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Il programma del Ministro in materia penitenziaria
Il ministro soltanto il 24 e 26 luglio u.s. ha presentato al parlamento il suo programma di massima, allineato ovviamente sulle posizioni del Governo, anche quanto ai tempi di realizzazione. Si ricava la conferma che la gIustizia deve attendere e con essa il settore penitenziario, essendo stato deciso che i primi tempi della legislatura hanno ben altro cui pensare. Bisogna, sia pure con amarezza e preoccupazione, prenderne atto, ma ciò non esime da considerazioni critiche. La filosofia di fondo cui si ispira il documento sembra essere la seguente:
Il precedente governo ha sbagliato chiudendo 20 case fra cui quelle delle isole (in particolare Pianosa), creando così il sovraffollamento, forse allo scopo di ottenere l’amnistia (i posti sono 45 mila, le presenze 57 mila). È necessario quindi riaprire gli istituti chiusi.
Al riguardo è agevole osservare
La visione è vera ma incompleta perché ignora che la pena castigo deve essere anche finalizzata al recupero del condannato e per ciò l’amministrazione ha il dovere, politicamente sanzionato, di sottoporre il condannato ad osservazione, al trattamento rieducativo, a varare il programma individualizzato: il trattamento non può consistere nel solo lavoro “socialmente utile” ma deve avvalersi anche degli altri elementi previsti dall’art. 15 dell’ordin. penit. Dimenticare tutto ciò significa ripristinare il carcere di un tempo, cancellare la riforma del 975, delegittimare le misure alternative come se fossero un semplice modo di evitare la pena (non è occasionale e pieno di significato che il ministro citi soltanto la liberazione anticipata “per buona condotta” e non aver aver “partecipato all’opera di rieducazione”, cosa del tutto diversa come afferma l’art. 54 dell’ord. penit. In linea di fatto il programma sembra ignorare che da 25 anni si è fatto tutto il possibile per procurare lavoro nel carcere ma con risultati deludenti perché mancano in quasi tutti gli istituti gli spazi necessari anche a causa del sovraffollamento; perché il lavoro inframurale non può essere gestito dall’amministrazione che come imprenditore è fallita da tempo perché non e’in grado di essere competitiva e stare nel mercato. Per questo si è dovuto cambiare rotta riformando gli artt. 20, 20 bis e 21 rivolgendosi all’imprenditoria profit e non profit, ma fino ad oggi con risultati modesti in quanto gestire un lavoro in carcere costa di più ed è soggetto a pesanti difficoltà dovute ad evidenti necessità di sicurezza il che è contro la libertà, la iniziativa dell’imprenditore esterno. Infine, stenta a maturare la nuova cultura della società libera che trova difficile farsi coinvolgere fino a tal punto nel difficile settore dell’esecuzione penale, anche per ragioni psicologiche e storiche che hanno sempre tenuto il carcere isolato, temuto, demonizzato dalla società. E’ vero, ma la Corte ha chiarito che gli interventi restrittivi dei primi anni 90, che hanno generato l’art.4 bis, sono in linea con la costituzione per cui tutti i condannati, ferme le diversità nelle modalità della custodia, devono essere sottoposti al trattamento rieducativo quanto meno ai fini della liberazione anticipata cui possono aspirare. È vero, ma la responsabilità non sta nelle misure alternative in sé, bensì nel modo scorretto con cui vengono gestite dall’amministrazione che dovrebbe potenziare i Centri di servizio sociale. Il vero scandalo poi sta nell’istituto inflazionato della sospensione condizionale della pena gestito dai giudici della cognizione. Qui occorre una riforma rigorosa in sede del nuovo codice penale sulla cui urgenza concorda il Ministro. Non è condividibile la proposta di riaprire alcuni istituti irrecuperabili. Bisogna costruirne di nuovi e con criteri aggiornati: dove sono finiti i 1000 miliardi stanziati nel 2000 per un programma straordinario di edilizia penitenziaria? Assolutamente inaccettabile il ritorno alle isole non tanto perché da anni giustamente rivendicate dalle regioni, quanto perché si deve cancellare un regime di deportazione che confligge irrimediabilmente con i principi della riforma che non può essere cancellata. In ogni caso, tenuto conto delle cifre fornite dallo stesso Ministro con la riapertura suddetta si risolverebbe il problema soltanto in minima parte. In altri termini occorre più coraggio e guardare avanti. Il passato non ci serve più, salvo insegnarci gli errori commessi che non devono essere ripetuti. In linea di principio siamo d’accordo, ma tale posizione intransigente deve essere accompagnata da un forte impegno nel trattamento rieducativo che incentivi le misure alternative, che nel programma manca. Siamo d’accordo in linea di principio, ma il documento non è nulla di nuovo perché non ostante gli sforzi compiuti non si sono ottenuti risultati apprezzabili per tutta una serie di note difficoltà delle quali del resto dà atto il Ministro. È ormai evidente che al riguardo occorre un miracolo oppure un cambio radicale di strada rinunciando alla pena, vale a dire optando per una ulteriore e profonda depenalizzazione. Strada questa a sua volta piena di ostacoli, come dimostra la recente proposta di modifica della legge sull’immigrazione che proviene da questa maggioranza il cui orientamento indica ahimè la pena detentiva quale mezzo principale di risoluzione dei conflitti sociali e non condivide, in buona sostanza, i nuovi orientamenti. Siamo d’accordo, anche se l’idea non è nuova. Fino ad oggi ci si è provati ma con risultati, soprattutto a causa delle strutture inadeguate ed insufficienti. Le parole usate suonano come un duro richiamo nei confronti di un Corpo da sempre isolato e lasciato solo, con organici insufficienti a gestire un sistema ingestibile. Grave è poi la mancanza di un accenno al fatto che l’agente di P.P. è chiamato anche ad essere partecipe quale operatore al trattamento penitenziario rieducativo. Non è e non può essere soltanto un custode. Non si dimentichi che già il corpo militare voluto da Rocco negli anni trenta del secolo scorso aveva per motto vigilando redimere. Senza di che la Riforma penitenziaria non decollerà mai ed il carcere sarà confinato nell’isolamento di sempre. Altro segno inquietante di un ritorno al passato sta nel disegno di ripristinare la medicina penitenziaria, eliminando il SSN. Occorre precisare che il settore sanitario nel carcere è sempre stato un “nervo scoperto” che ha dato luogo a gravi inconvenienti e proteste per l’importanza e delicatezza del servizio che attiene ad un diritto costituzionalmente garantito che dovrebbe avere la precedenza assoluta. Il che non si verifica né mai si è verificato non certo a causa dei medici la cui dedizione e competenza sono indubitabili, ma grazie ad un sistema già condannato senza appello per la sua stessa separatezza, per il suo isolamento, per la scarsità dei mezzi finanziari e quindi di personale, di strumentazione, di locali, di farmaci (basti ricordare la scandalosa mancanza di infermieri). Tanto è vero che il penitenziario largamente è costretto a rivolgersi all’esterno, vale a dire al SSN. Soprattutto è preoccupante la motivazione addotta: è indubitabile che la medicina penitenziaria costituisca una branca specializzata della medicina, ma è giusto chiedere dove sia scritto che la stessa sia appannaggio esclusivo degli attuali medici penitenziari e che non possa essere trasferita gradualmente, senza pericoli di “scadimento”nel SSN che conosce ben più numerose ed difficili specializzazioni. Tale tesi suona altresì come ingiusta ed immotivata condanna del settore pubblico (che ha certo gravi difetti, ma meno gravi di quelli presentati dal penitenziario) ed una presa di posizione di natura corporativa (quando invece l’amministrazione dovrebbe anteporre ad ogni altro interesse quello dei detenuti. Ma ancora più che inaccettabile è preoccupante che un Ministro della Repubblica si schieri ancora oggi a favore della netta discriminazione dei cittadini liberi e detenuti quanto alla tutela del diritto alla salute, laddove giunge ad affermare che “l’omogeneizzazione” degli ammalati detenuti con quelli liberi sia un’ideologia negativa da rifiutare. Il che vuole significare il ritorno al nefasto isolamento del carcere, all’etichettamento dei detenuti che sarebbero cittadini di serie B. Come tutto ciò sia compatibile con il dettato costituzionale e con gli arresti della Corte (vedi per tutti da ultimo la sent. n. 26 dell’11 febbraio1999 che ha condannato e messo in mora il potere politico inchiodandolo sulle sue responsabilità.) Su questo punto il volontariato che da anni si batte con modesti risultati contro una burocrazia centralizzata, lenta, sorda o distratta ed in ogni caso lontana psicologicamente e fisicamente (ma che negli ultimi tempi dà segni di aver capito che senza il determinante appoggio della società libera agente sul territorio in cui opera l’istituzione – attualmente rappresentata dal volontariato - nessun problema attinente al reinserimento dei condannati è risolvibile) non può che essere totalmente d’accordo ed è pronto a fornire il proprio contributo. Si tratta della proposta più aggiornata ed interessante, che senza volerlo lascia intravedere nel documento, pur in più punti non sottoscrivibile dal volontariato, uno spiraglio carico di promesse per il futuro che fa bene sperare perché contraddice le premesse del programma, che sembrano di chiusura nei confronti del carcere futuro, del carcere che non può essere che nuovo, non la brutta copia di quello vecchio, ormai definitivamente condannato.
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