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Parte seconda: relazione alle modifiche del nuovo Titolo II°
Per la rilevanza e la autonomia delle materie trattate nei tre capi del Titolo II°, conviene dividere la relazione con riferimento ai temi trattati negli stessi. Quindi, si riferirà in merito a: Sezione I°:- Le modifiche del Capo I° sulle misure alternative. Sezione II°- Le modifiche introdotte dal Capo II° in materia di esecuzione dei trattamenti sanzionatori diversi dalla pena detentiva, capo che presenta molte parti del tutto nuove. Sezione III°:- Le modifiche del capo III° sulla magistratura di sorveglianza.
Sezione I. Le modifiche al Capo I° del Titolo II° sulle misure alternative
Alcuni principi e finalità generali
A. L’accesso alle misure alternative nella giurisprudenza costituzionale
Con le modifiche che si propongono si vuole favorire un più esteso ricorso alle misure alternative alla detenzione. Indubbiamente la applicazione abbastanza limitata delle stesse deriva anche da gravi deficienze organizzative nei vari sistemi interessati (penitenziario, socio assistenziale e giudiziario), cui si cerca di provvedere in altre parti di questa stessa proposta. Ma si cerca qui di cogliere la essenzialità, nello sviluppo del percorso penitenziario-riabilitativo dei condannati, della fase alternativa alla detenzione. Su questo punto è stato inserito un articolo preliminare, cui si è assegnato un provvisorio n. 46bis, che è stato formato dalla citazione di parti delle sentenze della Corte Costituzionale in materia, dalle quali si ricava che il passaggio alla misura alternativa non è uno sviluppo eccezionale, ma deve essere considerato la conclusione ordinaria della esecuzione penale. Il che, si sottolinea, vale anche, secondo la stessa logica, nei numerosi casi in cui la esecuzione in carcere è stata solo parziale o non vi è stata, in quanto si attribuisce al percorso comunque compiuto in libertà, dopo il reato e prima della esecuzione, la stessa efficacia di valutazione. Si deve, ricordare, qui, che la scelta della Corte costituzionale è spiegata, si, con il riferimento al testo dell’art. 27, comma 3, Costituzione, ma è sostenuta anche con un richiamo alla efficacia di una tale scelta, contrapponendo alla "inadeguatezza" della pena detentiva "a svolgere il ruolo di unico e rigido strumento di prevenzione generale e speciale" la "idoneità" delle misure alternative "a funzionare ad un tempo come strumenti di controllo sociale e di promozione della risocializzazione" (Sent. Cost. n. 343/87). In sostanza: nel momento valutativo e decisionale sulla ammissione alle misure alternative nella ricorrenza delle condizioni di legge, si cerca di evidenziare la rilevanza del criterio della utilità, meglio, della indispensabilità, della fase alternativa al carcere in un percorso penitenziario che ha già manifestato segni chiari di assunzione di responsabilità, che possono essere rappresentati, ad es., dalla regolare fruizione di permessi premio o anche dalla proficua adesione ad impegni trattamentali o, se teniamo sempre presenti anche i casi di decisioni nei confronti di soggetti in libertà, la avvenuta realizzazione, nel periodo di libertà, del percorso di reinserimento sociale. La decisione va, quindi, ancorata alla logica interna allo sviluppo del percorso rieducativo, che è una logica che tende alla misura alternativa come meta naturale della strada percorsa. Si dà così una oggettiva concretezza al criterio della meritevolezza, che si disincaglia da fumosi dati soggettivi e si imposta sui "progressi nel trattamento", come è esplicitato, ad esempio, nell’art. 48 O.P. in materia di semilibertà, e come è chiaro, comunque, anche nelle disposizioni relative alle altre misure alternative. Si aggiunge che non si farebbe un buon uso del criterio della meritevolezza se lo si agganciasse ai reati commessi o ai precedenti penali che, da antefatti che informano l’osservazione e il trattamento del soggetto (e, per tale via, il suo percorso penitenziario), rischiano, altrimenti, di divenire "pre-giudizi" nei suoi confronti. Il che deve fare ricordare la maggiore efficacia delle misure alternative rispetto alla esecuzione rigida della pena detentiva, maggiore efficacia che deve essere confermata anche per coloro che sono recidivi, in quanto se, per questi, venissero utilizzate raramente le misure alternative e venisse preferita la esecuzione in carcere non si farebbe che secondare il rischio criminogeno di tale esecuzione e strutturare il percorso delinquenziale della persona. A queste riflessioni si può aggiungere che è molto pericoloso non l’uso, ma l’abuso dell’art. 54bis (4bis nel testo vigente) e delle informazioni degli organi di polizia, rese indispensabili da tale norma. La quale impone la richiesta di informazioni in merito ad una situazione attuale, si ripete, attuale, su eventuali legami della persona alla criminalità, mentre le informative che pervengono solo molto raramente si attengono a tale indicazione e di regola, invece, si soffermano sui reati e i legami precedenti, esprimendo pareri sulla opportunità della concessione dei benefici. Questo è disapplicazione della norma. E’ incontestabile la esigenza, già riconosciuta e soddisfatta prima che l’art. 4bis fosse introdotto, di conoscere le situazioni esterne in cui la misura alternativa si realizzerebbe: e, a tal fine, vi deve essere e vi è sempre una fase di verifica dei riferimenti esterni di inserimento e della loro validità, fase nella quale è richiesto l’intervento quadro del Servizio sociale penitenziario, ma sono anche richieste specifiche informazioni degli organi di polizia. Non vi è dubbio, infatti, che la validità del percorso penitenziario, non debba essere compromessa da inserimenti esterni a rischio di ripresa di legami delinquenziali. Ma tutto ciò deve fare parte delle eventuali controindicazioni alla ammissione alla misura alternativa, fermo restando che il giudizio centrale resta ancorato al positivo sviluppo della strada percorsa in esecuzione della pena o, per i soggetti in libertà, di quella realizzata nell’ambito sociale. Se la conclusione su questo punto è favorevole, bisogna motivare specificamente sulle verificate controindicazioni alla concessione, eventualmente rilevando in quale direzione si debba modificare, con ulteriore osservazione, il progetto di inserimento esterno per evitare quei rischi che dalle stesse controindicazioni derivano. In conclusione: sulla traccia dell’articolo inserito nella proposta e formato dagli enunciati della Corte costituzionale, in presenza dell’evolversi positivo della situazione del condannato, secondo le indicazioni e condizioni di legge, il passaggio alla fase alternativa alla detenzione deve essere la regola, della quale va specificamente motivata la disapplicazione.
B. Limitazione temporale delle preclusioni alle misure alternative
E’ parso che sia maturo il tempo per riesaminare la legislazione introdotta con il d.l. 8/6/1992, n. 306, convertito nella legge 7/8/1992, n.356, che escludeva, salva la collaborazione alla giustizia ex art. 58ter O.P., la ammissibilità alle misure alternative di condannati per gravi reati, generalmente riferibili alla criminalità organizzata. Non va dimenticato che, fin dalla introduzione di questa normativa, la Corte Costituzionale aveva espresso riserve sulla stessa (sentenza n. 306/93, n. 11 della motivazione in dritto): "Non si può non rilevare come la soluzione adottata, di inibire l’accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati per determinati gravi reati, abbia comportato una rilevante compressione delle finalità rieducative della pena. Ed infatti la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di "tipi di autore", per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita". La Corte, dopo avere osservato che solo la ammissibilità alla liberazione anticipata, introdotta dalla legge di conversione, salva la normativa dal rilievo di incostituzionalità, rileva che, nonostante questo, la finalità rieducativi "rimane compressa in misura rilevante per la preclusione assoluta di tutte le misure extramurarie, delle quali il legislatore ha riconosciuto l’utilità per il raggiungimento dell’obiettivo di risocializzazione". Sono passati 12 anni dalla introduzione di una normativa che aveva le caratteristiche della eccezionalità e 11 dalle considerazioni della Corte Costituzionale. Vi è un dato nuovo, rappresentato dalla L. 23/12/2002, n. 279, che, nell’intervenire su quelle disposizioni, le ha modificate proprio con riferimento a due sentenze costituzionali, le n. 357/94 e 68/95, inserendo nel testo dell’art. 4bis, la citazione delle parti essenziali dei dispositivi di tali sentenze. Così che il terzo periodo del comma 1 dell’art. 4bis del testo vigente dispone: "I benefici suddetti possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti di cui al primo periodo del presente comma purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere la attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile, rendono, comunque, impossibile un’utile collaborazione con la giustizia…". Tale modifica normativa ha indubbiamente l’effetto di risolvere la situazione di molti, ma va rilevato che le valutazioni di cui alla norma in questione si prestano ad applicazioni eterogenee, che, infatti, sino ad oggi, pur in presenza delle sentenze costituzionali, sono state molto diseguali. Di qui il contenuto della proposta che assicura il mantenimento della detenzione per un periodo tutt’altro che breve nei casi in questione, superato il quale si recupera la ammissibilità alle misure alternative. Si noti che, comunque, resta la necessità di accertare che non vi sia in atto un collegamento con la aggregazione criminale, così che la ammissione concreta della persona comporta che si possa ragionevolmente ritenere che la stessa, pur dopo la commissione di quei gravi reati, possa accedere ad un regime di prova (che sarà, è evidente, adeguatamente controllato).
C. La liberazione condizionale fuori del sistema delle preclusioni
Si è ritenuto di non estendere alla liberazione condizionale il regime di inammissibilità alle misure alternative (salva collaborazione con la giustizia), ora ricordato. La liberazione condizionale è stata pensata negli anni, in sostanza, come una possibilità sempre presente, alla quale venivano posti limiti, che potevano essere estesi o ridotti, ma che era innaturale fare arrivare, sia pure in casi limitati, alla esclusione della ammissibilità. Al proposito si deve ricordare che la sentenza costituzionale n. 264/1974 affidò, fra l’altro, la legittimità costituzionale della pena dell’ergastolo alla previsione della liberazione condizionale: non fu l’unica ragione, ma una ragione fondamentale che ha dato "tenuta" a questa giurisprudenza costituzionale anche in seguito. Ma un altro rilievo va fatto. La liberazione condizionale è stata oggetto della normativa limitativa alla ammissibilità alle misure alternative solo con il d.l. 12/5/1991, n. 152, convertito nella L. 12/7/1991, n. 203, che prevedeva, in effetti, l’aumento a due terzi della pena espiata (evidentemente riferendosi al limite di pena espiata della metà indicato nel comma 1 dell’art. 176) quale limite di ammissibilità al beneficio, contenendo, poi, un richiamo al regime stabilito per le misure alterative: sempre, quindi, un regime di restrizione, ma non di esclusione della ammissibilità. Era chiaro, però, che il riferimento alla disciplina delle misure alternative, non riguardava le condizioni di ammissibilità, ma solo gli accertamenti da operare per verificare la permanenza dei legami di aggregazione alle organizzazione criminali. Invece, nel d.l. 8/6/1992, n. 306, convertito nella L. 7/8/1992, n. 356, che contiene la esclusione alla ammissibilità alle misure alternative per i reati più gravi, non si fa alcuna menzione della liberazione condizionale. Si creava un problema interpretativo: il rinvio alle disposizioni sulle misure alternative, contenuto nella norma della legislazione restrittiva del 91 relativa alla liberazione condizionale, poteva valere, senza altro intervento normativo, anche per la legislazione restrittiva del 92? In altre parole: il rinvio del 91 era limitato alla normativa vigente in quel momento e tenuta presente in quel momento, o doveva acquisire un contenuto diverso se quella normativa cambiava? Non si dimentichi quello che si è già osservato: che, cioè, il rinvio operato nella normativa 91 riguardava un tema diverso da quello delle condizioni di ammissibilità e cioè le disposizioni relative agli accertamenti da operare per verificare la permanenza o meno dei legami con la criminalità organizzata. Comunque, la questione interpretativa è stata risolta prevalentemente nel senso di ritenere valido il rinvio anche alla liberazione condizionale della normativa di inammissibilità (salva collaborazione) del 1992. Allora: se è vero, come è vero, che la ammissibilità alla liberazione condizionale, anche nel variare delle condizioni attraverso una vicenda normativa lunghissima, è stata ritenuta una risposta naturale e logica che discendeva dal principio rieducativo della pena, così come affermato nella sentenza costituzionale, fondamentale in materia, n. 204/1974; se è vero, come è vero, che la inammissibilità (salva collaborazione) alle misure alternative è estensibile alla liberazione condizionale in base ad una interpretazione tutt’altro che certa e persuasiva; non sembra opportuno intervenire nella questione escludendo la inammissibilità (salva collaborazione) per la liberazione condizionale? Si ritiene di dovere dare una risposta affermativa sul punto, ritenendo, in particolare, che questa sia la sede opportuna, in un quadro di riesame e riorganizzazione generale della normativa penitenziaria, per arrivare a tale conclusione.
D. Non sono riducibili i livelli di flessibilità
Nella presente proposta ci si preoccupa di dare maggiore razionalità ed efficacia in determinati settori ai livelli di flessibilità nella esecuzione della pena ovvero ai livelli di ammissibilità alle misure alternative raggiunti dalla normativa vigente. Si interviene anche per non rendere definitive ed insuperabili le limitazioni alla ammissibilità alle misure alternative introdotte dalla legislazione di emergenza contro la criminalità organizzata: come accennato sopra alla lettera b), dove si è ricordata la giurisprudenza costituzionale che ha contenuto la applicabilità delle limitazioni, avanzando, inoltre, in linea generale, specifiche riserve e perplessità. Non si adotta, invece, la linea di una riduzione dei livelli di flessibilità raggiunti, nella convinzione che le disposizioni che li prevedono siano maturate attraverso una riflessione ragionevole e equa circa la concreta applicazione del sistema. Va chiarito che il problema centrale investe la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, ordinario e terapeutico. Di riflesso, il problema interessa anche le altre misure alternative, in particolare la detenzione domiciliare, che, come l’affidamento in prova, calcola la ammissibilità sulla base della pena ancora da espiare (e non come la semilibertà, per la quale rileva la quota parte della pena espiata). L’affidamento in prova, d’altronde, è la misura alternativa che presenta il rilievo di gran lunga maggiore nell’area delle misure alternative o, come anche la si chiama, area penale esterna. Nel 2003 gli affidamenti seguiti dai centri servizio sociale adulti sono stati 30.469 (23.584 ordinari + 6883 terapeutici). Le detenzioni domiciliari sono state 13.914 (11.322 ordinarie + 2592 provvisorie). Molto inferiore il numero delle semibertà. Per la rilevanza qualitativa e quantitativa della misura è sull’affidamento in prova che si concentra la riflessione che segue. Si è detto, dunque, che si ritiene di non potere adottare una linea di riduzione dei livelli di ammissibilità alle misure alternative, con particolare riferimento all’affidamento in prova al servizio sociale. Si ritiene che la dimostrazione di quanto si è ora detto possa svilupparsi su tre punti, tre punti che sono stati problemi rilevanti, ma anche problemi superati. Tali punti sono i seguenti e vengono esaminati in questo ordine: D1:- La possibilità di ammissione alle misure alternative senza procedere alla osservazione in istituto; D2:- La esecuzione delle pene non superiori a tre anni o a quattro anni, se tossico o alcooldipendenti, solo dopo la sospensione della pena stessa e la occasione data al condannato di richiedere ed eventualmente ottenere una misura alternativa; D3:- Il criterio di computo della pena detentiva ammissibile riferito alla parte residua della stessa da eseguire in concreto.
Esaminiamo questi tre punti, cui aggiungeremo, sub D4, una considerazione conclusiva.
D1. La possibilità di procedere alla ammissione a misure alternative senza procedere ad osservazione in istituto o, come si dice, direttamente dalla libertà, trova il suo precedente in due previsioni della L. 10/10/1986, n. 663 (Legge Gozzini): il comma 6 dell’art. 50 O.P., non sopravvissuto a successive modifiche, che consentiva, per le pene dell’arresto e della reclusione non superiore a sei mesi, la ammissione alla semilibertà "prima dell’inizio della espiazione della pena se il condannato ha dimostrato la propria volontà di reinserimento nella vita sociale"; il comma 3 dell’art. 47 O.P., che disponeva: "L’affidamento in prova al servizio sociale può essere disposto senza procedere alla osservazione in istituto quando il condannato, dopo un periodo di custodia cautelare, ha goduto di un periodo di libertà serbando comportamento tale da consentire il giudizio di cui al precedente comma 2" (si trattava, in sintesi, del giudizio di "affidabilità" maturato attraverso la osservazione in istituto). Su questa seconda disposizione è intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza n. 569/89, ha affermato la illegittimità costituzionale della stessa "nella parte in cui non prevede che, anche indipendentemente dalla detenzione per espiazione di pena o per custodia cautelare, il condannato possa essere ammesso all’affidamento in prova al servizio sociale se, in presenza delle altre condizioni, abbia serbato un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al precedente comma 2 dello stesso articolo". Motiva la Corte che "infatti è irragionevole e privo di significato, in relazione alla finalità rieducativa della pena, escludere dall’affidamento in prova al servizio sociale chi non abbia subito provvedimenti di custodia cautelare, tenuto conto che le misure cautelari coercitive possono essere applicate soltanto quando si procede per delitti per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, così che restano esclusi dall’affidamento in prova proprio gli autori dei reati più lievi." Allora: su questo primo punto di allargamento della ammissibilità alle misure alternative (e, quindi, dell’aumento del livello di flessibilità), punto concretamente rilevante, se è vero come è vero, che la ammissione delle misure alternative dalla libertà si aggira sul 70% del totale, si deve prendere atto che la Corte costituzionale consente e approva la scelta operata dal legislatore ed anzi opera una rettifica in direzione di un ulteriore allargamento, escludendo non solo la necessità della osservazione in istituto, ma escludendo addirittura la esigenza di un preventivo e parziale periodo detentivo sofferto. Ma, nel difendere la scelta del legislatore, al di là dello specifico rilievo della Corte Costituzionale, si possono menzionare anche le ragioni della stessa, risalenti agli interventi citati della L. 663/86, che erano e sono ancora difficilmente contestabili. In sostanza, si voleva evitare che la esecuzione di una pena residua o anche la esecuzione della pena nella sua integrità, intervenendo a distanza di tempo dai reati commessi e, così, portando o riportando la persona in carcere, interrompesse un percorso di reinserimento sociale già compiuto dalla persona. Si noti che la conseguenza non era quella di non eseguire la pena, ma di eseguirla in un regime di misura alternativa: la condanna era eseguita in un regime diverso che consentiva il mantenimento del livello di inserimento raggiunto. E’ vero che veniva a mancare l’osservazione in istituto e, cioè, il normale strumento di valutazione per decidere sulla ricorrenza delle condizioni di merito alla concessione; ma è anche vero che avevamo una "osservazione sociale" in libertà significativa, alla quale si chiedeva esattamente lo stesso giudizio di affidabilità indicato nel comma 2 dell’art. 47 in esito alla osservazione in istituto. In sostanza, si assicurava, lo stesso livello di valutazione (se non migliore: in un mese o qualcosa di più in istituto non si poteva certo operare una valutazione e tanto meno una verifica analoghe a quelle fornite in libertà) e si evitava l’inconveniente grave di distruggere ciò che era già stato costruito. E l’attuazione della esecuzione non era affatto esclusa, ma si realizzava in un regime diverso, però più adeguato al caso, sempre salva, si intende, la revoca della misura alternativa e il ritorno alla esecuzione detentiva. E allora la conclusione sul primo punto è che non si può tornare indietro rispetto agli spazi aperti alle misure alternative alla detenzione con la soluzione indicata.
D2. Qui è in discussione una legge apposita, la l. 27/5/1998, n. 165, c.d. legge Simeone-Fassone-Saraceni, che, attraverso la modifica dell’art. 665 del codice procedura penale, ha disposto, appunto, la temporanea sospensione della esecuzione delle pene non superiori a tre anni, o a quattro anni per i tossicodipendenti, accompagnata dall’avviso ai condannati della possibilità di avanzare, entro un termine breve, istanza di misura alternativa al tribunale di sorveglianza competente. La sospensione della esecuzione viene revocata se non viene proposta alcuna istanza nel termine o, se proposta, viene respinta. Questa normativa è stata introdotta per una manifesta esigenza di equità. In precedenza, ai sensi del comma 4 dell’art. 47, ora modificato dalla stessa L. 165/98, se l’istanza è "proposta prima dell’emissione o dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione, è presentata al pubblico ministero o al pretore, il quale, se non osta il limite di pena di cui al comma 1, sospende l’emissione o la esecuzione fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, al quale trasmette gli atti." Era chiaro che tale sistema poteva funzionare solo per coloro che sapevano muoversi nelle procedure esecutive per la esperienza maturata in precedenza o perché adeguatamente assistiti da un difensore (anche questo con esperienza adeguata). E va detto che, anche per questi soggetti, l’esito era tutt’altro che sicuro, in quanto molto dipendeva dai tempi, più o meno solleciti, della fase esecutiva. Esisteva, quindi, una possibilità per il condannato che doveva essere sottoposto ad esecuzione di una pena detentiva, possibilità che era rimessa però alla buona sorte, che premiava, come spesso accade, i più esperti (il che non garantisce affatto che si tratti dei migliori) o i più provvisti di risorse difensive. Il che era evidentemente iniquo. Su questo è intervenuta la L. 165/98 stabilendo un punto di partenza uguale per tutti, nei termini che si sono indicati. In tale modo non si eliminavano le disuguaglianze sostanziali fra le persone condannate, particolarmente con riferimento alle risorse diseguali delle stesse in ordine alle possibilità e risorse di inserimento sociale, utili ad ottenere le misure alternative. A questo proposito, subito dopo la entrata in vigore della L. 165/98, il dipartimento della amministrazione penitenziaria invitava, con una propria circolare, i centri servizio sociale adulti a organizzare, anche con l’aiuto del volontariato, sportelli informativi sulle modalità di redazione e presentazione delle istanze di misure alternative e sulle strutture sociali che avrebbero potuto agevolare l’inserimento sociale (compreso quello lavorativo, ma non solo) e favorire la effettiva ammissione alla misura alternativa. Era questa una occasione, e in qualche misura lo è stata e resta, nella quale una legge dello Stato svolgeva la funzione prevista dal comma 2 dell’art. 3 Costituzione: di promuovere, cioè, la rimozione di disuguaglianze sostanziali e di stimolare l’inserimento sociale di fasce di persone che ne erano escluse. La legge in questione si preoccupava, comunque, di limitare la propria applicazione ai condannati per reati diversi da quelli previsti dall’art. 4bis del testo vigente dell’O.P. (art. 54bis del testo di questa proposta). In conclusione, anche su questo secondo punto, non è giustificato un ritorno al sistema precedente, pur se è pacifico che il nuovo sistema deve funzionare meglio, evitando il protrarsi della sospensione delle esecuzioni per i tempi lunghi delle decisioni dei tribunali di sorveglianza. Ovvero, questi tempi lunghi non ci devono essere. Ma di ciò si dirà nella parte riservata al funzionamento della magistratura di sorveglianza.
D3. Il calcolo per la ammissibilità della pena detentiva alle misure alternativa è fatto non sulla pena inflitta, ma su quella residua da eseguire in concreto. Questo problema è stato particolarmente dibattuto per l’affidamento in prova al servizio sociale, anche se con ricadute sulle altre misure. Ora, è vero che tale problema trova ormai la sua risposta normativa nella legge Simeone-Fassone-Saraceni, di cui si è parlato qui sopra, ma, dato che il tema viene spesso riproposto, è utile un riesame anche di questo punto. Il percorso giurisprudenziale e legislativo, prima di arrivare alla legge ora ricordata, è stato lungo e le varie tappe dello stesso sono state percorse per rispondere, con motivazioni che sono state sempre razionali, ad esigenze crescenti di allargamento degli spazi di ammissibilità alle misure alternative. Si tratta, quindi, di decidere se abbandonare questo percorso e fare marcia indietro. Si possono riepilogare per accenni le tappe del percorso indicato. Entrata in vigore nel luglio 76 la normativa sulle misure alternative del nuovo ordinamento penitenziario, emerse subito una giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione, secondo cui, per la individuazione della pena ai fini dell’affidamento in prova al servizio sociale dovevano avere rilevanza le eventuali cause di estinzione della pena o in genere tutti i fatti giuridici che implicassedro un ridimensionamento della pena medesima rispetto a quella irrogata (v. Cass. Sez. II, 26/4/77, Bertini; Cass. Sez. I, 2/12/77, Grassi; Cass. Sez. I, 17/1/1978, De Cinque). D’altronde, anche l’argomento letterale, riferibile al termine "pena inflitta", era tutt’altro che certo sia per la stessa ambiguità del termine, sia perché si correlava strettamente al termine "pena da scontare", che era determinato in base alla pena da scontare in concreto, dedotte le parti di pena non più eseguibili. Va aggiunto che la questione era stata affrontata e risolta in questo senso negli anni precedenti per la liberazione condizionale (v. Cass. Sez.un. 15/12/1973, Borelli). Tale giurisprudenza era regolarmente applicata e valeva anche per le altre misure alternative fino a che, proprio presupponendo la giurisprudenza ora citata, non interveniva la sentenza costituzionale 11/7/1989, n. 386, nella quale si legge: "L’art. 47, comma 1 …. è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede, ai fini della ammissibilità dell’affidamento in prova al servizio sociale, che nel computo delle pene, ai fini della determinazione del limite dei tre anni, non si debba tenere conto anche delle pene espiate. Tale disposizione viola, infatti, gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., tenuto conto che nel computo anzidetto non si tiene conto delle pene già estinte e, quindi, a maggior ragione, non si deve tenere conto, agli effetti dell’affidamento, di pene che, essendo state espiate, hanno consentito una più lunga osservazione del comportamento e hanno potuto anche conseguire, sia pure parzialmente, oltre agli effetti necessariamente retributivi, quegli effetti di rieducazione e di recupero sociale che attengono alla funzione di prevenzione speciale." Dopo questa sentenza costituzionale, cominciava un periodo di incertezza per le giurisdizioni di merito, dovuto a due motivi. Il primo era rappresentato dalla Sentenza della Cassazione a Sezioni unite, 26/4/1989, Russo, che, mentre la Corte Costituzionale, con la sentenza ora citata e di poco successiva, considerava diritto vivente la giurisprudenza risalente alla entrata in vigore dell’O.P. (e addirittura confortata da giurisprudenza analoga per la liberazione condizionale, ancora precedente all’O.P., comprendente anche decisioni della Cassazione a sezioni unite), cambiava improvvisamente indirizzo affermando che la espressione "pena inflitta" doveva essere rigidamente interpretata come pena inflitta in sentenza. Il secondo motivo era rappresentato dal fatto che la ricordata sentenza costituzionale n. 386/1989 aveva deciso in un caso di concorso di pene cumulate e doveva essere limitata alla ipotesi in cui alcune delle singole pene cumulate erano state espiate, non al caso, più frequente per vero, di un’unica pena in esecuzione e di parziale esecuzione della stessa. Questa limitazione non sembrava ricavarsi chiaramente dai passi citati della sentenza costituzionale, ma l’interpretazione restava, comunque, controversa. Si stava, però, arrivando ad un ulteriore tappa di questo travagliato percorso: l’intervento legislativo sul punto. La prima normativa ad essere toccata era quella di cui agli artt. 90 e 94 del dpr 309/90 sugli stupefacenti: sospensione esecuzione pena detentiva e affidamento in prova al servizio sociale in casi particolari, misure relative ai tossicodipendenti. In precedenza, l’affidamento in prova in casi particolari, introdotto con l’art. 47bis dell’O.P., si era modellato sulle condizioni di ammissibilità dell’affidamento in prova ordinario (due anni e sei mesi nella previsione iniziale della l. 21/6/1985, n.297 e tre anni con la successiva l. 663/86). Invece, con un decreto legge, rinnovato numerose volte, da quello iniziale, risalente al 1991 a quello finale 14/5/1993, n. 139, conv. nella l. 14/7/1993, n.222, si portava il limite di ammissibilità da 3 anni a 4 anni e si specificava che tale limite valeva anche se si trattava del residuo di una pena maggiore. Nel mentre queste disposizioni erano già applicate per i tossicodipendenti e gli alcooldipendenti, si arrivava all’intervento normativo anche per l’affidamento in prova ordinario. L’art. 14bis della l. 7/8/1992, n. 356, stabiliva che "La disposizione del primo comma dell’art. 47 della l. 26/7/1975, n. 354, nella parte in cui indica i limiti che la pena inflitta non deve superare perché il condannato possa beneficiare dell’affidamento in prova al servizio sociale, va interpretata nel senso che deve trattarsi della pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell’applicazione di eventuali cause estintive." Questa nuova normativa comportava nuovi interventi della Corte di Cassazione, a sezioni unite, che, con sent. n. 18/1993, riconosceva che la interpretazione da dare all’art. 14bis citato (che, pur essendo una norma di interpretazione autentica, ha avuto bisogno di ulteriore interpretazione addirittura da parte delle Sezioni unite) era nel senso che dovevano ritenersi ammissibili al beneficio dell’affidamento in prova ordinario tutte le pene detentive non superiori ad anni tre, anche quale residuo di maggior pena. Era stata, intanto, chiamata a pronunciarsi anche la Corte Costituzionale per la confusa situazione interpretativa esistente e per conoscere se fosse costituzionalmente ammissibile la interpretazione più larga (che calcolava la pena ammissibile sul residuo pena comunque formatosi). E’ utile ricordare che la Corte, con sentenza n. 430/1993, chiariva che "deve peraltro escludersi che la (ormai così definitivamente acquisita) applicabilità della generalizzata misura alternativa di che si discute (in tutti i casi, quale che sia la entità della pena inflitta, in cui quella residua da espiare non superi i tre anni) possa contrastare con il precetto della ragionevolezza e della eguaglianza". Da questo momento le misure alternative assumevano una dimensione significativa: dai 4961 affidamenti in prova (ordinari e terapeutici) del 1992 si passava ai 28.444 del 1997, prima ancora dell’arrivo della L. 165/98. Questa legge è l’ultima tappa del percorso e conferma la direzione della strada percorsa in precedenza: il comma 5 dell’art. 656 C.p.p., così modificato, stabilisce che il particolare sistema di sospensione della esecuzione in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza sulla istanza di misura alternativa avanzata dall’interessato riguarda le pene detentive non superiori a tre anni o a quattro anni, per tossicodipendenti e alcooldipendenti, "anche se costituenti residuo di maggior pena". La l. 165/98, come già detto, si è preoccupata di applicare il sistema dalla stessa introdotto solo ai reati diversi da quelli dell’art. 4bis. Poniamoci anche qui il problema: si può tornare indietro? La Corte Costituzionale ha osservato che l’allargamento dell’affidamento in prova, ordinario e terapeutico, a tutte le pene residue non superiore ad anni tre o ad anni quattro non contrasta "con il precetto della ragionevolezza e della eguaglianza". Si può aggiungere che proprio questo allargamento ha segnato il raggiungimento di una dimensione significativa dell’area delle misure alternative, che pure resta a un livello inferiore rispetto a quella di altri paesi europei. E la acquisita rilevanza di quella che viene chiamata area penale esterna sembra adempiere alla scelta costituzionale, descritta alla lettera A) di questa parte, di dare alla flessibilità un ruolo centrale nell’ambito della esecuzione della pena. Aggiungiamo che sono proprio gli allargamenti nella ammissibilità all’affidamento in prova che hanno caratterizzato la crescita delle misure alternative e che l’affidamento riguarda in misura rilevante l’area detentiva di minore rilievo criminale (come detto, la l. 165/98 non si applica ai reati di cui all’art. 4bis; quindi, in ordine a pene residue non superiori ad anni tre, si può essere ammessi, si, all’affidamento in prova, anche per reati più gravi, ma solo nella fase finale di esecuzione della pena ed eventualmente dopo un periodo di semilibertà o anche dalla libertà, ma in casi del tutto eccezionali, possibili in base al comma 3 dell’art. 47). L’affidamento in prova resta dunque lo strumento che contrasta la crescita inaccettabile del carcere. L’indebolimento dell’affidamento darebbe campo libero al sovraffollamento e alla cattiva gestione conseguente degli istituti di pena. Non si trovano ragioni persuasive per tornare indietro dai livelli di flessibilità raggiunti nella esecuzione della pena.
D4. In esito a questa riflessione sul mantenimento del livello di flessibilità della esecuzione, è utile ricordare i risultati di una recentissima ricerca sui livelli di recidiva degli ammessi all’affidamento in prova al servizio sociale. La ricerca, denominata MISURA, è stata svolta dalla Università di Firenze e dal Provveditorato regionale della Amministrazione penitenziaria della Toscana e dai Centri servizio sociale adulti toscani. Va rilevato che si tratta di un intervento significativo e abbastanza nuovo, anche se avrebbe potuto essere effettuato da tempo per verificare se e quali vantaggi offrano le misure alternative rispetto alla esecuzione della pena in carcere. La ricerca ha portato a queste conclusioni. Su 152 casi di affidamenti, ordinari e terapeutici, eseguiti presso i Centri servizio sociale adulti toscani sono ricaduti nel reato, nei cinque anni successivi alla conclusione della prova, 34 soggetti, dei quali 28 tossicodipendenti e solo 6 estranei a tale condizione. La ricerca sinteticamente ha verificato: che la ricaduta nel reato, fatte le proporzioni fra gli affidati con problemi di tossicodipendenza (anche se in affidamento ordinario, che prevedeva, però, fra le prescrizioni, lo svolgimento di un programma terapeutico) e coloro senza tali problemi, oscilla fra il 27% , per i primi, e il 12%, per i secondi: quindi con l’esito positivo, della non ricaduta nel reato nei cinque anni successivi alla conclusione della prova, variante dal 73% dei primi all’88% dei secondi; che la grande maggioranza dei soggetti esaminati provenivano da lunghe storie di devianza penale (plurirecidivi), che il passaggio dalla misura alternativa ha interrotto nei casi di successo percentualmente elevati sopra indicati; che le statistiche fornite sulla ricaduta nel reato di coloro che espiano la pena in carcere (la ricerca non aveva, né poteva avere, un proprio campione di confronto, che avrebbe riguardato solo i non meritevoli delle misure) è stimata, per ricerche precedenti, nell’ordine del 75% circa: non ricadono nel reato, pertanto, solo il 25% dei soggetti; che il problema più rilevante resta indubbiamente quello dell’intervento sulla tossicodipendenza, ancora molto limitato e da potenziare in ordine alla idoneità dei programmi terapeutici esterni e alla preparazione dell’adesione agli stessi degli interessati. La ricerca, comunque utile, è stata effettuata in tempi brevi e potrà essere sviluppata e nelle dimensioni e negli approfondimenti e confronti. Ma la superiorità delle misure alternative rispetto alla esecuzione della pena in carcere nell’evitare la recidiva e, quindi, nel contenimento della devianza sembra incontestabile. La conclusione deve essere questa: il sistema della flessibilità nella esecuzione della pena e delle misure alternative può essere migliorato e reso certamente più efficace. Sembra del tutto irragionevole pensare ad una sua restrizione.
Interventi specifici sulle misure alternative e finalizzazione degli stessi
Nei numeri successivi si farà riferimento agli interventi specifici su singole misure alternative, nonché su situazioni particolari, che richiedevano adeguamenti normativi. Così gli interventi sull’affidamento in prova per conservare allo stesso la caratteristica di misura che cerca il reinserimento sociale dell’interessato, affidata in modo esclusivo alla gestione del servizio sociale e al personale di questo. Così gli interventi sulle altre misure alternative e in particolare su semilibertà e liberazione condizionale, della quale si cerca, attraverso modeste modifiche, l’attrazione nell’ambito delle misure alternative. La separazione da queste della liberazione condizionale sembra dovuta essenzialmente alla sua diversa storia normativa, non a ragioni di sistema, rappresentando proprio, nella giurisprudenza costituzionale (sentenze 204/1974, 343/1987, 282/89 e successive), la "apripista" di quel sistema. Oltre ad altri interventi relativi a singole disposizioni, si affronta un tema che è emerso nella casistica di questi anni, tema di vecchia data, ma che ha richiamato nuove attenzioni. E’ quello della esecuzione della pena a molta distanza di tempo dai fatti. Si è cercato di cogliere i vari aspetti di una tale situazione e di dare risposte al riguardo. Molte delle modifiche nascono anche dalle esperienze acquisite in un ormai lungo, anche se controverso, periodo applicativo. Non è male puntualizzare qui quali siano le ragioni di fondo di questi interventi. Le ragioni, in sintesi, riguardano la efficacia delle misure alternative, valutata in relazione a quella che è la loro finalizzazione: quella di sostenere il percorso riabilitativo del condannato in una fase decisiva della esecuzione della pena e di consentire che quel percorso faccia capo al suo effettivo reinserimento sociale. Se si vuole sottolineare questo punto è perché vi sono state, prevalentemente nella magistratura, compresa parte di quella di sorveglianza, più che tra gli operatori penitenziari, preoccupazioni sul rischio che le misure alternative vanificassero i caratteri essenziali della pena: erano, si, alternative a questa, ma dovevano restare, per così dire, "penose", mantenere una linea punitiva capace di dissuadere dal ritorno al reato. E’ un tema che può sconfinare facilmente nell’ideologico, mentre qualche precisazione può evitare questo rischio. La misura alternativa è ormai pacificamente riconosciuta come una modalità di esecuzione della pena (la più recente modifica della liberazione anticipata l’ha ammessa anche per i periodi di affidamento in prova al servizio sociale, cioè per la misura più ampia e pacificamente non detentiva). Ma questo non toglie che la struttura della misura alternativa è quella indicata dalla legge e che è stata la legge a pensare i suoi limiti e condizioni e che non deve rientrare tra le preoccupazioni di chi applica la legge di aggiungere altre limitazioni o di ampliare, sempre e comunque, quelle previste, anche quando non appaiono necessarie. Ricordare, allora, e richiamare al criterio di valutazione indicato all’inizio - quello, cioè, della efficacia delle misure al fine del reinserimento sociale – diventa necessario. Su quel criterio si dovrà valutare come sia meglio procedere. Si possono fare degli esempi. E’ diventato molto comune, praticamente costante, in molte sedi, la applicazione, nell’affidamento in prova, della prescrizione del rientro serale. Sino a che il sistema di controlli del servizio sociale penitenziario non sarà completo, ciò significa controllo degli organi di polizia, con tutte le inesorabili pesantezze di questo. Ciò può rappresentare un elemento di distorsione del rapporto con il servizio sociale, centrale nello svolgimento della misura. E analoga prescrizione può condizionare la stessa possibilità dell’affidamento in prova in casi particolari da realizzare presso una comunità terapeutica, molte delle quali non accettano persone sottoposte a controllo di polizia, proprio per i problemi che comportano nell’ambito comunitario. Con riferimento a queste considerazioni, si è anche intervenuti normativamente su certe prescrizioni, che restano, comunque, in gran parte rimesse alla discrezionalità di chi applica la legge.
Affidamento in prova al servizio sociale
La modifica del comma 1 dell’art. 47 non fa altro che aggiornare il testo alla nuova normativa intervenuta. La modifica al comma 3 dà praticabilità alla previsione generale contenuta nel testo attuale e chiarisce che, pur in presenza del regime di sospensione della esecuzione ex art. 656 C.p.p., resta possibile il sistema precedente di proposizione della istanza di misura alternativa nella fase precedente alla esecuzione della pena e in prevenzione rispetto alla esecuzione della stessa. Si noti che il testo attuale del comma 3 è quello modificato proprio dalla L. 27/5/1998, n.165 (legge Simeone-Fassone-Saraceni), per cui è indubbio che lo stesso conviva con il sistema ordinario di cui all’art. 656 C.p.p. introdotto con la stessa legge. La portata pratica del comma 3 è di consentire, come in precedenza, la proposizione di istanza prevenendo la esecuzione nei casi in cui l’art. 656 non è applicabile: cioè, quelli di cui all’art. 54bis di questo articolato (già 4bis), ultimo periodo. Tale inapplicabilità, infatti, è prevista solo nel nuovo testo dell’art. 656, ma non è in alcun modo prevista nel testo dell’art. 47, modificato dalla legge 27/5/1998, n. 165, citata. Premesse queste considerazioni, occorreva, però, chiarire le modalità di proposizione della istanza. La modifica del comma 5 allinea il testo normativo alla prassi generale di previsione delle prescrizioni nella stessa ordinanza di ammissione. La modifica del comma 7 riporta la previsione normativa entro limiti che non si prestino ad una generalizzazione e alla trasformazione in un onere di risarcimento del danno, cui condizionare la esecuzione della misura, onere che la norma non introduce affatto (ciò che è chiarito anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione). Si tratta di non inserire prescrizioni pesanti sul piano patrimoniale che il condannato non possa adempiere e che incidano sul suo inserimento sociale quando, come spesso accade, le risorse economiche sono appena sufficienti ad assicurare il necessario a lui e al suo nucleo familiare. In base a tali indicazioni, proprio per evitare generalizzazioni, si è sostituita la parola "deve" con la parola "può" e si è chiarito, cosa sempre stata indubbia, che il risarcimento del danno è sempre perseguibile nell’ambito della normativa che lo riguarda. La aggiunta del comma 9bis è indispensabile per riportare la esecuzione della misura nella esclusiva gestione del centro servizio sociale adulti affidatagli dalla legge, compresa l’attività di controllo sul rispetto delle prescrizioni, particolarmente di alcune per le quali la operatività del servizio sociale non è piena: come la prescrizione che riguarda la presenza notturna dell’affidato al domicilio, stabilita in vari casi. Per questo, occorre indubbiamente che tale operatività sia potenziata (in tal senso si prevedono interventi su ulteriori figure del personale dei centri), ma ciò che è da escludere è il sovrapporsi di interventi di polizia a quelli di servizio sociale. L’eterogeneità di tali interventi disturba la linearità del rapporto che deve intercorrere fra affidato e servizio. A maggior ragione è assolutamente da escludere che nelle prescrizioni vengano introdotti rapporti fra affidato e organi di polizia, come presentazioni periodiche presso tali organi o simili. Tutto ciò è estraneo a un percorso di reinserimento sociale seguito e controllato da un apposito organo dello Stato, cui, come si è detto, la funzione è affidata dalla legge. In sostanza, l’affidato in prova non è un soggetto a rischio da sottoporre a vigilanza di polizia, ma è un soggetto sottoposto a prova controllata (sentenza costituzionale n. 343/87), a seguito di una procedura giurisdizionale, che impegna la specifica attività di un sistema organizzativo apposito (il centro servizio sociale adulti) in una attività di sostegno e di controllo. Questo ovviamente non esclude che, nella loro attività di prevenzione generale, gli organi di polizia verifichino situazioni problematiche che concernono una persona affidata in prova al servizio sociale e ne riferiscano al magistrato di sorveglianza e al centro servizio sociale adulti competenti. Resta un’ultima modifica dell’art. 47, concernente il comma 12, la motivazione della quale è rinviata alla parte terza della presente relazione, in quanto riguarda essenzialmente gli effetti dell’affidamento in prova al servizio sociale sulle pene pecuniarie, le pene accessorie e le misure di sicurezza, alle quali appunto quella parte della relazione e il Capo II° di questo Titolo II° sono dedicati.
In un nuovo articolo, il 47bis, si è affrontato un problema che sta diventando sempre più rilevante e di cui pare opportuno tracciare le linee di una definizione, probabilmente provvisoria, ma tale da avvicinare la soluzione definitiva. Il problema è quello dello svolgimento fuori dal territorio italiano della attività in relazione alla quale l’affidamento in prova è stato concesso. Le situazioni che si prospettano sono di due tipi. La prima presuppone (ai commi 1, 2 e 3) una semplice uscita temporanea dal territorio italiano, che può anche ripetersi con una certa periodicità, come nel caso di chi lavori in una impresa di trasporti, che effettua anche servizi all’estero, o di chi svolga cicli di cure all’estero o di chi, ancora, debba svolgere un periodo limitato di studio in una facoltà universitaria estera. Questa situazione aveva già avuto soluzioni positive da parte di magistrati di sorveglianza italiani, ma le stesse erano abbastanza isolate e poco condivise. E’ parso che si potessero dichiarare esplicitamente legittime tali situazioni, anche al fine di non compromettere possibilità di lavoro o altre possibilità personali, che non c’era alcuna ragione di negare. La norma prevede come possa essere seguito e controllato il soggetto all’estero. Questo implicherà rapporti diretti fra organi italiani e stranieri, che dovrebbero però apparire sempre più possibili, se non addirittura ordinari, nel procedere dei rapporti fra i singoli Stati della Comunità Europea. La seconda situazione è invece quella della esecuzione della intera misura alternativa all’estero, sia pure nell’ambito di uno degli Stati appartenenti alla Comunità Europea. Si è partiti dalla considerazione della scarsa efficacia e della discutibile applicabilità di convenzioni internazionali, come quella sul trasferimento delle persone condannate, adottata a Strasburgo il 21/3/1983 e come quella, che sarebbe proprio pertinente, per la sorveglianza delle persone condannate o liberate con la condizionale, adottata a Strasburgo il 30/11/1964. A riprova di questa scarsa efficacia, stanno la applicazione della seconda convenzione in casi isolatissimi e i tempi lunghissimi delle procedure. Il limite di questo sistema sta essenzialmente nella previsione di rapporti fra Stati attraverso le ordinarie rappresentanze (diplomatiche) degli stessi. Di qui la previsione nella proposta, al comma 4 dell’art. 47bis, di rapporti diretti fra le autorità di vertice dei singoli Stati nello specifico settore penitenziario, che, si ritiene, il legame comunitario rende ammissibili e auspicabili. La differenza, ancora molto rilevante, fra gli ordinamenti penitenziari applicati nei vari paesi ha consigliato di affidare agli organi dello Stato di esecuzione dell’affidamento in prova la sola fase di gestione dello stesso. Le valutazioni e decisioni conclusive (esito della prova e provvedimenti conseguenti) restano, così, affidate all’organo giurisdizionale italiano.
La semilibertà e la progressione del trattamento in tale misura
L’esperienza della esecuzione della misura alternativa della semilibertà nel corso di questi anni dimostra l’opportunità di intervenire su alcuni aspetti della misura. A questo è dedicato il nuovo articolo 50bis. Un primo aspetto riguarda le difficoltà che si producono nella esecuzione per tempi prolungati di tale misura. Pur con il temperamento di licenze e permessi, vi è il rischio di una sclerosi nelle relazioni familiari e con l’ambiente e, per altro verso, di un progressivo adattamento, in qualche misura distorsivo, del vivere, nella stessa giornata e per periodi prolungati, due condizioni profondamente diverse: quella di una esistenza libera e in un ambiente libero fuori della sezione di semilibertà e quella nella stessa sezione, condizionata da regole che, sovente anche superflue, riprendono quelle consuete al carcere (i generi alimentari, i farmaci, gli oggetti di cui è possibile la introduzione, le sottoposizioni a controlli e perquisizioni). Si forma una persona in qualche misura divisa fra modalità di vita diverse e anche contrastanti. Il primo problema è parso quello di intervenire sulla durata della semilibertà, prevedendo, dopo tempi pur non brevi, una indicazione di accelerazione del passaggio alla liberazione condizionale, pur sempre rimesso al provvedimento giurisdizionale del Tribunale di sorveglianza. Questo è il primo e più generale problema, ma non è l’unico. Vi sono altri problemi, più circoscritti, ma non meno rilevanti, con i quali il detenuto semilibero si deve misurare: problemi come quello del regime da porre in essere nei periodi di malattia, nei periodi di ferie o di altra sospensione del lavoro. Al riguardo di tutte queste situazioni, va tenuto presente che la sezione di semilibertà è essenzialmente attrezzata come mero dormitorio. Nel caso di malattia, se, come accade, la sezione di semilibertà è esterna al carcere ordinario, non esiste un servizio sanitario. Nel caso di ferie e di altri periodi di sospensione del lavoro e, quindi, per periodi anche non brevissimi, la sezione non è attrezzata a fornire i pasti giornalieri e occorre trovare soluzioni straordinarie per risolvere tali problemi. Ci sono dunque situazioni sfavorevoli per l’interessato, cui la struttura penitenziaria non è in grado di dare risposte. In tali casi, la temporanea sostituzione della detenzione domiciliare a quella nella sezione di semilibertà appare come la più pratica ed adeguata, anche sul piano del rispetto dei principi e delle esigenze di controllo, in quanto si tratta di sostituire a un regime detentivo altro regime detentivo con un proprio sistema di controllo. Tale intervento, gestito dal magistrato di sorveglianza, è ammissibile per tutte le situazioni di semilibertà, essendo comuni le esigenze, quale che sia la parte eseguita della misura alternativa. Ma si deve rispondere anche ad altra situazione, già accennata: la ripetitività del regime di semilibertà e il rischio che, fra l’altro comporta, sulla riduzione degli stimoli ad una partecipazione attiva al percorso di reinserimento sociale. Di qui la previsione di interventi che realizzino una progressione nel trattamento, intervenendo prima sul particolare periodo del fine settimana e sviluppandosi, poi, in aperture maggiori, legate alla già avvenuta esecuzione di parti significative della esecuzione della pena. Anche qui la soluzione proposta dall’articolato è quella di sostituire la detenzione domiciliare alla detenzione nella sezione di semilibertà. La scelta risulta decisamente ragionevole, se si considera, nel caso del fine settimana, che il programma di trattamento può prevedere la permanenza all’esterno, in famiglia o in altro ambito di accoglienza, il sabato e la domenica, imponendo, però, necessariamente la permanenza nella sezione di semilibertà nelle notti di tali giorni. La progressione nel trattamento si conclude, poi, alla fine,come già accennato, in un effettivo cambio di regime, con una contenuta accelerazione della ammissibilità alla liberazione condizionale.
La parte dell’articolato modificativa della normativa vigente, prevede infine l’aggiunta di alcuni commi all’attuale art. 51 sulla sospensione e revoca della semilibertà. Anche per la semilibertà, come già fatto per l’affidamento in prova, si sottolinea che la gestione della misura appartiene al personale penitenziario, ivi compreso il CSSA (Centro servizio sociale adulti), e che esula dai compiti degli organi di polizia ordinari. Altra precisazione riguarda la esplicitazione di quanto già conosce la prassi degli uffici di sorveglianza, ratificata dalla giurisprudenza. Accanto alla revoca, che deve sempre fare riferimento ad un comportamento colpevole del semilibero (che, pure si precisa, non corrisponde ad una qualsiasi violazione, ma ad una violazione tale da fare ritenere il soggetto inidoneo alla semilibertà), si prevede la dichiarazione di inefficacia, che interviene in tutti i casi diversi dalla revoca: che possono interessare tutte le modifiche della situazione di fatto su cui è basata la semilibertà: cessazione della attività lavorativa o prolungata sospensione della stessa, inadeguatezza tecnica del semilibero alle mansioni affidategli e conseguente cessazione del rapporto di lavoro ed altre cause più varie. Da sempre, in tali casi, si è cercato di evitare il provvedimento di revoca della semilibertà, cui molte disposizioni ricollegano inammissibilità ai benefici penitenziari per tempi non brevi: questa soluzione è ora resa più certa dalla esplicita menzione della legge. Si deve ricordare, comunque, che non è revoca neppure quella che consegue alla modificata situazione di diritto per il sopraggiungere di nuovi titoli di esecuzione, che facciano superare i limiti di ammissibilità alla misura: in tali casi si deve parlare, ai sensi del testo vigente dell’art. 51bis, di "cessazione" della misura. La "nuova" liberazione condizionale
L’articolato interviene, con un nuovo testo degli artt. 176 e 177 C.P., sulla liberazione condizionale. E’ parso logico prendere atto dello stretto legame che unisce la liberazione condizionale alle misure alternative. E’ vero che la creazione della prima precede quella del sistema delle misure alternative, essendo prevista dallo stesso codice penale del 1930. E’ anche possibile mantenere tale collocazione, come si è accennato, per sottrarre, in quanto possibile, tale strumento alle tensioni modificative, che hanno sovente percorso quel sistema. E’ vero inoltre che il codice penale aveva pensato tale strumento come una sorta di surrogato della grazia, legato a condizioni di ammissibilità e di merito specifiche, rimesso alla decisione del ministro di grazia e giustizia. Ma non si può contestare che la storia moderna della liberazione condizionale si svolge accanto e insieme a quella delle misure alternative, tanto che manca un argomento forte per negare che la stessa sia una misura alternativa. E, per vero, vi sono argomenti decisivi per ritenere che sia proprio una misura alternativa. Intanto, la vicenda del riconoscimento costituzionale del sistema della flessibilità della pena passa, proprio attraverso la sentenza costituzionale n. 204/74, che riguardava, appunto, la liberazione condizionale. E su quella sentenza si innesta la giurisprudenza costituzionale successiva, nei secondi anni 80 e negli anni 90 e sino ad oggi, nella quale le decisioni sulla liberazione condizionale seguono e si sovrappongono a quelle sulle misure alternative: vedi le sentenze n. 343/87, sugli effetti della revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale, e n. 282/89 sugli effetti della revoca della liberazione condizionale, nelle quali, con argomenti ed esiti del tutto analoghi, la Corte approfondisce natura e struttura delle misure alternative, comprendendo la liberazione condizionale nello stesso discorso. Ma vi è stata, poi, la evoluzione normativa, nata sempre dalla sentenza n. 204/74, con la attribuzione della competenza a decidere ad un organo giurisdizionale: prima alla corte d’appello (L. 12/2/1975, n. 6) e poi inevitabilmente al tribunale di sorveglianza. Si tratta, pertanto, di prendere atto di questo processo di trasformazione della liberazione condizionale in misura alternativa e di svilupparlo sotto tre profili: la struttura, il regime e la gestione che ne risultano e le condizioni di ammissibilità e di merito.
La
struttura. Si legge nel comma 1 dell’art. 177 C.P. che "la liberazione
condizionale è revocata se la persona liberata …..trasgredisce agli obblighi
inerenti alla libertà vigilata, disposta ai termini dell’art. 230, n.
2." Su questa base si considera la liberazione condizionale come una sorta
di conversione della pena residua da espiare nella misura di sicurezza della
libertà vigilata per un periodo corrispondente (cinque anni per il condannato
all’ergastolo). Senonché, la giurisprudenza (v., fra le altre, la sia pure
risalente Cass. Sez. V, 31/5/1971, Domenicana, Cass.pen.mass. ann., 1971, 1638,
m.2345) ha rilevato come , nel caso, non si sia in presenza di una misura di
sicurezza in senso proprio in quanto si deve rilevare che non vi è alcuna
possibilità di revoca anticipata della stessa: quindi nessuna valutazione di
cessazione della pericolosità sociale e nessuna possibilità di provvedimenti
conseguenti, caratteristiche queste essenziali per riconoscere la presenza di
una misura di sicurezza. Tale la conclusione della sentenza costituzionale n.
78/77, che riprende la conclusione di altra sentenza precedente, osservando
sulla libertà vigilata in questione: "Trattasi infatti della libertà
vigilata di un condannato a cui é stata concessa la liberazione condizionale; e
questa Corte ha già avuto occasione di rilevare come il potere di revoca
anticipata delle misure di sicurezza, ed in specie della libertà vigilata, non
possa estendersi a questa fattispecie, "per l'impossibilità di assimilare
la comune figura della libertà vigilata a quella particolare conseguente alla
liberazione condizionale, che necessariamente, nel sistema legislativo vigente,
deve durare tanto quanto dura il periodo della liberazione condizionale"
(sentenza n. 11 del 1970). Si può allora concludere che la liberazione condizionale non può essere costruita come conversione della pena in misura di sicurezza della libertà vigilata. Il che significa che la stessa, più semplicemente va costruita con una propria struttura autonoma: come accade per le altre misure alternative, essa ha un proprio regime: quello della liberazione condizionale. Questo consente di costruire quel regime attraverso delle prescrizioni limitative con caratteristiche definite in linea generale, ma da specificare, personalizzandole al caso. Come, appunto, accade per l’affidamento in prova al servizio sociale. Il che consente, però, di rivedere i referenti o gestori di tale misura, che si ritiene possano essere ad un tempo un organo di polizia e il servizio sociale penitenziario. Si è detto che ciò è controindicato per una misura alternativa come l’affidamento in prova. Ma la situazione fra questo e la liberazione condizionale è diversa. Diversa, intanto, per coloro che fruiscono delle due misure: per la liberazione condizionale sono, generalmente, condannati a pene maggiori, reduci di detenzioni non brevi, con prospettive di esecuzione pure non brevi; per l’affidamento in prova, sempre in linea generale, la situazione è opposta, anche se la durata dell’affidamento può essere non breve, ma sempre inferiore, salvo eccezioni, a quella della liberazione condizionale. Diversa anche la struttura delle due misure: nell’affidamento in prova la gestione unitaria da parte del servizio sociale è una caratteristica di sostanza, che è bene espressa dal termine "affidamento". Nella liberazione condizionale la diversità dei ruoli di controllo della polizia e di sostegno del servizio sociale è abbastanza evidente e nella realtà concreta della esecuzione della misura e nelle stesse indicazioni legislative della situazione vigente. Dunque, nella liberazione condizionale, gli interventi diversi di polizia e servizio sociale non sono incompatibili e possono coesistere. Il che non rappresenta, d’altronde, che una conferma della situazione attuale (resa formalmente esplicita) e, rispetto alla concreta esperienza della stessa, una migliore efficacia della medesima. In effetti oggi la libertà vigilata – che non è libertà vigilata – individua il referente-gestore nell’organo di polizia, ma già oggi è presente, ex art. 55 O.P., il Centro servizio sociale adulti, che , nei confronti degli interessati, "svolge interventi di sostegno e di assistenza al fine del loro reinserimento sociale". Nella pratica accade che l’intervento dell’organo di polizia è di solo controllo e che la presenza del servizio sociale è sostanzialmente eventuale, determinata dalla richiesta di aiuto dell’interessato. La valutazione dell’andamento della liberazione condizionale è affidato, quindi, alle scarne comunicazioni degli organi di polizia che segnalano eventuali inadempienze alle prescrizioni stabilite. E’ rimesso alla iniziativa autonoma dei singoli uffici di sorveglianza la verifica di come proceda il percorso di reinserimento sociale nell’ambiente familiare, sociale e di lavoro. Non resta, allora, nello sviluppo logico di questa riflessione, che corresponsabilizzare, rispetto alla esecuzione della liberazione condizionale, gli organismi di polizia e di servizio sociale, rendendo tutto ciò evidente fin dal contenuto delle prescrizioni. prevedendo, così, che il rapporto per la esecuzione della misura alternativa in prova controllata e assistita (v. sentenza costituzionale n. 343/87 e 282/89) si radichi sia con l’organo di polizia che con quello di servizio sociale. Per la precisione, si dovrà dire che, per il servizio sociale, la funzione di sostegno potrà essere, più propriamente, un mix di sostegno-controllo: sia sul rispetto delle prescrizioni concernenti i rapporti con il CSSA, sia sulla evoluzione positiva dell’inserimento sociale. Si compie così il percorso della liberazione condizionale verso le misure alternative con un corollario. Come per l’affidamento in prova, la valutazione dell’esito della liberazione condizionale non è automatico, ma deve essere rimesso ad una sede specifica della magistratura di sorveglianza, che giudica se la prova è stata o meno positiva con le pronunce consequenziali: v. art. 236, comma 1, delle Norme di coordinamento al C.p.p.
Congruamente alla impostazione dell’inserimento della liberazione condizionale fra le misure alternative, si riscrivono le condizioni di merito rilevanti per la concessione, con le quali viene dato spazio all’apprezzamento dei progressi trattamentali, da un lato, e della finalizzazione al reinserimento sociale, dall’altro lato. Quanto alle condizioni temporali di ammissibilità non viene toccato il regime attuale, comprendente anche le modifiche e limitazioni introdotte con il d.l. 13/5/1991, n. 152, conv. nella L. 12/7/1991, n. 203, che porta a due terzi la pena da espiare inflitta per i delitti di cui al comma 1 dell’art. 54bis (già 4bis). Invece, si esplicita, nel testo della norma, la non applicabilità della inammissibilità (salva collaborazione) per i reati di cui alla prima proposizione del comma 1 dell’art. 54bis, inammissibilità introdotta dal d.l. 8/6/1992, n. 306, conv: nella L. 7/8/1992, n. 356: le ragioni sono state sviluppate alla lettera C) di questa sezione, riservata ad "Alcuni principi e finalità generali", alla quale si rinvia.
Va detto, inoltre, che gli automatismi, descritti nel testo iniziale dell’art.177 C.P., sono tutti venuti meno attraverso una serie di sentenze costituzionali, n.282/89, 161/97 e 418/98. Se ne dà atto nel testo del nuovo articolo. In particolare:
L’inserimento nell’ordinamento penitenziario della nuova liberazione condizionale
La nuova disciplina della liberazione condizionale viene inserita agli artt. 50ter e 50quater del nuovo articolato, che riscrivono, subito dopo la semilibertà e la progressione nella stessa, i testi degli artt. 176 e 177 del C.P.. Non si esclude che la conclusione più logica sia quella di togliere la disciplina della liberazione condizionale dal codice penale e inserirla nell’Ordinamento penitenziario, nella parte delle misure alternative, cui appartiene ormai ad ogni effetto. Le parti essenziali degli artt. 50ter e 50quater sono già state indicate e motivate qui sopra. Si aggiungono alcune precisazioni.
Come si è operato per l’affidamento in prova, si sono evidenziati tutti gli effetti che si ricollegano alla declaratoria di estinzione della pena, pronunciata a seguito dell’esito positivo della liberazione condizionale: v. il nuovo testo dell’art. 50quater, riscrittura, come ripetuto, dell’art. 177 C.P.. Come si è detto per l’affidamento in prova, le ragioni del chiarimento modificativo della normativa in questione vengono dettagliatamente riportate più avanti, nella parte successiva di questa relazione, concernente la esecuzione dei trattamenti sanzionatori penali diversi dalla pena detentiva.
Sempre in analogia all’affidamento in prova si è prevista, nel nuovo testo dell’art. 177 C.P., la concedibilità della liberazione anticipata anche per i periodi di liberazione condizionale. Come è noto, tale possibilità è stata introdotta per l’affidamento in prova con la L. 19/12/2002, n. 277, che ha inserito il comma 12bis nell’art. 47 O.P.. Sembra del tutto ingiustificata una previsione diversa per la liberazione condizionale. Il problema concettuale è identico: si vuole dare atto che anche i periodi di misura alternativa, pur se fuori di un regime detentivo, si configurano come esecuzione della pena e sono suscettibili, quindi, di applicazione dell’art. 54 O.P.. Questa considerazione non può non valere anche per la liberazione condizionale.
All’art. 51quater è risolto un problema interpretativo, che, nella prassi della magistratura di sorveglianza, era risolto in modo diverso nelle varie sedi territoriali: se gli artt. 51bis e 51ter O.P. siano applicabili anche nel corso della esecuzione della liberazione condizionale, per la quale manca un rinvio espresso di applicazione: se, quindi, in presenza di aspetti problematici di merito e di modifica della posizione giuridica circa l’andamento della liberazione condizionale, possano essere adottati i provvedimenti di sospensione provvisoria e urgente del magistrato di sorveglianza e le successive decisioni del tribunale di sorveglianza di revoca o meno della stessa misura. Vi sono uffici nei quali tali applicazioni avvengono, ma secondo una interpretazione molto dubbia. La estensione esplicita, introdotta con il citato art. 51quater, sembra molto opportuna, perché il problema esiste ed è molto serio: il sistema delle misure alternative regge ed è efficace se vi è la possibilità di interventi immediati quando le cose non vanno bene. Spesso, per tale via,oltre a interrompere le misure che vanno chiaramente male, si riesce, talvolta, ad evitare il deteriorarsi di situazioni incerte e si può anche salvare una misura pericolante.
Nel testo dell’art. 54bis si chiarisce (anche questo deriva dal d.l. 13/5/91 n. 152, citato sopra) che le regole relative agli accertamenti sui collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva, nei casi di detenuti per i delitti indicati nello stesso art. art. 54bis, valgono anche per la liberazione condizionale.
Una primo modifica riguarda l’art. 53bis. Al comma 2, si dà atto dell’intervento operato con la sentenza costituzionale n.53/1993, che prevede una giurisdizionalizzazione più completa del reclamo al tribunale di sorveglianza, previsto dal comma predetto. Seguendo le indicazioni della sentenza costituzionale citata, la decisione deve avvenire con la procedura ordinaria di cui agli artt. 666 e 678 C.p.p..
Gli altri interventi modificativi si riferiscono, poi, a due articoli dell’O.P., cui si è data una nuova numerazione, che è apparsa più propria: - l’art. 4bis, che, come pertinente prevalentemente alle misure alternative, sembra opportuno collocare nella parte relativa alle stesse: il che è stato fatto, dando la numerazione 54bis. D’altronde, come si è già rilevato nel parlare di tale norma, l’attuale collocazione nei principi direttivi, si presta ad una lettura in termini di tipizzazione dei condannati per taluni delitti, aspetto su cui si leggono ripetute riserve nella giurisprudenza della Corte Costituzionale: v. in particolare, la sentenza 306/93 (n. 11 della motivazione in diritto). Di qui la rinumerazione come art. 54bis, in coda agli articoli sulle misure alternative; - l’art. 58quater, che si è rinumerato come art. 54ter, sempre al fine di tenerlo legato alla parte strettamente dedicata alle misure alternative, cui si riferisce.
Vi sono, infine, alcune modifiche degli ultimi articoli di questo capo VI° del titolo I° del testo vigente, che saranno riportate e spiegate nel capo II° del titolo II° di questo nuovo testo: v. ivi l’art. 9, che modifica l’art. 56 del testo vigente e gli artt. 12, 13 e 14, che si aggiungono dopo l’art. 57 con la numerazione: 57bis, 57ter e 57quater.
Precisato questo, si aggiungono alcune osservazioni sugli artt. 54bis (già 4bis) e 54ter (già 58quater). Dedicheremo poi alcune pagine apposite, a chiarimento di ulteriori articoli appositi, sul problema del distacco temporale fra la data di commissione dei reati e quella di esecuzione della pena.
1. Art. 54 bis (già 4bis)
Il numero 1 di questa parte è stato dedicato all’intervento più significativo sul vecchio testo dell’art. 4bis: ed è quello della limitazione temporale della inammissibilità (salva collaborazione), stabilita da tale norma per i delitti di cui al primo periodo del primo comma della stessa. Di ciò si è già detto. Gli ulteriori interventi sono i seguenti. Il primo riguarda la formulazione dell’oggetto degli accertamenti richiesti agli organi di sicurezza e di polizia. Tale oggetto viene indicato in modo diverso nel terzo e nel quarto periodo del primo comma della norma in questione. La sostanza degli accertamenti richiesti è la stessa: si vuole sapere se vi siano o meno legami degli interessati con la criminalità organizzata: solo che, nel terzo periodo, si inserisce l’accertamento in modo negativo – che, cioè, vi siano elementi negativi su collegamenti attuali – mentre, nel quarto periodo, l’accertamento è posto in modo positivo – che, cioè, vi siano elementi tali da fare ritenere la sussistenza dei collegamenti. Si ritiene che differenze così sottili non garantiscano in alcun modo un maggiore approfondimento delle situazioni, inevitabilmente più accurato quando si sia in presenza dei reati maggiori. Ciò che sarebbe essenziale, in effetti, sarebbe un migliore livello di conoscenza, acquisito attraverso una costante monitorizzazione dei fenomeni criminali e dei partecipanti agli stessi. Va aggiunto che, nel quarto periodo si è aggiunto il riferimento alla "attualità", che è indubbiamente essenziale (tanto che viene puntualmente indicato nel terzo periodo) ai fini che interessano e che, nel testo vigente, mancava. Si sottolinea, poi, che ciò che deve essere fornito dagli organi di informazione non sono pareri sulla opportunità del beneficio, ma sono notizie e indicazioni utili sulle situazioni reali degli interessati. Infine, si rimedia alla incompletezza delle indicazioni del testo vigente sulle autorità di sicurezza e di polizia territorialmente competenti, coinvolgendo sia quelle del luogo di detenzione, sia quelle del luogo di commissione dei reati.
2. Art. 54 ter (già 58quater)
L’intervento modificativo riguarda alcuni aspetti problematici che presentava il testo vigente dell’art. 58quater. Il primo concerneva il campo di applicazione. Si è sottolineato che lo stesso riguarda i detenuti per i delitti di cui all’art. 4bis, ora 54bis, non gli altri. Parrebbe che questo sia il senso della norma, confermato e dal rinvio del comma 2 al comma 1 e dall’esplicito riferimento allo stesso campo di applicazione nel comma 5. Va detto che, per i reati minori e particolarmente per quelli di tossicodipendenti, un blocco dei benefici di questa entità, renderebbe difficile lo svilupparsi di percorsi riabilitativi abbastanza tormentati, frequenti in quei casi. Il secondo intervento introduce temperamenti a tale blocco per i casi di minore gravità. Il terzo intervento chiarisce che la commissione di un ulteriore reato è rilevante anche se oggetto di sentenza emessa a seguito di patteggiamento. Nonostante la equiparazione della normativa ad una sentenza di condanna, la giurisprudenza si è mossa in senso contrario. Non pare che la scelta processuale, rimessa all’accortezza delle difese, possa influire sulla valutazione penitenziaria. Infine, si è lasciato alla discrezionalità della magistratura di sorveglianza, la decisione sulla operatività della normativa degli ultimi tre commi del testo vigente, nel caso di procedimento pendente per la commissione di un nuovo reato. La decisione sarà rimessa ad una valutazione dei dati processuali acquisibili da parte della magistratura di sorveglianza competente, che potrà sospendere la procedura di revoca fino alla pronuncia della sentenza definitiva. Si è ritenuto inevitabile che questa disciplina si applichi anche nei confronti di chi fruisce di liberazione condizionale. L’inserimento di questa fra le misure alternative non può non avere tale conseguenza. Il distacco temporale fra i reati e la esecuzione della pena
L’esperienza di questi anni (quasi 30) di misure alternative ha dimostrato il rilievo dello stacco temporale fra reato e esecuzione della pena. Su questo tema hanno anche interferito gli anomali tempi dei nostri processi, ora abbastanza rivoluzionati dalla normativa sui procedimenti speciali, fortemente condizionata, però, dall’efficacia delle difese, pertanto con una notevole componente di diseguaglianza Si può, comunque, osservare che i lunghi tempi processuali, che erano e sono in parte rimasti la regola, spostano il momento della esecuzione della pena inflitta a un tempo abbastanza lontano da quello in cui il reato è stato commesso. Questo potrà giocare un ruolo favorevole al condannato, quando si dovrà parlare di benefici penitenziari, sia perché la lontananza dal fatto ne smorza echi e reazioni, sia perché il periodo intercorrente fra reato e esecuzione della pena può fare emergere dati positivi sul recupero sociale nel frattempo messo in opera spontaneamente dalla persona interessata. Per converso, la riduzione dei tempi processuali, che pur dovrebbe essere auspicabile e che resta oggi abbastanza casuale, determina una situazione opposta: la vicinanza al reato conserva attualità alle dinamiche che si sono espresse e che possono ancora sopravvivere allo stesso. Teniamo presente che la prima e più frequente situazione (distanza della esecuzione della pena dalla commissione del reato) ha di fatto consigliato, nella l. 10/10/1986, n. 663 (legge Gozzini) le disposizioni di cui al comma 3 dell’art. 47 del testo vigente e del comma 6 dell’art. 50, oggi trasformato dalle modifiche successive. E in seguito il tutto è confluito nella estensione operata dalla l. 27/5/1998, n. 165 (l. Simeone-Fassone-Saraceni). Se è vero che questo ultimo e generale regime riguarda la esecuzione di tutte le pene, anche quelle eseguibili a breve distanza di tempo dai reati, nei fatti questa normativa (particolarmente quella iniziale della legge Gozzini) è nata quando e perché il dato ordinario era quello dei lunghi tempi processuali e del distacco temporale rilevante fra tempo del reato e tempo della esecuzione.
Questa riflessione si muove su una situazione ordinaria: si potrebbe parlare di una situazione fisiologica, se non si dovesse ammettere che i tempi dei nostri processi sono manifestamente patologici. La riflessione manifesta, comunque, il rilievo effettivo che ha il tempo intermedio fra reato e esecuzione della pena. Senonché, anche questa situazione ordinaria può diventare straordinaria quando il tempo diventa troppo grande e questo per due motivi. Il primo motivo è che i fatti, quando il tempo trascorso è troppo elevato, perdono qualunque attualità, risultano superati dalla evoluzione di un percorso di vita, che può essere ormai completamente staccato da quei fatti e da quei tempi. E il secondo motivo è legato al primo: la esecuzione dopo molto tempo dal reato perde legittimazione, può ragionevolmente non essere compresa dal condannato, può essere dannosa per un percorso di inclusione sociale che ormai si è svolto. Di fatto scompare l’ottica riabilitativa e si conserva soltanto quella punitiva.
Da qui le modifiche che si propongono, che agiscono su due piani: il primo: intervenire sulle anomalie del sistema esecutivo penale che producono esecuzioni di pena per fatti molto risalenti nel tempo; il secondo: recuperare il sistema delle misure alternative per contenere gli effetti del distacco temporale in questione quando è eccessivo: e questo attraverso l’adattamento del sistema stesso alle situazioni eccezionali cui si fa riferimento.
1. L’intervento per evitare la eccessiva tardività della esecuzione rispetto al tempo del reato
L’ intervento sul primo piano agisce in due direzioni ed è trattato nell’art. 54quater.
La prima direzione consiste nella soppressione dell’ultimo comma dell’art. 172 C. P., che dispone che la prescrizione della pena o, meglio, la estinzione delle pene della reclusione e della multa per decorso del tempo, "non ha luogo se si tratta di recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell’art. 99 o di delinquenti abituali, professionali o per tendenza; ovvero se il condannato, durante il tempo necessario per l’estinzione della pena, riporta una condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole". Analogamente si modifica il primo comma dell’art. 173 C. P. , che dispone che il termine per la estinzione delle pene dell’arresto e dell’ammenda è raddoppiato se si tratta di recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell’art. 99, ovvero di delinquenti abituali, professionali o per tendenza." In sostanza queste norme introducono preclusioni alla estinzione delle pene o aumento dei termini per l’operare della stessa, che sono basati su automatismi ormai venuti meno. Molte norme del codice penale sono state modificate in modo sostanziale senza che se ne traessero le conseguenze sulla normativa collegata. Così tutto il sistema della recidiva, prevista dall’art. 99, da obbligatorio che era è diventato da molto tempo facoltativo (l. 7/7/1974, n.220). Così il sistema delle declaratorie di delinquenza abituale, professionale e per tendenza, anche questo condizionato all’origine da automatismi e destinato alla irrevocabilità, prevede oggi la possibilità di revoca delle declaratorie (art.69, comma 4 della l. 26/7/1975, n. 354) e il venire meno di qualsiasi automatismo per le nuove dichiarazioni, legate, invece, secondo la giurisprudenza, all’accertamento del dato sostanziale della dedizione del soggetto al delitto. Quanto alla commissione di un nuovo reato nel periodo di tempo della prescrizione, abbiamo anche qui un automatismo negativo, del tutto indeterminato (che può spaziare da una pena minima ad altra molto grave: un tempo, il caso più frequente poteva essere quello di un assegno a vuoto sanzionato con la reclusione o di un piccolo furto). Fare dipendere la esecuzione o meno della pena, pur in presenza di una lunga distanza di tempo dai fatti, da queste circostanze voleva dire individuare persone per le quali la legge era più uguale che per altri e non a caso queste circostanze era denominate come "inerenti la persona del colpevole" (art. 70 C.P.). Sinteticamente, nel sistema penale originario, per tali persone, la pena aveva efficacia di esclusione sociale, negazione della possibilità di percorsi riabilitativi: il che emergeva attraverso varie manifestazioni, una delle quali è quella su cui ci si sofferma (come altre saranno quelle su cui ci si soffermerà fra poco). Ma abbiamo ben visto come la pena abbia cambiato natura e come la finalità riabilitativa debba, per principio della Costituzione, inerire alla stessa. Di qui le modifiche normative del codice penale indicate all’inizio. Si configurano nel nuovo art. 54quater.
La seconda direzione del primo piano di intervento riguarda la limitazione nel tempo degli interventi di revoca dei vari benefici concessi. Un limite attuale manca. Su questo si innesta ancora la lentezza di funzionamento di tali interventi. Così che i provvedimenti relativi sono adottati quando una qualche circostanza casuale richiama la attenzione sulle singole posizioni. In passato, l’occasione classica di queste ricapitolazioni di posizioni esecutive era data dalle varie amnistie e condoni che si susseguivano negli anni, successione che si è ormai interrotta dalla fine del 1990. L’occasione è oggi abbastanza casuale, rimessa generalmente al riesame di una singola esecuzione, che riaccende la attenzione su tutte le esecuzioni presenti e passate del singolo interessato, che si trova in genere davanti a cumuli di pene da eseguire sovente impressionanti. Sembra che si debbano riconoscere due interessi oggettivi del sistema della esecuzione penale. Il primo, sul quale ci siamo soffermati qui sopra è quello di evitare la esecuzione delle pene ad una eccessiva distanza di tempo dai reati e, quindi, anche dai fatti che hanno determinato la ulteriore esecuzione di parti della pena già coperte da benefici di vario tipo, poi revocati. Il secondo è quello che se la legge affida un controllo al sistema giudiziario sulla corretta fruizione di tali benefici, quel sistema deve trovare le modalità per esprimersi in tempi ragionevoli. In caso contrario, si deve dire semplicemente che quel sistema non funziona. Di qui, sempre nel nuovo articolo 54quater, nuovi termini entro i quali è necessario provvedere alle revoche dei vari benefici concessi e porre in esecuzione le pene relative.
2. La esecuzione della pena a grande distanza di tempo dai fatti e il ricorso alle misure alternative
E veniamo al secondo piano di intervento indicato sopra e ripetuto ora nel titolo.
L’art. 54quinquies riguarda il tema ora indicato.
L’intervento si articola in due parti: la detenzione comune; la detenzione politica (nel senso ampio della espressione).
Anche se vi è qualche differenza nel trattamento delle due materie, la premessa è la stessa trattata all’inizio di questa parte. Quando la pena ha finalità puramente affittiva e non vi è alcun interesse alla sua efficacia riabilitativa sul piano sociale, vi può essere indifferenza alla esecuzione della pena a molta distanza di tempo dal reato che l’ha determinata. La circostanza che la pena intervenga, passato molto tempo, in una situazione e nei confronti di una persona entrambe cambiate e possa fortemente incidere e pregiudicare una situazione di inserimento sociale ormai compiuta non può essere accettata se si entra nell’ottica opposta della necessaria efficacia riabilitativa della pena, così come indicata dalla Costituzione e dalla giurisprudenza costituzionale che la riguarda. E’ vero, però, che la pena inflitta esiste, anche se molto tempo è trascorso dal reato e sovente, ma non sempre, dalla sentenza da cui deriva. La soluzione che si propone è quella che ricorre al sistema delle misure alternative, agendo, però, sui tempi di ammissibilità alle stesse. Le rigidità inevitabili nei tempi di ammissione alle misure possono essere temperate proprio in considerazione del tempo trascorso, al momento della esecuzione, da quello di commissione del reato. Il ricorso al sistema delle misure ha vari vantaggi rispetto alle esigenze sistematiche di esecuzione della pena, che non possono essere ignorate. Intanto, l’intervento con misure alternative presuppone la applicazione attraverso un provvedimento giurisdizionale, che apre alla valutazione degli aspetti concreti dei singoli casi. Se, ad esempio, nel tempo intermedio, la condotta dell’interessato è stata negativa e vi sono state manifestazioni significative di una mancata integrazione e di un mancato reinserimento sociale, l’anticipazione dell’intervento con alternative alla detenzione non si giustifica. E ancora: anche prescindendo da nuove e significative manifestazioni antigiuridiche, la ammissione ad alternative alla detenzione non potrà ignorare che devono esistere le condizioni generalmente richieste per le stesse: il superamento delle situazioni conflittuali del tempo del reato, la esistenza di condizioni di accoglienza e di risorse utili a mantenere o a realizzare un inserimento sociale costruttivo. Anche qui, pertanto, si valuterà se i singoli casi presentano quelle ragioni giustificatrici dell’intervento normativo indicate all’inizio: è ovvio che solo in questi casi l’intervento normativo potrà avere ragione di essere. In particolare, nel caso di condannati per i delitti di cui all’art. 54bis (già 4bis), si è previsto che debbano essere svolti gli accertamenti previsti da tale norma sulla permanenza o meno di legami con la criminalità.
La lettura dell’art. 54quinquies rivela i punti essenziali dell’intervento normativo. E’ previsto il superamento delle condizioni temporali di ammissibilità, mentre sono confermate tutte le condizioni di merito previste per le singole misure. E’ decisiva la osservazione di cui all’art. 13 O.P. per fornire i dati essenziali per la decisione della magistratura di sorveglianza. Sono enunciati i tempi decorsi dal reato perché lo speciale intervento possa essere legittimato e gli stessi sono graduati in relazione alla importanza della pena da eseguire. Tali tempi sono abbreviati se è già stata espiata una parte sufficientemente significativa della pena. Quando i tempi decorsi dai fatti sono più lunghi si attribuisce la preferenza, fra le altre misure, alla liberazione condizionale. Al comma 3 si chiarisce che restano ferme le preclusioni alla ammissibilità alle misure (salva collaborazione) per i reati di maggiore gravità di cui al primo periodo del comma 1 dell’art. 54bis (già 4bis).
Il tema di un intervento normativo sulla detenzione politica è stato più volte riproposto e mai risolto. Ci si è sempre riferiti alla detenzione politica relativa a fatti risalenti nel tempo e con i quali gli episodi più recenti, limitandoci all’ambito italiano e prescindendo da quello internazionale, non si manifestano in rapporto di significativa continuità. La distanza di tempo trascorsa da quei fatti può fare ritenere che gli stessi non abbiano più una attualità problematica per la stabilità democratica. L’intervento, salvo alcune modifiche, è analogo a quello previsto per la detenzione comune: una indicazione data per un ricorso al sistema delle misure alternative: v: il comma 4 dell’art. 54quinquies. E’ da dire, comunque, che all’accertamento condotto con l’osservazione penitenziaria, si aggiunge qui una valutazione su dati – di cui si sottolinea la oggettività – che fanno ritenere il ripudio della violenza come strumento di lotta politica da parte degli interessati. In questa linea si prevede l’inserimento nelle prescrizioni relative alle singole misure alternative dello svolgimento di attività socialmente utili, operative quale conferma dell’abbandono di ogni strumento di violenza politica.
C’è da rilevare che, per gran parte dei delitti in questione, esistevano, con il d.l. 8/6/1992, n. 306, conv. nella legge 7/8/1992, n. 356, limiti temporali di ammissibilità più ampi, che sono diventati vere e proprie preclusioni alla ammissibilità (salva collaborazione) con le modifiche di cui alla legge 23/12/2002, n. 279. Si deve osservare, al proposito, che si deve scegliere qui di ragionare nei termini indicati nel nuovo testo dell’art. 54bis, con il quale si è sostituito l’art. 4bis del testo vigente. In tale norma si è previsto che le preclusioni in questione cessano di avere effetto dopo un considerevole lasso di tempo in detenzione. Nella situazione che qui interessa, il lasso di tempo trascorso è particolarmente rilevante, anche se non trascorso in detenzione. D’altronde, si deve anche rilevare che i casi per cui viene previsto questo intervento normativo riguardano aggregazioni criminali risalenti a periodi di tempo ormai lontani. Questa ultima considerazione giustifica anche la differenza di trattamento di quella che abbiamo chiamato detenzione politica da quella che abbiamo chiamato detenzione comune: per questa, nei casi in cui i condannati abbiano agito nel quadro di attività di organizzazioni criminali, queste, anche se mutate nel tempo, restano generalmente ancora operative.
Va rilevato, in conclusione, che il precedente provvedimento sulla dissociazione (L. 18/2/1987, n. 34), risalente, quindi, a ben 17 anni fa, ebbe risultati molto positivi sia sul piano della problematicità di gran parte della detenzione politica, sia nel concreto recupero ad una corretta vita sociale delle molte persone che ne fruirono.
Sezione II. Relazione al Capo II del Titolo II, concernente il trattamento sanzionatorio penale ed extrapenale diverso da quello detentivo
Avvertenza: Il Capo II è introdotto ex novo nell’Ordinamento penitenziario e, pertanto, si segue una numerazione autonoma. La collocazione del capo II è immediatamente dopo quello dedicato alle misure alternative alla detenzione in quanto dedicato alle parti restanti del sistema sanzionatorio e alla necessità della loro armonizzazione con la trasformazione in senso riabilitativo della pena detentiva, realizzato attraverso le misure alternative.
Relazione generale in merito alla nuova disciplina normativa: trattamento sanzionatorio penale diverso da quello detentivo: armonizzazione con questo.
La finalità di risocializzazione e riabilitazione da situazioni di devianza della esecuzione penale è chiaramente affermata dalla Costituzione, ribadita nelle articolazioni concrete dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale: sui vedano, in particolare le sentenze 204/74, 343/87 e 282/89. A tali principi si attiene l’Ordinamento penitenziario, in particolare con lo strumento delle misure alternative alla detenzione. Queste favoriscono la utilizzazione della fase della esecuzione penale come momento di concreta progettazione ed attuazione dell’inserimento sociale del condannato ed in modo specifico del suo inserimento lavorativo. Il riconoscimento e l’attuazione di tali principi è ormai proprio della esecuzione della pena, riferendoci alla pena principale ed in particolare alla pena detentiva. Per la pena nel suo complesso va particolarmente sottolineata la necessità della sua "congruenza" rispetto alle finalità che sono proprie alla stessa, "congruenza" che viene affermata in un’altra sentenza costituzionale, la n. 313/90, che ha portato alla modifica dell’art. 444 del C.p.p.( di recente ulteriormente modificato e non pare nel rispetto della sentenza ora citata), nella parte in cui richiedeva che, in caso di patteggiamento sulla pena, la stessa debba essere "congrua", ovvero adeguata ai fini propri della pena medesima. Ciò che viene richiesto non è solo l’obbligo di "congruenza" circa l’entità minima della pena, ma anche quello sulla entità massima, che non può essere tale da rimettere ad un futuro incerto e remoto la possibilità di orientare la esecuzione penale alla progettazione e allo sviluppo di percorsi di riabilitazione e di inclusione sociale. Si tratta, comunque, di un punto che ci si limita a segnalare, richiedendo, per una proposta di modifica normativa, una sede diversa da quella attuale. Questo aspetto riguarda, comunque, la pena nel suo complesso. Ma, come si è accennato, il lavoro che si ritiene necessario affrontare qui riguarda tutti gli aspetti ed effetti ulteriori della pena, oltre la pena detentiva, sui quali la legislazione vigente attende una verifica costituzionale: in proposito non vi è stato un impegno adeguato o, meglio, per molti aspetti, non vi è stato impegno alcuno. Non è stata, infatti, compiuta una adeguata ricognizione di tutte quelle disposizioni penali e amministrative che, generalmente alla conclusione della pena detentiva, e quando, sovente, i percorsi di risocializzazione e riabilitazione sono avviati o conclusi, impediscono un regolare svolgimento di questi o il mantenimento dei risultati raggiunti: sul versante dell’inserimento lavorativo, ma, come si vedrà, anche su altri versanti e soprattutto sulla esigenza essenziale di pervenire ad una situazione definita e definitiva, nella quale la esecuzione complessiva della pena e i suoi effetti si possano ritenere conclusi. Sinteticamente: la esecuzione della pena, nel regime attuale, tende a non finire mai. Le indicazioni che seguono colgono i punti critici più rilevanti e costruiscono delle soluzioni normative che non appaiono irragionevoli, ma, al contrario, riparano alcune irrazionalità che la normativa attuale presenta. Su questo ci soffermeremo nelle relazioni concernenti i singoli punti dell’intervento proposto. Esamineremo i seguenti punti:
Deve chiarirsi che le considerazioni e gli interventi che seguono fanno riferimento al sistema attuale delle pene pecuniarie e alla gestione dello stesso. Il che non esclude e non contrasta una possibile rivisitazione e riorganizzazione del sistema delle pene pecuniarie, rimesso evidentemente ad una revisione del codice penale, che pare non attenere alla immediatezza. La esecuzione della pena pecuniaria, quale è oggi, è uno dei punti che pongono particolari problemi nella fase conclusiva della espiazione. Va anche ricordato che molti dei condannati sono tossicodipendenti e che, per i reati commessi in violazione delle leggi relative – DPR 309/90 - , si applicano pene molto elevate e che tali sono, in particolare, quelle pecuniarie. L’effettivo pagamento di tali pene è assolutamente infrequente, specie quando le stesse sono molto consistenti: e ciò per la buona ragione che i destinatari sono sovente in pessime condizioni economiche. È poi particolarmente dannoso il sistema che consegue all’inevitabile mancato pagamento: dannoso anche per gli effetti che produce nella sfera di relazioni del soggetto. In primo luogo, il tempo della procedura di esecuzione è del tutto imprevedibile. E’ questo un aspetto che contribuisce alla incertezza sulla conclusione della espiazione e lascia il condannato in una situazione precaria, che non contribuisce alla sua ricerca di soluzioni di inserimento costruttive e definitive. In secondo luogo, il ricorso alla esecuzione forzata, quando arriverà, porta al condannato: precetto e pignoramento di quanto sia pignorabile, in danno generalmente della famiglia del condannato, presso la quale questi è rientrato al termine della pena detentiva . E, inoltre, quando l’esecuzione forzata conferma che non c’è da pagare nulla, arriva, anche questa con tempi imprevisti e imprevedibili, la conversione della pena pecuniaria in libertà controllata, sanzione sostitutiva particolarmente pesante e di durata notevole (in relazione alla entità delle pene, fino ad un anno o, in caso di concorso di pene, fino ad un anno e mezzo), che trova, fra l’altro, applicazione dopo la esecuzione della pena detentiva, anche se si sia trattato di esecuzione in misura alternativa, e quando, pertanto, il processo di riabilitazione è ormai avviato o già concluso. Per evitare queste conseguenze, si tratta di modificare, per certi aspetti anche radicalmente, il sistema e pare ragionevole distinguere fra coloro che hanno concluso la espiazione della pena detentiva in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale e coloro che l’hanno, invece, conclusa in altra misura alternativa o con la espiazione effettiva in carcere. Se è vero che ciò può creare una situazione di disparità, si può osservare: da un lato che questa deriva dal regime diverso attuato in passato (e cioè dalla prassi seguita per molti anni di ritenere estinta la pena pecuniaria a seguito dell’esito positivo della prova in misura alternativa) e che, comunque, la stessa può essere spiegata con la natura maggiormente responsabilizzante e, quindi, più impegnativa, delle due misure alternative che verranno a fruire della soluzione più favorevole.
1. Esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale
Il testo del comma 12 dell’art. 47 della L. 26/7/1975, n. 354, è stato a lungo interpretato, da una parte dei magistrati di sorveglianza ed anche da una parte degli uffici della esecuzione penale, nel senso che l’esito positivo della prova in misura alternativa estingueva la pena nella sua interezza, compresa la pena pecuniaria: la cessazione degli effetti penali pareva ribadire tale conclusione. La Corte di Cassazione, dopo decisioni contrastanti, è pervenuta ad una giurisprudenza contraria, in base alla quale si ritiene che l’esito positivo della prova estingue soltanto la pena detentiva, in quanto la normativa sull’affidamento non fa mai riferimento alla pena pecuniaria. Anche la estinzione degli effetti penali si limiterebbe, pertanto, a quelli ricollegabili alla pena detentiva. La soluzione qui adottata è quella che ha avuto lunghi anni di applicazione, e che sembra anche più logica rispetto al testo della norma. E’ apparso necessario, comunque, rendere esplicito, per superare la giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’effetto della estinzione della pena pecuniaria. L’aggiunta, nel testo che segue, della estinzione delle pene accessorie è spiegato, più oltre, nella parte riservata alle pene accessorie (si tratta, come si vedrà di una puntuale applicazione dell’art. 20 C.p.). Analoga modifica è da praticare nel comma 2 dell’art. 177 C.p.: il problema interpretativo è lo stesso e richiede analoga soluzione. La modifica del testo del comma 2 dell’art. 177 C. p., propone un ulteriore problema interpretativo sulla revoca delle misure di sicurezza, esplicita in tale norma, ma assente nella normativa sull’affidamento in prova. Si parlerà di questo nella parte che riguarda, appunto, le misure di sicurezza.
Le modifiche normative, per questa parte, sono già state inserite nel capo I° di questo titolo: per l’affidamento in prova, al comma 12 dell’art. 47 e, per la liberazione condizionale, al comma 3 dell’art. 50quater, che modifica l’art. 177 C.p..
2. Esecuzione della pena conclusa in misura alternativa della semilibertà e della detenzione domiciliare, compresa la detenzione domiciliare speciale, nonchè in effettiva espiazione della pena in carcere
Come si è accennato, nei casi ora indicati, non vi è spazio ad una soluzione analoga a quella adottata sub 1 e si è anche cercato di indicare le ragioni che giustificano questa differenza di trattamento. Comunque, si realizza una serie di interventi che pongono rimedio agli inconvenienti più gravi del regime attuale. Gli interventi sono di procedura e di sostanza. Gli interventi procedurali cercano di semplificare le procedure e di mettere anche a punto un sistema, rimesso alla iniziativa degli interessati, che sia in grado di eliminare i tempi morti e la lunga durata delle procedure di esecuzione e di conversione nel trattamento sanzionatorio sostitutivo, con allungamento, in larga misura imprevedibile, del periodo conclusivo di espiazione. Gli interventi sostanziali affrontano il problema della conversione delle pene pecuniarie insolute, sempre rimasto aperto, perchè la soluzione della L. 689/81 può suscitare, attraverso la esperienza della concreta applicazione, qualche perplessità. Per gli interventi procedurali, la fase attuale è particolarmente travagliata. Vi è stata una modifica legislativa della competenza del magistrato di sorveglianza con attribuzione della stessa al giudice della esecuzione. Una recentissima sentenza costituzionale (v. oltre) ha ritenuto incostituzionale questo passaggio di competenza, facendo pertanto rivivere quella del magistrato di sorveglianza. Il punto è particolarmente delicato, così che merita un esame a parte, che si svolgerà nella conclusione di questa Parte prima. Ci si soffermerà sugli interventi processuali dopo avere approfondito i problemi di quelli sostanziali ed averne individuato le soluzioni.
2a. I problemi e gli interventi sostanziali
E veniamo agli interventi sostanziali. Due sono gli aspetti non persuasivi, specie nell’ottica del presente progetto, nella legislazione introdotta dalla L. 689/81: il primo è rappresentato dal trattamento sanzionatorio conseguente alla conversione: la sanzione sostitutiva della libertà controllata (art. 102 della legge citata); il secondo è che, in caso di violazione delle prescrizioni della libertà controllata, il residuo non eseguito di tale sanzione è convertito in un periodo di pena detentiva uguale alla pena pecuniaria inflitta. Si ritorna, pertanto, alla fine, ancora al trattamento sanzionatorio detentivo. Si tratta di ritornare alla sentenza n. 131/79 della Corte Costituzionale, che dichiarava la illegittimità costituzionale dell’art. 136 C.p., che prevedeva che la pena pecuniaria non pagata per insolvenza del condannato venisse convertita, secondo un criterio dato di ragguaglio, nella pena detentiva corrispondente. Osservava la Corte: "La conversione della pena pecuniaria in detentiva alla stregua della normativa vigente, finisce infatti per attuarsi soltanto a carico dei nullatenenti, dei soggetti, cioè, costretti alla solitudine di una miseria che preclude anche ogni solidarietà economica e reca, perciò, l’impronta inconfondibile di una discriminazione fondata sulle condizioni personali e sociali, la cui illegittimità è apertamente, letteralmente, proclamata dall’art. 3 Cost.." Nell’altra decisione n. 108/87, la Corte precisava che "la sentenza 131/79 (sopra citata) non ha ritenuto illegittima ogni forma di conversione di pena pecuniaria, bensì ha indicato un bilanciamento di valori costituzionali in cui il rilievo preminente del principio di eguaglianza rispetto a quello di inderogabilità della pena impone di agevolare l’adempimento della pena pecuniaria e comunque di prevedere misure sostitutive che riducano al minimo il margine di maggiore afflittività che esse inevitabilmente comportano rispetto all’originaria sanzione, che, pertanto, non rappresenta un ritorno alla previgente disciplina, ritenuta illegittima con la citata sentenza n. 131/79." Da queste premesse, si può pervenire alle seguenti conclusioni. La Corte non ha ritenuto incostituzionale il regime di conversione della pena pecuniaria previsto dalla L. 689/81. Ciò non toglie che si possa trovare una soluzione diversa, dopo avere verificato, nella esperienza applicativa della legge, che si può realizzare in modo più soddisfacente il rispetto dei principi relativi alla esecuzione della pena, specie di quei principi, richiamati nella relazione introduttiva, sulla finalità risocializzativa che la pena nel suo complesso non deve mai perdere di vista. La pena pecuniaria colpisce le disponibilità patrimoniali di una persona, esercitando un effetto dissuasivo circa il comportamento antigiuridico posto in essere. Quando la persona è priva di disponibilità patrimoniali, il meccanismo non può funzionare ed, allora, si è ritenuto costituzionalmente legittimo di agire ancora su ciò che una tale persona ha comunque: la propria libertà. Era incostituzionale una limitazione drastica di tale libertà quale veniva posta in essere con la conversione in pena detentiva, ma si poteva arrivare a restrizioni della libertà di tipo non detentivo ed, in ultima istanza, e quando non si rispettavano quelle restrizioni, anche a restrizioni della libertà di tipo detentivo. Due osservazioni sono, però, da fare a sostegno di una risposta diversa rispetto a quella della L. 689/81. La prima osservazione è ricavata dalla sentenza costituzionale n. 108/87, sopra citata, nella quale si legge che le misure sostitutive da prevedere, in caso di insolvenza del condannato, devono essere tali da "ridurre al minimo il margine di maggiore afflittività che esse inevitabilmente comportano rispetto alla originaria sanzione". La seconda osservazione è che la esperienza applicativa della soluzione della L. 689/81 dimostra che la "riduzione al minimo del margine di maggiore afflittività" può essere raggiunta in modo più soddisfacente di quanto non sia stato fatto e in modo più coerente alla espiazione complessiva della pena e alle sue finalità. L’applicazione della libertà controllata anche per periodi non brevi (fino a un anno o un anno e mezzo), con tutte le limitazioni che comporta, protrae ancora le conseguenze della condanna e limita le possibilità di movimento, di fruizione di occasioni di lavoro e di inserimento, di sistemazione dei regimi di vita. Chi può pagare e paga la pena pecuniaria non deve affrontare nulla di tutto questo. Chi non può, invece, subirà la libertà controllata e, se non rispetterà le prescrizioni della libertà controllata, vedrà riproporsi alla fine la conversione in pena detentiva. Questa ultima e più grave conseguenza può suggerire di cambiare completamente la risposta normativa vigente al mancato pagamento per insolvibilità. L’art. 108, comma 1, in fine, prevede che la pena detentiva (in conversione dalla libertà controllata) può essere eseguita in misura alternativa alla pena detentiva. La soluzione che qui si propone è allora questa: di mettere al principio ciò che qui si prevede solo alla fine: di scegliere, cioè, per il trattamento sanzionatorio sostitutivo alla pena pecuniaria, non una sanzione sostitutiva, come la libertà controllata, ma la misura alternativa più classica e operativa, che è l’affidamento in prova al servizio sociale; misura la cui capacità costruttiva e riabilitativa è del tutto coerente con la misura alternativa fruita per la esecuzione della pena detentiva (semilibertà, ad es.) o fornisce una opportunità di inserimento e socializzazione che la totale espiazione della pena in carcere non ha offerto. Questa soluzione presenta, fra l’altro, un indubbio vantaggio: risolve i problemi posti dalla coesistenza di due trattamenti sanzionatori molto dissimili, come erano la libertà controllata e il lavoro sostitutivo. La sentenza costituzionale 206/96 aveva dichiarato incostituzionale il comma 2 dell’art. 102 della L. 689/81, che limitava la ammissibilità del lavoro sostitutivo alle pene pecuniarie non superiori al milione di lire. Non essendo intervenuta alcuna modifica legislativa, le condizioni esecutive del lavoro sostitutivo restavano fissate entro il limite massimo di sessanta giorni, con la prestazione di almeno una giornata lavorativa settimanale, senza alcuno degli obblighi e degli effetti che l’art. 56 della L. 689/81 fissa per la libertà controllata. La differenza fra le due misure sanzionatorie era stridente e la scelta dell’una o dell’altra era molto legata all’impegno del magistrato di sorveglianza decidente nel ricercare, accettare e costruire, nell’assenza di concreti indirizzi generali, la ipotesi del lavoro sostitutivo. Quindi, poteva capitare, per la stessa pena pecuniaria di avere un anno e mezzo di libertà controllata, con tutti gli obblighi capillari e i pesanti effetti previsti (sospensione della patente, ritiro passaporto o documento equipollente) o sessanta giorni di lavoro sostitutivo, senza obblighi, né effetti collaterali. La soluzione qui indicata supera questa situazione di scarsa equità. Si aggiunga che, essendo il lavoro sostitutivo previsto in una fase successiva e a richiesta dell’interessato, lo stesso resta, comunque, misura abbastanza eccezionale e discrezionale. Fatto questo rilievo, ci si sofferma su due chiarimenti ed una precisazione finale. I chiarimenti. Il primo è che è conveniente abbandonare un ragguaglio puramente aritmetico fra entità della pena pecuniaria e entità della misura alternativa: è preferibile un ragguaglio a scaglioni, che esclude durate minime irrisorie e improduttive e limita comunque le durate massime previste oggi per la libertà controllata. Il secondo chiarimento è che la violazione delle prescrizioni dell’affidamento in prova deve trovare una risposta nello stesso regime, anche se eventualmente aggravato. E’ un punto delicato, che si è cercato di risolvere in modo che si ritiene adeguato. Qui non si tratta tanto, come è previsto nell’art. 47, di verificare se la prova in affidamento ha avuto "esito positivo", quanto se la stessa, per le restrizioni alla libertà del soggetto, gli impegni posti allo stesso e la sua complessiva risposta alle prescrizioni, abbia posto in essere quel "margine di maggiore afflittività ... rispetto alla originaria sanzione", che, pur se "ridotto al minimo", deve inerire al trattamento sanzionatorio sostitutivo (le parti fra virgolette appartengono alla sentenza costituzionale 108/87, già citata). Si ripete allora, da parte del magistrato di sorveglianza, al termine del periodo di affidamento in prova, quel giudizio e quella conclusione, affermati nella sentenza costituzionale 343/87, sulla rideterminazione del trattamento sanzionatorio da attuare quando la prova non sia stata positiva: solo che il criterio di valutazione sarà abbastanza diverso (quello sopra indicato) e la conseguenza non sarà la rideterminazione di una pena detentiva residua, ma ancora un periodo di affidamento, sia pure con un rafforzamento delle prescrizioni. La precisazione finale. Fra le prescrizioni può essere inserita quella relativa allo svolgimento di attività di volontariato o di lavori socialmente utili: può rappresentare, ove occorra, un recupero di quella finalità riparativa, in senso ampio, che può essere attribuita alla pena pecuniaria e che, nel caso dell’insolvente, non può essere compiuta. Infine, va ricordato che le modifiche sono operate sul testo normativo originario del C.p.p., che ha ripreso a valere dopo la sentenza costituzionale n. 212/2003, che ha ritenuto costituzionalmente illegittime le modifiche apportate al testo originario dell’art. 660 C.p.p. e dell’altra normativa connessa (competenze del pubblico ministero e del magistrato di sorveglianza).
2b. La semplificazione procedurale
La sentenza costituzionale 212/2003 ha dichiarato la incostituzionalità "degli artt. 237, 238 e 299 – quest’ultimo nella parte in cui abroga l’art. 660 C.p.p. – del d.lgs. 30/5/2002, n. 113 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia)". E’ pertanto venuta meno la disciplina ora detta nella parte in cui disponeva il passaggio della competenza alla conversione delle pene pecuniarie (nel trattamento sanzionatorio sostitutivo) dalla magistratura di sorveglianza al giudice della esecuzione. Alla base di questi interventi normativi c’è la difficoltà dei diversi uffici di accettare la gestione di una materia molto problematica, come quella della conversione delle pene pecuniarie insolute e dei trattamenti sanzionatori sostitutivi conseguenti. Materia, fra l’altro, per certi versi, rischiosa, dato che gli uffici ispettivi ministeriali avanzano la tesi che il danno da intervenuta prescrizione della pena pecuniaria sia da addebitare ai funzionari che gestiscono le procedure relative e che dovrebbero pertanto rispondere per l’ammontare delle pene pecuniarie insolute (tesi peregrina, se si vuole, dato che la prescrizione riguarda crediti dello Stato pervenuti alla fase della conversione proprio per la insolvibilità dei debitori; tesi, pur sempre, non meno allarmante, data l’autorità amministrativa da cui proviene). Si noti che la dimensione del lavoro è molto notevole, con un forte carico processuale e burocratico, frutto di una giurisdizionalizzazione esasperata e sostanzialmente improduttiva. La scelta che si ritiene di dovere operare è questa: mantenere la competenza della magistratura di sorveglianza, cui si è ora tornati, con il recupero dell’art. 660 C.p.p. (a seguito della sentenza costituzionale ora citata), ma snellire gli interventi, lasciando pur sempre aperto il ricorso a tutte le garanzie utili, liberando l’attività dal carico burocratico che soffoca gli uffici, senza alcun vantaggio reale del servizio e degli stessi destinatari del medesimo.
Una risposta efficace alla situazione e ai problemi che pone passa, pertanto, attraverso questi punti:
E’ utile un approfondimento dei singoli punti indicati.
La conversione della pena pecuniaria operata dal pubblico ministero
Si noti che è il passaggio, ex art. 660 C.p.p, di tale competenza al magistrato di sorveglianza, che ha aggravato moltissimo la situazione. Nella vigenza dell’art. 107 della L. 689/81, il P.M. trasmetteva il provvedimento di conversione già effettuato: il magistrato di sorveglianza doveva soltanto, come nel caso di sanzione sostitutiva data in sentenza, stabilire le concrete modalità di esecuzione della sanzione sostitutiva. Si può rilevare: che si dovrebbero avere due accertamenti di insolvibilità, sia presso il P.M. , sia presso il Magistrato di sorveglianza (comma 2, art. 660 : e vedi anche, tanto per semplificare (!) ulteriormente le cose, l’art. 30 Disp. regolamentari al C.p.p., con la restituzione degli atti dal Magistrato sorveglianza al P.m. e da questi alla cancelleria del giudice dell’esecuzione se la insolvibilità non è confermata): questa è una disposizione di pessima organizzazione, che produce, nei fatti, la deresponsabilizzazione del P. M., che manda ora al Magistrato di sorveglianza tutti i casi di mancato pagamento, senza accertare la insolvibilità. Di qui la crescita esponenziale di questo servizio presso il solo ufficio di sorveglianza; che siamo, d’altronde, in una fase di esecuzione di una pena già definita con sentenza di condanna, che ha stabilito la entità della pena pecuniaria senza ombra di dubbio; che la conversione è disposta in presenza dell’accertamento di un fatto, che è compito del P. M. di verificare (anche secondo l’art. 660 vigente): l’accertamento "della impossibilità di esazione della pena pecuniaria"; che, in qualunque momento, la conversione può essere bloccata con il pagamento: si tratta, quindi, di un provvedimento reso allo stato; che, inoltre, in qualsiasi momento, è possibile un incidente di esecuzione, questo, si, presso il giudice della esecuzione, finché gli atti sono presso il P.M.; che nulla vieta, comunque, che, dell’art. 660, C.p.p., venga conservata la possibilità del magistrato di sorveglianza di accedere alle richieste del condannato di rateizzazione o differimento del pagamento: il che avvalora, anche secondo questo ulteriore aspetto, la natura del provvedimento di conversione come non definitivo, reso allo stato e, come tale, quindi, non necessariamente tale da coinvolgere il giudice e, inoltre, con una procedura completamente giurisdizionalizzata. Si ritiene che, ritornando al sistema di cui al citato art. 107 della L. 689/81, riconfermando al P.M. la competenza alla conversione, si torni alla soluzione più pratica e che tale soluzione non violi in alcun modo le ragionevoli garanzie del condannato. Questa modifica, è da realizzare attraverso il comma 2 dell’art. 660, il quale applicherà i criteri di conversione indicati nell’art. 102 della L. 689/81. Ovviamente, come accadeva per la libertà controllata, il pubblico ministero dovrà soltanto indicare la misura dell’affidamento in prova secondo le precise indicazioni normative. La specifica delle prescrizioni apparterrà alla competenza del magistrato di sorveglianza.
La competenza del magistrato di sorveglianza per le attività successive alla conversione
La competenza della magistratura di sorveglianza in merito alla applicazione delle sanzioni sostitutive e, si noti, anche alla loro esecuzione concreta, è apparsa, nella L. 689/81, una scelta sistematica, che individuava, nella magistratura di sorveglianza, quella che doveva affrontare, per le sue caratteristiche, tutte le questioni che attenevano alla concreta esecuzione della pena. Questo vale, in particolare, per la concreta applicazione delle sanzioni sostitutive (fra le quali c’è anche la semidetenzione, che comporta, fra l’altro, anche il riferimento a norme penitenziarie: v. ultimo comma art. 55 L. 689/81); e vale, inoltre, anche per la fase esecutiva (cioè, per la gestione operativa) di tutte le sanzioni sostitutive, sia da sentenza che da conversione di pene pecuniarie. Se tale è il giudice naturale sulla concreta applicazione delle sanzioni sostitutive applicate in sentenza, lo stesso non può non esserlo nel caso di applicazione successiva in conversione di pena pecuniaria non pagata. E’ chiaro che, per converso, appare ben definita la competenza del giudice della esecuzione quando è in giuoco la valutazione del titolo di esecuzione; la commistione, a tale competenza sul titolo, di quella sulla concreta esecuzione della sanzione sembra fuori sistema. In sostanza: nella materia in esame la competenza del magistrato di sorveglianza appare quella più logica e naturale, mentre non è così per il giudice dell’esecuzione. Va aggiunto che, il giudice, in materia, affronta problemi che sono inconsueti per il giudice della esecuzione e che, sul piano pratico, possono anche essere di difficile gestione per il giudice della esecuzione. Così, la definizione delle prescrizioni delle sanzioni, che comporta, attraverso la acquisizione della conoscenza delle situazioni di inserimento socio-lavorativo degli interessati, decisioni analoghe a quelle consuete del magistrato di sorveglianza, ma profondamente eterogenee rispetto a quelle del giudice della esecuzione. Così, ancora, le decisioni in materia di modificazioni urgenti delle prescrizioni, che pongono problemi gestionali della attività, consueti per la magistratura di sorveglianza e inconsueti per i giudici della esecuzione. E così, infine, tutti gli interventi valutativi sull’andamento del trattamento sanzionatorio sostitutivo, così come previsto nelle modifiche che si sono proposte, interventi che non possono non essere del magistrato di sorveglianza, naturale gestore di tale trattamento, e che non possono che essere estranee al giudice della esecuzione. Conclusione: dopo la conversione della pena pecuniaria operata dal pubblico ministero, la competenza per le attività successive è tutta del magistrato di sorveglianza: sia per la rateizzazione e il differimento della esecuzione; sia per la definizione delle prescrizioni dell’affidamento in prova sostitutivo della pena pecuniaria; sia, infine, per la fase della concreta esecuzione dello stesso. Il rinnovato testo dell’art. 660 C.p.p. e degli articoli rilevanti della L. 689/81 indicherà tutto questo.
La semplificazione della procedura
Tutto l’intervento del magistrato di sorveglianza in sede di concreta applicazione delle sanzioni sostitutive e di modifica delle stesse, è giurisdizionalizzato: v. art. 678, con riferimento all’art. 666 C.p.p.. Per vero, anche di tali garanzie giurisdizionali, si potrebbe fare a meno nei termini attuali, attraverso un sistema basato su un provvedimento senza formalità, da adottare sentito l’interessato, con la previsione di una giurisdizionalizzazione eventuale, attraverso una opposizione con incidente di esecuzione presso il magistrato di sorveglianza. Il termine per la opposizione deve essere breve e la stessa deve avere efficacia sospensiva. A sostegno di questa soluzione, si può osservare: la predeterminazione del contenuto delle sanzioni sostitutive pone al giudice limiti di discrezionalità minimi ed è minima pertanto la portata decisoria del provvedimento: di qui la valutazione che una giurisdizionalizzazione piena non è necessaria; si può osservare che, per la determinazione delle prescrizioni della misura di sicurezza della libertà vigilata, assai simile alla libertà controllata, l’art.190 Disp. att. al C.p.p, prevede una decisione senza formalità, non menzionando neppure la condizione di sentire l’interessato, prevista dal vecchio codice(art. 636 del vecchio C.p.p.); anche le prescrizioni della semilibertà, simile alla semidetenzione, sono date, addirittura, con provvedimento amministrativo della direzione penitenziaria, controllato con provvedimento giudiziario del magistrato di sorveglianza adottato senza formalità; se si vuole, è adottato senza formalità anche il provvedimento che definisce le prescrizioni dell’affidamento e, in modo ancora più evidente, quello che le modifica; la L. 19/12/2002, n. 277, ha introdotto l’art. 69bis nell’Ordinamento penitenziario in materia di decisione sulla liberazione anticipata, prevedendo una procedura nella quale una effettiva giurisdizionalizzazione è eventuale e interviene soltanto in fase di impugnazione. Tutti i casi indicati comportano discrezionalità sovente maggiori perché intervengono rispetto a situazioni non così predeterminate come accade per il trattamento sanzionatorio sostitutivo di cui si sta parlando. non si dimentichi che si tratta, per la concreta determinazione delle modalità di tale trattamento, conseguente a un provvedimento reso allo stato, che può essere sempre modificato: oggi, sempre con procedura giurisdizionalizzata, che potrebbe, invece, essere, anche questa, semplificata negli stessi termini di cui al procedimento iniziale; si noti che, ai sensi art. 64 della L. 689/91, come si è ora detto, le modifiche delle prescrizioni delle sanzioni sostitutive dovrebbero essere fatte con procedura giurisdizionalizzata (salvi i casi di urgenza, nei quali si può provvisoriamente adottare un provvedimento senza formalità, cui deve seguire la procedura giurisdizionalizzata): ebbene, nella prassi, si adottano, invece, solo e soltanto, provvedimenti senza formalità, senza la prevista, successiva procedura. Questo dimostra come, nella pratica, il regime di giurisdizionalizzazione attuale è eccessivo e, proprio per questo, non osservato. Su questo ultimo punto, si ritiene, però, di non modificare l’art. 64 citato, che resta come è, per la esecuzione delle sanzioni sostitutive applicate in sentenza in quanto non si ritiene di modificare tale normativa, come precisato immediatamente qui di seguito. In materia di conversione delle pene pecuniarie si prende, quindi, atto di quanto ora osservato e si prevede un intervento assolutamente semplificato.
La procedura abbreviata rimessa all’iniziativa del condannato
La semplificazione procedurale rende possibili tempi più brevi di esecuzione. Ma tali tempi possono continuare a non essere prevedibili e a rimettere in discussione, quando l’intervento giudiziario si concreta, situazioni personali e familiari che, dopo la esecuzione della pena detentiva, sembravano consolidarsi. Si parla anche di situazioni familiari perchè la esecuzione forzata colpisce in particolare modo la famiglia, che ha riaccolto il congiunto condannato, e che vede attaccate le proprie, generalmente molto modeste, disponibilità patrimoniali. E’ parso, allora, utile, per rendere meno critico il percorso del condannato finalizzato a chiudere il percorso esecutivo penale, di prevedere, con la sua iniziativa, l’accesso diretto ad una decisione del magistrato di sorveglianza: "saltando", per un verso, la fase iniziale della esecuzione e chiedendo l’accertamento giudiziario che la definisca. Anche questa possibilità trova posto nelle modifiche normative che seguono.
La permanenza del sistema processuale attuale sulle sanzioni sostitutive applicate in sentenza
Le sanzioni sostitutive applicate in sentenza sono in numero limitato. Per le stesse non vi è alcuna possibilità di modificare la sanzione sostitutiva, in quanto la stessa è fissata dalla sentenza. La materia ha pertanto una sua autonomia e non può essere che rischiosa la commistione con i problemi della materia della conversione delle pene pecuniarie che abbiamo esaminato sin qui. Nessuna modifica, pertanto, per questa parte.
Rispetto al fine che si considera dell’inserimento sociale e in particolare di quello lavorativo, vi sono due aspetti negativi discendenti dalle pene accessorie. Il primo aspetto è che tali sanzioni sono incapacitanti, riducono o limitano, cioè, le possibilità del condannato di accedere a determinate attività o di svolgerle. Il secondo aspetto negativo è che, in buona parte dei casi, le pene accessorie vanno eseguite al termine della esecuzione della pena principale, proprio nel momento, cioè, in cui si deve attuare o si deve consolidare, se già avviato, il problema dell’inserimento sociale e in specie di quello lavorativo della persona. Anche qui, richiamando in linea generale quanto detto per le pene pecuniarie, possiamo considerare separatamente i casi di coloro che sono stati ammessi all’affidamento in prova e alla liberazione condizionale e li hanno conclusi positivamente dai casi di coloro che hanno espiato la pena in misura alternativa diversa o in carcere senza ammissione a misure alternative.
Al proposito, si deve indicare un argomento decisivo di carattere testuale e sistematico. L’art. 20 C. p. dispone: "Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa." Ora, il testo attuale dell’ultimo comma dell’art. 47 sull’affidamento in prova al servizio sociale dispone testualmente che "l’esito positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale". Pertanto, non vi è dubbio che, quali effetti penali, siano soggette ad estinzione anche le pene accessorie. Analogamente a quanto si è detto per le pene pecuniarie, la soluzione indicata per l’affidamente in prova vale anche per la liberazione condizionale, il cui contesto interpretativo, come si è osservato per le pene pecuniarie, è molto simile a quello dell’affidamento in prova e consente analoghe conclusioni. D’altronde, si può osservare che una misura casuale e generalizzata come il condono della pena principale, anche se parziale, comporta, il venire meno delle pene accessorie: quantomeno nei provvedimenti di condono recenti, anche se la regola dell’art. 174, comma 1, C.p., è opposta. E’ utile ricordare che il comma 12 dell’art. 47 dell’Ordinamento penitenziario si applica anche all’affidamento in prova in casi particolari: v, comma 6 dell’art. 94 D.P.R. 309/90. Restano estinte pertanto anche le pene accessorie eventualmente applicate ai sensi art. 85 del DPR predetto.
Le modifiche normative conseguenti a quanto ora osservato sono le stesse predisposte per la pena pecuniaria e già introdotte, per l’affidamento in prova, nel nuovo testo del comma 12 dell’art. 47 e, per la liberazione condizionale, nel comma 3 dell’art. 50quater. Le stesse già prevedevano l’effetto estintivo anche per le pene accessorie. A tali modifiche si rinvia.
2. Esecuzione della pena conclusa in semilibertà o in detenzione domiciliare, anche speciale, o in espiazione della pena in carcere
Se non vi è stata ammissione alle misure alternative dell’affidamento in prova e della liberazione condizionale, occorre pensare a soluzioni diverse. Il discorso va chiarito prima di dare indicazioni sulle soluzioni. Le pene accessorie problematiche, ai nostri fini, sono due fra quelle previste in generale dal Codice penale, nonché quelle previste per le violazioni delle norme penali del DPR 309/90 (Legge stupefacenti). E cioè: la interdizione dai pubblici uffici: art. 28 C.p.; la interdizione legale: art. 32 C.p.; il divieto di espatrio e il ritiro delta patente di guida: art. 85 T.U. 309/90.
Si possono solo sottolineare sommariamente gli effetti specifici di tali sanzioni ai fini che interessano e vedere quali interventi siano possibili. Si limita la nostra riflessione alle pene accessorie indicate, mentre non sembra possibile intervenire anche su altre.
2a. L’interdizione dai pubblici uffici
Ci si sofferma su un aspetto di tale pena accessoria: sull’effettivo contenuto del n. 2 dell’art. 28 C.p.. Interpretata correttamente, tale norma non preclude la assunzione presso pubbliche amministrazioni per attività lavorative che comportano semplici mansioni d’ordine o prestazioni d’opera meramente materiali. Basta al riguardo, leggere, come è necessario, la norma citata alla luce di quanto disposto dal comma 2 dell’art. 358, C.p., che dispone: "Per pubblico servizio deve intendersi una attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale." E’ indubbio, pertanto, che le attività ora indicate non sono affatto precluse dalla pena accessoria in questione. Si noti che vi sono amministrazioni comunali che prevedevano l’assunzione di detenuti come operatore ecologico in genere o come inserviente in servizi sanitari e simili. Al riguardo, però, molte amministrazioni ritengono precluse le assunzioni dalla interdizione dai pubblici uffici. Si è creata, quindi, una situazione di incertezza interpretativa che va chiarita con una esplicita previsione di modifica dell’art. 28. Si noti che la possibilità di tali inserimenti lavorativi è uno strumento prezioso per avviare o anche concludere l’inserimento sociale di una persona.
La stessa preclude tutte quelle attività che presuppongono il compimento di atti giuridici: che possono andare da uno specifico atto contrattuale per la costituzione di un rapporto di lavoro, subordinato o autonomo, alla partecipazione ad atti, come la costituzione di una società, particolarmente di una società cooperativa, che possono porre le condizioni per un successivo inserimento lavorativo. Quindi, anche questa pena accessoria certamente non agevola, ma più spesso ostacola il percorso di reinserimento del condannato nella società. Qui si tratta di riflettere sulla ammissibilità della incapacitazione della persona nell’ambito sociale (sembra presente una carica antica di messa al bando del colpevole), che risulta segnata da una filosofia di esclusione sociale del condannato, propria di una concezione della pena esattamente opposta a quella oggi affermata dalla Costituzione e richiamata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Si noti che qui non vi è un nesso specifico con il reato commesso, ma soltanto con la pena irrogata. Si ritiene che, dinanzi a tale norma, l’unico intervento possibile sia quello della soppressione. Nulla vieta, invece che sopravvivano le interdizioni specifiche previste dagli artt. da 32bis a 32 quinquies, che hanno contenuto limitato e sono giustificate dalla connessione con i particolari reati commessi.
2c. Le pene accessorie dell’art. 85 del DPR 309/90 (Legge stupefacenti): divieto di espatrio e ritiro della patente di guida
Le pene accessorie in esame hanno l’effetto di ridurre le opportunità di lavoro dei soggetti sanzionati. Il divieto di espatrio impedisce non solo il lavoro all’estero (ed è una possibilità tutt’altro che irrilevante), ma anche il lavoro in Italia che preveda lo svolgimento di prestazioni all’estero (caso dell’autotrasporto, della navigazione, di lavori comunque che si svolgano alle dipendenze di imprese italiane, ma in parte o in toto all’estero). Il ritiro della patente di guida è un handicap assoluto o relativo: assoluto nelle attività di lavoro in cui la patente è necessaria e relativo in tutte quelle in cui l’uso della stessa è più o meno indispensabile per raggiungere il luogo di lavoro. Non disporre della patente di guida è oggi una forma di grave incapacitazione della persona. E’ chiaro che la sanzione è stata voluta, in ragione dei suoi effetti dissuasivi, proprio per questo, ma è anche chiaro che, per il risultato incapacitante che produce e, in particolare, per il ritardo nel tempo di produzione dello stesso (alla fine della pena principale), tale sanzione ostacola e riduce fortemente le possibilità di inserimento al lavoro. C’è anche da chiedersi quale efficacia abbiano tali interventi nei confronti del condannato: non sarà certo ostacolato se intenda tornare a delinquere, mentre sarà ostacolato se intenda seguire un percorso di riabilitazione e di lavoro. Teniamo conto che il tutto avverrebbe quando si è ormai conclusa la esecuzione delle parti restanti della pena e, quindi, il condannato ha pagato il suo debito con la giustizia. Una soluzione potrebbe essere quella di prevedere forme di disapplicazione di tali norme, rimesse eventualmente ad un provvedimento dell’A.G. che, previo accertamento della sua situazione attuale, agevoli il processo di inserimento sociale e lavorativo in corso del condannato. Potrebbero essere previste forme di sospensione e successiva revoca, una volta verificato l’uso corretto che è stato fatto della sospensione della sanzione. Si ritiene, però, che sia preferibile la soluzione più netta della soppressione di tali pene accessorie, proprio in considerazione delle ragioni di questa disposizione normativa: che sono quelle di fare pesare la condanna, di non farne perdere il ricordo, di perseguire ancora il condannato dopo che la parte essenziale della condanna è stata sofferta. Tutto ciò, come detto fin dalla relazione generale, è contrario alla nuova finalizzazione della pena affermata dalla Corte Costituzionale e la risposta più logica a tali pene accessorie è quella della loro soppressione.
Le spese di giustizia e la remissione del debito
Da sempre è noto che l’attività necessaria per la riscossione delle spese di giustizia ha un costo decisamente superiore ai ricavi. In questa materia, inizialmente, nei lavori di preparazione per l’Ordinamento penitenziario vi erano state proposte di abolizione del debito del condannato per le spese. Questa soluzione radicale, però, è contrastata anche dal nuovo C.p.p., che, in epoca meno lontana, ha confermato tutte le disposizioni in materia di condanna alle spese. Siamo dinanzi a una questione che non dovrebbe essere abbandonata, ma indubbiamente questa non è la sede per affrontarla.
E’ invece la sede per cercare di ridurre l’impatto negativo del sistema attuale di esazione delle spese processuali e di migliorare la efficacia positiva del beneficio della remissione del debito, che può annullare le stesse. Anche qui si hanno esecuzioni in tempi imprevedibili, con gli stessi effetti negativi che caratterizzano la messa in esecuzione delle pene pecuniarie.
Risultano, comunque, possibili, tre interventi che favoriscono la semplificazione degli accertamenti in merito ai requisiti richiesti per la concessione della remissione del debito e favoriscono anche tempi più celeri nelle decisioni.
Il primo riguarda il requisito delle "disagiate condizioni economiche", sul quale gli accertamenti non sono semplici e che, aggiungo, è fonte di notevole eterogeneità di valutazione e decisione. Al riguardo si può contestualizzare meglio la situazione, ricordando che la gran parte dei casi riguarda soggetti che non versano in condizioni economiche agiate. I redditi dei condannati sono generalmente medio-bassi ed è raro trovare persone con cespiti patrimoniali immobiliari. Tutto si gioca pertanto sulla valutazione di questi redditi medio-bassi come tali da qualificare o meno le situazioni economiche disagiate richieste dalla normativa attuale. In tali situazioni il punto di vista personale del giudice è decisivo. Se la pena, poi, non è molto modesta, si tratta di decidere se una ulteriore riduzione di redditi medio-bassi per pagare una pena pecuniaria possa essere consentita anche quando incide su quote essenziali del reddito, utili per soddisfare indispensabili esigenze di vita. Una soluzione potrebbe essere quella di rovesciare il contenuto della condizione, prevedendo la esclusione del beneficio per coloro che si trovino in condizioni economiche agiate. Ma verosimilmente le incertezze applicative resterebbero nei pur rari casi in cui il problema si porrebbe. Ecco perché, in conclusione, si ritiene che il requisito relativo alle condizioni economiche possa essere eliminato. Tale eliminazione fa recuperare, d’altronde, la natura sostanzialmente premiale del beneficio, che si basa sulla regolarità della condotta, con la finalità di incoraggiare la stessa, finalità che esiste per tutti coloro che sono sottoposti alla esecuzione di una pena, quali che siano le loro condizioni economiche.
Il secondo intervento riguarda l’altra condizione, attinente, alla regolarità della condotta: si tratta di definire un parametro valutativo di più semplice e significativo accertamento. Si noti che, con sentenza n. 342/91, la Corte costituzionale ha dichiarato "la illegittimità costituzionale (dell’art. 56 Ordinamento penitenziario) nella parte in cui non prevede che, anche indipendentemente dalla detenzione per espiazione di pena o per custodia cautelare, al condannato possano essere rimesse le spese del procedimento se, in presenza del presupposto delle disagiate condizioni economiche, abbia serbato in libertà una condotta regolare". Per questo aspetto, pertanto, l’art. 56 deve essere necessariamente modificato. Si può allora proporre una modifica che riguardi tutte le situazioni e che semplifica e al tempo stesso rende più significativi gli accertamenti sulla regolare condotta. L’attuale normativa richiede che gli accertamenti siano compiuti con riferimento alla specifica esecuzione penale che ha dato origine al debito e ai connessi periodi di detenzione: il che comporta: di verificare il periodo o i periodi di detenzione in questione; di accertare i vari luoghi di detenzione durante quel periodo o quei periodi e la condotta tenuta negli stessi: va da sé che si avranno risposte del tutto formali, data la frequente risalenza nel tempo di molti periodi, e mai esaurienti rispetto alle indicazioni dell’art. 30ter dell’Ordinamento penitenziario. Tali accertamenti non sono semplici. Sarebbe più agevole e più logico, sempre nel quadro della premialità dell’istituto e della stimolazione alla regolare condotta, il richiamarsi alla attualità di questa. Non sarebbe necessario accertare i periodi di detenzione risalenti e la regolarità di condotta negli stessi, ma il tutto potrebbe essere riferito alla sola situazione attuale. Tale criterio rispecchia anche le indicazioni della sentenza costituzionale citata, sia pure circoscrivendo (ma rendendo così più agevole l’accertamento) il periodo di tempo di riferimento. Sarà bene chiarire che la regolarità della condotta fa riferimento alla finalizzazione della stessa al reinserimento nell’ambito sociale.
Terzo ed ultimo intervento. E’ indubbio che, la proposizione della istanza richiede un’unica condizione: la condanna al pagamento delle spese. Non si deve ritenere necessaria anche la liquidazione e la richiesta di pagamento del debito, che, fra altro, arriva sovente con moltissimo ritardo: si tratta di evitare l’effetto "spada di Damocle", che pende, pende e cade poi nel momento meno opportuno.
Per la remissione del debito può essere mantenuta la procedura a giurisdizionalizzazione piena oggi prevista.
Si deve chiarire che ci si riferisce qui alle sole misure di sicurezza nei confronti di soggetti imputabili, che si aggiungono, quindi, alla pena e che sono eseguite al termine della stessa. Questo discorso non coinvolge pertanto la misura di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario. Anche tali trattamenti penali hanno un effetto negativo sui processi d’inserimento sociale e in particolare su quello lavorativo: sia per gli effetti limitativi della libertà e delle possibilità di spostamento delle persone, sia per le conseguenze giuridiche che si possono accompagnare alla sottoposizione alla misura di sicurezza. Ricordiamo che il ventaglio di tali misure è ampio: ci sono quelle generali, che possono essere detentive o non detentive e sono elencate dall’art. 215 C.p., e quelle previste da normative speciali, come la espulsione dello straniero dallo Stato, prevista dall’art. 86 T.U. 309/90 (legge stupefacenti).
Una premessa. Affermata la utilizzazione della pena in funzione di riabilitazione e risocializzazione, prevista la sua conclusione attraverso misure alternative alla detenzione per dare concretezza a quella funzione, ci si chiede che senso abbia prevedere, al termine della esecuzione, la possibilità di una permanente valutazione di pericolosità sociale nei confronti di un soggetto e la applicazione di una misura di sicurezza. Certo, è possibile che, nei confronti di chi abbia dato scarse prove di risocializzazione nel corso della pena, un giudizio di pericolosità possa essere mantenuto, ma parrebbe che il c.d. doppio binario - pena + misura di sicurezza - previsto dal Codice Rocco, non sia in sintonia con la sempre più marcata sottolineatura della funzione rieducativa della pena, affermata dalla Corte Costituzionale. Per altro verso, quella parte della teoria penalistica che non condivide la sottolineatura ora detta della funzione rieducativa della pena e la connessa flessibilità della stessa attraverso un sistema di misure alternative in sede esecutiva, e che afferma un ritorno alla concezione classica della pena certa e immodificabile, anche se nel quadro di un diritto penale minimo nelle incriminazioni e nelle pene, non può non contestare la previsione di un ulteriore trattamento penale, per giunta indeterminato nella sua durata, quale quello delle misure di sicurezza. In conclusione: il sistema delle misure di sicurezza dovrebbe avere fatto il suo tempo. Tanto è vero che i progetti di riforma del codice penale (Progetto di legge delega per un nuovo codice penale, predisposto presso il Ministero di grazia e giustizia, c. d. bozza Pagliaro, aggiornato, negli anni più recenti, dai lavori della Commissione Grosso e disegno di legge per la sostituzione del I° libro del Codice penale, presentato da Ritz e altri, nelle legislature scorse), ne prevedono la soppressione. Resta, in sostanza, la sola misura di sicurezza nei confronti di soggetti non imputabili: l’ospedale psichiatrico giudiziario o equivalente.
La prima soluzione del problema è dunque quella ora accennata: sopprimere le misure di sicurezza nei confronti dei soggetti imputabili. Può essere una soluzione non immediata, ma è ormai quella che sembra largamente accettata.
Sono possibili ovviamente soluzioni più immediate e di minore respiro, che sono quelle che si propongono qui. Al proposito, conviene distinguere, ancora una volta, fra i casi in cui la pena è stata eseguita o quantomeno si è conclusa in affidamento in prova o in liberazione condizionale e i casi in cui ciò non è avvenuto.
1. Esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale
La situazione è diversa nei due casi indicati. Nella liberazione condizionale il problema è già risolto dall’art. 177, comma 2, C.p, che dispone: "Decorso tutto il tempo della pena inflitta, ovvero cinque anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale, se trattasi di condannato all’ergastolo, senza che sia intervenuta alcuna causa di revoca, la pena rimane estinta e sono revocate le misure di sicurezza personali, ordinate dal giudice con la sentenza di condanna o con provvedimento successivo." Di questo testo è stata proposta la modifica nelle pagine che precedono per chiarire che la estinzione della pena investe anche la pena pecuniaria e le pene accessorie. Si veda il comma 3 dell’art. 50quater, che riscrive l’art. 177 C.p.. Quanto alle misure di sicurezza, dunque, lo stesso è già pienamente in linea con quanto sopra sostenuto. Diverso il discorso per l’affidamento in prova, anche se la soluzione normativa per la liberazione condizionale, risalente fra l’altro, ad anni lontani, indica chiaramente che la stessa soluzione può essere adottata per l’affidamento in prova. Secondo alcuni interpreti questa è già la conclusione da trarre col testo vigente, anche se l’art. 47 dell’Ordinamento penitenziario non la esplicita. Va, in effetti, ricordato, che il testo originario dell’art. 47, al comma 1, prevedeva che, quando alla pena seguiva una misura di sicurezza detentiva, l’affidamento in prova era inammissibile. Tale previsione è venuta meno con le modifiche della L. 10/10/1986, n. 663. L’affidamento in prova è quindi ritenuto compatibile con la applicazione di una misura di sicurezza detentiva. E se la prova della misura alternativa ha esito positivo, la logica vuole che la indicazione di pericolosità sociale, insita nella applicazione della misura di sicurezza, perda completamente rilevanza. A questo punto, tenendo conto che, con le successive modifiche in materia di effettiva esecuzione delle misure di sicurezza, introdotte dagli artt. 658 e 679 C.p.p., occorrerebbe comunque un accertamento di pericolosità sociale attuale del soggetto per applicare la misura di sicurezza, sembra di dovere concludere che, conclusa positivamente la prova in affidamento al servizio sociale, la misura di sicurezza non sia da eseguire. E’ ovvio che questo vale anche per la misura di sicurezza della espulsione dello straniero dal territorio dello Stato. Si ritiene, però, che sia opportuno rendere esplicita questa conclusione, aggiungendo all’ultimo comma dell’art. 47, già modificato nelle pagine che precedono, la stessa parte conclusiva dell’art. 177, comma 2, C.P.. Tale modifica è già stata apportata, per l’affidamento in prova al servizio sociale, al comma 12 dell’art. 47 modificato, cui si rinvia.
2. Esecuzione della pena conclusa in semilibertà o in detenzione domiciliare, anche in detenzione domiciliare speciale, o in esecuzione in carcere.
E’ indubbio che, nei casi ora in esame, il sistema attuale esclude ogni automatismo, così che la applicazione della misura di sicurezza si ricollega ad una valutazione di pericolosità sociale attuale, che viene operata dal magistrato di sorveglianza, come previsto dagli artt. 658 e 679 C.p.p., già richiamati. E’ utile, comunque, sottolineare la esigenza di un accertamento di pericolosità particolarmente completo quando la pena si è conclusa di recente e vi è stata la regolare fruizione di semilibertà o di detenzione domiciliare o, almeno, vi è stata, durante la esecuzione in carcere, la regolare fruizione della riduzione pena per liberazione anticipata o dei permessi-premio o del lavoro all’esterno. Nel caso, comunque, che la misura di sicurezza abbia esecuzione, si dovrebbero porre in evidenza due punti essenziali. Il primo è che la esecuzione della misura di sicurezza dovrebbe recuperare le finalità di reinserimento che non hanno avuto attuazione nella esecuzione della pena. Se la misura di sicurezza è detentiva e la pericolosità sociale non venga esclusa, il magistrato di sorveglianza decidente può richiamare la necessità della utilizzazione del periodo detentivo della misura di sicurezza per offrire, all’internato da parte degli operatori, occasioni di inserimento sociale. Se la misura di sicurezza non è detentiva, le prescrizioni di questa devono essere finalizzate a non ostacolare in alcun modo l’eventuale svolgimento di un’attività di lavoro. Deve essere, d’altronde, possibile allo stesso magistrato che dispone la esecuzione della misura di sicurezza di disapplicare quelle norme che comunque ostacolino lo svolgimento di attività lavorative durante lo svolgimento delle misure: ci si riferisce alle norme che determinano il mancato rilascio o la revoca della patente di guida (sempre che non se ne attui la abrogazione, come indicato più oltre) o altre norme che ricollegano alla applicazione delle misure di sicurezza conseguenze limitative della possibilità di inserimento e svolgimento di attività di lavoro da parte dell’interessato. Nell’articolato si provvede attraverso l’aggiunta di nuovi commi all’art. 679 C.p.p.. Negli stessi si introducono anche previsioni specifiche per la misura di sicurezza della espulsione dello straniero dal territorio dello Stato. Effetti penali ed extrapenali della condanna
Alle condanne si ricollegano una serie di conseguenze aventi caratteristiche diverse, ma che, sovente limitano le possibilità di inserimento lavorativo degli interessati.
1a. Esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova o in liberazione condizionale.
Si è già citato, parlando delle pene accessorie, l’art. 20 C.p., che dispone: "Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa". Considerate pertanto, come la norma citata fa, le pene accessorie quali effetti penali della condanna, si sono già tratte le conseguenze sulle stesse. Si deve valutare ora la situazione per gli altri effetti penali. Per questi, si è già detto che, nei casi di esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale, gli effetti penali della condanna si estinguono. Se ne trova una applicazione, indubbiamente rilevante, nell’art. 106 C.p., che dispone: "Agli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato, si tiene conto altresì delle condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena." "Tale disposizione non si applica quando la causa estingue anche gli effetti penali." E abbiamo veduto che le due misure alternative alla detenzione citate (la liberazione condizionale, per vero, attraverso le modifiche apportate con questo testo) estinguono, appunto, gli effetti penali: pertanto, quelli di cui all’art. 106 non si produrranno per le pene che hanno fruito delle misure stesse. Si ritiene, pertanto, che si debba richiamare il nostro intervento, già compreso e chiarito in modo più esauriente con le modifiche, proposte nelle parti precedenti: per l’affidamento in prova al servizio sociale, nel comma 12 dell’art. 47 dell’Ordinamento penitenziario e, per la liberazione condizionale, nel comma 3 dell’art. 50quater, che riscrive l’art. 177 C.p.
1b. Esecuzione della pena conclusa in misure alternative diverse da quelle sub 1 o senza ammissione a misura alternativa.
Quando la esecuzione della pena non si è svolta o conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale, non sembra si possano ipotizzare soluzioni particolari, in specie di carattere estintivo. Si ritiene che le soluzioni possibili non siano dissimili da quelle che si esaminano qui di seguito per gli effetti delle pronunce penali sulle normative non penali. Si rinvia pertanto alle considerazioni e conclusioni sviluppate nelle righe successive.
Occorre una messa a punto sul problema degli effetti sulle normative non penali, discendenti come conseguenza da condanne penali o, in genere, da provvedimenti penali, come la dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato o la applicazione di misure di sicurezza. Un primo rilievo è questo: non si possono avere soluzioni diverse a seconda del diverso regime della esecuzione penale: quali che siano le misure alternative fruite o se le stesse non siano state fruite affatto, gli effetti e i problemi relativi sono identici. Per tali effetti, il problema non è tanto quello di individuarli nella varia legislazione in materia, in cui sono dispersi, ma è, invece, quello di coglierne le conseguenze negative sull’inserimento sociale e, in particolare, su quello lavorativo delle persone e di individuare uno strumento che possa impedire tali conseguenze. A puro titolo esemplificativo, certamente sommario e non esaustivo, possiamo indicare una breve casistica di tali effetti extrapenali: - l’ostatività di condanne o di pregresse dichiarazioni di abitualità o di applicazioni di misure di sicurezza, alla iscrizione al registro degli esercenti commerciali (REC): evidenti le limitazioni all’inserimento in una attività di lavoro; - l’ostatività delle stesse pronunce penali alla iscrizione o reiscrizione ad albi professionali relativi alle più diverse attività; - l’ostatività delle stesse pronunce penali ad attività legate al rilascio di una licenza di polizia; - uno dei casi più rilevanti, per la incidenza pratica che presenta, è quello che riguarda la patente di guida per auto o motoveicoli: il rilascio o il mantenimento di questa è legato alla presenza di "requisiti morali di idoneità" (v. art. 120 del Nuovo Codice della Strada), che si ritengono assenti quando ricorrono: precedenti di una certa entità, dichiarazioni di abitualità, applicazione di una misura di sicurezza.
Possiamo individuare due tipi di interventi.
In primo luogo, occorrerebbe effettuare una ricognizione delle singole disposizioni a contenuto ostativo, alcune delle quali possono esser ragionevoli, mentre altre non lo sono affatto. In sostanza, nella sede di tale ricognizione, una parte di tali disposizioni dovrebbero venire meno, perché ormai ingiustificate. In presenza di una pena che ha mutato natura e che deve essere volta alla riabilitazione e al reinserimento sociale del condannato, la presenza di norme che ostacolano il suo inserimento sociale impone una ricognizione e verifica della loro compatibilità con le nuove finalità della pena. Una ricognizione quale quella indicata non è però possibile in questa sede, anche se possiamo, quantomeno, soffermarci su un caso, che affrontiamo qui di seguito.
Infatti, fra le normative che potrebbero essere ragionevolmente soppresse, se ne può, senz’altro, individuare una, cui si è già accennato, ed è quella relativa "ai requisiti morali per ottenere il rilascio della patente di guida", richiesti dall’art. 120 del Codice della strada. Parlare di requisiti "morali" sembra decisamente improprio. Sia perché, per il rilascio e la conservazione della patente, servono requisiti fisici e psichici, sulla cui verifica tutti gli accertamenti sono legittimi. Parlare di requisiti morali, definiti, d’altronde, con esclusivo riferimento alla storia giudiziaria di una persona, sembra davvero fuori luogo. Il discorso, comunque, è semplice: la patente di autorizzazione alla guida di auto e motoveicoli è uno strumento usuale nella vita delle persone: escludere da questo strumento è una forma di incapacitazione della persona, che ha riflesso sulle sue normali possibilità di vita, sul suo inserimento sociale e particolarmente su quello lavorativo. La patente di guida degli auto e motoveicoli è materia del ministero dei trasporti, aprirla anche a valutazioni del ministero degli interni, come accade con la normativa in questione, è un modo improprio di affrontare la questione: aprendo ad una possibile gestione di polizia (con gli abusi abbastanza inevitabili) le valutazioni e i pareri da cui può dipendere il rilascio della patente. Questa normativa deve, pertanto, essere soppressa.
Possiamo, però, prevedere anche un intervento più modesto della soppressione delle normative in questione. Si può introdurre nell’Ordinamento penitenziario una disposizione che rimetta a un organo giudiziario, che può essere sempre quello che segue la concreta esecuzione della pena, cioè il magistrato di sorveglianza, la concessione di un nulla osta perché nei singoli casi, a seguito di idonea verifica, possa non tenersi conto della normativa ostativa. Questo non vincola l’organo competente ad adottare una data decisione, ma consente allo stesso di non tenere conto della preclusione stabilita dalla legge. Ed è logico che il nulla osta al superamento della preclusione venga espresso dal magistrato di sorveglianza, che, essendo l’organo che segue la esecuzione della pena, può esprimere una valutazione adeguata al riguardo. Si prospetta questa soluzione in quanto la stessa ha avuto applicazioni pratiche a seguito di intese fra le prefetture e la magistratura di sorveglianza. Anche qui si può distinguere fra i casi in cui la pena è stata eseguita o conclusa in misura alternativa, nei quali il nulla osta di cui si è parlato può essere più scontato, e i casi in cui la pena è stata eseguita senza momenti alternativi alla detenzione. In tutti i casi, comunque, il rilascio del nulla osta da parte del magistrato di sorveglianza va rimesso ad una sua verifica, tramite accertamenti del servizio sociale e, ove occorra, anche di polizia, che verifichino la reale utilità dell’intervento nel processo di inserimento sociale e lavorativo del soggetto. In tal senso si procede, pertanto, alle ulteriori modifiche legislative, che si realizzano con alcuni articoli subalterni all’art. 57 O.P..
Disposizioni di agevolazione all’inserimento sociale e lavorativo
Per vicinanza di tema, è utile inserire, qui, anche alcune riflessioni ed interventi per introdurre disposizioni positive di agevolazione all’inserimento sociale e lavorativo. Il tema è strettamente legato, per la sua finalizzazione, a quello esaminato fin qui.
Si mettono in evidenza le seguenti questioni.
La prima riguarda gli stranieri sottoposti ad esecuzione penale. Deve essere chiarito, al di là dei dubbi ingiustificati, ma largamente esistenti, che, quando la persona condannata deve stare nello Stato perché sottoposta o da sottoporre ad esecuzione penale, compresa quella della pena pecuniaria, non è necessario alcun permesso di soggiorno per il suo inserimento lavorativo o abitativo. La corretta esecuzione della pena, anche con la fruizione dei benefici penitenziari, dovrebbe poi influire sulla sua espulsione o meno dallo Stato, all’esito della esecuzione stessa. In proposito, vi sono previsioni nell’ambito delle modifiche dell’art. 679 C.p.p.. In particolare, si dispone che la decisione sulla espulsione in sede giudiziale deve prevalere sulla espulsione adottata in sede amministrativa, salvo che quest’ultima non abbia giustificazioni immediate specifiche attinenti all’ordine pubblico.
Altra questione. Può considerarsi legittima la richiesta fatta a coloro che vengono assunti in un’impresa privata di produrre il certificato penale? Non è in giuoco anche qui il diritto alla riservatezza? È vero che tale documentazione è richiesta per l’assunzione in un ente pubblico, ma, in tal caso, vi sono disposizioni di legge che giustificano la richiesta. Là dove tali disposizioni mancano, quali soluzione si debbono dare al problema ora posto? La risposta a tali domande sta nelle conseguenze che ha poi la produzione del certificato penale. Si determina una situazione di discriminazione, che rende difficile il recupero sociale di una persona pur dopo che la stessa ha regolarmente espiato la propria pena. E allora non c’è che da vietare tale prassi.
I vari punti esaminati in questa parte della relazione si traducono nelle modifiche normative, inserite nel Capo II° di questo titolo II°.
Sezione III. Relazione al Capo III° del Titolo II° sulla magistratura di sorveglianza
Si è già accennato che, nel quadro della generale revisione della distribuzione della normativa contenuta nell’Ordinamento penitenziario, si è ritenuto di togliere le disposizioni relative alla magistratura di sorveglianza dal titolo II°, dedicato alla "organizzazione penitenziaria". La collocazione che si propone è quella del titolo dedicato alle misure giurisdizionali in materia penitenziaria, nel quale vanno a collocarsi correttamente le norme sulla magistratura di sorveglianza, che, col Capo III°, concludono il titolo stesso. D’altronde, pur assumendo una propria autonomia con il titolo II°, la parte sulle misure giurisdizionali, resta legata a quella contenuta nel titolo I°, dedicata alle regole e alle misure più strettamente penitenziarie: E’ vero che qui sono presenti anche importanti interventi del magistrato di sorveglianza, come quello sui permessi (art. 30 e segg.) e quello sui reclami (art. 35), il secondo introdotto a seguito della sentenza costituzionale n. 26/99. Ma tali norme sembrano più interne alla fase penitenziaria e giustificano la collocazione praticata, anche se presentano momenti non solo giudiziari, ma anche propriamente giurisdizionali. Questa distinzione fra fase dell’intervento penitenziario e fase giurisdizionale non deve, comunque, fare dimenticare il filo che lega entrambe ed è la proposta, la costruzione e il sostegno del percorso di rieducazione-riabilitazione-risocializzazione del condannato attraverso il tempo della esecuzione della pena. La fase giurisdizionale, d’altronde, introduce alle misure alternative alla detenzione e, quindi, ancora ad un periodo di esecuzione della pena, anche se in regime diverso da quello detentivo. Si crea, così, accanto all’area della esecuzione penale interna al carcere, l’area della esecuzione penale esterna, che ha profondamente modificato la struttura della esecuzione penale nel suo complesso. Si sottolinea, quindi, con la nuova collocazione normativa, da un lato, una necessaria distinzione sistematica ed organizzativa, pur confermando, dall’altro lato, lo stretto rapporto che lega il quadro penitenziario nella sua totalità. Anche per questo Capo III° la numerazione degli articoli è autonoma e dovrà essere rivista al momento del riordino dell’articolato complessivo.
La specificità della magistratura di sorveglianza
E’ abbastanza ovvio partire dalla considerazione che l’oggetto del processo penale di cognizione e quello dell’intervento giurisdizionale di sorveglianza sono molto diversi. Il primo riguarda i fatti e il loro svolgimento, il secondo la persona condannata, attraverso lo sviluppo del suo percorso carcerario, prima, e della sua vicenda di rientro sociale poi: e ciò vale anche se il percorso carcerario non c’è stato o non è attuale, ma si tratta di identificare il percorso sociale, come in occasione di istanze di misura alternative dalla libertà. Sono oggetti diversi, che richiedono impegni di ricerca diversi e strumenti interpretativi diversi per lo sviluppo di questa ricerca. All’interno della identificazione di ricerca e ruolo e complessivamente della funzione della magistratura di sorveglianza, c’è anche l’affiancarsi all’esame sul percorso carcerario e sociale della persona, del richiamo alla pericolosità della stessa. Può confondersi la chiarezza della funzione. In materia di permessi, l’elemento della pericolosità è introdotto e non manca un analogo richiamo in materia di misure alternative quando entrano in giuoco i delitti previsti dall’art. 4bis del testo vigente o 54bis del presente articolato. Vi è, poi, è vero, una materia, quella delle misure di sicurezza in cui il criterio di valutazione è proprio quello della pericolosità sociale. Bisogna, però, chiarire il rapporto fra il discorso sulla pericolosità della persona e quello sul suo percorso penitenziario e sociale. Se i due piani si confondono, la dinamica della ricerca e della funzione penitenziaria si bloccano. Il discorso sulla pericolosità rischia di diventare pregiudizio e discriminazione, se non viene tenuto come uno degli elementi della presa di contatto con il caso da esaminare. E’ chiaro che si deve conoscere il reato commesso, la storia giudiziaria della persona, accanto e insieme alla sua storia esistenziale, alla sua situazione sociale e familiare. Ma, dopo questa presa di contatto, il discorso principale è quello della sua vicenda e dello sviluppo del suo percorso penitenziario. I richiami normativi sulla pericolosità, d’altronde, richiedono un dato necessario della pericolosità che conta: la attualità della stessa. Giudizio tutt’altro che semplice, che rischia in molti casi di ricadere nel pregiudizio, quando la valutazione della gravità dei reati commessi produce la convinzione che la pericolosità espressa in passato non possa essersi cancellata. Andrebbe aggiunto che, in materia di misure di sicurezza, il giudizio sulla pericolosità sociale, sulla necessità della cui attualità la legge è molto esplicita,deve essere sempre inquadrato nella finalizzazione alla riabilitazione sociale delle stesse misure di sicurezza. Si può dire allora che il problema della pericolosità e del suo rapporto con l’oggetto proprio dell’intervento della magistratura di sorveglianza pone un ulteriore elemento di complessità della funzione, ma non può assolutamente bloccarla. E’ e deve restare uno strumento significativo, che, però, deve aiutare il concreto esprimersi della funzione e non impedirla. Questo non fa che rafforzare la considerazione che la specificità della attività richieda nei magistrati assegnati una puntuale consapevolezza dei fini e la disponibilità degli strumenti conoscitivi necessari per realizzarli. La specificità della funzione chiama, quindi, la specificità di risorse e di preparazione necessarie per svolgerla. E’ quanto si indica al comma 2, modificato, dell’art. 1 di questo Capo III°, che interviene in varie parti dell’art. 68 del testo vigente. Con la modifica, si sottolinea la esigenza di una particolare preparazione per svolgere la funzione di magistrato di sorveglianza, particolare preparazione che fa riferimento ad una formazione teorica e ad una formazione pratica. La magistratura di sorveglianza agisce ormai da quasi 30 anni, durante i quali ha lamentato sovente uno scarso apprezzamento del proprio lavoro, una situazione di dequalificazione. In qualche misura ciò è accaduto, ma sostanzialmente perché non si è preso atto della specificità del lavoro e non si è fatto corrispondere alla stessa la esigenza della specificità delle risorse professionali. Si noti che la situazione era aggravata dalla incompletezza e approssimazione del lavoro più strettamente penitenziario, determinata dalla insufficienza degli operatori della osservazione e del trattamento e dalla inadeguatezza delle attività relative in carcere e nel settore penitenziario in genere. Il materiale offerto all’intervento della magistratura di sorveglianza era di qualità insufficiente e non stimolava una attività qualificata della stessa. Ma questa serie di inadeguatezze non è fatale e non si è costretti a subirla. Al contrario, la strada da battere è quella di superare le inadeguatezze, di portare il livello della attività penitenziaria a quello che la legge richiede e di chiedere analogamente qualità alla magistratura di sorveglianza, ponendo corrispondentemente le condizioni perché la risposta sia all’altezza della importanza della domanda. Si è posto il problema se queste formazione, preparazione e azione specifiche della magistratura di sorveglianza possano turbare la oggettività del suo operare, compromettano la neutralità che si richiede ad un organo giudiziario, la terzietà che dovrebbe essere propria dello stesso. Ma su queste perplessità è necessario fare chiarezza. Si manifesta qui la profonda differenza, ricordata all’inizio, fra la posizione del giudice della cognizione e quella del giudice di sorveglianza, in ragione della diversità di funzione e di ruolo. Per il primo ogni occasione di preventiva conoscenza del caso deve essere esclusa. Per il secondo, la struttura organizzativa del suo lavoro e degli uffici in cui opera, è in funzione del formarsi di tale conoscenza e della utilizzazione della stessa nel corso degli interventi che gli vengono successivamente richiesti. Così che non solo le decisioni monocratiche dovranno essere adottate dal giudice che ha seguito la detenzione delle persone interessate (e ciò avverrà attraverso la funzione di sorveglianza generica sugli istituti e attraverso gli interventi specifici sulle persone con i permessi e quant’altro), ma le decisioni collegiali dovranno vedere la partecipazione di quello stesso giudice, che potrà portare nel collegio il valore, non l’inconveniente, della sua conoscenza di persone e situazioni: art. 70, comma 6, O.P.. Il fatto è che la magistratura di sorveglianza, indubbiamente con la indipendenza e oggettività della sua funzione giurisdizionale (anche se non sempre, ma quasi sempre giurisdizionalizzata), è dentro la dinamica del processo riabilitativo che anima la esecuzione penale e deve servire tale dinamica. Se si teme che questo possa "compromettere" il giudice, turbarne la terzietà, si deve essere consapevoli che questo equivale puramente e semplicemente al rifiuto della funzione. La tentazione c’è e si esprime nella richiesta di anticipare la determinazione delle modalità esecutive al momento stesso della sentenza. Ma ciò, come si è detto ora, equivale a negare la flessibilità della esecuzione della pena nella fase della esecuzione, che è, invece, la chiara indicazione della giurisprudenza costituzionale. Questo timore della flessibilità della esecuzione della pena (che ha anche animato, ad esempio, i due progetti noti, Pagliaro e Grosso, di legge delega per un nuovo codice penale, non arrivati, comunque, alla sede legislativa) deriva dalla convinzione che la flessibilità produca una eccessiva discrezionalità e una incontrollabile incertezza della pena. Di qui la convinzione che sia preferibile il recupero alla fase di cognizione e alla sentenza di condanna della determinazione delle modalità di esecuzione della pena. Ma, a prescindere dal fatto che, in tal modo, si passa sopra alla giurisprudenza costituzionale sulla flessibilità, si trascura che la anticipazione alla sentenza della determinazione delle modalità esecutiva sposta a tale fase il lamentato inconveniente della discrezionalità e, inoltre, fa decidere modalità esecutive in ordine a persone e situazioni sostanzialmente sconosciute: così che, dove si è provato a progettare concretamente questo, si è previsto un intervento successivo della magistratura di sorveglianza, fatta sopravvivere soltanto per la determinazione in concreto di quelle modalità esecutive determinate (al buio) in sentenza. Si può concludere. Il riconoscimento della specificità delle funzioni della magistratura di sorveglianza e la qualificazione corrispondente della stessa sono la via da battere per ridurre la discrezionalità e le ricadute sulla incertezza della pena, che possono avere accompagnato le decisioni dei giudici di sorveglianza. E sono inoltre il modo di dare solidità applicativa alla giurisprudenza costituzionale sulla flessibilità.
Esigenze organizzative dei tribunali e degli uffici di sorveglianza: le risorse necessarie
1. La necessità della tempestività
La tempestività degli accertamenti e delle decisioni è una necessità di qualsiasi attività giudiziaria, necessità che, purtroppo non è soddisfatta dalla nostra organizzazione giudiziaria. Se c’è, però, una materia nella quale tale necessità è ineludibile, questa è quella della sorveglianza. Ciò è ben comprensibile quando le procedure hanno ad oggetto una persona detenuta. Sia che si debba decidere per tale persona, a seguito di una istanza di permesso o di misura alternativa, sia che si debba decidere contro la stessa, per la eventuale revoca degli stessi benefici, una decisione tardiva, e spesso pesantemente tardiva, equivale a una non decisione. Perché, al limite,può intervenire quando la pena è conclusa o, comunque, quando le situazioni si sono modificate e mutate: e, anche se così non fosse, si è inflitto un ulteriore periodo di detenzione ordinaria privo di una ragione accettabile. Come è noto, però, molte procedure, in specie dei tribunali di sorveglianza, riguardano persone libere. Per le misure alternative, oltre i due terzi delle procedure, a seguito dell’operare della legge Simeone-Fassone-Saraceni, nascono da istanze di persone in stato di libertà. Ebbene, non è che, in questi casi, il ritardo delle decisioni sia meno grave, meno inaccettabile. Intanto, precisiamone la entità. Il ritardo di queste procedure non si esprime in mesi, ma in anni. Le procedure in attesa di fissazione di udienza, stando alle notizie più recenti, sono oltre 80.000, con una inesorabile direttrice di crescita. Un simile arretrato equivale, approssimativamente, ad almeno due anni di lavoro del sistema complessivo dei tribunali di sorveglianza. Definita la dimensione quantitativa del fenomeno, se ne possono sottolineare tre aspetti di estrema gravità. Il primo aspetto riguarda il blocco nei fatti della attività del sistema dei tribunali di sorveglianza, che, con il proprio lavoro attuale, incide soltanto sulla superficie della massa delle procedure, che, nel frattempo, diviene sempre più grande. Il secondo aspetto riguarda il sistema della esecuzione penale. La situazione descritta crea una disfunzione al limite del collasso. E’ inammissibile che vi siano esecuzioni pendenti da due anni per pene che, sovente, non sono affatto irrisorie: sappiamo, addirittura, che possono essere pene (residue) di 3 o 4 anni ( nel secondo caso, se si tratti di tossicodipendenti), qualcosa che rappresenta una percentuale importante della esecuzione penale. La disfunzione, o collasso che sia, riguarda, quindi, una parte estremamente significativa di tutta la esecuzione penale. Il terzo aspetto riguarda gli stessi interessati. Se il loro interesse è di non eseguire la pena o di rimandarne di molto tempo la esecuzione, saranno soddisfatti: si tratta proprio di coloro che hanno meno voglia di cogliere la esecuzione della pena come occasione di riabilitazione. Ma se il loro interesse è di utilizzare una situazione di reinserimento attuato o attuabile, di cogliere una occasione di riabilitazione che loro si offre (pensiamo alla attuazione di un programma terapeutico avviato o in fase di avviamento), tuttociò verrà compromesso e frustrato. Conclusione: il problema della tempestività degli interventi della magistratura di sorveglianza è essenziale e ineludibile: se non lo si affronta e risolve, collassa il sistema della esecuzione penale.
2. Le risorse necessarie per il recupero di funzionalità del sistema della magistratura di sorveglianza
Il primo testo dell’Ordinamento penitenziario aveva una tabella allegata che definiva le sedi giudiziarie della magistratura di sorveglianza. Quella tabella ha perso di attualità nel senso che era basata sulla distribuzione a quel tempo degli istituti di prevenzione e pena sul territorio. Oggi, vi sono state modifiche alla distribuzione di allora e soprattutto il lavoro della magistratura di sorveglianza è stato fortemente accresciuto dalle procedure concernenti persone libere. Per questa parte della attività, è rilevante la entità della popolazione di un dato territorio e, quindi, un criterio non tenuto in alcun modo presente in passato.. Il problema, però, non è tanto quello della distribuzione delle sedi sul territorio quanto quello della distribuzione delle risorse di organico del personale assegnato alle stesse: magistrati e collaboratori. La legge non può scendere alla definizione degli organici, che, infatti, nell’art. 1, comma 5, è rimesso alle sedi competenti, ma indica, al comma 6, i criteri cui ci si deve riportare. Questi criteri riguardano il numero dei detenuti e degli internati, quello delle persone sottoposte a misure alternative alla detenzione, nonché quello delle misure di sicurezza e delle sanzioni sostitutive seguite dai singoli uffici. Sempre al comma 5 dell’art. 1, si dispone che si deve partire da una nuova e sollecita definizione degli organici, sia dei magistrati che del personale, e che occorrerà periodicamente riesaminare ed aggiornare gli stessi. Al comma 8 dello stesso art.1, ci si sofferma su un punto essenziale per una corretta determinazione degli organici. Il problema essenziale di questi ha sempre riguardato e riguarda soprattutto le sedi capoluogo del distretto in cui coesistono tribunale e ufficio di sorveglianza. La recente l. 19/12/2002, n. 277, ha spostato la competenza in materia di liberazione anticipata, almeno in prima battuta, al magistrato di sorveglianza, determinando un qualche sollievo nella gravosità del lavoro dei tribunali. Ma resta irrisolto un nodo di fondo. Gli uffici di sorveglianza capoluogo di distretto hanno un organico unico, cui si attinge per la organizzazione del tribunale e per quella dell’ufficio: e, generalmente, è il tribunale che assorbe la parte preponderante delle risorse. Ma la questione da cogliere è che il lavoro dell’ufficio del magistrato di sorveglianza del capoluogo del distretto è generalmente quello largamente più gravoso fra tutti gli uffici periferici di quel dato distretto. Questo accade nel numero prevalente delle sedi, particolarmente delle maggiori: in queste si concentrano, infatti, generalmente, gli istituti di pena più grandi e, quindi, un maggior numero di detenuti e, inoltre, un numero di misure alternative, misure di sicurezza e sanzioni sostitutive più elevato in ragione della maggiore entità della popolazione. In linea di massima il complessivo lavoro degli uffici del magistrato di sorveglianza del capoluogo equivale, se non è addirittura superiore, alla somma del lavoro delle sedi periferiche, ma il personale utilizzato dall’ufficio capoluogo, dopo il necessario tributo di risorse per il lavoro del tribunale, è incomparabilmente inferiore alla somma del personale disponibile per gli uffici periferici. E si noti che il recente passaggio di competenza per la liberazione anticipata non ha fatto che riprodurre la distorsione, in quanto è stato inevitabilmente molto maggiore per l’ufficio capoluogo che per quelli periferici. Conclusione: si ribadisce la necessità, per gli uffici di sorveglianza capoluogo del distretto, di organici distinti del personale per il tribunale e di quello per l’ufficio del magistrato di sorveglianza (monocratico).
La organizzazione del lavoro giurisdizionale e non giurisdizionale
Una analisi del formarsi di pesanti arretrati nel sistema della magistratura di sorveglianza può portare a porre in evidenza la minore efficienza e la maggiore lentezza del lavoro di alcune sedi rispetto alle altre. Le ragioni possono essere diverse e, in particolare, è indubbio che maggiore è la dimensione della sede, maggiore diviene la difficoltà di gestire lo svolgimento del lavoro e di impedire il formarsi dell’arretrato, che ha, una volta formato, una propria, inesorabile dinamica di rallentamento e di riproduzione. All’intervento sulla massa dell’arretrato, particolarmente di quello riguardante le domande delle persone a esecuzione sospesa (ex lege Simeone-Fassone-Saraceni), sarà dedicata la pagina successiva. Qui ci si sofferma sui tempi e le modalità dello svolgimento del lavoro ordinario, che affluisce nel corso di un anno. Si parte da una affermazione ovvia e sostanzialmente lapalissiana: nell’anno vanno definite lo stesso numero di procedure che vengono registrate in entrata. Ma, dopo questo esordio, che potrebbe essere anche sottaciuto, ci si sofferma su alcune modalità essenziali della organizzazione del lavoro, tese a dettare i tempi dello stesso e la sua speditezza. Anche queste indicazioni possono sembrare ovvie, ma sono sovente trascurate e consentono l’innesco della dinamica di rallentamento del lavoro, che, in breve, determina il formarsi dell’arretrato. Richiamare, quindi, a queste modalità organizzative appare decisamente opportuno. Ecco, allora, i punti essenziali da tenere presenti, indicati ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 5. Primo punto. La registrazione tempestiva delle procedure è essenziale. Vi sono periodi critici nei quali può accadere che non ci si attenga a questa regola. Questo determina inevitabili complicanze nel lavoro (duplicazioni di istanze, difficoltà di unione di atti, etc.) ed è molto difficile recuperare successivamente e aggiornare le registrazioni. Secondo punto. Per il lavoro giurisdizionale è essenziale una sollecita fissazione della udienza, che dà i tempi al lavoro preparatorio. Dà il tempo, in particolare, agli uffici ai quali vengono richieste informazioni, documentazioni e relazioni. Se le richieste sono senza indicazione della data di udienza,avranno tempi di risposta imprevedibili e sicuramente non brevi. Dopo l’invio delle richieste con la annotazione della data di udienza, occorreranno, comunque, sistematici solleciti poco prima della stessa così da ottenere l’evasione delle richieste in via d’urgenza. Si noti che non è necessaria una fissazione estremamente veloce delle udienze, che difficilmente consentirebbe lo svolgimento e l’acquisizione dei dati informativi necessari (il termine di 45 giorni dal ricevimento dell’istanza, previsto dall’art. 656, comma 6, C.p.p., è poco realistico, particolarmente per le relazioni di osservazione e dei centri di servizio sociale). L’essenziale è indicare una data ragionevole e imporre e imporsi, con questa, i tempi per l’istruttoria e la decisione. Terzo punto. Bisogna prevedere una procedura urgente per le procedure che lo richiedano e in tal caso si deve ipotizzare la disapplicazione dei termini dilatori dati dall’art. 666, comma 3, per la fissazione della udienza. Quarto punto. Sulla linea del terzo punto, si ritiene di dovere modificare l’art. 69bis, comma 2, introdotto con la recente legge 19/12/2002, n. 277. Questo è effettuato all’art. 3 del nuovo testo. La semplificazione della procedura dinanzi al magistrato di sorveglianza per le decisioni in materia di liberazione anticipata, disposta dal comma 1 del citato articolo 69bis, è opportuna, ma va applicata fino in fondo: se il contraddittorio è eventuale, risulta del tutto superflua la richiesta del parere del pubblico ministero, richiesta obbligatoria, ma risposta del P.M. facoltativa per lo stesso, che ha, d’altronde, alla pari dell’interessato, ha possibilità di reclamo contro il provvedimento. Si noti, fra l’altro, che il parere preventivo del pubblico ministero comporta una movimentazione non indifferente di fascicoli in due momenti diversi: prima della decisione e dopo la stessa, movimentazioni, se possibile, da evitare. La modifica della norma citata è operata con la soppressione del comma 2 dell’art. 69bis. E’ opportuno prevedere, però, che il reclamo sospenda la esecuzione, salvo nei casi in cui la concessione della liberazione anticipata comporti la scarcerazione dell’interessato. Il tutto viene inserito, come già detto, nell’art. 3 del nuovo testo. Quinto punto. Anche nelle procedure non giurisdizionalizzate devono valere le stesse regole circa la tempestività della registrazione delle istanze e della pronta attivazione degli accertamenti necessari: v. il comma 4 dell’art. 5 del nuovo testo.
La necessità di un intervento straordinario: la sezione stralcio
All’art. 6 del nuovo testo si introduce un intervento straordinario nelle situazioni di grave arretrato in cui si trovano molti dei tribunali di sorveglianza. Come si è fatto per altri arretrati "storici", si deve pensare ad una sezione stralcio. In tal modo, grazie agli interventi sulle risorse di organico e sulle regole operative di procedura, si deve ottenere la efficienza e tempestività per il nuovo lavoro che si forma. Ma il recupero di efficienza e tempestività deve essere liberato dal peso dell’arretrato, ormai determinatosi, che bloccherebbe inesorabilmente quel recupero. La sezione stralcio rappresenta un intervento straordinario e può ragionevolmente giovarsi di disposizioni straordinarie. Nella specie, si prevede una composizione particolare del tribunale di sorveglianza, che avrà un solo magistrato di sorveglianza, che ha funzione di presidente, a cui si affiancano non due, come di regola, ma tre esperti. Per gli aspetti organizzativi delle sezioni stralcio, si rinvia all’art. 6 del nuovo testo.
Abrogazione del Capo II°bis del Titolo II° del testo vigente O.P.
L’art. 236, comma 2, delle norme di attuazione, coordinamento e transitorie al C.p.p.ha implicitamente abrogato le norme in questione, sostituite , per la procedura di sorveglianza, dalle disposizioni degli artt. 678 in relazione all’art. 666 dello stesso C.p.p.. Il citato art. 236, comma 2, ha infatti conservato solo le disposizioni processuali dell’O.P. diverse da quelle contenute nel Capo II°bis. Per parte di tali norme diverse, è poi intervenuta la sentenza costituzionale n. 53/1993, che ha reso applicabili anche in tali casi gli artt. 666 e 678 C.p.p.. Sembra necessario rendere esplicito che gli artt. da 71 a 71sexies del testo dell’O.P., compresi nel ripetuto Capo II°bis, sono abrogati.
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