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La "contiguità" alla mafia e il problema del concorso "esterno" di Domenico De Fazio (Funzionario Direzione Generale Inps)
Premessa
Una caratteristica fondamentale del crimine organizzato è quella di creare "reti di relazioni" con il c.d. "Stato-apparato" (politici, burocrati ecc.) e con lo "Stato-società" (organizzazioni sociali, imprese, professionisti, singoli), utilizzando la forza di intimidazione e l’omertà nonché le sue enormi risorse finanziarie quali potenti mezzi di convincimento e dissuasione. Si sviluppa così un’area "grigia" in cui il fenomeno delinquenziale comune si confonde con la "criminalità dei colletti bianchi", con la conseguente emersione di nuove tipologie comportamentali non facilmente riconducibili a specifiche norme giuridiche. Di fronte a questa realtà, il legislatore è apparso impreparato e colpevolmente poco sensibile, mentre la giurisprudenza ha elaborato e sviluppato il concetto di "contiguità" alla mafia, i cui confini, seppure definiti ormai in varie sentenze, restano piuttosto incerti. Quest’ultima caratteristica, paradossalmente, appare utile: si afferma, infatti, che "…di fronte alla oggettiva difficoltà in cui ci si trova quando si mette mano a definire specie, natura e qualità dei rapporti delle organizzazioni mafiose con il mondo della politica, degli affari, degli operatori economici, delle professioni ecc., utilizzare criteri rigidi…potrebbe costituire un ostacolo a risposte adeguate alla varietà e alla variabilità delle situazioni che si possono presentare in concreto". Da quest’ultima considerazione emerge chiaramente come la categoria in esame è frutto di una logica "emergenziale", legata alla lotta alle mafie. La figura del concorrente esterno nei reati associativi, non a caso, ha trovato giuridica consacrazione durante l’emergenza legata al terrorismo di matrice politica, nell’ambito della fattispecie di banda armata.
Il dibattito sulla configurabilità del concorso esterno e le varie conclusioni
Il tema del concorso esterno nei reati associativi ha acceso un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale, del quale, in breve e senza pretese esaustive, si cercherà di dar conto qui di seguito. Una prima impostazione, partendo da una nozione ampia di partecipazione all’associazione, ha negato la configurabilità del concorso esterno per la sua sovrapponibilità con la condotta del partecipe, già strutturalmente a forma libera. In tale direzione, una sentenza della Corte di Cassazione ha affermato che "la c.d. partecipazione esterna… si risolve, in realtà, nel fatto tipico della partecipazione punibile". D’altra parte, si è sottolineata la superfluità della figura in esame a fronte della previsione positiva di una serie di apporti esterni all’associazione di tipo mafioso (il favoreggiamento aggravato, l’assistenza agli associati, l’aggravante di cui all’art. 7 legge n. 203/1991, le varie forme di istigazione). Accanto alle predette forme tipizzate di contributo esterno al sodalizio mafioso, vi sono, inoltre, forme di concorso "interno" dell’extraneus: infatti, come da più parti sostenuto, le attività di promozione, costituzione e organizzazione, riferibili alla fase genetica dell’associazione, non sono necessariamente dipendenti dalla partecipazione interna all’associazione mafiosa. Ora, considerando la regola generale in base alla quale la disciplina del concorso eventuale è sempre applicabile al concorrente necessario, salvo che la diversa disciplina della fattispecie di parte speciale non lo impedisca, la previsione di forme di "concorso interno dell’estraneo" già individuate nell’art. 416 bis c.p., secondo un’apprezzabile dottrina (Sessa, 1999), rappresenterebbe proprio una delle deroghe all’applicabilità della regola suddetta. In sostanza, proprio dall’analisi della fattispecie associativa e delle norme accessorie, emerge l’inapplicabilità della clausola generale di cui all’art. 110 c.p., restando punite solo quelle condotte riferibili alle ipotesi tipiche di apporto "interno" (promotore e organizzatore non partecipi) o esterno (artt. 416 ter e 418 c.p., favoreggiamento personale e reale aggravato, istigazione, finanziamento dell’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti). Secondo un’altra tesi, la formulazione dell’art.416bis ("coloro che promuovono l’associazione sono puniti per ciò solo"), consente che un contributo di livello organizzativo possa essere apportato anche da un non associato: "non si può escludere che un soggetto estraneo al sodalizio possa svolgere un’attività (magari saltuaria) tale da contribuire dall’esterno alle strategie" dell’associazione. La natura composita del contributo apportato dall’organizzatore renderebbe possibile isolare talune attività specifiche di organizzazione che costituiscono un quid pluris su cui innestare il concorso esterno dell’estraneo, mentre dal contributo del partecipe sarebbe impossibile isolare una porzione autonoma dal "far parte". Tale tesi sembra ben collegarsi ad una importante pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui il concorso esterno è configurabile ma solo in ipotesi in cui si pongono in essere condotte utili per consentire all’associazione di uscire da situazioni particolari. L’argomentazione centrale è stata la seguente: "Il concorrente eventuale è, per definizione, colui che non vuole far parte dell’associazione e che l’associazione non chiama a far parte, ma al quale si rivolge, sia, ad esempio, per colmare temporanei vuoti in un determinato ruolo, sia, soprattutto nel momento in cui la fisiologia dell’associazione entra in una fase patologica, che, per essere superata, esige un contributo temporaneo, limitato, di un esterno. Lo spazio proprio del concorso eventuale materiale appare essere quello dell’emergenza nella vita dell’associazione. La anormalità, la patologia… può esigere anche un solo contributo, il quale può essere anche solo episodico, estrinsecarsi in un unico intervento, perché ciò… che rileva è che quell’unico contributo serva per consentire all’associazione di mantenersi in vita" . Sposta l’attenzione sul ruolo del partecipe all’associazione chi ritiene che concorrente esterno è colui il quale dà un contributo causale per lo svolgimento di tale ruolo, rappresentandosi il collegamento della sua condotta con quella del partecipe: "si può ipotizzare il concorso di una persona con un’altra per commettere un reato, ma non… il concorso di una persona con il reato (vale a dire l’associazione per delinquere) per commettere il medesimo reato". Si critica così la prassi che tende a personificare le associazioni criminali e ad affermare che il soggetto concorre dall’esterno all’associazione, laddove, invece, l’apporto dell’extraneus deve essere agganciato a quello dei soci intranei.
L’ultimo importante arresto giurisprudenziale e i suoi punti critici
Le ultime sentenze della Corte di Cassazione e, in particolare quella relativa al c.d. caso Carnevale (sentenza 21 maggio 2003, n.22327), hanno confermato la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa. La Suprema Corte parte dalla costruzione dei reati associativi (partecipazione, direzione ecc.) come fattispecie plurisoggettive proprie. Si afferma, infatti, che, accanto al comportamento adesivo dell’autore-partecipe, vi è necessariamente la condotta di "accoglienza" da parte dei già associati. "La necessità di ricorrere alle norme sul concorso eventuale deriva appunto dall’esigenza di assegnare rilevanza penale anche a contributi significativi resi all’organizzazione criminale da parte di chi non sia in essa considerato incluso dagli associati". Laddove non vi sia questa "accettazione" da parte degli associati, non si può avallare "l’irrilevanza penale di comportamenti significativi sul piano causale e perfettamente consapevoli", ragion per cui esiste uno spazio proprio per la figura del concorrente esterno. Scorrendo ulteriormente le motivazioni della suindicata sentenza, si sottolinea che, anche dal punto di vista logico, "la situazione di chi entra a far parte di una organizzazione, condividendone vita e obiettivi e quella di chi, pur non entrando a farne parte, apporta dall’esterno un contributo rilevante… sono chiaramente distinguibili". Inoltre, il dolo del partecipe e quello del concorrente non risultano del tutto sovrapponibili: anche se vi è coincidenza rispetto all’apporto contributivo all’associazione, il dolo del partecipe "è arricchito dall’elemento dell’affectio societatis, che, invece, per definizione è estraneo all’apporto del concorrente esterno. La novità introdotta dalla pronuncia in esame consiste nell’affermare che, per la configurabilità del concorso esterno, non appare sufficiente la mera consapevolezza che altri agisca con la volontà di realizzare il programma associativo. Viene, infatti, accolta la concezione c.d. monistica del concorso di persone e, conseguentemente, "il concorrente esterno è tale quando, pur estraneo all’associazione apporti un contributo che sa e vuole sia diretto alla realizzazione, magari anche parziale, del programma criminoso del sodalizio". Dal punto di vista soggettivo, la distinzione tra dolo del partecipe e del concorrente esterno si fonda, da una parte, sul segmento dell’atteggiamento psicologico che riguarda la volontà di far parte dell’associazione, dall’altra emerge in senso positivo, "poiché il ricorso alle norme sul concorso fa emergere comportamenti atipici rispetto a quelli delineati dalla fattispecie di parte speciale, ma che si pongono in relazione causale con quest’ultima". Dal punto di vista oggettivo, la mera "contiguità compiacente" o la "vicinanza" o la disponibilità nei riguardi del sodalizio o dei suoi esponenti, devono essere necessariamente accompagnate da positive attività che forniscono uno o più contributi utili al rafforzamento o al consolidamento dell’associazione, secondo gli stessi parametri usati per riconoscere la partecipazione. Infine, è importante evidenziare che "la fattispecie concorsuale sussiste anche prescindendo dal verificarsi di una situazione di anormalità nella vita dell’associazione" e che non ha un peso decisivo il fatto che l’attività del concorrente sia stata continuativa oppure episodica.
Restano, in ogni caso, le critiche verso questo ultimo indirizzo che così possiamo riassumere: l’estensione della punibilità grazie al meccanismo di cui all’art. 110 c.p. determina, in tal caso, una riconoscibile violazione il principio di tassatività e determinatezza. Di ciò anche la Corte Suprema sembra preoccuparsi, ma "liquida" la questione affermando che il rispetto dei suddetti principi "è tutto sommato raggiunto, perché il legislatore…individua condotte sufficientemente tipizzate (commi 1 e 2 art. 416 bis), onde la vocazione estensiva propria della norma di cui all’art.110 c.p. appare pur sempre ancorata a precisi riferimenti normativi"; si finisce per attribuire un peso eccessivo alla "decisione" degli associati di non accettare la partecipazione altrui: la punibilità qui appare derivare dalla scelta dei consociati circa l’accettazione o meno di un nuovo membro, non considerando adeguatamente il ruolo del c.d. extraneus e il suo contributo, il quale è pur sempre accettato, anzi cercato e sperato da parte dell’associazione e dei suoi componenti. Questa ricerca di contributi c.d. esterni, soprattutto nell’attuale sviluppo imprenditoriale delle organizzazioni criminose, dimostra chiaramente l’importanza "strategica" degli stessi per la vita dell’associazione; per tale via, visto che la stessa Corte sottolinea che tali contributi devono essere indirizzati all’associazione nel suo complesso, questi stessi apporti sono così utili da fare concludere che solo "formalisticamente" i loro autori possono definirsi "estranei" all’associazione; infine, si vuole sottolineare che, in base alla impostazione descritta, appare probabile che si ricorra alla figura del concorrente esterno in base a valutazioni in qualche modo riferibili a concezioni penali improntate all’inaccettabile tesi del "tipo d’autore": il rischio è che si ritenga sussistente la figura del concorrente esterno - e non del partecipe - e viceversa, a seconda che il soggetto imputato, per la sua vita e le sue abitudini, sia riconducibile ad un’area "sociologica" considerata prossima al "mafioso-tipo" oppure al "colletto bianco-tipo".
L’articolo 416 ter
Nel tentativo di superare i problemi legati alla configurabilità del concorso esterno nel reato associativo e di assicurare il soddisfacimento delle esigenze repressive che ne sono alla base, il legislatore, con l’art. 11 ter della legge n. 356/1992, ha previsto la fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso, introducendo nel codice l’art. 416 ter: "La pena stabilita dal c. 1 dell’art. 416 bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416 bis in cambio di erogazione di denaro". La formulazione lascia aperti alcuni interrogativi di difficile soluzione. Da un punto di vista letterale, la norma non richiede esplicitamente la presenza di un’associazione, ma, la sua collocazione nel codice, la stessa rubrica dell’articolo (che allude ad una forma di "scambio elettorale politico-mafioso") e, soprattutto, il richiamo alla "promessa di voti prevista dal terzo comma dell’art. 416 bis", militano a favore dell’opposta soluzione. Infatti, l’erogazione di denaro in cambio della promessa di voti può integrare di per sé le fattispecie incriminatrici in materia di corruzione elettorale. La vigenza di tali norme, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 416 ter, è confermata dal fatto che l’art. 11 quater legge n. 356/1992 si preoccupa di elevare il livello sanzionatorio per l’ipotesi di corruzione elettorale, di cui all’art.96 D.P.R. n. 361/1957; sostenendo l’idea che l’art. 416 ter contempli e punisca lo scambio elettorale intervenuto tra soggetti operanti uti singuli, si finirebbe, quindi, per avvalorare una duplicazione di fattispecie destinate a colpire lo stesso comportamento criminoso. Inoltre, le modalità che caratterizzano l’intimidazione mafiosa risultano poco conciliabili con il carattere "sinallagmatico" dell’accordo avente ad oggetto l’erogazione di denaro in cambio della promessa di voti: l’obiettivo di condizionare la libera espressione del voto, in questo caso, viene perseguito, non attraverso violenza o minaccia ma offrendo una somma di denaro a titolo di corrispettivo dell’impegno ad esercitare in un certo modo la facoltà di scelta elettorale. Lo scopo più evidente della norma, quindi, è quello di descrivere e tipizzare una particolare ipotesi di compartecipazione "eventuale" nel reato associativo, incentrandola sull’erogazione di denaro in favore di un’associazione mafiosa; un’utilità che risulta subordinata alla correlativa promessa di voti da parte dell’associazione. (De Francesco, 1995, p.75). La "promessa di voti di cui al terzo comma dell’art. 416 bis" deve intendersi come la promessa di voti effettuata da un’associazione mafiosa di garantire un sostegno elettorale adeguato in "termini di un ostacolo, di un impedimento o di un procacciamento di voti" anche a favore di terzi estranei all’associazione. La promessa di voti, proprio perché riferita a quanto disposto dall’art. 416 bis, non si può intendere come "promessa di votare", ma di "far votare" terzi in numero sufficiente a favorire il soggetto che ha erogato il denaro. Circa quest’ultimo, l’idea che esso debba essere destinato a favore dell’associazione e non di un singolo associato risulta comprovato dalla pena prevista per l’autore della condotta incriminata, individuata per relationem tramite il ricorso alla sanzione prevista dal primo comma dell’art. 416 bis. Ciò dimostra, ancora una volta, che "l’essenza originaria…del modello legale resta…quello di un aiuto prestato da un soggetto esterno all’associazione e rivolto al potenziamento e consolidamento ulteriore dell’efficienza…di quest’ultima" (De Francesco, 1995, p. 76). La norma, in ogni caso, si rivela insufficiente rispetto all’intento perseguito dal legislatore perché non si tiene conto del fatto che l’aiuto prestato all’associazione, nella maggior parte dei casi, non consiste in un’elargizione di denaro14, ma nel favorire in vario modo le cosche (per esempio, facendo assumere delle persone da queste indicate come dipendenti di pubbliche amministrazioni, specialmente locali).
L’articolo 418
Il delitto di assistenza agli associati (art. 418), già previsto dal codice del 1930 in relazione all’art. 416, ha subito un’automatica estensione dopo l’introduzione dell’art. 416 bis. Esso troverà applicazione anche nel caso in cui "fuori dai casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, sia fornito rifugio o vitto a chi partecipa ad un’associazione di tipo mafioso". È prevista un’aggravante in caso di prestazione continuativa e la non punibilità per il fatto commesso in favore di un prossimo congiunto. La clausola di riserva con cui esordisce la fattispecie, pone, il problema dell’individuazione di un preciso confine tra partecipazione al delitto associativo e l’ipotesi di assistenza agli associati. L’orientamento dominante afferma che il contributo riconducibile all’art. 418 non va a vantaggio dell’organizzazione nel suo complesso, ma dei singoli associati, anche se diversi. Si concretizza un’ipotesi di assistenza e non di partecipazione all’associazione anche quando ricorre la circostanza aggravante della prestazione continuativa, posto che anche tale reiterazione non avrebbe come destinataria l’associazione ma i singoli membri (De Francesco, 1995, p. 81). Un altro criterio per distinguere la condotta associativa dalla condotta di assistenza si può cogliere nel contenuto della volontà del soggetto che agisce. Entrambe le prospettive, però, non sono pienamente convincenti. La prima non considera adeguatamente il fatto che non è possibile cogliere un netto discrimine tra contributi prestati all’organizzazione e contributi prestati continuativamente a membri, anche sempre diversi, della medesima. L’accertamento rischia, di conseguenza, di essere totalmente influenzato dal solo dato finalistico soggettivo. In una prospettiva più garantista, si può prospettare "un ulteriore percorso interpretativo che dia adeguato rilievo alla precisa tipizzazione dei contributi più lievemente sanzionati dall’art. 418" (Insolera, 1996, p.101). Un supporto può trovarsi nei lavori preparatori del codice, in cui si valorizza la maggior precisione dei termini usati, vitto e rifugio, rispetto all’ipotesi di "dare assistenza" del previgente art.249. È significativo che il legislatore abbia voluto imperniare la distinzione sulla tipicità della condotta, piuttosto che sulle sue finalità. Ne deriva che, in presenza di quei comportamenti anche reiterati di cui al c.2 dell’art. 418, non accompagnati, però, da ulteriori condotte materiali funzionali alla vita del sodalizio, non sarà ipotizzabile il più grave delitto di partecipazione all’associazione. La ratio storica della norma è obsoleta, ma ciò non significa che, attraverso forzature interpretative, si possa configurare la partecipazione all’associazione anche in presenza della sola condotta di dare rifugio o vitto agli associati, considerandola come espressione dello svolgimento di un ruolo associativo. Così ragionando, infatti, l’art.418 troverebbe applicazione solo nel caso di prestazioni occasionali e ciò è escluso esplicitamente dal secondo comma.
Art. 418 e favoreggiamento
È opinione dominante che il rapporto tra l’ipotesi in esame e il delitto di favoreggiamento (di regola personale ex art.378 c.p.) sia risolvibile sulla base della specifica intenzione che sorregge la condotta: se la prestazione del dare rifugio o vitto è resa al fine di aiutare l’associato a sottrarsi alle ricerche o alle investigazioni dell’autorità, ricorrerà la fattispecie più grave di cui all’art. 378 (De Francesco, 1995, p. 82). Grazie ad una ricostruzione degli elementi oggettivi della fattispecie di favoreggiamento, si può, però, tentare di costruire una strada più affidabile per riconoscere le due ipotesi. In particolare, si deve porre un accento particolare sull’antitesi tra la condotta di aiuto e le indagini dell’autorità giudiziaria. In tale ottica, "il pericolo per il bene tutelato non è semplice scopo della tutela, ma criterio interno della sua conformazione-delimitazione". L’aiuto si realizza se il compimento della condotta di soccorso ha migliorato la posizione dell’aiutato rispetto alle investigazioni e alle ricerche dell’autorità statale. Bisogna che tale condotta d’aiuto modifichi la situazione di fatto, cioè il "contesto in cui si gioca la partita fra investigatori e inquisito" (Insolera, 1996, p.102). In tal modo, la distinzione tra la fattispecie di favoreggiamento e quella di assistenza non si fonderà solo sulla prova dell’elemento soggettivo. Infine, bisogna ricordare che l’art.2 legge n. 646/1982, inserendo un apposito capoverso dopo il primo comma dell’art.378, ha stabilito che la pena della reclusione prevista dal codice per il suddetto reato non può essere inferiore a due anni, qualora il favorito debba rispondere del delitto previsto dall’art.416bis. La norma fissa un aumento del minimo edittale di pena previsto dall’art.378 per l’ipotesi di chi aiuta consapevolmente un membro di un’associazione di tipo mafioso ad eludere le investigazioni, mirando "ad allentare la rete di protezione che solitamente avvolge gli associati di mafia".
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