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Parte quarta: il reinserimento sociale
L’ordinamento penitenziario vigente riservava la sua attenzione, all’argomento di cui al titolo di questa parte, negli artt. 45 e 46, inseriti nel Capo V° del titolo I°, denominato "Assistenza", e negli artt. da 72 a 78, nel capo III° del titolo I°, denominato "Servizio sociale e assistenza". Si può osservare, intanto, che tale normativa restava ancorata ad una impostazione assistenziale dell’intervento, come le denominazioni usate confermano. Di più, quasi tutto il sistema pensato negli articoli da 73 a 77, che sembra tendere di più ad un inserimento sociale, non è più operativo dal 1978. La Cassa per il soccorso alle vittime del delitto, è stata inserita fra gli enti inutili e soppressa con il DPR 616/1977, che territorializzava il sistema dell’assistenza, la cui gestione era affidata agli enti locali, accompagnata dalla soppressione dei sistemi assistenziali di settore. Per la stessa ragione, anche se non soppressi, i Consigli di aiuto sociale presso i tribunali ordinari, che avevano sostituito i Consigli di patronato presso le procure della repubblica, cessavano di essere operativi perché spogliati delle loro funzioni essenziali – assistenza economica alle famiglie dei detenuti e assistenza postpenitenziaria – esplicitamente passate, dallo stesso DPR 616/1977, agli enti locali. D’altronde, la Cassa per il soccorso alle vittime del delitto era in parte preponderante finanziata, ex art. 73, comma 7, con "le differenze fra mercede e remunerazione di cui all’art. 23", differenze che sono state eliminate dalla l. 10/10/1986, n. 663 (legge Gozzini) e i Consigli di aiuto sociale non potevano ormai ricevere che modesti contributi, sia per il venire meno delle loro funzioni essenziali, come detto, sia per il connesso venire meno dell’accesso ai finanziamenti della Cassa Ammende, funzionante presso il dipartimento della amministrazione penitenziaria (come è denominato oggi). Si deve dire, pertanto, che la normativa contenuta nel testo vigente dell’Ordinamento penitenziario, era limitata ad una prospettiva puramente assistenziale e, comunque,ha cessato da tempo di essere operativa. Due punti di riflessione e di intervento, quindi:
Esaminiamo i punti indicati.
A. Il senso principale della presente proposta di legge sta nel costante richiamo a quella finalità di rieducazione-risocializzazione-riabilitazione, affermata dall’art. 27 della Costituzione e ribadita dalla giurisprudenza costituzionale in sentenze, che sono state più volte richiamate. Di qui la riaffermazione della esecuzione della pena come la sede in cui si dà occasione al condannato di seguire in carcere un percorso riabilitativo e di preparazione all’inserimento esterno, che, nei tempi dovuti, si sviluppa logicamente ed ordinariamente in una fase alternativa alla detenzione, durante la quale la persona è seguita e sostenuta nel suo reinserimento sociale. Dunque: il diritto alla osservazione e al trattamento riabilitativo individualizzato, il diritto al riesame dell’esito di tale trattamento, il diritto, in caso di esito positivo di tale riesame, al passaggio a forme di esecuzione alternative alla detenzione, che accompagnino e realizzino, se vi sia, la positiva partecipazione dell’interessato, il suo recupero di un corretto ruolo sociale. Il tutto si definisce come un percorso con le sue articolazioni in fasi distinte, ma unificate da una precisa finalizzazione. Per tale discorso il concetto della assistenza, svolto dalla normativa vigente, ma, comunque, non più operativo, si manifesta chiaramente limitato. Va colto, invece, il processo di reinserimento sociale nel suo sviluppo e, dovendo essere lo stesso un processo ordinario e necessario, ne vanno regolati e stimolati avvio, evoluzione e realizzazione. E’ apparso indispensabile dedicare a questo un apposito titolo della normativa.
B. Questa nuova parte della normativa deve essere rivolta alla definizione concreta dei momenti organizzativi del processo descritto. L’impegno di concretezza porta inevitabilmente ad articolare la proposta in due parti distinte. La prima è quella dedicata al percorso di reinserimento sociale di ciascun condannato, alla ricostruzione delle operazioni e al coinvolgimento degli operatori, alla partecipazione dell’interessato, alla mobilitazione di organismi e persone, alla ritessitura dei rapporti socio-familiari. La seconda propone il nodo della emergenza penitenziaria attuale, che si può sintetizzare così: al carcere come ultima ratio si è sostituito un carcere come strumento sostitutivo di risposte sociali che non sono state e non vengono date. Si deve acquisire, da un lato, la consapevolezza di questa dinamica e contrastarne lo sviluppo recuperando proprio gli interventi sociali che sono mancati.
Vediamo di sviluppare l’analisi di quanto sinteticamente indicato sub A) e B). Quanto indicato sub A) forma l’oggetto della sezione prima. Quanto indicato sub b) forma l’oggetto della sezione seconda.
Sezione I. Relazione sul capo I° del titolo IV°: Interventi ordinari finalizzati al reinserimento sociale
Riportiamoci a quanto è già stato posto in evidenza in precedenti parti di questa proposta. Nell’art. 13 del testo vigente, dopo il comma 5, si aggiungeva il comma seguente: "I condannati e gli internati per la attuazione della finalizzazione costituzionale della pena e della misura di sicurezza alla rieducazione e alla risocializzazione, hanno diritto allo svolgimento della osservazione e alla predisposizione e successiva realizzazione, in costanza della collaborazione dell’interessato, del programma di trattamento previsto dai commi precedenti". Nell’art. 15, il comma 2 del testo vigente è sostituito dal seguente: "Per l’attuazione del programma di trattamento, ai sensi dell’art. 13, i condannati e gli internati hanno diritto a disporre degli elementi del trattamento di cui al comma precedente. Gli istituti penitenziari devono essere organizzati al fine di rendere tali elementi concretamente disponibili per gli interessati." Siamo qui ancora nella fase, interna agli istituti, dell’avvio, della definizione e del primo sviluppo del programma di trattamento, che diventa la prima parte del percorso riabilitativo per il reinserimento sociale. Ma passiamo all’articolo introduttivo della parte della proposta dedicata alle misure alternative: è quello cui si è dato il numero provvisorio 46bis. Il testo dell’articolo è costitutito da citazioni letterali di sentenze costituzionali (salva l’ultima proposizione dell’ultimo comma). Riportiamolo integralmente, rubrica e testo: "Diritti dei condannati. E’ riconosciuto, con riferimento all’art. 27, comma 3, della Costituzione, il diritto del condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla legge ordinaria, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo (sentenza 204/74 Corte Cost.). Il sistema normativo deve tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma predisporre anche tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle (sentenza n. 204/74 Corte Cost.). A tal fine sono stabilite le misure alternative alla detenzione o di prova controllata, che, attraverso prescrizioni limitative, ma non privative, della libertà personale e l’apprestamento di forme di sostegno, siano idonee a funzionare ad un tempo come strumenti di controllo sociale e di promozione alla risocializzazione (sentenza n. 343/87 Corte Cost.). Il funzionamento di tale sistema deve essere assicurato attraverso la creazione e il mantenimento di una organizzazione adeguata a svolgere le funzioni di controllo e di assistenza indicate nel comma precedente (v. sentenza n. 343/87 Corte Cost.). Quando il giudice competente accerta che il condannato si trova nelle condizioni, legali e di merito, previste dalla legge deve ritenere venuta meno la ragione della prosecuzione della pena detentiva e disporre che la stessa prosegua in misura alternativa (sentenza n. 282/89 Corte Cost.). Questa rappresenta un intervento ordinario e necessario attraverso il quale la pena viene eseguita e tale rimane, anche nei casi in cui la legge ordinaria lo preveda nei confronti di persone in stato di libertà."
Il percorso penitenziario, il suo svilupparsi, la sua finalizzazione, la reintegrazione sociale che si vuole favorire e realizzare nei confronti delle persone condannate o internate vengono bene in evidenza attraverso questi riferimenti a parti precedenti di questa proposta. E vorremmo aggiungere che tutto questo non viene introdotto con gli interventi normativi che precedono, né con quelli che si introducono qui. Tali interventi sono invece la registrazione, attraverso la più esplicita garanzia legislativa, di situazioni e processi già riconosciuti e utilizzati, anche se con una efficacia limitata, che può essere decisamente ampliata e migliorata con la copertura della legge. Credo sia utile, a questo punto, la citazione di due altre sentenze costituzionali, che riconoscono la rilevanza dello svilupparsi del percorso penitenziario ai fini del riconoscimento della ammissibilità ai benefici penitenziari dei condannati per reati esclusi dagli stessi in forza del periodo iniziale del primo comma dell’art. 4bis (che diviene 54bis in questa proposta): due sentenze, quindi, su un aspetto specifico, che indicano però la rilevanza di un aspetto generale. Si tratta delle sentenze della Corte costituzionale n. 445/97 e 137/99, che dichiarano incostituzionale la inammissibilità dei condannati ora indicati e affermano che i benefici penitenziari della semilibertà (prima sentenza) e dei permessi premio (seconda sentenza) possono essere concessi a coloro che, prima della data di entrata in vigore della normativa preclusiva, "abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata." Sono riconosciuti, quindi, il percorso della rieducazione, la crescita dello stesso, la individuazione del livello raggiunto dal suo sviluppo e si riconosce a tutto questo la sostanza di una situazione acquisita, che la preclusione non può colpire se non operando una "ablazione" dello sviluppo potenziale già avviato: ablazione che le due sentenze considerano incostituzionale. E la lettura delle motivazioni delle due sentenze chiarisce che la "adeguatezza del grado di rieducazione" si ricava dal programma di trattamento e della fase cui lo sviluppo dello stesso era pervenuto. Così, per quanto riguarda la sentenza relativa alla semilibertà si dava rilievo alla dichiarata possibilità di ammettere il condannato al lavoro all’esterno, come prova del "grado di rieducazione" raggiunto. La nozione di percorso penitenziario coglie per il condannato una situazione in movimento, il contrario di quella situazione statica che può essere propria di molte ordinarie situazioni penitenziarie. Il dinamismo dei percorsi di rieducazione-risocializzazione-riabilitazione del condannato è una caratteristica essenziale, che evidentemente non si fa da sé. Va stimolata, indotta, costruita con la efficacia dell’intervento degli operatori. La indispensabile partecipazione del condannato non è un elemento acquisito in partenza. Ci può essere chi si orienta da subito in questa direzione e chi invece ha bisogno di vedere ciò che spesso non cerca e altrettanto spesso semplicemente non ha: e cioè: prospettive, possibilità, risorse sociali e anche, sovente, volontà e fiducia di riuscire. Tutto questo lavoro riguarda la difficile "professionalità educativa" degli operatori, che, nella situazione di mancanza di risorse in cui gli stessi si sono mossi e tuttora si muovono, è stata spesso impedita. La presente proposta prevede, come necessità urgente, l’apprestamento di quelle risorse, ma richiama anche l’attenzione sulla esigenza della rete sociale, che è stata richiamata e descritta come una sorta di alleanza di socializzazione fra i vari servizi e organismi pubblici e privati con i quali il lavoro degli operatori penitenziari si deve sviluppare.
Gli aspetti specifici dell’articolato
Ai vari articoli del titolo IV° è stata data una nuova numerazione. Si parla qui del capo I°, articoli dall’1 al 6. In questi, ci si occupa delle modalità di intervento per i percorsi individuali di inserimento sociale. Nell’art. 1 si definisce la progettazione del percorso di reinserimento sociale. Lo stesso conta sul concreto riconoscimento di quel diritto alla osservazione e al trattamento individualizzato, di cui parla l’art. 13 della legge. Riconoscimento concreto di quel diritto vuol dire molte cose, di cui si occupa il titolo I° di questa legge. Vuol dire, intanto, che gli elementi del trattamento indicati nell’art. 15 della legge – lavoro, istruzione, altre attività interne, agevolazione e miglioramento dei rapporti socio-familiari – devono essere realmente disponibili in modo da funzionalizzarli al percorso di reinserimento sociale individuato. Vuol dire anche che la progettazione del percorso deve individuare o concorrere a definire e reperire le risorse necessarie perché il progetto si realizzi. Vuol dire, inoltre, che si deve tracciare e contribuire a realizzare il percorso giuridico che si avvia verso la ammissione alle misure alternative. Vuol dire, infine, che siamo dinanzi a un progetto flessibile, cui si accompagna una costante messa a punto in termini di concretezza e adeguatezza al caso. All’art. 2 si indicano le risorse organizzative. Si tornano a ricordare anche quelle che appartengono alle rete sociale, di cui si è già parlato quando si sono esaminati, in questa relazione e nell’articolato, i problemi del personale dell’area educativa e dell’area del servizio sociale. Si chiarisce che una risorsa importante della rete è il volontariato. All’art. 3 ci si sofferma sulle relazioni socio-familiari, che presentano aspetti diversi. Il primo è quello delle criticità familiari. Le stesse richiedono una attività di sostegno e di aiuto, che possa contribuire al superamento delle criticità e a fare diventare la famiglia una delle risorse significative della persona. Se la famiglia vuole l’inserimento sociale del condannato è in grado di porre in essere un condizionamento, una spinta ed anche un controllo, più capillare e più significativo di qualunque altro. Può accadere, purtroppo, anche il contrario. C’è, comunque, anche questo aspetto negli interventi per le famiglie: che sovente può servire a costruire la responsabilizzazione delle stesse, rispetto al familiare condannato, ma anche rispetto agli altri: si può pensare, in particolare, ai figli minori. E’ importante, ad ogni buon conto, superare le situazioni di conflitto fra il condannato e la propria famiglia, che sovente hanno caratterizzato la cornice del reato: pensiamo, ad esempio, a tutte le ipotesi di tossicodipendenza e alcooldipendenza, che producono pesanti tensioni familiari. Il comma finale dell’art. 3 disegna le potenzialità che ha l’intervento di risocializzazione della persona: in prima battuta, l’allargarsi a migliorare la situazione della sua famiglia, come già si è detto, ma, in seconda battuta, a denunciare la criticità di certe situazioni sociali, il degrado di quartieri, il disagio diffuso di realtà non solo cittadine. La denuncia di questo agli enti territoriali che hanno la competenza sugli interventi sociali da operare in certi contesti stimola l’intervento sulle situazioni individuali a diventare occasione di intervento collettivo, promozione della consapevolezza dei blocchi di socializzazione che si sono prodotti in parti della collettività e stimolo a provocarne il superamento. L’art. 4 è dedicato allo svilupparsi del percorso di reinserimento sociale nella fase delle misure alternative: la fase, cioè, in cui la esecuzione della pena si colloca fuori dal carcere e nel contesto sociale. C’è ancora il riferimento ad operare con l’apporto di una rete sociale. C’è la indicazione della esigenza di riconoscere ruoli e competenze di certi servizi, come nel classico esempio di quelli relativi alle tossicodipendenze: la esecuzione penale è quella che consente il migliore ed effettivo intervento di recupero sociale e pertanto non deve mettere la propria competenza al di sopra di quella di tali servizi, ma deve riconoscere ai medesimi lo spazio per agire con maggiore efficacia. Chiariamo con un esempio: l’andamento del programma terapeutico di un tossicodipendente deve essere valutato dal servizio specifico che lo segue. Sarebbe un errore che si sovrapponesse la valutazione del giudice. Ancora più concretamente: è noto che il percorso di superamento della dipendenza psicologica, la più complessa e difficile, non è rettilineo e privo di incertezze. E’ il servizio delle dipendenze che è però in grado di operare se, anche attraverso i momenti critici, il programma si sviluppa in direzione positiva. Se il giudice volesse fare valere la sua valutazione delle criticità e coglierle come violazioni delle prescrizioni, impedirebbe al programma terapeutico stesso di raggiungere, attraverso i suoi momenti di criticità, la propria possibile conclusione positiva. Non è senza significato l’ultimo comma dell’art. 4. La esecuzione della pena ha la sua durata e l’intervento specifico ricollegato alla stessa non può non concludersi con la fine della stessa. Ma il processo di reinserimento sociale, che ha visto una rete sociale affiancare i servizi penitenziari, non deve essere abbandonato se non si sia ancora concluso e consolidato. Si tratta, in sostanza, di prendere atto che questo sostegno alla socializzazione che è stimolato e che si svolge dentro la esecuzione della pena, è una fase di un "continuum" di attenzione sociale che deve essere riservato a tutte le situazioni di degrado e di criticità dei processi di socializzazione perché si arrestino le dinamiche di esclusione sociale e si producano nuovamente quelle di inclusione e reinserimento sociale, con effetti benefici sulle situazioni individuali e su quelle collettive. L’art. 5 è dedicato alla situazione di chi è ammesso dalla libertà alle misure alternative alla pena detentiva inflitta. Si traduce qui in articolazione normativa quanto si era osservato all’inizio della parte seconda, sezione prima, n.1, lettera d2. La legge Simeone-Fassone-Saraceni, modificando l’art. 665 del C.p.p., ha stabilito una situazione di eguaglianza nei confronti di tutti coloro che hanno da eseguire una pena non superiore a 3 anni o a 4 anni, se tossicodipendenti o alcooldipendenti, anche se residuo di una pena maggiore. Si è osservato che tale eguaglianza resta formale e non esclude la disuguaglianza sostanziale di fronte alla esecuzione della pena di chi è privo di quelle che complessivamente si possono chiamare risorse sociali. Nell’art. 5 in questione, si cerca di mettere in movimento una rete sociale di aiuto per coloro che mancano di quelle risorse al fine di consentire che essi partecipino di una modalità di esecuzione della pena diversa dal carcere, modalità che può essere, fra l’altro, per loro, l’occasione di acquisire quelle risorse sociali di cui mancavano.
Lo studio e la ricerca in materia penitenziaria
Si viene all’art. 6. Si può discutere sulla opportunità di inserire in questa parte dell’articolato una norma che favorisce gli studi e le ricerche in materia penitenziaria. E’ parso, però, che questo fosse il punto strategicamente migliore. L’idea di fondo della presente proposta è quella di dare corpo ad una esecuzione della pena conforme alle indicazioni costituzionali riepilogate nell’art. 46bis e di regolare normativamente una organizzazione adeguata ad applicare quelle indicazioni: non si può che rinviare al testo della norma indicata (vedi anche qui sopra al n 1 di questa sezione) e alle sentenze costituzionali n. 204/74, 343/87 e 282/89. Tanto premesso, è indispensabile una intensa attività di ricerca che valga a dare le indicazioni opportune circa le incompletezze e le inefficacie del sistema per favorirne la sua messa a punto e anche circa le conferme o meno dei ritorni positivi di una esecuzione penale diversa. Le ricerche in questione, pertanto, non devono essere volte, alla descrizione dei reati e dei loro autori, cioè alla costruzione di tipi di reato e di tipologie di autori (si possono ricordare le riserve di sentenze costituzionali – si ricorda, fra tutte, la n. 306/93 – che mettono in guardia dal ricollegare effetti normativi a tali costruzioni), come è proprio delle ricerche criminologiche. Come tutte le ricerche definitorie, le stesse colgono la statica dei reati e dei loro autori e, di conseguenza giustificano una statica delle pene e della loro esecuzione. Le ricerche cui si riferisce l’art. 6 fanno invece riferimento alla produzione, attraverso la esecuzione penale, di percorsi riabilitativi e di reinserimento sociale nella fase carceraria, prima, e in quella delle misure alternative, poi, e mettono così in luce e verificano la efficacia o la debolezza di quella che si è descritta come la politica penitenziaria, efficacia e debolezza valutate in riferimento alla Costituzione e alla nostra legislazione di riforma. In sostanza, si tratta di riflettere su una visione dell’intervento possibile in una specifica area del disagio sociale e della sofferenza umana in modo da cercare di modificare le criticità e di recuperare le persone ad un rapporto accettabile fra loro e il resto della comunità. Riflessioni del genere hanno interessato altre aree del disagio e delle sofferenze sociali ed umane, come quelle della malattia mentale o della demotivazione sociale delle dipendenze da sostanze, riproponendo sempre questa scelta fra risposta statica e di esclusione e risposta dinamica e modificativa di ricerca della inclusione nella comunità. In tal senso questa, come si è detto qui sopra, è la sede strategicamente migliore per inquadrare la necessaria attività di studio e ricerca nel nostro settore.
Sezione II. Relazione sui capi II° e III°del titolo IV°: gli interventi collettivi relativi a gruppi di persone in condizioni particolari
I processi attuali di carcerazione
Il discorso che si sviluppa qui era stato proposto nella parte conclusiva della premessa a questo titolo IV°. Si era indicato il nodo della emergenza penitenziaria attuale, che si era sintetizzato così: al carcere come ultima ratio si è sostituito un carcere come strumento sostitutivo di risposte sociali che non sono state e non vengono date. Si era concluso che si deve acquisire, da un lato, la consapevolezza di questa dinamica e contrastarne lo sviluppo recuperando proprio gli interventi sociali che sono mancati.
E allora vediamo di descrivere l’attuale emergenza penitenziaria, partendo dalla sua quantificazione. Articoliamo il discorso in vari punti.
A. C’è un’area della popolazione detenuta che raccoglie persone caratterizzate generalmente da situazioni di criticità sociale. Comprende:
B. Si crede di dovere dire, senza temere di essere smentiti, che l’aumento di questa area della popolazione detenuta è quello che determina l’aumento complessivo dell’area della detenzione. E’ pacifico, infatti, che i processi di ricarcerazione in atto, in primo luogo negli USA e anche nel Regno unito, diffusi ormai in tutta Europa, sono il quadro nel quale si è manifestato anche il processo di ricarcerazione nel nostro paese: poco meno di diecimila detenuti in più negli ultimi 5 anni. Ed è proprio l’area della detenzione sociale quella a cui quei processi di ricarcerazione si riferiscono. Ovvia la conclusione, che riprenderemo in seguito: se si vuole operare un contenimento e una riduzione dell’area della detenzione complessiva, bisogna agire proprio sui processi di ricarcerazione dell’area che abbiamo ora analizzato.
C. Si crede pertinente chiamare questa parte della popolazione detenuta: area della "detenzione sociale", termine il cui uso si sta diffondendo. Perché "detenzione sociale"? Perché appartengono a tale area gruppi di detenuti numericamente elevati, che hanno alle spalle: situazioni di partenza di disagio sociale; situazioni di sviluppo del disagio per la mancanza o insufficienza di un significativo intervento sullo stesso.
Questo è vero, parlando dei singoli gruppi, per l’area della dipendenza dagli stupefacenti, che parte, sovente, da situazioni sociofamiliari critiche e, anche se queste non vi siano, le realizza ben presto proprio per il genere di vita indotto dalla dipendenza. Avviatosi questo processo, mancano spesso sistemi di intervento adeguati a molta parte dei casi e, comunque, il modesto dimensionamento dei servizi non riesce a raggiungere o a raggiungere efficacemente molta parte della possibile utenza. E’ pacifico che questa è sovente poco collaborativa, ma la limitata dimensione dei servizi sarà inevitabilmente incapace di stimolare gli indifferenti e, spesso, di rispondere adeguatamente anche a coloro che cercano il loro sostegno.
Questo è vero anche per l’area della immigrazione, posta, data la legislazione vigente, in una situazione di esclusione sociale, che porta alla clandestinità e che, solo quando la situazione è assolutamente ingestibile, accetta una permanenza temporanea legata alla temporanea utilizzazione delle persone. Si parte da un rifiuto di socializzazione per arrivare, solo eccezionalmente e a tempi non prevedibili, ad una socializzazione sub condicione.
E non meno vera è l’analisi fatta per quelle situazioni diversamente problematiche che abbiamo indicato, che, più o meno sistematicamente, derivano da una mancata presa in carico delle criticità originarie, cui segue una situazione di abbandono sociale più o meno completo.
In tutte queste situazioni, non si può affermare che l’approdo al reato sia inevitabile e che, invece, sia possibile che lo stesso derivi da consapevoli scelte delinquenziali. Ma è indubbio che, nel numero elevatissimo di coloro che appartengono a questa area del carcere, la gran parte delle persone arrivano al reato e vi ritornano proprio perché l’attenzione sociale nei loro confronti è mancante o insufficiente o assume, come per gli immigrati, l’atteggiamento del rifiuto.
Parlare di detenzione sociale per questa area è dunque pertinente.
D. Il nodo che spiega la crescita della detenzione sociale è rappresentato da un atteggiamento che ha due facce strettamente connesse. Le due facce sono: la intolleranza per le manifestazioni del disagio sociale, fino alla c.d. tolleranza zero; e il complementare abbandono o sensibile riduzione delle politiche di intervento e sostegno al disagio stesso. Le politiche di sicurezza sociale che cercavano il benessere generale e avvertivano la esigenza di recuperare le aree e i gruppi in situazioni di criticità: cioè, le politiche della sicurezza finalizzata al miglioramento del livello di benessere generale hanno ceduto il campo alle politiche di una sicurezza difensiva, interessata a proteggere gli interessi delle persone garantite dalle ricadute del disagio dei non garantiti. Si forma una correlazione: più intolleranza, meno aiuto e sicurezza sociale, più sicurezza difensiva e intervento punitivo.
E. Si coglie questo processo con la espressione: dallo stato sociale allo stato penale, sintesi operata da molti studiosi che hanno colto gli aspetti negativi di quanto sta accadendo. Ed, infatti, la risposta penale colpisce le criticità umane, opera sulle aree della precarietà sociale, come un chirurgo che taglia via (ovvero sposta in carcere) le parti malate. Negli USA questa politica è ormai una scelta consapevole, da cui è derivata, nel giro di poco più di 20 anni, la decuplicazione della popolazione penitenziaria. In questo processo, va colto un aspetto: che lo strumento penale, carcere in prima linea, viene utilizzato come strumento sociale: per risolvere o, meglio, per soffocare le criticità sociali o, meglio ancora, per separarle dalla società e sequestrarle in carcere. A monte c’è il rifiuto dell’intervento sociale sulle aree sociali precarizzate. Queste contribuiscono con le loro manifestazioni – inevitabili in presenza del rifiuto di gestirle e possibilmente superarle – ad aumentare l’insicurezza o la percezione della stessa e l’unica rassicurazione sarà quella più semplice: la punizione e la carcerazione dei disturbatori. E’ evidente quello che si è detto: lo strumento penale e specialmente il carcere è usato come strumento sociale, come organo di gestione, cioè, di una situazione sociale critica. Con una certa enfasi si parla così del carcere come "discarica sociale": un enfasi, tutto sommato, realistica in quanto aree intere della precarietà soprattutto urbana, sono gettate in un contenitore particolare come il carcere, che, specie se gestito con questa funzione, soffoca ogni possibile vocazione sociale.
F. Il carcere cresce perché cresce questa detenzione sociale. L’impegno deve essere: depenalizzare e, là dove non è possibile, scarcerare la detenzione sociale o almeno parte considerevole della stessa. Date le sue dimensioni, una riduzione del 10% della detenzione sociale riduce il numero dei detenuti di circa 3.700 persone; una riduzione del 30% riduce il numero dei detenuti di circa 11.000 persone, una riduzione del 50% riduce il numero dei detenuti di circa 18.500 persone. E’ agevole una considerazione. La riduzione o la eliminazione del sovraffollamento comporta un recupero di funzionalità dello stesso carcere, che soffoca sotto la pressione di questa dinamica di crescita. Il sovraffollamento in sé diviene maltrattamento nei confronti dei reclusi e specialmente se lo stesso è vissuto in modo protratto nelle celle (20 ore su 24 come si è detto e ripetuto). Ma il sovraffollamento è anche causa di affanno, quando non di paralisi, di ogni servizio degli istituti. Quindi: ogni intervento deflattivo della popolazione detenuta migliora, ad un tempo, le condizioni di vita dei reclusi e la funzionalità dei servizi.
Conclusione. Come operare la riduzione dell’area della detenzione sociale? Questi i passaggi essenziali.
L’articolazione degli interventi per la riduzione dell’area della detenzione sociale
La riflessione si deve fermare sui punti che seguono.
Primo. Si tratta di ridurre l’area della penalità concernente la detenzione sociale, il che comporta un intervento su due piani: riduzione delle ipotesi di incriminazione: sia attraverso la depenalizzazione, sia attraverso forme di non incriminazione individualizzata; riduzione, inoltre, delle pene previste, ricordando che la maggiore durata delle pene comporta maggiore presenza giornaliera di detenuti in carcere.
Secondo. Scarcerare la detenzione sociale. Il che vuol dire accrescere la utilizzazione delle alternative alla detenzione, allo stato ancora modesta, e con una incentivazione degli strumenti normativi e con il potenziamento delle risorse organizzative ed economiche.
Terzo. Per realizzare questo occorre riportare la casistica della detenzione sociale nell’ambito sociale che è proprio della stessa: il che deve avvenire con il recupero pieno della risposta della sicurezza sociale in luogo della sicurezza penale. Tanto più cresceranno, come accennato al punto secondo, i mezzi organizzativi e le concrete risorse del sistema sociale, tanto più potrà ridursi l’indebita invasione penale: diventeranno, cioè, maggiormente praticabili l’area della penalità e quella della carcerazione.
Esaminiamo questi punti sub 1, 2 e 3.
1. La riduzione della penalità
Analizziamo la realizzazione di questo punto in ordine ai grandi gruppi di detenuti che compongono la detenzione sociale, ricordando che la riduzione della penalità riduce anche i processi di incriminazione ed ha quindi un effetto limitativo sulla grandezza dell’area della detenzione. Tossicodipendenti
In occasione della Conferenza sulle tossicodipendenze di Napoli (1997)furono date delle indicazioni generali, attraverso le quali, anche in relazione all’esito referendario del 1993, che aveva escluso la punibilità dell’uso personale e della detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti, si ridimensionasse la entità dell’intervento penale presente nella legge stupefacenti. Dopo la conferenza, fu istituita una commissione apposita, presieduta da Giuseppe La Greca, che concluse i suoi lavori con una appositi relazione e articolato. Questo è stato ripreso e integrato in una proposta di legge presentata il 24/7/2003 da Boato, Turco, Ruggeri ed altri, appartenenti a vari gruppi politici, i cui punti principali sono i seguenti: la esclusione della punibilità dell’uso personale e della detenzione per uso personale delle sostanze; la riduzione generale delle pene previste dal DPR 309/90, derivate dalla l. 162/90; la ulteriore riduzione delle pene nei confronti degli autori di fatti punibili che risultassero tossicodipendenti; la previsione per i tossicodipendenti autori di reato di istituti speciali di non incriminazione individualizzata: sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto e provvedimento di sospensione del procedimento penale con messa alla prova, cui seguirà, se l’esito della prova è positivo, la dichiarazione di estinzione del reato. Nel progetto è pure presente un intervento sulle alternative alla detenzione, che esamineremo, però, successivamente. Va precisato che sia nelle ipotesi di non incriminazione individualizzata, sia in quelle di misure alternative, l’intervento di depenalizzazione o di decarcerazione è sempre finalizzato allo svolgimento di programmi terapeutici di recupero dalla tossicodipendenza. La pena detentiva, quindi, non viene inflitta o, se inflitta, non viene eseguita, sempre in funzione dello svolgimento di un intervento sociale: al problema sociale non si risponde col carcere, ma con l’intervento sociale.
Ecco, dunque, per un gruppo rilevante della detenzione sociale, una risposta possibile attraverso le modifiche normative indicate. Nel frattempo, però, viene presentato, da Fini ed altri, un disegno di legge governativo, di segno del tutto opposto, basato sulla convinzione, tutta ideologica e contraria alle evidenze sperimentali, che la punizione, anche dell’uso personale, e il carcere siano una risposta pertinente al disagio sociale del tossicodipendente. Si torna a confidare che la pena e il carcere siano risposte convenienti ad una criticità sociale. Il che non potrà che avere un ritorno di ulteriore e incontrollabile aumento della detenzione sociale. Non ci si fa che muovere in una direzione opposta a quella che si sviluppa nella nostra proposta e nel suo articolato.
Partiamo da una considerazione. L’immigrazione è una risorsa per il nostro paese, come per tutti gli altri che appartengono al "primo mondo". Si tratta non di una espressione di buoni sentimenti, che spesso la accompagnano, ma di una constatazione di buone ragioni. E’ noto che tutto il settore della collaborazione e della assistenza domestica, delle lavorazioni agricole, stagionali e non stagionali, dell’edilizia e di molti altri settori produttivi ha necessità di questi lavoratori. Essi ci servono. Si tratta di un’ottica egoista, che dovrebbe essere sostituita da un’ottica diversa, quella della accoglienza. Ma restiamo pure all’ottica egoista. I sistemi seguiti, sia quello delle quote di persone ammissibili, sia quello attuale del rigoroso rapporto fra inserimento lavorativo previamente disponibile ed accertato e rilascio del permesso di soggiorno, sono serviti soltanto a produrre clandestinità e lavoro sommerso. La prima è un incoraggiamento ad una vita di espedienti che può sfociare nel reato. Il secondo è un danno per gli immigrati, ma anche per il nostro sistema previdenziale e fiscale. Il risultato è che ricorrentemente si passa a interventi eccezionali di regolarizzazione. Interventi che sono inevitabili. L’ultima regolarizzazione operata nel nostro paese, che ha interessato quasi 700.000 persone, è stata realizzata in corrispondenza di una legge di restrizione agli ingressi e di potenziamento delle espulsioni. E’ singolare che, nel momento in cui si voleva ridurre il fenomeno, si sia operata una regolarizzazione che risulterebbe essere la più ampia mai realizzata in Europa. Anche se si tratta di una riduzione modesta rispetto a quella che si prepara o è in atto in USA per alcuni milioni di messicani, da tempo presenti in quel paese: da notizie giornalistiche, si fa strada la convinzione che un sistema di liberazione degli accessi consenta un migliore controllo e, indirettamente, un maggiore contenimento del fenomeno. La morale è che, quando si vuole comprimere un fenomeno non arrestabile (si insiste su questo: non arrestabile), si arriva poi ad un momento in cui si deve riconoscere proprio la realtà che ha forzato le regole restrittive. I sistemi da noi usati, con precise finalità di contenimento, esasperate nella vigente legge Bossi-Fini, non sono gli unici possibili, come dimostrano i sistemi diversi operati in altri paesi europei, non finalizzati alla opposizione o ad un rigido filtro all’ingresso. Dobbiamo anche essere consapevoli della provvisorietà di qualsiasi sistema in questa materia. Le normative sono tipicamente provvisorie e si possono manifestare soluzioni per altre vie. A questo riguardo, è facile rilevare che l’entrata nella Comunità europea di molti paesi dell’Europa orientale, faranno venire meno la esigenza del permesso di soggiorno, cosa che invece pare non essere, per ora, avvenuta per una scelta amministrativa, non si sa quanto legittima, a dimostrazione che l’entrata e la permanenza irregolare nel nostro paese è solo il frutto di una determinata politica ideologica verso l’immigrazione, talvolta neppure derivante da scelte legislative. Si può osservare che, se questi sistemi sono inevitabilmente provvisori, dovrebbero essere meno rigidi e oppositivi possibile.
Manca per ora una concreta proposta di una diversa legislazione sulla immigrazione. Anche qui si tratta di un problema sociale: quello di prendere atto, da un lato, che abbiamo bisogno di queste persone, e dall’altro, che occorrono strumenti sociali di accoglienza, in grado di aiutarne l’inserimento sociale e sostenerne i momenti di precarietà. Fra l’altro, non è che questi strumenti siano del tutto assenti. Esistono molte iniziative importanti, specialmente del c.d. terzo settore, condannate anch’esse ad agire in semiclandestinità, come accade per le persone assistite. Cogliamo anche qui l’assoluta mancanza di pertinenza di rispondere col sistema della pena o con quello delle espulsioni ad un problema sociale che è, al tempo stesso, nostro e loro: noi abbiamo bisogno del loro aiuto e loro sono pronti a darcelo. Se si vuole, si tratta di prendere atto che il problema è di fare incontrare domanda e offerta, fornendo strumenti sociali utili ad evitare il prodursi di criticità maggiori di quelle sulle quali si vuole intervenire. E’ singolare il problema posto recentemente presso alcuni uffici di polizia: che gli interventi di intercettazione degli irregolari e della loro espulsione stanno assorbendo buona parte del lavoro del personale di polizia, che deve rallentare il vero e proprio lavoro di contrasto alla criminalità.
Tiriamo una conclusione. Il sistema attuale del nostro paese verso l’immigrazione è inaccettabile. Esso produce clandestinità e questa, da una parte, porta a criminalizzare ciò che non è criminale, come la semplice permanenza in Italia, o a situazioni di precarietà che si esprimono anche in atti di criminalità; dall’altra parte, favorisce un mercato del lavoro sommerso che, oltre ad essere ingiusto ed illegale, sottrae risorse ai nostri sistemi previdenziale e fiscale. Questo meccanismo va evitato. Vanno favoriti tutti gli interventi operati sul piano sociale e da quelle che sono le varie organizzazione di solidarietà e da iniziative di socialità pubblica, che possono anche utilizzare questa particolare forza lavoro per iniziative socialmente utili. La espulsione deve essere uno strumento eccezionale e non ordinario e non può essere utilizzato contro chi, anche avendo sbagliato, dimostra, poi, di essere capace di integrazione. Ma, in conclusione, il ricorso allo strumento penale dinanzi ad un rilevante problema sociale è da abbandonare costruendo un intervento diverso.
Questa parte della detenzione sociale si riferisce a persone che presentano gravi problemi di socializzazione: persone con problemi psichiatrici, dipendenti da alcool, "barboni" o senza fissa dimora. Non rappresentano casi isolati ed eccezionali in carcere, ma rientrano nelle storie di ordinaria follia (non si sa se degli interessati o di chi ve li invia) che il carcere intercetta sempre più frequentemente Per costoro, la via più semplice sarebbe quella di un ricorso alle alternative alla detenzione, quale strumento di un adeguato intervento sociale. Il carcere sembra, in effetti, non pertinente a tale casistica. Ci si potrebbe chiedere, quindi, se non sarebbe adeguato, anche nei confronti di queste persone, il ricorso agli istituti di non incriminazione individualizzata, previsti nella proposta di legge Boato ed altri per i tossicodipendenti, ricordata sopra. Questo problema potrebbe essere affrontato attraverso emendamenti alla proposta legislativa ora ricordata.
Questa materia può anche riguardare un altro intervento di carattere penale: quello che riguarda le persone socialmente pericolose sottoposte a misure di sicurezza detentive. Si tratta di circa 1.500 persone,pari, quindi, a circa il 2,8% della popolazione detenuta.
Va detto che le misure di sicurezza sono state introdotte con il codice penale del 1930 e che i vari progetti di legge delega per un nuovo codice penale, mai divenuti concreto disegno di legge, prevedono la soppressione delle medesime, salvo quelle relative agli infermi di mente autori di reato. Nella passata legislatura è stata avanzata una proposta, a firma Corleone ed altri, che prevedeva una soluzione radicale, che passava attraverso: la soppressione della non imputabilità, l’abolizione del proscioglimento per vizio totale di mente e la responsabilità penale degli autori di reato, l’abolizione conseguente di tutte le misure di sicurezza. E’ possibile che la radicalità di tale progetto rispetto a punti fondamentali del diritto penale, come quello dell’imputabilità, lo renda di difficile praticabilità. Ma, per gli affetti da vizio totale di mente autori di reato, la Regione Toscana, sempre nella passata legislatura, presentò, ai sensi art. 121 Costituzione, una autonoma proposta di legge, che aboliva la misura di sicurezza della casa di cura e custodia per i seminfermi di mente e conservava, per gli infermi di mente autori di reati, una figura di misura di sicurezza, che potremmo chiamare sociale, gestita dal servizio psichiatrico pubblico con due soluzioni diverse: una con internamento e l’altra senza internamento: la proposta regolava anche altre materie connesse. Presso il Ministero della giustizia, nella fase finale della legislatura precedente, venne messo a punto un progetto, che non è stato presentato, nel quale si riprendevano, con il diverso sistema della modifica delle singole norme del codice penale, le indicazioni del progetto della Regione toscana e si sopprimevano anche le misure di sicurezza detentive diverse (oltre alla casa di cura e custodia, anche la colonia agricola e la casa di lavoro). Il settore delle misure di sicurezza, che impegna varie strutture e vario personale, dovrebbe rientrare tra quelli cui coordinare l’intervento penitenziario che si ridisegna in questa proposta. L’abolizione di una parte significativa delle misure e la conservazione con gestione sociosanitaria pubblica della sola misura relativa agli infermi di mente autori di reato potrebbe utilizzare le tracce di lavoro di cui alle proposte di legge suindicate, anche qui nella linea di una riduzione della penalità (che andava, poi, nel senso di cui alla sentenza costituzionale 253/2003).
2. La scarcerazione della detenzione sociale
La riduzione dell’area della penalità è essenziale, ma altrettanto importante, ancora più attuale e con la possibilità di effetti più rapidi, è la riduzione dell’area della carcerazione. L’impegno immediato, infatti, deve essere quello di scarcerare la detenzione sociale, anche nella vigenza della legislazione attuale.
Nella riflessione sulla scarcerazione dell’area della detenzione sociale, bisogna fare una prima distinzione fra: la parte che è interessata dalla esecuzione della pena e delle misure di sicurezza; la parte che è interessata dalla custodia cautelare. Come è noto, infatti, l’area complessiva della detenzione si ripartisce fra condannati e internati in una situazione giuridica definitiva e persone in custodia cautelare (c’è anche un modestissimo numero di soggetti in misura di sicurezza provvisoria) in una proporzione del 55% dei primi e 45% delle seconde. Se noi applichiamo queste percentuali all’area della detenzione sociale (calcolata in circa 38.000 soggetti), abbiamo: circa 21.000 definitivi e circa 17.000 giudicabili. I problemi per questi due gruppi si presentano diversi. Affrontiamo per primi i problemi dei definitivi. Le riflessioni su questi renderanno più agevole l’esame dei problemi dei giudicabili.
Persone in esecuzione pena o in misura di sicurezza definitive
Al riguardo, il discorso si può articolare sui seguenti punti.
Primo punto.
Il primo è quello della migliore efficienza del sistema normativo di alternative alla detenzione. Questa preoccupazione è presente, per i tossicodipendenti, nella proposta di legge già ricordata di Boato, Turco, Ruggeri ed altri, nella quale: si sostituisce la misura alternativa della sospensione della esecuzione della pena detentiva, di cui all’art. 90 del DPR 309/90, con una ipotesi di affidamento in prova per coloro che hanno commesso i reati in relazione al loro stato di tossicodipendenza e che hanno già svolto e concluso positivamente un programma terapeutico per il superamento della loro condizione: in tal caso è oggi applicabile la sospensione della esecuzione, misura, però, di scarsissima applicazione in quanto manca di un organo di gestione e sul versante dell’aiuto e su quello del controllo; si inserisce, nell’affidamento in prova in casi particolari di cui all’art. 94 del DPR 309/90, la previsione della competenza alla presa in carico degli stranieri, apolidi e senza fissa dimora, stabilita in capo al servizio sanitario pubblico nel cui territorio si trova la persona; si aggiunge un nuovo articolo, 94bis del DPR citato, nel quale , per i condannati ad una pena superiore a quella prevista dalle norme indicate (superiore, quindi, a quattro anni) si istituisce una nuova misura di sicurezza alternativa, denominata: programma di reintegrazione sociale nell’ambito del programma terapeutico e riabilitativo.
Per gli immigrati, devono essere superate le incertezze che condizionano molti operatori sulla ammissibilità degli stessi alle misure alternative. E’ pacifico, per lo stesso Ministero dell’interno, che emise una circolare in proposito, che, in presenza di una pena in esecuzione, in semilibertà o lavoro all’esterno o nelle misure alternative dell’affidamento in prova o della detenzione domiciliare, non occorra alcun permesso di soggiorno e vi possa essere, quindi, l’inserimento lavorativo o sociale previsto dalla misura alternativa concessa. Il problema sorge anche per la espulsione dallo Stato al termine della misura. Dovrebbe essere chiarito che la stessa non deve condizionare la ammissione alla misura alternativa e che la decisione, in seguito, sulla espulsione dallo Stato deve appartenere al magistrato di sorveglianza e che la decisione, in sede giurisdizionale di questo, prevale su ogni decisione amministrativa. Su questi ultimi punti si è intervenuti nella parte seconda del titolo secondo, affrontando il tema della esecuzione dei trattamenti penali diversi dalla esecuzione della pena detentiva.
Per le altre criticità, infine, sarebbe da prendere in considerazione, eventualmente attraverso un emendamento alla proposta di legge Boato, Turco, Ruggeri ed altri, la estensione a questo gruppo di una misura come l’affidamento in prova in casi particolari, d’altronde già applicabile agli alcoolisti, con problematiche diverse dai tossicodipendenti e più vicini a questa parte della detenzione sociale.
Secondo punto.
Il secondo punto è quello della reale efficienza del sistema organizzativo per scarcerare la detenzione sociale. Come si è visto il sistema normativo, trattato al primo punto, può essere migliorato, ma già quello vigente offre spazi considerevoli. Proviamo a svolgere la nostra riflessione, a titolo di esempio, per i tossicodipendenti. Per questi, possiamo, anzi, dire che la legge privilegia, rispetto al carcere, la opzione della misura alternativa legata alla attuazione di un programma terapeutico: la legge privilegia, quindi, la sostituzione della risposta propriamente penale, cioè detentiva, con una risposta sociale, cioè con la risposta che cerca di superare il problema sociale della persona. Ciononostante, la concreta applicazione del sistema normativo vigente interessa una percentuale molto bassa dei casi ammissibili. Perché? La risposta alla domanda va individuata nel sommarsi di due inefficienze: quella del sistema organizzativo penitenziario nell’area c.d. educativa-pedagogica; quella dei servizi delle tossicodipendenze operanti in carcere e fuori del carcere. Si aggiunge, poi, una ulteriore inefficienza, rappresentata dalla scarsa tempestività delle decisioni sulle istanze da parte della magistratura di sorveglianza, intempestività piuttosto generalizzata, salva qualche isola di efficienza. Si aggiunge spesso la qualità delle decisioni dei giudici, quando entrano nella valutazione dei programmi terapeutici, andando al di là del loro ruolo. La misura di queste inefficienze è espressa dalla entità dell’area della tossicodipendenza che resta in carcere, che può ancora essere utilizzata quale esempio. L’analisi può essere limitata ai detenuti in esecuzione di pena (condannati definitivamente) e ammissibili a misure alternative. Si è detto che i tossicodipendenti nei carceri italiani sono circa 15.500 (27% della presenza media dei detenuti in un giorno). Dei 15.500, 8.500 dovrebbero essere condannati definitivi, nelle condizioni, cioè, di potere essere ammessi a misure alternative. Alcuni, è vero, non sono in tali condizioni per la entità della pena, che supera i quattro anni, ma la grande maggioranza sarebbe invece ammissibile. Quanti sono gli affidati in prova al servizio sociale dalla detenzione ai sensi art. 94 T.U. 309/90, misura specifica per i tossicodipendenti? Nell’anno 2001, in Italia, sono stati: 837 complessivi, di cui 405 a Nord, 191 al Centro e 241 al Sud: i casi "seguiti" nel corso del 2001, aggiungendo le nuove ammissioni ai casi pendenti a inizio anno, sono stati, invece, 1620 complessivi, di cui: 832 al Nord, 357 al Centro e 431 al Sud. Conclusione: al di là di tutti i conteggi e della loro opinabilità, l’ammissione alle misure alternative funziona male se delle stesse fruiscono poco più del 10% di coloro che potrebbero fruirne. Non è quindi soddisfatta la indicazione che viene dalla legge, che privilegia, per i tossicodipendenti, una esecuzione della pena con programmi terapeutici-riabilitativi fuori dal carcere. Si può anzi dire che quello che dovrebbe essere un intervento ordinario e sistematico è in concreto un intervento eccezionale. Ma perché non riceve un impulso adeguato la ammissione alla misure alternative? Perché, si ripete, il sistema funziona male, perché vi sono quelle inefficienze affermate all’inizio.. Manca intanto una presa in carico capillare al momento dell’arresto. Presa in carico che dovrebbe essere il frutto di un approfondito colloquio di primo ingresso da parte del personale penitenziario, che dovrebbe segnalare il caso al SERT interno. La segnalazione del caso avviene, invece, solo per la prosecuzione o l’inizio della disassuefazione metadonica, da avviare spesso a rapida conclusione: e questo solo quando, in qualche modo e non sistematicamente, la esigenza di tali interventi emerge. Dopo di che gli interventi delle strutture sanitarie, piuttosto che del SERT (che ha concluso la disassuefazione con metadone), saranno diretti alla sostituzione del metadone con farmaci per sopire – letteralmente - anziché per affrontare i problemi.
Come procedere allora? E’ indispensabile che le insufficienze organizzative dell’area educativa penitenziaria siano superate attraverso gli interventi sul personale degli istituti di pena che si sono prospettati nel capo III° del titolo III° di questa proposta. E’ pure indispensabile che siano superate le insufficienze organizzative della magistratura di sorveglianza così come previsto dal capo III° del titolo II° di questa proposta. Ma ciò che è altrettanto indispensabile è che l’apparato organizzativo dei servizi pubblici concernenti le tossicodipendenze raggiunga il livello operativo che corrisponde ai loro compiti: in primo luogo fuori dal carcere e in secondo luogo in carcere. E ovviamente è necessario che tali servizi dispongano delle risorse economiche necessarie per svolgere la loro funzione rispetto ai bisogni reali che devono essere soddisfatti. Oggi: la condizione di incompletezza del personale presso i servizi esterni e presso quelli in carcere è sistematica. E questo, mentre, per il carcere, si è ribadito – come era chiaro fin dal DPR 309/90, comma 3 dell’art. 96 – la competenza esclusiva dei SERT per l’assistenza ai tossicodipendenti. Oggi è sistematica la progressiva riduzione delle risorse economiche dei servizi, così che le prestazioni dirette – ovvero i programmi terapeutici condotti presso le sedi di servizio - diventano sempre più limitate e che le disponibilità per gli inserimenti comunitari vengono progressivamente ridotte anno dopo anno. Dunque: esistono le condizioni normative per un efficace contenimento della detenzione sociale, ma va costruito il sistema di risorse organizzative in grado di realizzare questo contenimento e di sostituire la risposta carceraria attuale con risposte sociali che affrontino le criticità per superarle.
Si è affrontato questo aspetto concreto e operativo della scarcerazione della detenzione sociale facendo riferimento, come situazione esemplare, a quella dei tossicodipendenti in carcere. Ma anche per l’immigrazione e per le altre criticità la situazione è simile, le soluzioni corrispondenti.
Le persone in custodia cautelare
Questa parte può essere sviluppata in riferimento alle considerazioni già svolte al numero precedente, soffermandosi essenzialmente sulle diversità di situazioni, interventi e possibilità di quella parte della detenzione sociale in custodia cautelare rispetto a quella parte in posizione giuridica definitiva. Partiamo dai numeri. Tenendo sempre presente il rapporto fra detenuti – sempre dell’area della detenzione sociale - in esecuzione definitiva, pari al 55%, e detenuti in custodia cautelare, pari al 45%, questi ultimi dovrebbero essere circa 17.000. Un numero, quindi, estremamente importante, che sollecita un intervento anche su questa parte della detenzione sociale. La prima considerazione da fare è che un’area così rilevante della custodia cautelare in carcere è il segno di un sistema giudiziario, che non si trova in un rapporto soddisfacente con il comma 2 dell’art. 27 della Costituzione, che stabilisce che "l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva". Tanto più questa inadeguatezza rispetto al precetto costituzionale è significativa per l’area della detenzione sociale, nella quale dovrebbe esserci una netta prevalenza di persone con imputazioni di minore importanza. Per queste, dunque, la esecuzione del trattamento detentivo più grave, quello detentivo, è anticipato rispetto alla sentenza, che non è detto sarà quella di condanna. Si tratta di un discorso non secondario, che presuppone però interventi generali sul sistema giudiziario che ci porterebbero troppo lontano. Verifichiamo, invece, se vi siano normative o situazioni particolari che determinino la rilevante entità della custodia cautelare nella detenzione sociale. Quanto alla normativa, solo per tossico e alcooldipendenti esistono previsioni specifiche per la custodia cautelare, contenute nell’art. 89 del DPR 309/90. In tale norma, sono contenute, ai commi 1 e 2, affermazioni di principio molto incoraggianti: non può essere disposta la custodia cautelare in carcere nei confronti di persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico e la custodia cautelare in carcere va revocata nei confronti di chi, nelle stesse condizioni, intenda sottoporsi ad un programma terapeutico. Tali disposizioni si applicano, però, "salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza", eccezione comprensibile, anche se apre alla discrezionalità del giudice nella valutazione di tali esigenze, discrezionalità che può avere gli esiti più diversi. Ma la eccezione più grave è quella contenuta nel comma 4 dello stesso art. 89, per cui la esclusione della custodia cautelare in carcere per tossico e alcooldipendenti non vale quando si procede per uno dei reati indicati dal comma 2, lettera a), numeri da 1 a 6, dell’art. 407 del C.p.p.. Fra i reati indicati, si possono esprimere riserve per i reati, consumati o tentati, di rapina ed estorsione, sia pure aggravate (n. 2), tenendo conto della casistica molto eterogenea di tali reati, e dei reati compresi nel DPR 309/90 (n. 6), sovente contestati nella fase iniziale dei procedimenti con le previsioni più gravi, spesso escluse o ridimensionate nelle decisioni finali. Ciò che soprattutto non funziona è la obbligatorietà della disciplina, che esclude la possibilità, per il giudice, di consentire la attuazione dei programmi terapeutici. Concludendo, potrebbe esservi spazio ad una revisione della normativa in materia. Ciò non toglie che difficilmente per questa via si ridurrebbe sensibilmente l’area della detenzione sociale in carcere. Per una parte estremamente rilevante, la custodia cautelare di questa area è frutto di una scelta dell’autorità giudiziaria procedente, dovuta alla mancanza di alternative rassicuranti. E, quindi, spesso comprensibile. Ma il problema si sposta sul punto se tale inadeguatezza o mancanza di prospettive possa essere evitata: se cioè si possano offrire o meno alternative soddisfacenti alla scelta detentiva. Ci si può soffermare su alcune questioni, che riguardano questo tema. La prima concerne soprattutto l’area della immigrazione, ma anche quella dei senza fissa dimora, ivi compresi i c.d. nomadi. Si tratta del problema della identificazione. In molti casi non si è affatto sicuri, e spesso ragionevolmente, della autenticità delle generalità indicate dall’imputato. Senonché, esiste già da anni un sistema generale di identificazione dattiloscopica, che viene fatto funzionare eccezionalmente, mentre vi sono tutte le condizioni perché sia messo a regime in via ordinaria e generale. Anche la conformazione delle modalità di rilevazione delle impronte da parte dei vari organismi (carceri e uffici di polizia) dovrebbe essere da tempo operativa. E’ chiaro che il problema della incertezza sulla identificazione ha, sullo sfondo, un altro e più grave problema: un domicilio e l’affidabilità di tale domicilio e delle risorse per vivervi. Si ritorna, qui, alla ricerca di risposte sociali, sulle quali si deve ripetere quanto già detto. Primo: che vi sono iniziative di accoglienza e solidarietà: andrebbero sostenute e integrate, ma ci sono. Secondo: che le stesse o le altre che sarebbero necessarie sono oggi condannate a navigare a vista in una situazione di irregolarità che si comunica da chi riceve assistenza a chi la fornisce. Terzo: che la rete parentale e amicale è in molti casi esistente e di essa va soltanto verificata la affidabilità. Esistono risposte sociali, spesso da integrare, cui dare risorse e garanzie: ma è pregiudiziale l’abbandono della scelta del rifiuto e della espulsione e la adozione della scelta opposta. Se si procedesse in tal senso, molta parte della immigrazione in detenzione sociale potrebbe non arrivare o non restare in carcere. Si tenga conto della circostanza che si espiano in custodia cautelare in carcere condanne da 6 mesi a 1 anno, relative a lievi reati contro il patrimonio o allo spaccio di stupefacenti e che, restando in custodia cautelare, non si può neppure battere la strada della esecuzione penale in misura alternativa, che potrebbe offrire, attraverso le misure alternative, una occasione di inclusione. Per i tossicodipendenti e alcooldipendenti in custodia cautelare si ripropone una questione già esaminata per i condannati e internati definitivi: la povertà organizzativa dell’area educativa penitenziaria e dei servizi pubblici all’interno e all’esterno del carcere. Si rimanda a quanto già detto nelle pagine precedenti. Si è parlato sinora di custodia cautelare in carcere. La casistica della detenzione sociale potrebbe, per vero, trovare alternative al carcere nelle misure cautelari diverse, prima fra tutte quella degli arresti domiciliari presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora o in luogo di cura e assistenza. Accenniamo solo al problema. Anche qui la qualità delle risposte e occasioni esterne potrebbe incrementare risposte diverse e ridurre la detenzione sociale in carcere, ma il problema resta sempre quello dell’arricchimento sul piano sociale della qualità di queste occasioni e risposte.
Dall’intervento penale all’intervento sociale: un percorso per la detenzione sociale
Si sviluppa qui il terzo dei tre punti indicati all’inizio di questa riflessione.
Il discorso può essere sintetico e riprende quello che più analiticamente si è condotto in precedenza. L’area, estesa e in costante crescita, della detenzione sociale è il frutto di un processo che è stato sintetizzato con la espressione: dallo stato sociale allo stato penale. Occorre compiere il percorso inverso e tornare dallo stato penale a quello sociale. Il che vuol dire – per quanto detto e ripetuto, è abbastanza chiaro – che la società, attraverso i suoi organismi responsabili, deve recuperare le proprie funzioni e dare alle situazioni critiche che sono state spostate verso la risposta indifferenziata della discarica carceraria, le risposte sociali reali in grado di analizzare le criticità, affrontare le stesse e, in quanto possibile, superarle e risolverle. Tanto più le risposte sociali proprie sono efficaci, tanto più le risposte penali improprie potranno essere abbandonate e rimosse. Lo si è accennato per uno dei gruppi della detenzione sociale: i tossicodipendenti. Il sistema dei servizi pubblici è incompleto, reso, via via più impotente dalla riduzione delle risorse organizzative ed economiche sulle quali potere contare. Senza quelle risorse, i programmi terapeutici diventano evanescenti o non sono possibili e, in tale situazione, quei programmi non possono produrre inserimento sociale e, ove sia possibile e utile, inserimento lavorativo. Questo comporta impegno, non solo economico, ma anche economico, che è indispensabile recuperare. Certo, ci saranno risorse economiche da mobilitare. Ma non si dovrà ignorare che il costo di un detenuto in carcere e almeno cinque volte superiore a quello della sua presenza in una comunità e che il costo dell’apparato delle misure alternative è incomparabilmente inferiore a quello della esecuzione della pena in carcere. Gli ultimi dati, segnalati anni fa e probabilmente da rivedere oggi con un modesto rialzo, davano la spesa per le misure alternative al 2% dell’intera spesa penitenziaria. E questo è il discorso economico, mentre sopra si è fatto il discorso della adeguatezza e qualità dell’intervento in misura alternativa, il cui senso è: rimuovere il carro dell’intervento nell’area sociale dal binario morto del carcere, e riportarlo sulla linea propria e costruttiva che si è sopra indicata. Anche per la immigrazione questo è possibile e lo si accennerà poi attraverso i progetti da realizzare. Certo, occorrerà cambiare il segno della politica sociale attuale, che ha il suo simbolo e il suo strumento nella espulsione, spesso risposta immediata e prospettiva finale, comunque, alla conclusione della temporanea allocazione lavorativa che ha consentito il soggiorno. Dalla ignoranza alla consapevolezza e presa d’atto delle dinamiche reali, dal rifiuto al patto di inserimento, dalla esclusione alla inclusione. L’immigrazione non appartiene al ministero dell’interno (strano paradosso verbale), ma agli organismi che rappresentano la società e che devono contribuire a costruirla quotidianamente. Ed è così anche per le altre criticità. I "dispersi" nella società, come i malati psichici e come i barboni, non si disperdono, ma sono dispersi, sono dimenticati. Si tratta di non cancellarli dalla memoria, ma di ricordarsene. C’è un’idea romantica sulla loro voglia di libertà e di solitudine, che ignora i risvolti di sofferenza e di disperazione. Alla fine, va ripetuto che questi interventi devono iscriversi in un intervento generale. Gli stessi sono i sintomi di disagi più ampi di ambienti urbani trascurati, senza una gestione consapevole, consegnati piuttosto a caos disordinati di crescita (le periferie) o di abbandono (i vecchi centri urbani), che a dinamiche seguite e governate. Affrontare le criticità può essere la via per trovare le radici più ampie del disagio e intervenire anche su queste: o abbiamo dimenticato le politiche di sicurezza sociale?
L’inversione di marcia è possibile?
Dunque: un’altra strada da battere: abbandonare il penale e recuperare il sociale. Per avviarsi su questa strada bisogna analizzare i punti critici della strada opposta che ci ha portato fin qui, liberarci dal dogmatismo che la domina, dalla irreversibilità del processo che è stato imposto.
A. Partiamo dall’ultimo punto indicato: la irreversibilità del processo. E’ facile osservare che non è stato sempre così. Si è seguita anche un’altra strada, una strada che era caratterizzata dal contenimento della detenzione sociale. E questa strada ha avuto protagonisti razionali e consapevoli nei paesi del nord-Europa, ma anche nel Regno unito e anche negli USA. Era stata operata una scelta e la scelta era stata per il percorso sociale. Si è cambiato perché quella politica era costosa? Se quella è stata la ragione, era sbagliata. Il costo sta assumendo dimensioni di gran lunga superiori e di fatto incontrollabili. Si è cambiato perché quella politica era inefficace? In che misura era esatta quella valutazione di inefficacia, che riteneva i fenomeni di recidiva nel reato indifferenti al trattamento, detentivo o alternativo alla detenzione, riservato agli autori di reato? Ci sono risposte attuali che fanno pensare altrimenti. Si è parlato in precedenza di una ricerca recente sulla recidiva di chi ha fruito di misura alternativa, che ne segnala la convenienza, ma comincia ad essere una convinzione che si fa strada che il carcere non serve, mentre la misura alternativa può servire. Sembra, per vero, che la strada verso il penale sia nata e si sia rafforzata per rilevazioni sempre più stringenti sulla identificazione fra aria della criminalità - in buona parte della criminalità di strada e di quella indotta dalle politiche proibizioniste rigide sugli stupefacenti - e area della precarietà sociale. Non c’è stato uno sforzo per dare risposte sociali a quella precarietà: lo sforzo è stato quello di coprirla in modo sempre più largo con lo strumento penale (nel periodo di età pertinente ci sono, negli USA, più neri negli istituti di pena che negli istituti scolastici). In sostanza, non si tollera più un tasso di trasgressione che si considerava in passato fisiologico in una società aperta e frammentata quale la nostra e si intende ridurlo a zero. Questo punire un’area sociale ha ancora qualcosa a che fare con il diritto penale che si conosce? Nell’usare lo strumento penale come strumento sociale il primo non perde le sue connotazioni di fondo? Alla fine del percorso dallo stato sociale allo stato penale, si mette in crisi lo strumento della pena come lo abbiamo conosciuto. Si deve pagare questo prezzo o non si deve prendere atto che siamo finiti in un vicolo cieco, che è tempo di abbandonare? La via del "grande internamento", come è stato chiamato, rievocando il passato, non è irreversibile e si diffonde la certezza che è pericolosa.
B. Queste posizioni non hanno alle spalle un discorso scientifico, ma solo una scelta politica che non segue la via della riduzione delle disarmonie sociali e della ricerca della concordia sociale, ma solo quella della forza, capace soltanto di spezzare la società e di chiuderne un troncone in carcere. Cogliamo la preoccupazione degli esperti in materia che, già con la formula del passaggio dallo stato sociale allo stato penale, hanno preso nettamente una distanza critica da questa politica, individuando nella stessa la liquidazione a un tempo del sistema penale e di quello sociale e dei principi rispettivi degli stessi. E’ interessante vedere che un approfondimento in termini razionali di questa scelta rivela una profonda incoerenza interna della stessa: mi riferisco ad un recente lavoro di Donald Garland (La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano 2004), le cui linee di fondo sono esposte in un intervento di A.Ceretti e A.Casella, in Dignitas, n. 5/2004, pg. 6 e seguenti. Vi si legge (pg. 11): "Questi orientamenti criminologici, che normalizzano gli autori di reato - interpretati ora come soggetti razionali e opportunisti, non molto diversi, in ultima analisi, dalle loro vittime – convivono con altre letture che si alimentano più che di analisi scientifiche, di immagini, di archetipi, di angosce che amplificano i messaggi ansiogeni dei media, i quali, a loro volta, presentano i criminali come soggetti antisociali, pericolosi, estranei e minacciosi, in genere appartenenti a gruppi razziali e culturali diversi da noi. Più che di persone reali, si tratta di proiezioni immaginarie che assommano su di loro i rischi e i pericoli dai quali si fa derivare quel senso d’angoscia e di impotenza che produce una domanda inesauribile di ordine e di risposte forti da parte della autorità statuale. L’unica risposta che ha senso dare a questi superpredatori e plurirecidivi, maschi, giovani, appartenenti a minoranze razziali e culturali, provenienti dal sottoproletariato criminale, dalle sottoculture tossicomaniche, da famiglie problematiche, è di neutralizzarli non appena delinquono – o ancor prima, se possibile – togliendoli dalla circolazione e lasciando loro ben scarse possibilità di far valere diritti e aspettative di rispetto morale. Nel panorama odierno, ritroviamo, quindi, una criminologia del sé, che assume gli autori di reato come soggetti normali e razionali; e una criminologia dell’altro, dell’estraneo pericoloso." Questa lunga citazione consente di dire che la scelta politica che ha dilatato l’universo carcerario, non solo manca di autorità scientifica, ma manca anche di un fondamento razionale, perché raccoglie suggestioni diverse ed incoerenti: anzi, opposte fra loro.
C. La scelta politica che si critica è condizionata dalla domanda di sicurezza che pervade la società contemporanea. E’ stato anche osservato che tale domanda è sorta mentre gli indici della criminalità erano in diminuzione o, al più, stabili. Ora, a prescindere dal valore di tali indici, che si incrementano per l’incrementarsi della penalizzazione e dell’intervento di polizia, la cosa paradossale è che la domanda di sicurezza si alimenta ( come la lunga citazione sub b) sottolinea) da una condizione di paura, che è, a sua volta, il prodotto della riduzione delle protezioni e degli ammortizzatori che lo stato sociale aveva introdotto. Dalla sicurezza sociale, fondamento delle politiche delle democrazie avanzate fino a pochi anni fa, si è amputato il termine sociale e il sostantivo sicurezza ha cambiato radicalmente senso. Se si vuole, la vicenda linguistica evidenzia la modalità della operazione: la semplificazione. La sicurezza sociale era il segno di uno stato che si sentiva responsabile di tutti i suoi componenti, convinto che la riduzione del disagio e delle aree di criticità era un progresso per tutti, che giovava a tutti. Ma la sicurezza sociale sapeva di dovere rispondere alla complessità sociale e se ne faceva carico. Rispondere alla complessità non è semplice. Rifiutarla, non affrontarla, recintarne, prima, e amputarne, poi, gli aspetti critici, tutto questo è semplice, ma comporta inevitabilmente l’abbandono della responsabilità di chi dovrebbe essere la guida di una comunità. La reclusione delle situazioni critiche è la risposta. Ancora nel testo di Dignitas citato sopra (pg. 16), da David Garland: "Le nuove forme di controllo della criminalità implicano costi sociali difficilmente sopportabili: inasprimento delle divisioni sociali e razziali; consolidamento dei processi criminogenetici; perdita di credibilità della autorità penale; crescita della intolleranza e dell’autoritarismo, accentuazione della pressione penale sulle minoranze, configurando una sorta di nuova segregazione razziale." Se la descrizione tiene presente la situazione degli USA, non è meno pertinente per la realtà europea e italiana. Gli steccati e la segregazione di coloro che compongono la detenzione sociale sono il risultato della situazione che abbiamo analizzato.
D. Ostinatamente si deve affermare che questo processo di ricarcerazione, che invade il mondo sviluppato, non è irreversibile e si deve ripetere che tale processo sta mostrando le sue crepe. Ancora una citazione dal testo di Dignitas: è la conclusione dello stesso: gli sviluppi delle politiche criminali odierne "non sono deterministicamente dati: i grandi processi di carcerizzazione e le pratiche del controllo penale diffuso, nelle forme che hanno visto gli Stati uniti e il Regno unito far da battistrada nel mondo sviluppato non sono inevitabili. Un altro futuro è possibile". Si è cercato, appunto, di indicare le linee concrete del recupero delle risposte sociali che sciolgano i lacci in cui è stata avviluppata la detenzione sociale. Depenalizzare nella misura possibile, scarcerare usando tutte le alternative alla detenzione che il nostro sistema già conosce e integrandole, ridare consapevolezza, risorse efficacia alle risposte sociali che sono mancate e che, invece, non devono mancare. Le pagine che seguono illustrano il capo II° e il Capo III° del titolo IV° di questa proposta, dedicato al reinserimento sociale. Si indicano gli interventi possibili a favore di gruppi di reclusi, compresi nella detenzione sociale, per i quali, anziché perpetuare la esclusione carceraria, si attivino pratiche di inclusione sociale.
Gli strumenti dell’articolato per la scarcerazione della detenzione sociale
Il discorso svolto nelle pagine precedenti tende alla riduzione dell’area della detenzione sociale attraverso interventi di riduzione dell’area della penalità e di aumento dell’area della scarcerazione della stessa. Per la riduzione dell’area della carcerazione, si è parlato in particolare di allargamento delle misure alternative, sia attraverso ritocchi normativi, sia attraverso il raggiungimento della reale efficacia del sistema operativo di ammissione alle misure alternative. In tale quadro vanno esaminati i capi II° e III° del titolo IV°, dedicati agli interventi collettivi relativi a gruppi di detenuti appartenenti alla detenzione sociale. Tali interventi collettivi dovrebbero rappresentare strumenti di intervento più incisivo per ridurre l’area della detenzione sociale attraverso, ancora, gli strumenti delle misure alternative e del lavoro all’esterno. Questo potrebbe essere conseguito, nei casi in cui non si possa provvedere con misure alternative di esecuzione esterna al carcere (Affidamento in prova nelle sue varie specie o detenzione domiciliare), mediante la utilizzazione di una nuova rete di sedi detentive locali a custodia attenuata, analoga a quella delle cessate case mandamentali, sempre attraverso il ricorso alla semilibertà e al lavoro all’esterno: accrescendo, quindi, l’area penitenziaria esterna e riducendo complementarmente quella del carcere. Tali interventi, ovviamente, non potranno nascere per la semplice previsione normativa che si opera con questa proposta. Richiederanno un profondo coinvolgimento degli enti pubblici territoriali e di tutti quegli organismi del privato sociale, già oggi coinvolti e disponibili ad interventi che valgono a ridurre l’area della detenzione sociale: pensiamo alle comunità terapeutiche, sia diurne che residenziali, ed anche a tutti quegli enti che, pur nelle pieghe della legislazione espulsiva attuale, riescono a offrire servizi nell’ambito della immigrazione. E’ pacifico che tutto ciò non è facile e presuppone un cambio di politica e una nuova disponibilità di risorse per gli enti pubblici territoriali: ma è appunto quello che si è chiamato il recupero della politica della sicurezza sociale e l’abbandono di quella meramente securitaria, che, sino ad oggi, ha prodotto la crescita della detenzione sociale. E’ indubbio che si tratta di un processo non facile, ma si è cercato di dimostrare ai numeri precedenti che si tratta di un processo necessario: si è anche cercato di dimostrare che questo processo è possibile perché quello opposto di mera sicurezza dimostra sempre più chiaramente i propri limiti. I capi II° e III° sono dedicati, appunto, agli interventi collettivi relativi a gruppi di persone in condizioni particolari. Indichiamone le linee principali. Le persone in questione sono quelle che appartengono ai grandi gruppi che compongono la detenzione sociale: tossicodipendenti, immigrati, soggetti in altre situazioni di criticità. Gli interventi devono essere definiti attraverso progetti concreti, la cui finalizzazione è, in primo luogo, quella di impegnare in programmi riabilitativi o nel lavoro e di rimuovere comunque le cause del disagio sociale e della mancata integrazione sociale delle persone interessate. Può essere presente anche una seconda finalità: quella di realizzare, attraverso la attuazione dei progetti, iniziative di pubblica utilità. Ciò dovrebbe consentire una più agevole disponibilità di risorse per la attuazione dei progetti. In questo quadro della finalizzazione dei progetti alla utilità pubblica si inseriscono anche quelli di c.d. reintegrazione sociale - ispirati ad una passata proposta di nuova misura alternativa alla detenzione con particolari caratteristiche, prevista da varie proposte di legge, avanzate in precedenti legislature - nei quali lo svolgimento del lavoro da parte dei condannati funziona anche come compensazione per il danno sociale prodotto dal reato. In tali casi, pur non creandosi un rapporto di lavoro, si garantisce, comunque, il rispetto dei diritti essenziali degli interessati e non si deve comunque dimenticare la prima finalizzazione dei progetti: che è quella di operare per la rimozione della situazione di criticità sociale della persona. Si è ritenuto che, per gli ammessi ai programmi di reintegrazione sociale, che non vengono remunerati, la riduzione pena per liberazione anticipata possa essere elevata rispetto alla misura ordinaria: sessanta giorni invece di quarantacinque. Questo riprende, pur se in misura limitata, il contenuto della proposta per una nuova misura alternativa (denominata, appunto, programma di reintegrazione sociale), ricordata qui sopra. I progetti devono indicare alcuni punti essenziali: la previsione delle modalità organizzative, in quanto le persone interessate non possono essere abbandonate a se stesse, ma gestite da adeguati operatori-quadri; la previsione del rispetto dei diritti essenziali; la previsione dei rapporti fra operatori dei progetti e operatori delle strutture penitenziarie; la previsione delle risorse finanziarie utilizzabili. Proponenti e protagonisti dei progetti sono gli enti pubblici territoriali e, fondamentalmente, i comuni, nonché il privato sociale, cui si è già accennato. E’ previsto un ufficio regionale per i progetti che ha una funzione duplice di coordinamento e di servizio. Per il primo aspetto, si tratta di mantenere i vari progetti dentro un programma generale, che non realizzi sovrapposizioni e possibili confusioni fra le varie iniziative. Per il secondo aspetto, l’ufficio regionale deve svolgere una funzione di consulenza e di controllo perché i progetti proposti dagli enti pubblici o dagli organismi privati abbiano tutte le caratteristiche necessarie. Tale funzione di consulenza riguarda anche le risorse finanziarie cui devono fare riferimento i singoli progetti e che l’ufficio regionale per i progetti dovrebbe avere più chiaro dei singoli enti. Va precisato, a questo riguardo, che per la realizzazione dei progetti può essere previsto il ricorso ai fondi disponibili presso la Comunità europea e devono essere tenuti presenti anche quelli della Cassa ammende presso il dipartimento della amministrazione penitenziaria. Si terranno anche presenti le possibilità di recuperare la normativa sui lavori socialmente utili. Per alcuni dei gruppi della detenzione sociale, si farà anche riferimento alle risorse specifiche: ad esempio, per i tossicodipendenti, il Fondo nazionale per la lotta alla droga previsto dall’art. 127 del DPR 309/90. Le materie in cui i progetti possono essere utilizzati sono le più diverse: vengono segnalate, in particolare, progetti ambientali, quali la tenuta e il riordino delle zone boschive e di quelle abbandonate, nonché la pulizia e la sistemazione dei corsi d’acqua (attività rilevanti per la prevenzione di incendi e alluvioni), e quelli per la migliore utilizzazione di aree urbane di uso pubblico o in condizioni di abbandono. E’ ovvio che ci sarà una diversificazione dei progetti a seconda dei gruppi della detenzione sociale cui sono destinati. Gli articoli dei capi II° e III° del titolo IV° si preoccupano anche di indicare la condizione giuridica in cui si trova il fruitore dei progetti, condizione che dipenderà dalla concreta misura alternativa, che viene attivata. Si è previsto che, con l’intervento autorizzativi della autorità giudiziaria, si possano inserire nei progetti anche persone in custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari. Una parte significativa cui è dedicato il capo III° è quella della rete detentiva che può essere utilizzata per la realizzazione dei progetti, quando si ricorre alla semilibertà o al lavoro all’esterno: cosa che accadrà sovente, per coloro ai quali la integrazione sociale deve anche procurare un domicilio. L’art. 17 parte dalla indicazione che la realizzazione dei progetti deve comportare la riduzione dell’area della detenzione sociale negli istituti ordinari. Lo stesso articolo prevede la utilizzazione di istituti territoriali a custodia attenuata, simili alle precedenti case mandamentali, e retti da regole organizzative e operative analoghe a quelle già proprie delle stessse. Tali istituti, infatti, come le case mandamentali in origine, sono comunali, hanno il sindaco o un suo delegato come direttore e personale comunale per la gestione. Le spese per la istituzione e la gestione sono rimborsate dallo Stato. Si chiarisce che la gestione di tali istituti riguarda il solo periodo detentivo dei detenuti o internati. Durante la fase di attuazione del progetto all’esterno, quella che possiamo chiamare gestione degli utenti è compito degli operatori del progetto. Su questo punto, accadrà sovente che i concreti operatori del progetto appartengano al privato sociale e, in particolare, alla cooperazione sociale. Sia che i progetti siano proposti e seguiti dagli enti pubblici, sia che siano proposti dagli stessi organismi privati, gli operatori concreti, attraverso apposite convenzioni, apparterranno spesso a questi ultimi. Gli operatori realizzeranno all’esterno degli istituti una comunità diurna, mantenendo, quindi, l’unità del gruppo che fruisce del progetto: anche se il programma di trattamento potrà prevedere momenti di collegamento con l’ambiente familiare e sociale: dipenderà dai programmi di trattamento che vengono attivati. Sempre lo stesso articolo prevede che agli operatori del progetto, attraverso appositi atti convenzionali, possa essere anche affidata la gestione del periodo detentivo. Questo può essere un sistema utilizzabile, in particolare, per le comunità terapeutiche. Va sottolineato che, in tale caso, sono gli operatori del progetto che svolgono le funzioni degli operatori penitenziari e, come tali, adempiono direttamente le funzioni di controllo, situazione da non confondersi con quella degli arresti o della detenzione domiciliari, nella quale sono gli organi di polizia ad operare il controllo.
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