione dalla coercizione centralizzata al coinvolgimento della società civile.

 

 

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