|
Parte terza: relazione alle modifiche del Titolo III° sull’organizzazione penitenziaria
Sezione I. Gli Istituti: capi I°, 2° e 3° del Titolo III° - Finalità dell’intervento: funzionalità del sistema
Si deve provvedere ad una nuova articolazione della organizzazione penitenziaria, sia sul piano degli istituti, sia su quello del personale che vi è addetto. Con le modifiche di cui all’articolato si provvede anche all’aggiornamento della normativa in relazione a nuovi aspetti organizzativi realizzati nel frattempo; ma la finalità principale è quella di una reale funzionalità del sistema. L’esperienza degli anni trascorsi dalla entrata in vigore dell’Ordinamento penitenziario e dei punti di maggiore debolezza del sistema complessivo ha consigliato le modifiche che si propongono nei capi che seguono di questo titolo. Nel titolo I° e nel titolo II° è stato delineato un sistema di diritti dei detenuti e degli internati e un sistema di interventi riabilitativi nel corso della esecuzione della pena. Perché tali sistemi acquisiscano la necessaria concretezza occorre che la organizzazione penitenziaria, sia con riferimento agli istituti che al personale operante negli stessi e nell’area esterna delle misure alternative, abbia la consistenza qualitativa e quantitativa occorrente perché i diritti siano riconosciuti e gli interventi riabilitativi attuati. Di qui il nuovo testo normativo che si propone nei vari capi di questo titolo. Si deve prendere atto che la evoluzione della situazione degli istituti penitenziari, pur con tutti i suoi limiti, ha determinato una articolazione della loro organizzazione, che non è adeguatamente rappresentata dal testo normativo attuale: dall’art. 59 all’art. 67 O.P. Da un lato, si deve rilevare che istituti come i centri di osservazione hanno perso una propria giustificazione, che era, invece, presente all’epoca in cui la legge fu emessa (esisteva, in particolare, il Centro di osservazione di Rebibbia, unica sede in cui una attività di osservazione era organizzata e svolta). Attualmente, non esistono più centri di osservazione e tale attività viene svolta presso i singoli istituti da operatori di diverse professionalità, che costituiscono, appunto, il gruppo o equipe di osservazione. Va aggiunto che è essenziale che l’attività di osservazione sia compiuta da quegli operatori che sono a diretto contatto con condannati ed internati. L’art. 63 può, quindi, essere soppresso. Il problema, invece, di cui all’art. 64, sulla differenziazione degli istituti, si è profondamente articolato nel corso degli anni, fino a meritare di essere preso in considerazione in capi diversi da quello sugli istituti in generale. Più precisamente: in un capo II°, che raccolga e riordini i vari aspetti trattati nelle fonti del Dipartimento della amministrazione penitenziaria sui vari circuiti penitenziari; e, poi, in un capo III°, sui regimi penitenziari speciali, che riesamini e razionalizzi le normative aggiunte al testo originario dell’O.P.: artt. 14bis, ter e quater e art. 41bis, comma 2 e successivi. La collocazione attuale della normativa citata per ultima è stata sostanzialmente occasionale e quella che qui si propone sembra preferibile da un punto di vista sistematico. La profonda revisione del testo attuale consiglia una provvisoria nuova numerazione degli articoli in attesa della ricomposizione del testo conclusivo.
Il capo I di questo titolo deve, quindi, essere dedicato agli istituti penitenziari con riferimento alla loro denominazione e alla loro funzione. L’attuale art. 59 può essere conservato, salva la eliminazione del numero 4 per quanto detto qui sopra. L’abrogazione di tale numero è prevista all’art. 1 del testo vigente. Gli attuali artt. 60 e 61 vanno riscritti con riferimento alle case mandamentali e alle collegate case di arresto. Con riferimento all’art. 60 del testo vigente, si può prendere atto che, nella realtà penitenziaria attuale non esistono più le case di arresto e ciò, d’altronde, consegue anche alla soppressione dell’ufficio giudiziario del pretore, a disposizione del quale erano poste. Pertanto, gli istituti per la custodia cautelare (termine che sostituisce quello di custodia preventiva), si riducono alle sole case circondariali. Anche le case mandamentali, menzionate e nell’art. 60 e nel successivo, sono state sottoposte ad interventi normativi, che le hanno iscritte nel circuito delle case circondariali, al cui personale è affidata la gestione delle strutture di quelle case mandamentali che erano rimaste funzionanti. In ragione di ciò, sempre con riferimento al testo vigente, non si può più parlare di case mandamentali. Il contenuto degli artt: 60 e 61 attuali viene pertanto riscritto negli artt. 2 e 3 del nuovo testo. Si è ritenuto, però, di dovere valutare la opportunità del recupero, con nuova denominazione, delle case mandamentali, che possono essere utili nella attivazione dei programmi di reinserimento sociale, cui è dedicato il Capo II° del titolo IV° di questo nuovo articolato. Così, nell’art. 4 del nuovo testo, si inserisce la disciplina legislativa di tali istituti, che vengono denominati case territoriali per il reinserimento sociale. L’attuale art. 62 pone problemi in merito al mantenimento o meno delle misure di sicurezza detentive, diverse dall’ospedale psichiatrico giudiziario, che verrebbero meno secondo altro disegno di legge compreso nella attuale revisione complessiva della normativa penitenziaria, disegno di legge nel quale l’ospedale psichiatrico giudiziario assume, comunque, una diversa denominazione. L’art. 63, come detto al n. 1, va soppresso. Lo si prevede, come già detto, nell’art. 1 del nuovo testo con la abrogazione del n. 4 dell’art. 59 del testo vigente. Gli attuali articoli 64 e 65, debitamente integrati e riorganizzati, vanno a costituire il Capo II di questo titolo. L’art. 66 può essere integrato con la previsione di un’autonomia progettuale e finanziaria sulla gestione complessiva del sistema edilizio degli istituti. Vi si provvede con la aggiunta, nell’articolo 6 del nuovo testo, di due ulteriori commi al comma unico del testo vigente. L’attuale art. 67 richiede una aggiornata revisione formale: alla lettera c) si dà atto della cessazione dell’ufficio giudiziario del pretore; così pure, alla lettera f) della cessazione di quello del medico provinciale. Resta, invece, l’ispettore centrale dei cappellani del culto cattolico. Oltre alle indicate revisioni formali, si operano anche integrazioni per alcune figure che rappresentano presenze significative in carcere: da figure cittadine, come il presidente della provincia e coloro che lo rappresentano, come il sindaco e coloro che lo rappresentano, e come il presidente del quartiere e il responsabile della azienda in cui è compreso il carcere; a figure di istituzioni sopranazionali, come i parlamentari europei, i rappresentanti della Comunità Europea con specifiche competenze in materia penitenziaria, nonché i rappresentanti del Consiglio d’Europa e dei suoi organi. Si opera infine una puntualizzazione. Per le figure indicate alle lettere g) ed h) è comunque mutata la denominazione: si parla ora, per la lettera g) del testo vigente, del capo del dipartimento della amministrazione penitenziaria e, per la lettera h) del testo vigente, del provveditore regionale della amministrazione penitenziaria. Ma, a prescindere da questa revisione formale, si deve rilevare che, per gli stessi è mal posto il problema della autorizzazione o meno alle visite, in quanto le stesse rientrano necessariamente fra le loro funzioni. La precedente previsione nel testo vigente, consiglia di rendere esplicito quanto ora detto in un apposita parte finale aggiunta al comma 2 dell’art.7 del nuovo testo.
Il Capo II° è di nuova istituzione. Interviene a fondo sul tema trattato nell’attuale art. 64, entro il quale è affrontato anche l’altro problema, oggi trattato dall’art. 65. La numerazione degli articoli del nuovo testo prosegue dal capo I°. Si distinguono i criteri di differenziazione e separazione generali e specifici dei detenuti e degli internati: quelli generali attinenti al livello della sicurezza, cui fa riferimento il sistema dei circuiti penitenziari, allo stato amministrativo (che trova, qui, una pur generica normazione); quelli specifici concernenti detenuti in situazioni particolari, sia persone con problemi personali fisici o psichici, sia persone che sono oggetto di rifiuto da parte della restante popolazione penitenziaria, a loro volta distinte con riferimento o al tipo di reato commesso o al comportamento tenuto nel corso dei processi sostenuti o della detenzione espiata. Ciò è indicato all’art. 8 del nuovo testo. Per i criteri di differenziazione e separazione generali, si richiamano gli stessi, distinguendo fra elevata sicurezza, media sicurezza e sicurezza attenuata, descrivendone, poi, le applicazioni. A questo sono dedicati gli artt. 9, 10 e 11 del nuovo testo. Per i criteri di separazione specifici, si fa riferimento a due diverse situazioni. Una è quella delle c.d. sezioni protette. Si tratta di rendere esplicite e di regolare tali sezioni, che ospitano detenuti non accettati nell’ambito delle sezioni ordinarie e, quindi, a rischio di intimidazioni e violenze nelle stesse. A questo è dedicato l’art. 12 del nuovo testo. Al comma 3 di tale articolo, si sottolinea che la collocazione in tali sezioni non deve essere considerata definitiva, potendo maturare le condizioni per l’inserimento in una sezione ordinaria: sia per la evoluzione dei soggetti interessati, sia per le caratteristiche della sezione ordinaria, nella quale inserirli. L’altra situazione è quella dei detenuti che presentano problemi personali fisici o psichici, già regolata dall’art. 65 del testo vigente. La linea seguita da tale normativa trovava la risposta ordinaria in sezioni apposite, che presentavano, però, inconvenienti, limitando le relazioni degli interessati con i compagni e la partecipazione dei primi alle attività organizzate per i secondi. Si ritiene che l’associazione a sezioni separate delle persone con problemi fisici o psichici realizza una istituzionalizzazione ulteriore all’interno della istituzionalizzazione carceraria e, per tale via, una minore efficacia della presa in carico e un rischio di cronicizzazione dei loro problemi. Si tenga conto che il nuovo regime e la migliore efficacia dell’intervento sanitario, previsti dagli artt. 11 e successivi del presente articolato, dovrebbero essere sufficienti alla presa in carico dei soggetti con situazioni patologiche, senza la necessità di inserirli in sezioni speciali. Questo non esclude che, per le patologie fisiche, si devono cogliere i casi che presentano esigenze speciali, rappresentate dalla mancanza di autosufficienza e di autonomia di movimento. Per queste persone occorrono sovente attrezzatura e organizzazione particolari per la assistenza e lo spostamento degli interessati negli spazi e nei livelli dei padiglioni, che le sezioni ordinarie non assicurano. Tant’è che, nella pratica di questi anni, si è dovuto ricorrere a sezioni speciali, con il limite (che dovrebbe essere superato) di avere strutture sovente non all’altezza delle esigenze che debbono essere soddisfatte. La soluzione di una sezione apposita per le persone prive di autonomia va quindi prevista e regolata, identificando anche il criterio per la assegnazione alla stessa. Lo si fa all’art. 13 del nuovo testo. Quanto alle persone che presentano problemi psichici o di altro genere, determinanti, comunque, comportamenti tali da porre in essere situazioni di criticità all’interno degli istituti, non si deve cercare una risposta nella separazione di tali persone in sezioni distinte, ma nella cura, nella assistenza e negli interventi in genere più adeguati, attuati attraverso una effettiva presa in carico dei singoli casi. Di questo si occupa l’art. 15 del nuovo testo. Si è ritenuto di regolare qui, all’art. 14 del nuovo testo, anche le sezioni per i collaboratori della giustizia, dando alcune indicazioni operative, che non concretano un regime diverso da quello ordinario. Se si fosse scelta una soluzione di questo tipo, si sarebbe dovuto trattare questo tema nel capo III° che riguarda i regimi speciali di detenzione, ma una tale scelta non è apparsa necessaria. Tutte le situazioni qui esaminate sono attuate nel rispetto della ordinaria normativa penitenziaria. Ciò che si opera, con questa parte della legge, è una separazione, destinata a non essere definitiva, fra gruppi di detenuti e internati che abbiano problemi specifici e richiedano, quindi, interventi specifici. Ma, nel rispetto del principio di fondo dell’eguaglianza, proprio dell’Ordinamento penitenziario, il regime normativo deve essere comune a tutti. Differenze di regime penitenziario si possono avere soltanto in situazioni particolari, che deve essere la stessa legge ordinaria a regolare: nel rispetto, però, delle regole e dei diritti delle persone ristrette, indicati dalla Costituzione e dallo stesso ordinamento penitenziario: di ciò al capo III°.
Questo capo concerne, appunto, i regimi speciali. La loro collocazione attuale non è ineccepibile da un punto di vista sistematico e sembra abbastanza occasionale. Gli artt. 14bis, 14ter e 14quater sono stati introdotti dalla legge Gozzini, che, nei progetti iniziali, era partita da un’altra ipotesi di regime di massima sicurezza. Nell’originario progetto Gozzini, ricalcando il sistema di fatto allora operativo delle carceri di massima sicurezza, si prevedeva un sistema di istituti, per i quali la ammissione, la dimissione, la determinazione del regime avvenivano entro il quadro della legge, che prevedeva anche la possibilità di reclamo in sede giurisdizionale, dopo una iniziale assegnazione non soggetta a reclamo. Il sistema accolto nel testo definitivo della legge Gozzini proveniva, invece, da altro progetto ed era impostato sulla definizione del regime di sorveglianza particolare, con un controllo giurisdizionale operativo fin dall’inizio della applicazione del regime, che era disposto nei confronti delle singole persone, con la possibilità che ciò avvenisse nello stesso istituto in cui la persona si trovava quando il regime speciale era applicato. Comunque, non sembra che la collocazione sia felice in quella parte della legge che sottolinea la individualizzazione del trattamento e la definizione del programma relativo ai singoli soggetti: una parte, cioè, in cui si definiscono gli aspetti delle regole di trattamento ordinarie e le modalità dell’operare delle stesse. Senz’altro più pertinente la collocazione qui proposta. Ancora più occasionale è stata la collocazione dell’art. 41bis, comma 2 e successivi. Il testo attuale del comma 1 era frutto della Legge Gozzini, che aveva riscritto il testo della norma precedente, che, utilizzata in modo abbastanza arbitrario e con la applicazione dell’art. 90 (abrogato dalla legge Gozzini), aveva consentito di dare vita, dal 1977 in poi, alle carceri di massima sicurezza con un regime particolarmente restrittivo, introdotto con decreti ministeriali rinnovati periodicamente. Ritenuta, nella fase più critica della offensiva mafiosa, la necessità di reintrodurre un regime analogo a quello degli istituti di massima sicurezza (per cui il regime di sorveglianza particolare non appariva sufficiente), si tornò allo stesso percorso precedente e si fece ancora riferimento all’art. 41bis, integrandolo con una norma specifica utile allo scopo. Ma anche questa normativa, specie nel momento in cui è divenuta stabile e non più a termine, con la L.23/12/2002, n. 279, può trovare una collocazione più adeguata là dove si regola un regime penitenziario speciale, da attuare, in sostanza, in sezioni o istituti appositi. Può anche trovare una apposita denominazione, che può essere quella più ovvia di: regime di massima sicurezza. Nella nuova collocazione, si ritiene necessario introdurre modeste modifiche del regime di sorveglianza particolare e più impegnative modifiche del regime ex art. 41bis, comma 2 e segg..
1. Situazioni di emergenza, già previste dall’art. 41bis, comma 1
Resta adeguata la norma contenuta nel comma 1 dell’art. 41bis. Non è necessaria alcuna modifica, ma la collocazione può essere comune a quella di cui agli altri due regimi speciali. Tale articolo può essere messo alla conclusione del Capo III°, regolando situazioni temporanee e di emergenza. Diviene, pertanto, con lo stesso contenuto del suo precedente, l’art. 22 di questo capo.
2. Regime di sorveglianza particolare
La modifica che si opera per tale regime è quella che tende a interrompere una utilizzazione indebita dello stesso da parte della Amministrazione penitenziaria. Tale regime fa riferimento a soggetti che, per effetto di una posizione di preminenza costruita in particolare su aggregazioni criminali, pongono in essere una situazione di forza verso le strutture penitenziarie e verso i compagni, giovandosi eventualmente anche del sostegno di altri detenuti, da loro condizionati. Il tipo del detenuto per cui l’art. 14bis è pensato è questo: un soggetto che agisce consapevolmente con finalità di destabilizzazione istituzionale. Senonchè, l’uso più frequente attuale da parte della amministrazione penitenziaria riguarda soggetti con difficoltà di convivenza con gli altri e con difficoltà di inserimento nelle strutture detentive, generalmente per problemi di natura psicologica, quando non decisamente psichiatrica. L’applicazione del regime di sorveglianza particolare a questi soggetti, realizzando nei fatti situazioni di isolamento e di restrizione, se non di esclusione, dagli spazi trattamentali, non migliora il rapporto con le strutture e gli operatori, ma lo rende ancor più conflittuale. Per tali soggetti, si è pensato, invece, che l’intervento più opportuno sia quello di cui si è parlato sopra, inserendo nel nuovo capo II° la previsione di particolari modalità di approccio, di intervento e di collocazione, non necessariamente permanente o di lungo periodo (v. art. 15 di tale capo). Nessuna altra modifica al testo vigente. 3. Regime di massima sicurezza, già previsto dall’art. 41bis, commi 2 e seguenti del testo vigente
Più radicale l’intervento sul regime di cui all’art. 41bis, commi 2 e seguenti. Intanto, si distribuisce il testo normativo in tre articoli, 19, 20 e 21, analogamente a quanto viene fatto, già nel testo vigente, per la sorveglianza particolare: il primo descrive la motivazione del regime di massima sicurezza, le modalità di applicazione e definisce i limiti temporali della stessa. Il secondo articolo regola il reclamo contro l’applicazione del regime. Il terzo indica il possibile contenuto delle restrizioni attuate con tale regime rispetto a quello ordinario.
3a. Art. 19 del nuovo testo proposto
Nel primo articolo si operano alcuni interventi modificativi sul testo vigente dell’art. 41bis, commi 2, 2bis e 2ter e si opera, poi, un ulteriore intervento sulla temporaneità della applicazione del regime ai singoli.
Il primo intervento, contenuto nel comma 1 (che modifica il comma 2 del testo vigente), sviluppa il tentativo (avviato per vero dallo stesso nuovo testo normativo ora indicato, ma non portato e termine) di rendere meno generica la motivazione della normativa del regime speciale e, quindi, della sua applicazione. Tale motivazione si identifica con la necessità di impedire il mantenimento di collegamenti fra i detenuti, condannati per determinati delitti di criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e le organizzazioni di appartenenza. Questa è la ragione giustificatrice e questa va sottolineata. E’ ovvio che essa pone esigenze di ordine e sicurezza, che rappresentano, però, strumenti per soddisfare quella ragione, sulla quale si deve esclusivamente basare l’impiego di quegli strumenti.
La seconda modifica, contenuta nel comma 2 (che modifica il comma 2bis del testo vigente), riguarda la durata della efficacia dei provvedimenti applicativi, che nella pratica ultradecennale trascorsa, raramente era sistematicamente annuale, più spesso semestrale. Portare tale durata a non meno di un anno e fino a due, appare del tutto ingiustificato, specie nel momento in cui il regime legislativo provvisorio diviene definitivo. Si tratta di un regime derogatorio rispetto al regime normativo ordinario e proprio per questo, la sua applicazione, che resta intervento eccezionale, deve mantenere il suo collegamento con l’attualità dell’accertamento.
La terza modifica, certamente la più rilevante in tale articolo, riguarda la esplicita previsione della temporaneità e quindi di termini massimi di durata nella applicazione del regime di massima sicurezza ai singoli interessati. Tale modifica, contenuta negli ultimi commi dell’art. 19, nasce dalla esigenza di riconoscere che la sottoposizione al regime in questione non può essere definitiva, quantomeno in linea di fatto, ma deve essere limitata nel tempo, sia pure in un tempo non breve, e accompagnata da progressiva riduzione delle restrizioni. Si possono indicare tre motivi specifici a sostegno di tale scelta. Il primo è che, le varie sentenze costituzionali in materia, sottolineavano il carattere di norma a termine dell’art. 41bis, comma 2 (v. la sentenza 351/96, n. 4 della motivazione in diritto, nella quale si richiama il carattere di emergenza della normativa in questione). La trasformazione in norma permanente consiglia di preoccuparsi di impedire la perpetuità della applicazione, che sta, invece, manifestandosi per molte delle persone sottoposte. Il secondo motivo è rappresentato da quanto si legge, in merito al regime di cui all’art. 41bis, comma 2, al n. 78 (pg. 23) del rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti (in sigla CPT), approvato il 7/7/2000: "Infine il CPT non può non esprimere la sua preoccupazione circa la legittimità di un sistema di detenzione d’eccezione, concepito in origine come sistema temporaneo, ma che è sempre in vigore 8 anni dopo la sua creazione." La "preoccupazione" del CPT non può certo essere fugata dalla sopravvenuta definitività della normativa già a termine. Il terzo motivo fa riferimento alle ripetute affermazioni costituzionali sulla necessità che sia rispettato, in costanza di applicazione del regime in questione, il diritto alla rieducazione e ad un trattamento penitenziario conseguente. Non vi è dubbio che il concreto rispetto di tale diritto vada incontro, nel regime di massima sicurezza, a non poche difficoltà, così che non può non prevedersi la temporaneità della applicazione dello stesso. Per evitare, comunque, la repentina e contemporanea cessazione di tale regime per un numero elevato di persone per le quali i termini massimi di durata previsti siano già scaduti, si può stabilire un regime transitorio, con un termine massimo unico di 5 anni, entro il quale la sottoposizione al regime deve cessare. Il termine decorrerà dalla entrata in vigore della l. 23/12/2002, n. 279, che ha reso definitiva la normativa provvisoria precedente.
Dovrà, poi, essere sottolineato – ed è questo l’ultimo intervento modificativo – che, nell’ambito del regime di cui all’art. 41bis, comma 2 e successivi, non possono essere attuate situazioni diverse e di sostanziale isolamento per singoli detenuti, quale ne sia la caratura, come per vero è stato fatto e viene fatto.
3b. Art. 20 del nuovo testo proposto
Nessuna modifica alle vigenti disposizioni, di cui ai commi 2quinquies e 2sexies dell’art. 41bis, relative al reclamo al tribunale di sorveglianza contro il provvedimento applicativo del regime in questione.
3c. Art. 21 del nuovo testo proposto
Tale disposizione riguarda l’analisi delle restrizioni rese esplicite con la citata legge 23/12/2002, n.279. Si noti che tali restrizioni, con carattere standardizzato, erano fino ad oggi introdotte con il decreto ministeriale applicativo. La indicazione delle stesse nella legge, le rafforza, ma non ne evita il giudizio di costituzionalità, anzi lo rende specificamente possibile. Si tratta, quindi, di eliminare, con riferimento al testo del comma 2quater dell’attuale art. 41bis, gli aspetti di incostituzionalità che caratterizzano il nuovo testo di legge. Si esaminano le singole disposizioni restrittive indicate dal comma 2quater.
In analogia con il corrispondente articolo relativo ai contenuti della sorveglianza particolare, la presente proposta contiene la indicazione di cosa non devono comportare le limitazioni alle regole di trattamento e la successiva specifica indicazione di quali regole possano essere limitate o del tutto sospese.
Le indicazioni generali ostative del comma 1
Il comma 1 dell’art. 21 è formulato con riferimento ad esplicite affermazioni contenute nelle sentenze costituzionali in materia. Il suo contenuto è, quindi, dovuto.
Le indicazioni specifiche relative alle restrizioni delle singole regole di trattamento.
Si compie qui un esame contestuale delle disposizioni del testo vigente e delle disposizioni alternative della nostra proposta.
A. La disposizione di cui alla lettera a) del testo vigente è estremamente pericolosa per la sua indeterminatezza, che potrebbe consentire la violazione di tutti i diritti essenziali per le condizioni e il regime di vita della persona, una volta che si assuma che le restrizioni stesse abbiano i fini che la norma indica. E’ ovvio che le sezioni per l’attuazione del regime in questione pongono concretamente in essere situazioni di sicurezza finalizzate a quanto la lettera a) in esame prevede. Ma tale disposizione restrittiva non legittima gli interventi materiali di sicurezza, che non hanno bisogno di alcuna previsione normativa, ma consente, invece, attraverso l’inserimento nei decreti ministeriali applicativi, la disapplicazioni di regole di trattamento penitenziario indefinite: è, in sostanza, una norma in bianco che può essere riempita, con l’atto amministrativo applicativo, dei più diversi contenuti. Pertanto, tale parte della normativa va soppressa.
B. Più oltre, nell’esaminare le disposizioni contenute nella lettera f) (vedi sub D), ci si soffermerà più diffusamente sulla esigenza di non sacrificare la finalità rieducativa della pena e le regole di trattamento funzionali alla stessa: in proposito v. sentenza costituzionale n. 351/96, n. 6 della motivazione in diritto e sent. Cost. n. 376/97, in varie parti e in specie al n.9 della motivazione in diritto. Si tratta di inquadrare in questi principi anche l’esame della lettera b) del testo vigente del comma 2quater, recante restrizioni ai colloqui dei detenuti e a materie collegate, come quelle delle telefonate. Occorre, pertanto, ricordare che gli strumenti rieducativi previsti dall’Ordinamento penitenziario si identificano, in particolare, con gli "elementi del trattamento" di cui all’art. 15, fra i quali è inserita l’agevolazione dei "rapporti con la famiglia", cui è poi dedicato l’art. 28: "Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare e ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie". Il modo ordinario di attuazione del diritto al trattamento rieducativo in questa materia è tracciato nel regolamento di esecuzione all’O.P., che dovrebbe valere in linea generale. Si può ricordare che, al comma 3 dell’art. 14quater del testo vigente, relativo al regime di sorveglianza particolare, si disponeva che "in ogni caso le restrizioni non possono riguardare…i colloqui….con il coniuge, il convivente, i figli, i genitori, i fratelli." E si può aggiungere, sullo specifico riferimento analogico delle prescrizioni ex art. 41bis in materia al comma 3 dell’art. 14quater O.P. nel testo attuale, quanto rilevava la sentenza costituzionale n. 351/96, al punto 6 della motivazione in diritto. Certo si scontrano qui due esigenze, prendendo atto che sovente la famiglia naturale può essere veicolo di contatto con la aggregazione criminale. Ma, da un lato, non è che il particolare contenimento dei rapporti di cui al testo vigente eliminino il rischio o lo riducano significativamente, mentre, dall’altro, l’intervento molto riduttivo sulle relazioni affettive dei reclusi può escluderne le conseguenze positive e favorire invece le solo reazioni negative. Tanto premesso, se pure non si voglia attenersi alle disposizioni corrispondenti della sorveglianza particolare, ora ricordate, la disposizione di cui alla lettera b) del testo vigente in materia di colloqui può, quantomeno, essere modificata nella rigidità che la caratterizza, modulando il numero delle ore di durata e il numero dei colloqui, e prevedendone un possibile e progressivo aumento nel tempo. Analogamente per le telefonate. In questa linea si è modificato, nella presente proposta, il testo della lettera b) in esame del testo vogente..
C. Nessuna obiezione sulle lettere c) e d) del testo vigente, mentre invece deve essere diverso il discorso per la lettera e).
La disposizione di cui alla lettera e) è indubbiamente incostituzionale, per violazione dell’art. 15 Cost., come osservato esplicitamente nella sentenza 349/93 della Corte costituzionale (punto 6.1 della motivazione in diritto): era stata già tolta dai primissimi decreti ministeriali del giugno 92: è stata, invece, ripristinata, inserendola addirittura nella legge. Dovrebbe risultare chiaro che la previsione nel decreto ministeriale, facoltizzata dalla nuova normativa, della "sottoposizione a visto di censura della corrispondenza" "salta" il provvedimento giudiziario previsto dai commi 7 e 8 dell’art. 18 O.P., necessario per il comma 2 dell’art. 15 Cost., provvedimento, fra l’altro, ora giurisdizionalizzato con la L. 8/4/2004, n. 95: la elusione di tale provvedimento ripropone la violazione costituzionale indicata.
D. La disposizione di cui alla lettera f) pone problemi per la sua applicazione concreta e per le sue implicazioni. Quando si parla di applicazione concreta, si deve partire da una considerazione: le sezioni di 41bis hanno almeno 40-50 detenuti e sovente anche un numero superiore. Si tenga presente che i detenuti sottoposti a tale regime sono ormai circa 700: divisi per il numero di sezioni esistenti danno una presenza media per sezione anche superiore a quella sopra indicata. Se la fruizione della c.d. "aria" o permanenza all’aperto è limitata a gruppi di cinque persone, si deve trovare il tempo e lo spazio per lo svolgimento dell’ "aria" per dieci gruppi composti come sopra. Il tempo disponibile in una giornata varia da 8 a 10 ore. Lo spazio dovrebbe essere uno solo, il cortile annesso alla sezione. Data questa situazione, le soluzioni possibili sono o quella di ridurre il tempo dell’ "aria" o di moltiplicare i passeggi dell’unico cortile. Entrambe le soluzioni sono chiaramente insoddisfacenti, tenendo anche conto che un periodo giornaliero di permanenza all’aperto è indispensabile per contenere gli effetti negativi sul piano igienico e della salute fisica di protratte permanenze in locali chiusi e angusti, che impediscono il normale movimento fisico. La soluzione della riduzione del tempo di "aria" può arrivare a toccare ordinariamente il minimo dell’ora giornaliera che è previsto invece dall’art. 10 solo "per motivi eccezionali". E non è migliore la moltiplicazione dei passeggi nello spazio dell’unico cortile preesistente (sistema, d’altronde, largamente in uso), in quanto la permanenza all’aperto in una spazio molto ridotto può portare a reazioni psicofisiche negative, che non hanno bisogno di essere dettagliate (tale spazio può trasformarsi in una gabbia, termine pertinente, specie quando presenta coperture superiori, a griglie metalliche, come accade spesso). La composizione di soli 5 soggetti dei gruppi, sembra, quindi, fare ritenere impraticabile una permanenza all’aria di quattro ore, come indicata dalla lettera f) in esame. La conclusione è che la composizione dei gruppi deve essere portata almeno a 10 soggetti. Si noti, poi, che la lettera f) parla di una durata "non superiore a quattro ore al giorno", che consente, così, di ridurre i tempi dell’ "aria" in misura indefinita. Di qui, come conclusione, la indicazione non solo della durata massima, ma anche di quella minima, che può essere indicata ai sensi del primo comma dell’art. 10 del testo vigente dell’O.P., che fissa la durata minima della permanenza all’aperto in almeno due ore giornaliere. Si è detto, però, all’inizio di queste considerazioni sulla lettera f), che la stessa pone problemi non solo per la sua applicazione, ma anche per le sue implicazioni. Quella principale è di consentire che, in fatto e anche formalmente, alla permanenza all’aperto da due a quattro ore venga a corrispondere una chiusura in cella da 22 a 20 ore. Occorre rendere esplicito che questa implicazione non è ammissibile. Può sembrare incongruo che una disposizione restrittiva sulle regole di trattamento si preoccupi delle implicazioni della sua applicazione, ma incongruo non è se la implicazione principale è la potenziale esclusione di quelle attività di osservazione e trattamento, il cui mantenimento è, invece, essenziale perché il regime restrittivo in esame non entri in collisione con i limiti che gli sono stati posti dalle sentenze costituzionali già citate. In proposito, la sentenza n. 376/97 (n. 9 della motivazione in diritto) sottolinea, per i decreti ministeriali ex 41bis, "il divieto di misure che escludano la attività di osservazione e trattamento individualizzato, nonché l’offerta di strumenti ed opportunità di socializzazione – fra cui le attività culturali, ricreative, sportive e di altro genere di cui all’art. 27 dell’ordinamento penitenziario – e più in generale di misure che escludano l’opera di rieducazione…". Pare ovvio che il richiamo alle attività menzionate dalla sentenza costituzionale non esclude gli strumenti principali del trattamento: lavoro e scuola. Pertanto, richiamare il limite fondamentale alla disposizione restrittiva pare essenziale per garantire la legittimità della stessa. Anche sotto tale profilo c’è da dire che la previsione della composizione dei gruppi di sole cinque persone, potrebbe inevitabilmente trasferirsi a tutte le attività trattamentali, creando gravi difficoltà oggettive al loro svolgimento (con la esigenza di ripetizione delle varie attività per i vari gruppi). L’elevazione a 10 persone dei componenti di ogni gruppo può, quindi, migliorare la fattibilità degli interventi trattamentali. Anche se si può osservare che il limite di composizione dei gruppi per la fruizione dell’ "aria" può non valere per le altre attività, fruite con la presenza di operatori e personale, diversamente dalla permanenza all’aperto, durante la quale i detenuti sono soli, pur se controllati a distanza. Pertanto, la lettera f), che diviene, per la precisione, lettera d), comprende, nel nuovo testo proposto, un periodo finale (che sembra preferibile alla creazione di un comma autonomo con analogo contenuto), nel quale si sottolinea che le limitazioni alla fruizione dell’ "aria", non possono incidere e riferirsi allo svolgimento delle attività trattamentali, che devono essere attuate secondo le previsioni della legge. La permanenza nelle camere di pernottamento, per usare il termine corretto usato dalla legge (e non quello consueto di "celle"), deve essere limitata in relazione alla necessità di svolgimento delle attività predette.
Sezione II. Relazione sui capi IV° V° e VI° e VII° sul personale penitenziario
Va indicata subito una prima esigenza: quella di dare alla definizione dei profili del personale e della sua organizzazione uno spazio proprio, che non aveva nella legislazione vigente, nella quale le norme sul personale sono inserite, in modo non sufficientemente sistematico, nelle disposizioni finali e transitorie di cui al Capo IV° del titolo II. La materia è articolata in quattro distinti capi:
Si deve poi sottolineare che le nuove regole normative sul personale penitenziario devono tenere conto della evoluzione dei singoli ruoli, nonché delle esigenze organizzative che tale personale deve soddisfare.
Sotto il primo profilo, deve quindi intendersi superato il ruolo della carriera di concetto di educatori e assistenti sociali, di cui all’art. 83, comma 2, O.P.. Il ruolo di questi operatori è ormai decisamente diverso e va stretto nella nozione di "carriera di concetto", d’altronde largamente superata. Per tali operatori si esige ormai un particolare titolo professionale universitario. Altrettanto largamente superata è la collocazione degli infermieri tra gli operai specializzati, di cui all’art. 80, commi 5 e 6 O.P..
Sotto il secondo profilo, si ritiene che il personale che svolge la funzione continuativa ed essenziale degli esperti dell’osservazione e trattamento, previsto nei commi 2 e 4 dell’art. 80 O.P., debba avere un rapporto organico con l’amministrazione, rapporto che non può corrispondere all’incarico giornaliero o libero professionale. Di qui la integrazione del personale che svolge queste funzioni nell’organizzazione penitenziaria. Potrà, se mai, essere prevista la possibilità di attivare rapporti non organici nei casi in cui gli interventi da svolgere abbiano carattere di provvisorietà e di modesta rilevanza quantitativa.
Inoltre la normativa sul personale che si vuole definire deve innanzitutto disegnare un modello organizzativo che possa realizzare il raggiungimento dei fini che Costituzione e Ordinamento penitenziario attribuiscono alle strutture penitenziarie.
Chiariti questi punti, si possono indicare le linee essenziali della organizzazione del personale penitenziario.
Il capo IV°: il personale operante negli istituti penitenziari.
Si tratta di definire, sviluppandolo e garantendolo, il modello organizzativo del personale penitenziario che si è avviato in questi anni. Si può partire dalla considerazione di come il modello organizzativo non debba essere. Un modello da evitare è quello della rigida concentrazione della responsabilità di tutti i servizi e delle connesse decisioni relative all’istituto nella figura centrale del direttore. Perché questo modello è da evitare? Perché un istituto penitenziario si articola in una serie di servizi, rispetto ai quali un unico punto di decisione e di responsabilità non è funzionale. E’ impossibile che, in questo solo punto, vi sia un’adeguata conoscenza dell’andamento e dei problemi quotidiani di tutti i servizi. Ne consegue che: o il direttore lascerà mano libera agli operatori dei singoli servizi, mantenendo, peraltro, la responsabilità dei loro interventi senza averne una conoscenza diretta ed adeguata; o limiterà la funzionalità dei singoli servizi, per avere l’effettivo controllo di quegli interventi di cui avrà la responsabilità. E’ chiaro che questo modello organizzativo limita e irrigidisce la funzionalità degli istituti ed avrà inevitabili ricadute sullo svolgimento nell’istituto di tutte quelle attività trattamentali necessarie per il rispetto dei diritti dei detenuti e per lo sviluppo dei percorsi riabilitativi degli stessi. L’istituto non sarà attivo, ma inevitabilmente un luogo di inerzia. Va detto che, purtroppo, nonostante i passi in avanti, negli ultimi anni, del riconoscimento formale della articolazione della organizzazione degli istituti in aree professionali diverse, molti istituti presentano condizioni funzionali molto prossime a quelle che si sono decritte sopra con una valutazione chiaramente negativa. Un modello che non può essere condiviso è quello espresso in alcune proposte di legge presentate e giacenti in parlamento: si tratta di proposte che hanno in comune il ruolo centrale che viene attribuito nella struttura organizzativa degli istituti al Corpo di Polizia penitenziaria e, ovviamente, nei singoli istituti, al reparto di tale Corpo operante negli stessi. Le attività professionali diverse – area educativa-trattamentale, area amministrativa contabile, area sanitaria, etc. – assumono la natura di aree tecniche all’interno della struttura organizzativa dell’istituto, che è quella della Polizia penitenziaria. La Direzione è posta al vertice di tale struttura. Risulta evidente che un modello del genere è la negazione del carcere come istituzione sociale, quale indicato dalla Costituzione e dall’Ordinamento penitenziario. E’ inevitabile che, nello stesso, le singole aree professionali siano costantemente condizionate dalla ipoteca della sicurezza e dipendano, per i loro spazi di azione, dalla polizia penitenziaria, struttura di gestione effettiva dei singoli istituti. Dare risalto e, per così dire, principalità ad un’unica voce, soffoca la dialettica con le altre, che, sia pure con fatica, è emersa in questi anni in minore o maggiore misura. Ne consegue, dando spazio a questo modello, la riduzione degli istituti a strutture di sola custodia, luoghi di inattività e di inerzia e certamente poco o nulla di riabilitazione. Si tratta, invece, di portare a compimento il processo degli ultimi anni, che ha visto l’articolazione delle singole aree professionali e funzionali: si tratta di dare forza a questo processo e di portarlo oltre il solo riconoscimento formale nel quale si è sovente risolto. La creazione delle aree professionali nelle quali si articola un istituto ha una valenza operativa ben chiara: si vuole che l’istituto sia attivo, si muova per la soddisfazione di tutte le esigenze che presenta: l’articolazione funzionale garantisce che tutti i servizi abbiano lo spazio adeguato, garantisce ancora che gli stessi convivano e si confrontino, anche dialetticamente, approdando conclusivamente al funzionamento e al soddisfacimento di tutti i ruoli. Resta il problema che vi sia un centro organizzativo che dà le indicazioni e adotta le decisioni generali. Va riconosciuta, pertanto, la esistenza di un vertice – direzione – che deve avere, a sua volta, risorse personali, che gli consentano di essere presente e di conoscere le varie articolazioni e servizi dell’istituto. La funzione direttiva deve essere distribuita fra più soggetti, così che il livello delle responsabilità sia distribuito secondo il livello delle effettive conoscenze e presenze nelle varie parti dell’istituto. Ad un direttore-capo sono attribuite responsabilità e funzioni decisionali sull’andamento e i servizi generali dell’istituto, ma lo stesso distribuirà agli altri funzionari direttivi, con indicazioni e deleghe esplicite, servizi ed attività, così che le decisioni siano sempre riferibili a funzionari che sono stati in grado di conoscere le singole situazioni nelle quali intervengono le loro decisioni. Si è detto, però, che l’articolazione in aree professionali e funzionali è decisiva perché tutti i servizi siano attivi ed efficienti. C’è, quindi,un problema di rapporto fra la direzione e i dirigenti delle singole aree professionali, preposti alle stesse in relazione alle loro specifiche competenze. Questo rapporto non può negare riconoscimento alla autonomia, professionale e organizzativa nelle singole aree, di tali dirigenti. Ma gli stessi devono conformarsi alle indicazioni generali date dalla direzione per l’andamento dell’istituto e riconoscere alla medesima un potere di coordinazione delle varie aree tra loro e la decisione sulla compatibilità degli interventi delle singole aree rispetto a quelli delle altre. E’ importante per l’andamento ordinato e vitale delle attività delle singole aree, che le stesse abbiano a disposizione il personale necessario per funzionare. Anche questo deve essere, quindi, sottolineato in modo particolare. Così, fino a che il personale dell’area educativa (oggi assolutamente insufficiente) non sarà adeguato allo svolgimento del proprio servizio, la mancata risposta alle esigenze che avrebbero dovuto essere soddisfatte da quel servizio, produrrà tensioni ricadenti su altri servizi, come quello di polizia penitenziaria o quello sanitario. Ma questo intervento vicario darà risposte diverse e spesso di solo contenimento a domande, cui l’area educativa avrebbe dovuto rispondere in modo diverso e più appropriato. Il che conferma che la equilibrata funzionalità di ogni area contribuisce alla funzionalità di ciascuna e che è la funzionalità di tutte che va perseguita. Si è ritenuto che la materia della organizzazione del personale trovi un suo spazio di principi nello stesso Ordinamento penitenziario. E’ indispensabile per una visione complessiva della materia e perché sia chiaro della centralità della stessa perché gli istituti, come già ricordato, realizzino effettivamente le funzioni assegnate dalla Costituzione e dall’Ordinamento penitenziario. Si analizzano ora le singole disposizioni contenute nel Capo IV°. Si prosegue la numerazione iniziata con il Capo I°, con l’avvertenza che la stessa sarà complessivamente rivista, come già detto, nella fase di redazione conclusiva dell’articolato.
2. Le indicazioni generali sulla organizzazione del personale penitenziario
Il primo articolo del capo IV° è dedicato alle indicazioni generali che riguardano il personale. Si è trattato già di una parte delle stesse nel n. 1. Qui si richiamano soltanto alcuni punti. Il comma 1 dell’art. 23 sottolinea che la organizzazione del personale deve essere volta a realizzare le finalità indicate nella rubrica dell’art. 1 dell’O.P. e specificate nei singoli commi dello stesso: realizzare, pertanto, un carcere che rappresenti una istituzione sociale, informata a senso di umanità, rispetto della dignità della persona, trattamenti riabilitativi per i condannati e possibilità di accesso agli stessi anche per gli altri detenuti. Queste finalità riguardano la istituzione carceraria nel suo complesso e in tutte le aree professionali e di servizio.. Il comma 2 contiene la concreta indicazione delle singole aree nelle quali si articola la organizzazione dell’istituto e si distribuisce il suo personale. Le si elencano:
Si deve chiarire che alle singole aree appartiene anche il personale che deve svolgere le funzioni di collaborazione ed ordine indispensabili. Deve anche essere disponibile personale con specifica preparazione informatica. Nel comma 4, infine, si sottolinea la esigenza che ogni istituto si dia e realizzi una specifica progettualità. A tal fine, ogni anno l’istituto si deve dare un programma di realizzazioni da operare, deve presentarlo al proprio provveditorato regionale e chiedere, previa valutazione, le risorse necessarie per realizzarlo. Il provveditorato, esaminato il programma e compatibilmente con le risorse attribuite, adotterà la decisioni conseguenti. Ogni istituto, in relazione alle conclusive decisioni del provveditorato, predisporrà un bilancio preventivo e consuntivo relativo alle attività da svolgere nell’anno. In tal modo, gli istituti si impegnano in un progetto che stimola lo sforzo di miglioramento degli operatori e dei risultati della loro attività. Ovviamente le linee su cui si deve muovere tale miglioramento sono quelle più volte richiamate.
Le indicazioni essenziali sull’area della direzione sono già state date al n. 1. Di tale area si occupa l’art. 24 di questo capo. Appartengono al direttore i poteri di organizzazione dell’istituto, di coordinamento delle varie aree e servizi, di indirizzo della attività di queste e di controllo sulle attività svolte o in svolgimento. La definizione del programma annuale delle attività da svolgere nell’istituto è curata dal direttore, che stimola e coordina la collaborazione e le proposte degli operatori delle singole aree. Il direttore, inoltre, coordina e agevola lo svolgimento della attività degli operatori volontari dell’istituto. Nell’area della direzione, accanto al direttore, sono presenti altri funzionari direttivi. Il direttore distribuisce fra questi le responsabilità operative relative ai vari servizi e sezioni dell’istituto. Come già accennato è essenziale che la direzione, attraverso tutti i suoi funzionari, abbia una conoscenza diretta delle varie realtà dell’istituto: solo così possono essere operate scelte e dettati indirizzi consapevoli, di cui possa poi essere chiesta ragionevolmente ragione. La responsabilità è costruita su quella conoscenza. E’ necessario, pertanto, che i funzionari direttivi – direttore e suoi collaboratori – siano nel numero adeguato ad acquisire la conoscenza diretta di cui si è parlato. Strumento di questa conoscenza dovrà essere anche l’audizione frequente, richiesta o non richiesta, dei detenuti e internati. In relazione alla rilevanza delle sue funzioni al direttore di istituto penitenziario deve essere attribuita la qualifica dirigenziale. Si fa eccezione solo per istituti molto piccoli, con capienza ufficiale prevista di non più di cinquanta persone, fra i quali non sono compresi quegli istituti che, pur se di ridotte dimensioni, abbiano funzioni di sperimentazione o la gestione di situazioni speciali. Per i funzionari direttivi è previsto un ruolo organico, che prevede la distribuzione delle unità necessarie fra i vari livelli fino a quelli dirigenziali. Si sottolinea nella norma in esame che gli organici per i singoli livelli devono essere calcolati tenendo presente la esigenza della presenza dei funzionari direttivi nelle varie articolazioni di ogni istituto.
4. Area amministrativa-contabile
Si tratta di un aspetto degli istituti penitenziari oggi largamente inferiore alle esigenze che dovrebbe soddisfare: effetto e causa, esso stesso, di una macchina amministrativa che, pur con aumentate esigenze, è costretta a marciare o comunque marcia a un minimo numero di giri. Fra l’altro, per parte dei servizi, è stato e viene ancora utilizzato personale della polizia penitenziaria, sottratto, però, in tal modo al proprio servizio. La molto limitata utilizzazione degli spazi per il lavoro e di altre iniziative che impegnerebbero le persone recluse e renderebbero attiva e non inerte la loro vita si spiega anche con le insufficienze organizzative di questa area. Nel momento in cui si vuole che l’istituto attivi tutte le sue funzioni, si trasformi da struttura immobile a realtà in movimento, l’adeguatezza organizzativa dell’area amministrativa contabile diventa indispensabile. Questo è necessario anche se i singoli istituti, come è previsto e possibile, attribuiscono spazi di attività a enti o organi esterni alla amministrazione, come quelli di istruzione e formazione professionale e, ancora, a cooperative sociali o imprese private, che possono organizzare iniziative di lavoro per le persone recluse. Anche in tali casi, pur se ridotta, l’attività dell’area amministrativa contabile è indispensabile nella fase preparatoria e in quelle di verifica e controllo. Va aggiunto che, se il singolo istituto, deve darsi un ciclo annuale di attività, pensare in termini di bilancio preventivo e consuntivo, l’area amministrativa-contabile è costantemente impegnata e deve avere le risorse organizzative necessarie per fornire, in ogni fase, un contributo efficace. L’art. 25 definisce i servizi di competenza dell’area amministrativa contabile e i punti rilevanti del suo assetto organizzativo.
E’ indubbiamente una delle aree strategiche dell’istituto, che risente oggi e da tempo di gravissime carenze. Gli ultimi anni hanno visto il riconoscimento della autonomia dell’area e la attribuzione, attraverso concorso interno, della dirigenza della stessa agli educatori, ma non un solo passo avanti è stato fatto in merito alla copertura dei ruoli, già ora largamente scoperti, e sul loro potenziamento. Gli educatori presenti negli istituti sono poco più di 450 e altri 130/140 operano presso il Dipartimento e i provveditorati regionali della amministrazione penitenziaria. Si può stimare che, per una reale presenza ed efficacia dell’intervento negli istituti, occorre almeno moltiplicare per quattro le presenze attuali, raddoppiando, in particolare, il ruolo organico esistente. Il primo ed essenziale intervento è, dunque, quello della definizione di un organico degli educatori, che assicuri la loro efficace presenza negli istituti. Il loro ruolo è essenziale nell’ambito della attività di osservazione e trattamento, che è indubbiamente quella che dà il senso alla esecuzione della pena in carcere. E’ pertanto non rinviabile una definizione dell’organico, anche attraverso la previsione di uno sviluppo di carriera adeguato, che assicuri agli operatori di questa area una prospettiva stimolante al loro lavoro. Altrettanto essenziale e assolutamente urgente è procedere alla copertura degli organici così come definiti. Dell’area educativa si occupa l’art. 26 della proposta. Si è ritenuto necessario di dare indicazioni nella legge su entrambi i punti sopra indicati: organici e copertura degli stessi. Su quello dell’organico, si è definito il rapporto fra numero degli educatori e numero dei detenuti e degli internati. Il rapporto di 1 a 25 dovrebbe essere adeguato, tenendo conto che l’educatore ha un doppio livello di interventi: quello nei confronti di ogni detenuto e quello concernente organizzazione e partecipazione alle iniziative collettive, che devono impegnare la giornata dei reclusi. Per entrambi questi livelli, si prospetta una pluralità di interventi molto articolati ed impegnativi. Per la copertura degli organici, si sono previste procedure di urgenza per risolvere al più presto un problema determinante per il basso livello trattamentale del carcere odierno. Si è anche chiarito che il ruolo organico degli educatori prevede i livelli superiori di sviluppo della carriera fino alle funzioni dirigenziali. Il citato art. 26 indica le funzioni degli educatori e chiarisce che appartiene alla carriera degli educatori colui che dirige ed è responsabile dell’area. E ancora: è nell’ambito dell’area educativa che si colloca, come luogo centrale, lo svolgimento della attività del gruppo di osservazione e trattamento. Tale attività è organizzata, seguita e documentata dagli educatori partecipanti al gruppo, ma si deve rilevare che il coordinamento della attività del gruppo spetta al direttore o a un funzionario direttivo. Questo ruolo di coordinamento non può non spettare alla direzione quando, come accade per l’attività del gruppo di osservazione e trattamento, sono coinvolti operatori appartenenti ad aree diverse. Questo non toglie che la responsabilità dell’area affidata ad un educatore presenti un ampio spazio di movimento per lo stesso. Questo riguarda intanto la attività di stretta competenza degli educatori, sia sul piano del rapporto individuale con i reclusi, sia su quelle delle iniziative collettive. Qui il dirigente dell’area organizza il lavoro degli altri educatori. Ma la sua attività è rivolta anche ai componenti di altre aree: così quella degli esperti della osservazione e trattamento, come quella degli operatori dei centri di servizio sociale per adulti. Tali operatori devono svolgere le attività di loro competenza in materia di osservazione dei detenuti e internati, di verifica delle loro condizioni personali e socio-familiari, di definizione delle loro prospettive e possibili percorsi riabilitativi, di sviluppo di questi. Queste attività non hanno soltanto un momento di consultazione e riflessione nelle riunioni del gruppo di osservazione, ma si concretano in fasi operative che precedono e seguono quel momento. In tali fasi la collaborazione fra i vari operatori è indispensabile ed è l’area educativa che deve distribuire il lavoro, segnalare le esigenze, fare circolare le reciproche conoscenze, indicare problemi e approfondimenti. Se questo riguarda in primo luogo le aree direttamente coinvolte nella fase della osservazione, include, poi, anche rapporti con le altre aree – ad esempio: direzione, sanità, sicurezza – che, di loro iniziativa o richieste, possono fornire indicazioni e informazioni, anche prima e a prescindere dalla loro partecipazione al gruppo di osservazione e trattamento. Il carico del coordinamento operativo e della organizzazione di questi rapporti ricadrà in particolare sul dirigente dell’area educativa e, attraverso lo stesso, sui singoli educatori. Si è voluto sottolineare nel testo della norma che nel ruolo dell’educatore c’è anche una attività oggi giustamente valorizzata ed è quella della promozione della rete sociale, che implementi, prima, ed aiuti nella realizzazione, poi, dei percorsi riabilitativi dei detenuti e degli internati. Rete sociale significa che, intorno alla persona reclusa, che rischia la esclusione sociale, si mobilitano, le risorse che contribuiscono, invece, alla sua risocializzazione. Tali risorse, talvolta, hanno propri ruoli istituzionali nell’ambito dei servizi pubblici (pensiamo ai servizi per le tossicodipendenze o per l’igiene mentale, nei casi che presentano questi problemi), ma talvolta le risorse in questione possono riguardare il c.d. privato sociale. Quasi sempre inoltre può essere presente la rete personale di riferimento dell’interessato: familiari, amici, organismi vari che si interessano di lui. Ovviamente c’è un protagonista di questo discorso ed è l’interessato medesimo, la sua motivazione a cogliere le occasione che gli vengono offerte. Spesso, nelle situazioni di molte persone coinvolte in situazioni gravi di disagio sociale, ci può essere una notevole difficoltà a vincere l’inerzia in cui si è precipitati. Gli operatori dell’area educativa devono essere in grado di rimotivare la persona o almeno devono cercare di farlo. Si tratta di spingerla a risollevarsi dalla caduta della fiducia in se stessa e nelle proprie prospettive, a superare le condizioni negative (come la dipendenza), che contribuiscono alla sua inerzia. Un tentativo non facile, ma che deve essere fatto. L’importanza della rete sociale va colta anche su un altro aspetto. E’ pacifico che un momento assai critico per il percorso del reinserimento sociale dei reclusi è quello del recupero della libertà: si passa da un regime, anche pesante, di controllo e accompagnamento, tenuta presente anche la fase delle misure alternative, ad una situazione di esclusiva responsabilità propria. Sembra impraticabile la ipotesi di un ulteriore periodo di accompagnamento da parte degli operatori penitenziari dell’istituto a pena conclusa (il discorso potrebbe non essere chiuso per gli operatori dei centri servizio sociale adulti), ma, se la rete sociale è attivata, è questa che può validamente assolvere l’opera di sostegno necessaria per chi deve riaffrontare la difficile responsabilità di se stesso.
6. L’area degli esperti dell’osservazione e trattamento
Gli esperti dell’osservazione e trattamento hanno un ruolo particolarmente significativo negli istituti sotto un duplice profilo. Il primo è quello che gli attribuisce l’art. 13 nel quadro della osservazione multiprofessionale della personalità, funzione che è strettamente penitenziaria. E’ emersa, però, una funzione ulteriore e diversa, conseguente alla circostanza che la professionalità largamente prevalente e quasi totalitaria tra gli esperti è quella dello psicologo. Questa funzione riguarda il coinvolgimento nella assistenza alle molte situazioni di disagio personale che si manifestano in carcere e di cui sono spia i tentativi di suicidio e i suicidi consumati, che presentano dimensioni preoccupanti. Sotto questo profilo, si richiede agli esperti una funzione psicoterapica, che, pur in presenza di situazioni strettamente carcerarie, li avvicina all’area sanitaria. Affidare tale funzione all’intervento psichiatrico può non essere pertinente in quanto manca una patologia psichiatrica, mentre sembra adeguato l’apporto dello psicologo, che interviene su un disagio, una difficoltà di sostenere l’impatto del carcere da parte di soggetti con una personalità fragile. La doppia funzione indicata, fa degli esperti dell’osservazione e trattamento figure essenziali, la cui presenza in carcere è non solo quantitativamente insufficiente, ma anche qualitativamente inadeguata attraverso la previsione di semplici rapporti libero professionali con monti-ore mensili molto modesti rispetto alle esigenze. Di qui la previsione della istituzione di un ruolo organico degli esperti, ruolo che deve presentare una consistenza misurata sulla dimensione dell’impegno. L’organico dovrà anche prevedere uno sviluppo di carriera. Nella copertura dell’organico, sembra inevitabile utilizzare intanto coloro che svolgono attualmente e da tempo lo stesso lavoro con rapporto libero-professionale. Gli stessi si sono ormai formati ad un lavoro che presenta aspetti di specificità molto significativi: sia per quanto riguarda l’attività di osservazione e trattamento, sia per quanto riguarda il sostegno al disagio psichico da carcerazione. E’ una formazione professionale già acquisita durante il lavoro svolto e che è, quindi, logico non disperdere. Si deve dare atto che, nella esperienza attuale, erano sorti, negli anni, vari servizi, vicini, ma diversi da quelli degli esperti dell’osservazione e trattamento, sempre a carico della amministrazione penitenziaria e sempre trattati con le stesse regole retributive e normative concernenti gli esperti dell’osservazione e trattamento. Si parla del "servizio nuovi giunti", istituito nei carceri maggiori per identificare il rischio di auto o eteroaggressività nei soggetti che entravano in carcere. Si parla anche dei presidi per le tossicodipendenze, che avrebbero dovuto agire da collegamento fra il servizio sanitario interno e il servizio tossicodipendenze del territorio. Un limite di questi vari servizi, non sempre coperti economicamente, e, quindi, con notevoli discontinuità, era una notevole scarsità di collegamento e interazione. Nell’art. 27 dell’articolato, dedicato a questa area, ci si è preoccupati della necessità che le varie risorse che devono operare in un istituto per i fini indicati sopra, comprese quelle dei servizi sanitari del territorio, restino strettamente collegate. In funzione di questo si prevede che vi sia una sorta di presa in carico che si può chiamare psicologica, documentata attraverso una apposita cartella, che raccolga e metta in circolo tutti gli interventi e le valutazioni relativi alle singole persone, così da assicurare la interazione attualmente mancante. La norma citata prevede anche le modalità dei rapporti fra gli operatori e fra questi e gli appartenenti alle altre aree.
Per la descrizione della attività svolta nell’ambito dell’area sanitaria, si deve rimandare agli artt. 11 e subalterni della presente legge, nella parte iniziale dell’articolato, e della dettagliata relazione agli stessi, al n. 4 delle "Indicazioni generali" della Parte prima di questa relazione. Si è prevista in quegli articoli la avvenuta conclusione dell’iter legislativo che porta la organizzazione sanitaria penitenziaria all’interno del Servizio sanitario nazionale. Questo, pertanto, con le proprie regole opererà all’interno degli istituti penitenziari. L’art. 28 di questo articolato si occupa, pertanto, della transizione dal sistema attuale, con un servizio sanitario penitenziario autonomo, a quello previsto dalla legge, che prevede l’inserimento di tale servizio in quello sanitario nazionale. Va, comunque, osservato, che il contenuto della assistenza sanitaria, così come prevista dai citati artt. 11 e subalterni, deve considerarsi vincolante sin d’ora. Anche il servizio sanitario attuale deve informarsi alle regole ora dette. Non sembra utile in questa fase procedere ad una rideterminazione dei quadri organici del personale sanitario, in quanto l’ingresso nel servizio sanitario nazionale dovrebbe realizzarsi con la organizzazione propria dello stesso. Si è, comunque, previsto che le risorse economiche attuali devono essere adeguate e sufficienti per le modalità del servizio indicate nei ripetuti artt. 11 e subalterni; che le stesse non solo non devono essere ridotte, ma debbono essere riportate ai livelli necessari per assicurare la doverosa funzionalità del servizio. Deve essere evidente, ad esempio, che la insufficienza di risorse economiche che porta alla mancata somministrazione di farmaci salvavita, determina una responsabilità diretta della amministrazione dello Stato che non fornisce quelle risorse. Per gli ospedali psichiatrici giudiziari e le case di cura e custodia si sottolinea la necessità di una organizzazione interna dei reparti propriamente ed esclusivamente sanitaria, così come indicato dal comma 11 dell’art. 11. Si sottolinea anche che il servizio paramedico nell’ambito dei reparti dovrà essere coperto interamente, in quanto solo in tal modo una gestione sanitaria dei reparti stessi sarà possibile.
E’ indubbiamente un’altra delle aree strategiche degli istituti. Vi è già una legislazione specifica che la riguarda ed è quella che ha istituito e regolato il Corpo di Polizia penitenziaria. Vi sono stati anche interventi successivi, in particolare sulle prospettive e lo sviluppo di carriera del personale. Inoltre vi sono normative regolamentari previste dalla legislazione ordinaria. Nella presente normativa si è cercato di sottolineare, nell’art. 1 della presente legge, il rapporto di mezzo al fine della sicurezza rispetto al trattamento nei confronti dei detenuti e internati e, in particolare, del trattamento rieducativo che deve essere svolto nei loro confronti:vedi i commi da 6 e 9 di detto articolo 1. Nell’art. 29 del presente capo si sottolineano alcuni punti. Al comma 1 si chiarisce che l’area della sicurezza fa riferimento, comunque, come tutte le altre, al vertice dell’istituto rappresentato dalla direzione. Ai commi 2 e 3 si prevede l’organico generale del corpo e quello dei reparti di polizia penitenziaria operanti nei singoli istituti, compresi i gruppi operativi che provvedono al servizio di traduzioni e scorte. Nell’organico si prevedono i vari livelli di carriera fino alle funzioni dirigenziali. Si stabilisce, inoltre, che le assunzioni nella Polizia penitenziaria devono avvenire con concorso pubblico e che questo deve essere organizzato nell’ambito di ogni provveditorato regionale, in relazione alle necessità di personale dei singoli territori. Negli istituti, l’area della sicurezza ha un proprio dirigente. Nel comma 4 si sottolinea il rapporto fra l’area della sicurezza e le altre aree. e, in particolare, la funzionalità della attività dell’area rispetto all’espletamento del trattamento penitenziario. Il comma 5 è dedicato al servizio traduzioni e scorte: si chiarisce il rapporto fra i gruppi operativi esistenti presso i singoli istituti, denominati nuclei traduzioni e scorte, e i reparti operanti negli istituti e il dirigente degli stessi, cui compete anche la dirigenza del personale addetto alle traduzioni e scorte. Tali nuclei hanno comunque un proprio personale che organizza il servizio.
9. Organici e copertura degli stessi
Si è costantemente richiamata l’attenzione sulla esigenza che, per una reale funzionalità degli istituti nel senso previsto dalla Costituzione e dall’Ordinamento penitenziario, si debbano rideterminare gli organici, per gran parte delle aree decisamente inadeguati ai compiti. Nel contempo, si deve provvedere nel termine di tre anni alla copertura degli stessi. Per evitare il grave inconveniente attuale del concentrarsi del personale in determinate regioni e della mancanza dello stesso in altre, si richiama alla esigenza di provvedere con concorsi decentrati, nelle varie sedi dei provveditorati, e in relazione alle esigenze dei singoli territori. Per settori del personale particolarmente deficitari, si prevedono forme straordinarie di assunzioni: vedi per gli educatori e per gli esperti dell’osservazione e trattamento.
Il capo V°: il personale operante nei Centri servizio sociale adulti. 1. Organizzazione e funzioni dei centri servizio sociale per adulti
I centri servizio sociale adulti hanno rappresentato da subito, accanto agli educatori all’interno degli istituti, la novità del nuovo Ordinamento penitenziario. La loro organizzazione è esterna e diversa da quella degli istituti. Sono considerati il soggetto principale della c.d. area penitenziaria esterna ovvero dell’area delle misure alternative. Gli articoli da 30 a 35 di questo capo descrivono l’organizzazione e le funzioni dei centri.
Gli stessi sono posti nella stessa sede in cui si trova l’ufficio del magistrato di sorveglianza. E’ ormai stata attuata sul piano amministrativo, e qui viene riconosciuta su quello legislativo, la possibilità di articolazione dei centri sul territorio con sedi decentrate. Tale soluzione è sicuramente opportuna sia per una migliore funzionalità dello stesso servizio, sia per un rapporto più agevole e ravvicinato con e per l’utente. Sotto il primo profilo, in molti centri il numero delle persone in misura alternativa era troppo elevato per potere essere gestito efficacemente in un’unica sede. Sotto il secondo profilo, gli utenti del servizio e, in particolare gli affidati in prova, con un rapporto abbastanza intenso con il servizio stesso, avevano sovente residenze molto lontane: e ciò non rendeva facile il rapportarsi degli utenti al servizio e anche quello degli operatori agli utenti nei casi in cui dovevano accedere sul luogo del domicilio o del lavoro. Oltre alla organizzazione sul territorio, ci si occupa anche della organizzazione interna dei centri, che, come gli istituti, hanno diverse aree: area della direzione e segreteria, area del servizio sociale, area amministrativa-contabile. Circa la organizzazione del personale, è presente nell’art. 34 la previsione dello sviluppo di carriera del personale fino al livello dirigenziale, che interessa i funzionari direttivi dell’area della direzione e gli assistenti sociali dell’area di servizio sociale.
Veniamo, poi, alla indicazione delle funzioni. Nell’art. 30 si ricorda che la attività dei centri di servizio sociale per adulti deve tenere presenti le indicazioni dell’art. 46bis, articolo iniziale del Titolo II°, che ricorda la essenzialità delle misure alternative nel quadro della esecuzione penale e il ruolo che deve avere in esso un sistema organizzativo di sostegno e di controllo, che è rappresentato, appunto, dai centri. Si può venire, poi, alla descrizione delle funzioni. Una delle stesse è quella di collaborazione e consulenza all’interno degli istituti, dove, in particolare, i centri e i loro operatori sono l’organismo indispensabile per la informazione, verifica e stimolo dei riferimenti esterni, familiari e sociali, dei detenuti e internati. L’altra funzione si svolge, invece, tutta all’esterno e riguarda la gestione delle misure alternative: di esclusiva competenza dei centri, quanto alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale; di collaborazione, quanto alle altre misure, alla gestione di altri organi: gli istituti, nella semilibertà, gli organi di polizia nella detenzione domiciliare e nella liberazione condizionale. Per la prima funzione, è chiaro che l’operatore del servizio sociale è soggetto indispensabile della osservazione della persona reclusa in quanto ricostruisce i suoi riferimenti esterni, familiari e sociali, contribuisce al mantenimento e miglioramento degli stessi, verifica l’esito delle iniziali aperture della persona (come i permessi premio), coopera nel definire e verificare il percorso riabilitativo che si apre al detenuto e all’internato. Vi è quindi la partecipazione dell’operatore di servizio sociale, oltre che all’osservazione, a vere e proprie fasi trattamentali. Quanto alla seconda funzione, la centralità del servizio sociale penitenziario nell’area delle misure alternative è chiara. Tale area ha assunto ormai una dimensione significativa. Nel corso di un anno, passano attraverso di essa, oltre quarantamila persone, i due terzi delle quali sono in affidamento in prova al servizio sociale. Tale misura è gestita, appunto, dai centri servizio sociale per adulti.
Anche i centri hanno conosciuto situazioni di forte carenza organizzativa, sia nel personale che nei mezzi, tanto più avvertibile nelle zone in cui l’area esterna si allargava maggiormente, come le zone che appartenevano al nord e al centro Italia, in cui gli organici erano più scoperti e, comunque, largamente insufficienti. Su questa situazione è intervenuta la legge Simeone-Fassone-Saraceni, stabilendo un aumento significativo del personale di servizio sociale e del personale amministrativo utilizzabile nei centri, così che oggi le carenze del personale risultano contenute, nelle parti in cui è più avvertibile la crescita delle misure alternative, e risolte in quelle in cui la crescita è limitata o assente. Ciò non toglie che una revisione degli organici debba essere, comunque, operata, eventualmente limitata ai centri maggiormente impegnati. Per la ulteriore copertura, dovrà essere ancora usato lo strumento dei concorsi decentrati nei singoli provveditorati, che ha dato buoni risultati per la copertura dell’aumento degli organici previsto dalla ricordata legge Simeone-Fassone-Saraceni. Restano i problemi relativi al completamento della organizzazione del personale dei centri. Vi sono ancora insufficienze nel personale amministrativo e nella disponibilità dei mezzi necessari, particolarmente degli automezzi, indispensabili per lo svolgimento di una attività che si svolge in parte considerevole fuori dall’ufficio: di questo si occupa specificamente il comma 7 dell’art. 30. Il discorso generale sulla organizzazione dei centri e, in particolare sugli organici è sviluppata nell’art. 34.
Sembra utile esaminare poi, per gli aspetti più generali della organizzazione del personale dei centri, la previsione, al comma 5 dell’art. 32, di un nuovo ruolo del personale, quello degli operatori di servizio sociale, che hanno la funzione di collaborare con gli assistenti sociali. La loro qualificazione è minore: si richiede agli stessi un diploma di scuola media superiore. La istituzione di tale ruolo risolve, però, una serie di problemi. Il problema centrale riguarda la caratterizzazione specifica dei centri, con riferimento alla fondamentale funzione della gestione della misura alternativa dell’affidamento in prova. Per questa, è necessario che non vi sia commistione con la partecipazione di forze di polizia, siano esse appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria o ad altri corpi di polizia. Tale caratterizzazione specifica è indispensabile perché il rapporto degli utenti con il Centro sia libero dal rischio di un approccio di tipo repressivo, pur mantenendosi una adeguata attività di controllo. Dunque, da un lato, tale personale svolge anche funzioni di vigilanza sui centri, nei quali talvolta, si manifestano situazioni di tensione, cui può essere data una prima risposta senza ricorrere all’intervento di polizia, possibile in seguito, come in qualsiasi altro ufficio o servizio, se la situazione degeneri. Inoltre, sempre in una linea di maggiore sicurezza nel lavoro degli operatori di servizio sociale, questo personale può affiancare l’assistente sociale in caso di accesso in ambienti difficili. Dall’altro lato, questo nuovo personale può svolgere alcuni interventi di controllo sulla osservanza di certe prescrizioni, fra le quali quella, non infrequente negli affidamenti in prova, della permanenza al domicilio in determinati periodi della giornata, particolarmente nelle ore notturne. Il rispetto di tale prescrizione è oggi scarsamente verificato, se non attraverso gli organi di polizia, particolarmente dalle stazioni dei Carabinieri nei centri minori, che si ritengono investite di una funzione che, per vero, non hanno. E’ però difficile contestare tale controllo senza garantire che lo stesso sia operato dagli organi effettivamente investiti, che sono, appunto, i centri servizio sociale adulti. Il personale in questione, può, quindi, risolvere queste carenze e controllare, inoltre, l’osservanza di altre prescrizioni
L’art. 30 si conclude con la previsione dell’autonomia dei centri. Questa si esprime nella definizione di programmi, che vengono presentati ai provveditorati regionali per la approvazione e la attribuzione delle risorse occorrenti. In relazione a ciò i centri hanno un bilancio preventivo e uno consuntivo.
2. L’area della direzione e della segreteria
Il vertice organizzativo dei centri è rappresentato dalla direzione: se ne occupa l’art. 31. Come accennato, il funzionario assegnato ha funzioni dirigenziali. Organizza il lavoro dell’ufficio, anche se esiste poi un secondo livello organizzativo nelle singole aree in cui l’ufficio si articola. E’ chiaro che questa competenza della direzione coinvolge anche funzioni di controllo sulla adeguatezza ed efficacia del lavoro degli operatori delle singole aree, che mantengono, però, la loro autonomia professionale: notazione, questa, particolarmente rilevante per gli assistenti sociali. Si chiarisce anche che il direttore del centro, come gli altri eventuali funzionari direttivi che lo affiancano, devono avere una qualificazione professionale di servizio sociale e svolgere anche, compatibilmente allo svolgimento delle funzioni direttive, attività concreta di servizio sociale. Questo dovrebbe evitare il rischio di burocratizzazione dei centri in relazione ad una funzione direttiva impostata più sugli aspetti amministrativi che su quelli di servizio sociale, che rappresentano, invece, la sostanza della attività dei centri. La funzione della direzione viene valorizzata dalla previsione del programma annuale relativo ai singoli centri. Questo dà al direttore del centro, cui viene riconosciuta una qualifica dirigenziale, il compito di tracciare linee di intervento significative, che possono attenere ad un miglioramento della ordinaria attività, ma anche ad iniziative straordinarie, che possono attenere a vari aspetti del lavoro complessivo, fra cui la formazione e la ricerca. Per questo ultimo aspetto, è stata prevista la collaborazione di personale informatico, che può rappresentare una risorsa di base per una rilevazione e una elaborazione che vada al di là del semplice contributo statistico.
3. L’area del servizio sociale
L’art. 32 è dedicato agli aspetti significativi di questa area essenziale, come si è detto ora, per i centri.
Sono indicati gli aspetti rilevanti della organizzazione dei centri e del personale operante negli stessi. E’ in tale norma, al comma 5, che si prevede la istituzione del nuovo ruolo degli operatori di servizio sociale, i quali, complessivamente, hanno funzione di affiancamento degli assistenti sociali. Della necessità di questa nuova figura di operatore ci si era soffermati al n. 1 della relazione al capo in esame.
Nella norma, al comma 3, si annota la esigenza che il lavoro di servizio sociale si realizzi attraverso la sensibilizzazione e la collaborazione di quegli organi pubblici e del privato sociale che si interessano alla integrazione delle persone in situazioni di difficoltà. E’ quella che viene oggi chiamata "rete sociale" e che gli operatori dei centri devono cercare di promuovere. Rete sociale significa che, intorno alla persona che è o deve essere sottoposto alla esecuzione della pena e che, a tal fine, può essere ammesso o è già ammesso ad una misura alternativa alla detenzione, si deve lavorare per raccogliere quelle risorse che contribuiscono a fare operare processi di integrazione sociale. Tali risorse, talvolta, hanno propri ruoli istituzionali nell’ambito dei servizi pubblici (pensiamo ai servizi per le tossicodipendenze o per l’igiene mentale, nel casi caratterizzati da questi problemi), ma talvolta le risorse in questione possono riguardare il c.d. privato sociale. Quasi sempre inoltre può essere presente la rete personale di riferimento dell’interessato: familiari, amici, organismi vari che si interessano di lui. Ovviamente c’è un protagonista di questo discorso ed è l’interessato medesimo, la sua motivazione a cogliere le occasione che gli vengono offerte. Il servizio sociale in questa operazione di creare "rete" dovrà agire, quindi, su tutti questi versanti. Raccogliere tutti questi fattori positivi ha quella valenza di sostegno che è indicata come caratteristica necessaria dell’intervento di servizio sociale, ma anche una indiretta valenza di controllo, in quanto la rete sociale tessuta intorno all’interessato lo aiuta a superare le sue criticità oggettive e soggettive. Va chiarito, come si indica nella norma in questione, che l’assistente sociale deve operare questo lavoro di "rete" sia nella fase di collaborazione con l’area educativa del carcere, per coloro che si trovano in detenzione, sia nella fase in cui si prepari la ammissione ad una misura alternativa per chi sia già in libertà o, infine, per chi sia già in misura alternativa, ammessovi dal carcere o della libertà. Non si può trascurare un problema, che si è già rilevato in precedenza: quello della fase successiva alla conclusione delle misure alternative, segnata dalla cessazione di quelle attività di sostegno e di controllo, che aiutavano la progressiva responsabilizzazione dell’interessato. Si tratta di una fase particolarmente delicata, nella quale il medesimo interessato torna ad essere pienamente libero della gestione di sé. Prevedere il mantenimento di una parziale partecipazione del servizio sociale a tale gestione non sembra possibile in quanto la esecuzione della pena è conclusa. Un aiuto può venire dalla rete sociale creata: se c’è e funziona, può essere efficace, sostenendo e non limitando la recuperata libertà del soggetto. Si è, però, previsto che l’interessato, liberamente, possa rivolgersi al centro servizio sociale, per sei mesi dopo la conclusione della misura alternativa, chiedendo l’aiuto dello stesso per affrontare le eventuali difficoltà emergenti e stimolare il mantenimento di un efficace rapporto con la rete sociale.
Conviene fare cenno qui ad un’altra possibile risorsa cui possono fare ricorso i centri e che è logico riferire all’area del sevizio sociale, anche se non è propriamente pertinente alla stessa. In tal senso, però, viene già una indicazione dal comma 3 dell’art. 118 del DPR 30/6/2000, n. 230, che è il Regolamento di esecuzione all’O.P. Tale risorsa concerne un particolare problema, quello relativo alla presenza di una casistica critica delle misure alternative, per la quale il solo intervento di servizio sociale può non risultare sufficiente. Ci sono, infatti, persone in misura alternativa che presentano problemi francamente psichiatrici o problemi di personalità che consigliano interventi sul piano psicologico. Ora, in linea di massima, i centri si devono muovere nel contesto delle risorse organizzative del territorio in queste materie. Questa indicazione è tanto più forte in quanto si attivi e si faccia operare la rete sociale di cui si è parlato qui sopra. Ciò non toglie che non può essere esclusa, nei casi che richiedono un intervento più intenso o in quelli in cui è più debole la risposta territoriale della rete sociale, la utilità della collaborazione di specialisti che agiscano direttamente per il centro. Al comma 6 dell’art. 32 si prevede la possibilità o di stabilire un rapporto libero convenzionale con un professionista o di avere la stabile disponibilità di quei professionisti, con la specificità professionale necessaria, che operano nell’area sanitaria o in quella degli esperti dell’osservazione e trattamento dell’istituto penitenziario posto nella stessa del centro. L’inserimento di tali professionisti presso il centro può avvenire o con il distacco presso lo stesso o con una vera e propria assegnazione al medesimo.
4. Area amministrativa-contabile
L’art. 33 è dedicato a questa area, indispensabile, indubbiamente per il funzionamento dei centri e tanto più al momento in cui si prevede il rafforzamento dell’autonomia dei centri con la previsione del programma annuale, che può essere il veicolo di varie azioni e interventi: organizzativi, progetti sulle attività da svolgere, ricerche, momenti formativi, etc..
Il capo VI°:I livelli superiori della organizzazione penitenziaria e la formazione del personale.
L’organizzazione penitenziaria trova i suoi livelli superiori: in sede regionale, nei provveditorati regionali della amministrazione penitenziaria: in sigla PRAP; in sede nazionale nel dipartimento della amministrazione penitenziaria, in sigla DAP. La parte di articolato dedicata a tali organi è in sostanza una registrazione dell’esistente, con alcune specificazioni.
1. I Provveditorati regionali della amministrazione penitenziaria.
Si sottolineano i punti essenziali contenuti nell’art. 35. Il primo è quello del richiamo alla importanza che questo livello della organizzazione penitenziaria deve assumere, livello confermato dalla qualifica di direttori generali attribuita ai provveditori regionali, al pari di quella dei capi degli uffici generali centrali presso il DAP. Tale importanza si può riassumere nella formula che gli istituti e i centri di servizio sociale adulti di ogni regione fanno sistema e quel sistema trova la sua espressione nel provveditorato regionale. Si sottolinea, pertanto, nel comma 1, la esigenza che, in linea di massima, ogni territorio regionale debba avere gli istituti o sezioni di istituto, dei quali è prevista la presenza almeno regionale: come le sezioni per la osservazione psichiatrica in un istituto penitenziario (non negli OPG) o quella per i soggetti con gravi minorazioni fisiche che ne limitano la autosufficienza. La completezza del sistema degli istituti, deve consentire, da un lato, di offrire risposte territorialmente corrette ai detenuti e internati e, dall’altro, di potere operare gli eventuali movimenti necessari restando nell’ambito dello stesso territorio regionale. In questo quadro, si sviluppa una dinamica della gestione penitenziaria regionale. Al provveditorato fanno capo e trovano la loro coordinazione e valutazione complessiva i programmi annuali che si devono dare gli istituti. E’ il provveditorato regionale a accoglierli e trasmetterli al DAP, accompagnati dalle proprie osservazioni. La organizzazione del provveditorato è articolata e risponde attraverso la sua articolazione a quella propria degli istituti e dei centri servizio sociale. Così si ritrovano presso il provveditorato le aree proprie del livello organizzativo di base. Le competenze sono indicate dalla legge, ma il decentramento, proprio della amministrazione statale, attribuisce ai provveditorati un completo spazio di competenze, che ha, peraltro, come limite insuperabile l’ambito territoriale in cui l’attività si attua. Solo, in presenza di assenza di iniziativa e di intervento, il DAP potrà sostituirsi ad un provveditorato inerte.
2. Il Dipartimento della amministrazione penitenziaria
L’art. 36 è dedicato al dipartimento della amministrazione penitenziaria. Nel comma 1 sono date le indicazioni relative alla scelta del capo del dipartimento e alla qualificazione dello stesso, che deve essere imperniata sul prestigio e la professionalità acquisiti nel settore penitenziario: sia attraverso il suo servizio nell’ambito della amministrazione penitenziaria o nell’ambito della attività giudiziaria o in quello degli studi universitari. La funzione del capo del dipartimento è, in particolare, quella di indirizzare ogni anno le linee principali della attività penitenziaria. Si conferma la attuale articolazione del dipartimento in direzioni generali, corrispondenti ai precedenti uffici centrali. Si indicano i settori che devono essere necessariamente rappresentati nelle direzioni generali, non escludendo quindi la possibilità che ne siano aggiunti altri. Sono menzionati, pertanto, i settori principali, fra i quali si inserisce anche quello degli studi e ricerche. Non si può che sottolineare qui la importanza di questo elemento dell’organizzazione. Per evitare che la stessa si burocratizzi nella ordinaria amministrazione, deve esserci la consapevolezza dell’importanza dell’analisi della situazione e delle prospettive di miglioramento e di maggiore efficacia nel raggiungimento dei fini che Costituzione e leggi danno alla amministrazione penitenziaria. Altro servizio che deve trovare una propria struttura e organizzazione, anche se all’interno di un'altra direzione generale, è quello relativo alla edilizia penitenziaria. Tale servizio, anche attraverso le articolazioni presso i provveditorati regionali, deve seguire lo stato di un vastissimo patrimonio immobiliare, che ha un bisogno costante di manutenzione e ammodernamento. Si è ritenuto necessario sottolineare nella legge la necessità di utilizzazione costante e completa della Cassa ammende, la cui presidenza è affidata al capo del dipartimento. Questo organismo, la cui attività è rimasta bloccata per decenni, come spiegato altrove, deve riprendere una piena funzionalità e utilizzare le risorse di cui dispone in settori particolarmente importanti, come quelli della assistenza postpenitenziaria e alle famiglie dei detenuti, nonché per il soccorso alle vittime del delitto. Si tratta di interventi essenziali per una politica di inclusione e di reinserimento sociale da perseguire attraverso la esecuzione penale, intervenendo anche sulle conseguenze che i reati hanno prodotto nell’ambito sociale. Proprio per una maggiore efficacia della utilizzazione delle risorse, si è prevista la distribuzione delle stesse, in parte considerevole, a livello di provveditorati regionali in base a progetti presentati dagli stessi. Anche questo per territorializzare l’intervento e stimolare una attenzione e un impegno, mancati per troppi anni in un settore di particolare importanza.
3. La formazione del personale
E’ stata più volte manifestata una notevole insoddisfazione in questi anni circa il tempo e le risorse dedicate alla formazione del personale e alle conseguenti insufficienze della medesima. Tale insoddisfazione è indubbiamente fondata per sotto vari profili. Il problema riguarda in particolare, ma non soltanto, il personale di Polizia penitenziaria e si può dire si manifesti in due aspetti: il tempo limitato dedicato alla formazione e le modalità della stessa. Sul primo aspetto c’è da dire che, in presenza di ricorrenti situazioni di emergenza, sono stati ridotti i periodi di formazione iniziale e quelli successivi, previsti dalla normativa sulla Polizia penitenziaria. Sul secondo aspetto, il numero elevato del personale assunto in ogni occasione, costringeva a corsi di formazione molto affollati e poco produttivi, che dovevano essere espletati nelle poche scuole di formazione esistenti, incongruamente distribuite sul territorio dello Stato. Questi aspetti erano aggravati – il discorso riguarda qui la sola Polizia penitenziaria – dall’uso quasi costante delle procedure di assunzione, consistenti nel c.d. reclutamento di persone che effettuavano il servizio militare di leva o che lo avevano svolto in altre forze di polizia, procedure che facevano venire meno la garanzia di formazione generale assicurata, ordinariamente, dal concorso pubblico, utilizzato in poche occasioni in quanto si agiva sempre, come già detto, in situazioni di emergenza, con tempi insufficienti per il ricorso a tale forma di assunzione. Le criticità indicate dovrebbero venire meno con la rivisitazione generale della normativa sul personale operata con questa proposta. Intanto, si è prevista la necessità del concorso pubblico, anche per il personale di Polizia penitenziaria, per il quale erano state autorizzate le procedure di reclutamento. Si recupera, quindi, quella garanzia di formazione generale che tale forma di assunzione assicura. In secondo luogo, si sono previsti concorsi praticamente regionali (nell’ambito di ciascun provveditorato), che presentano l’indubbio vantaggio di evitare la concentrazione, fra gli assunti, di persone provenienti da poche aree territoriali e determinate a tornarvi: con il grave inconveniente della infelice distribuzione dello stesso personale, specialmente della Polizia penitenziaria, sul territorio nazionale. In terzo luogo, in conseguenza di quanto ora detto, con riguardo sempre e particolarmente alla Polizia penitenziaria, l’attività di formazione potrà interessare numeri ragionevoli e ridotti di partecipanti ai corsi, con risultati formativi decisamente migliori. Tutto ciò premesso, la conclusione, che è stata già anticipata, deve avvenire, come la assunzione, in sede regionale con qualche ulteriore vantaggio. Pur non escludendo momenti di aggregazione pluriregionali o nazionali, lo svolgimento ordinario della formazione in sedi regionali presenta vantaggi pratici e di qualità formativa. I primi riguardano la vicinanza delle sedi formative ai luoghi provenienza ed anche a quelli di lavoro. Ma soprattutto questo assicura un rapporto stretto con la realtà degli istituti dove si deve operare e nei quali si dovrà svolgere parte della formazione e un rapporto analogo con il personale penitenziario che negli stessi istituti è attualmente impegnato. E’ chiaro che, nei corsi di formazione, parteciperanno anche docenti di formazione teorica, ma vi sarà spazio anche a quelli che portano l’attualità della loro esperienza direttamente dalle sedi di lavoro. All’opposto, va detto che la formazione data dalle scuole esistenti, presenta il rischio di burocratizzazione del lavoro di formazione, con la conseguenza di fornire una preparazione più ideologica che realmente professionale.
Queste indicazioni si esprimono nella normativa di carattere generale sulla formazione, che ovviamente, non può non richiamare ai contenuti indispensabili della stessa, che sono in primo luogo rappresentati dai principi costituzionali e da quelli dell’Ordinamento penitenziario.
Il capo VII°: gli assistenti volontari e la cooperazione sociale.
Conosciuta ed esistente anche prima della legge di riforma penitenziaria, la figura dell’assistente volontario fu esplicitamente prevista e regolata dalla stessa legge all’art. 78. Gli assistenti volontari hanno avuto, dopo la legge, una considerevole crescita nel numero e nel tipo di intervento. Essi si riconoscono anche in associazioni, che hanno fatto valere costantemente la visione di una attività penitenziaria in linea con gli indirizzi normativi. Non va dimenticato che il volontariato sostiene e stimola anche negli operatori professionali la motivazione ad un lavoro che sia volto al recupero e alla riabilitazione. In una situazione di povertà organizzativa delle strutture penitenziarie, in particolari settori, la disponibilità del volontariato si è spinta talvolta anche a funzioni di supplenza di attività che sono proprie della amministrazione e che la stessa è però impotente a compiere. Se, come con la presente proposta di legge si intende fare, le carenze organizzative della amministrazione devono essere superate, dovrebbero venire meno le occasioni di supplenza da parte del volontariato. E’ parsa giusta la posizione di certe associazioni del volontariato di non volere riparare a mancati interventi della amministrazione in aree particolarmente delicate: Lo spazio alla partecipazione del volontariato resta molto ampio. A prescindere da quello, più risalente nel tempo, ma ancora vivo, del sostegno morale alla persona, restano tutti i vai momenti di affiancamento alle attività trattamentali svolte negli istituti, collaborazione a ciò che viene fatto e non supplenza di ciò che non viene fatto. In questi casi, si è voluto sottolineare che gli assistenti volontari devono partecipare alle attività di osservazione e di programmazione del trattamento relative alle persone con cui sono entrate in contatto attraverso le attività svolte. E’ opportuno ricordare che la particolare libertà di movimento nell’ambiente sociale, fuori da ogni condizionamento burocratico, del volontariato favorisce la definizione dei percorsi di reinserimento sociale e può sostenerne sviluppo e realizzazione. Il volontariato prevede anche l’intervento coordinato di più persone, utile per una serie di attività che guadagnano in continuità e completezza nel non dipendere dall’apporto di una sola persona. Sono tali gli interventi con cui sono svolte attività ricreative e culturali o il sostegno o la preparazione di corsi scolastici che vengono o saranno svolti dagli organismi competenti. Il testo normativo registra e conferma una pratica molto diffusa, che è quella dell’accompagnamento di detenuti e internati, da parte di volontari, durante permessi e licenze. Si chiarisce che l’accompagnatore non assume funzioni di custodia, che esulano, d’altronde, dalla situazione giuridica del detenuto o internato, che, per il tempo della concessione, è libero. Il che nulla toglie alla utilità della presenza dell’accompagnatore, che rappresenta un sostegno a ricavare dal permesso o dalla licenza le utilità che possono fornire e ad evitare situazioni ed ambienti controindicati. Si sottolinea la gratuità della attività degli assistenti volontari. Si è anche ricordato e confermato che l’opera degli assistenti volontari si può svolgere anche nell’ambito dei centri di servizio sociale adulti. Altro chiarimento contenuto nella normativa proposta riguarda il contatto con le famiglie dei reclusi, utile e necessario accanto a quello diretto con gli interessati. Si è solo previsto che ciò avvenga dandone notizia agli operatori penitenziari.
La cooperazione sociale rappresenta un interlocutore naturale del sistema penitenziario sotto due profili: quello di appartenere al mondo del non-profit e quello di agire attraverso realtà aziendali organizzate, che possono trovare negli istituti spazi e attrezzature, nel migliore dei casi sottoutilizzate e sovente non utilizzate affatto. Se pure non si vuole escludere la possibilità dell’intervento dell’impresa privata in carcere, le finalità di profitto di questa rappresentano un condizionamento che le cooperative sociali non devono presentare, pur dovendo tenere conto della economicità delle proprie iniziative. Le possibilità di impiego delle cooperative sociali negli istituti sono indicate nel testo normativo e sono diverse: possono assumere la gestione dei vari servizi interni, possono rilanciare le lavorazioni interne ove vi siano o organizzarle se non ci siano, possono rendere realmente operative le colonie agricole e di lavoro all’aperto, allo stato abbastanza improduttive, nonostante le non irrisorie risorse economiche impiegate. Il testo normativo stabilisce che le convenzioni fra amministrazione penitenziaria e cooperative sociali individuano in queste un contraente preferito, con il quale si possono realizzare progetti senza ricorrere a gare di appalto aperte all’imprenditoria privata. Tale riconoscimento dovrebbe consentire l’avvio di realtà di lavoro all’interno degli istituti, oggi assolutamente insufficienti, quando non esistenti affatto.
|