L'henne a Santa Maria Maggiore

 

Attività "leggere", pensieri "pesanti"

 

Un laboratorio di tatuaggio con l’henne

nel carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia

 

 

Animazione sociale, giugno – luglio 2003

 

 

Era da qualche anno che i nostri tentativi di iniziare in carcere le consuete attività, legate all’approccio di riduzione del danno e alla tossicodipendenza, non sortivano alcun effetto. La rete dei servizi della Provincia di Venezia che si occupano di tossicodipendenze, nell’articolazione dei vari progetti, non prevedeva la presenza attiva in carcere del "Servizio riduzione del danno", pur riconoscendo al Comune di Venezia un ruolo strategicamente e operativamente importante nelle politiche di intervento territoriale in questo settore.

La nostra proposta di lavoro (risalente all’anno 1999) con gruppi di consumatori attivi consisteva nel facilitare discussioni franche e aperte sui rischi derivanti dall’assunzione di sostanze psicotrope e dalla pratica di comportamenti a rischio dentro il carcere, attraverso delle vere e proprie simulazioni di situazioni realistiche di consumo, avvalendosi di alcuni workshop sull’iniezione più sicura, sul sesso sicuro e sul soccorso in caso di overdose, chiamati "corsi di sopravvivenza", allo scopo di ridurre il rischio di infezioni per via parenterale e/o sessuale e ridurre il rischio di morte per overdose.

A quel tempo, per il Ser.T. di Venezia, questa formula dei corsi di sopravvivenza era considerata troppo audace e poco opportuna per essere svolta nell’ambiente carcerario, ciò in relazione al fatto che l’argomento relativo ai consumi di sostanze stupefacenti all’interno delle carceri era argomento delicato, poco affrontabile con le modalità esplicite e dirette che la nostra proposta prevedeva. Per l’amministrazione penitenziaria, invece, un intervento come quello da noi previsto poteva probabilmente essere inteso come sconveniente, poiché evidenziava le difficoltà oggettive delle strutture carcerarie a filtrare in modo efficace tutto quello che passa attraverso i controlli da esse attivati. Anche all’interno del nostro servizio, a questo riguardo, erano presenti delle perplessità: la modalità pensata, infatti, pareva più un modo per riprendere alla lettera una formula (quella dei corsi di sopravvivenza sopra menzionati) già collaudata nel lavoro di strada, che una vera ricerca di percorsi adeguati alla realtà del carcere e alla condizione dei carcerati tossicodipendenti e non.

Insomma, tutti questi elementi ci indicavano che dovevamo ricercare una proposta che strategicamente ci consentisse di non rinunciare ad affrontare a viso aperto le questioni che costituiscono la peculiarità del nostro servizio (lavoro sui comportamenti tossicomanici a rischio, orientamento e informativa sui servizi, supporto alle situazioni personali, promozione di discussioni e circolazione di informazioni tra pari, empowerment) e, al tempo stesso, di ricercare un punto di contatto con l’amministrazione penitenziaria e il Ser.T. e individuare contenuti, modalità di proposta e di gestione della stessa che si avvicinassero alla realtà e agli interessi delle persone recluse, uscendo un po’ dal nostro consueto cliché, per avvicinarsi mentalmente al mondo della detenzione, prima ancora che a quello della tossicodipendenza.

 

L’idea del laboratorio di tatuaggio

 

Partendo da queste considerazioni, è nata l’intuizione di utilizzare il tatuaggio come elemento di raccordo, per consentire percorsi condivisi d’intervento tra servizi e con i destinatari. La formula, che poi ha preso avvio all’inizio del 2002 al carcere di S. Maria Maggiore, casa circondariale che ospita circa 180 persone detenute, ha voluto basarsi sui seguenti presupposti.

 

Su cosa intervenire

 

Le tre più elevate forme di rischio di propagazione di malattie trasmissibili all’interno del carcere sono le seguenti: la pratica del tatuaggio; l’uso di sostanze stupefacenti per via iniettiva; i rapporti sessuali. Questi tre argomenti, non presi in considerazione esclusivamente in ambito carcerario, dovevano costituire l’ossatura del nostro intervento.

 

Con chi intervenire

 

La popolazione tossicodipendente doveva essere la prevalente ma non il target esclusivo, perché i tre argomenti, oltre a non coinvolgere esclusivamente le persone tossicodipendenti, potevano consentire approfondimenti, anche specifici sulla tossicodipendenza, arricchiti da esperienze molteplici.

 

Come intervenire

 

Con modalità animative, a partire da interessi personali dei partecipanti, cercando di creare climi di gruppo adatti ad affrontare argomenti delicati con rispetto, senza pregiudizio, senza forzature, con autenticità, con spirito critico, utilizzando i saperi interni ai gruppi. Il tutto sperimentando modalità ludiche, grafico - espressive, "implicazioni" metaforiche, momenti di discussione collettiva, simulazioni, avvalendosi di strumentazioni video, lettura di brani, tatuaggio con l’henne, libri e riviste specialistiche.

Passando opportunamente da un argomento all’altro (il tatuaggio, la vita del carcere, le situazioni rituali, le contaminazioni a diversi livelli, le malattie trasmissibili, i rischi nel tatuaggio, nel consumo di sostanze e nei rapporti sessuali, la tossicodipendenza, i servizi specialistici, il soccorso in caso d’overdose o coma etilico), specificando sin dall’inizio chi siamo e la nostra intenzione di trattare soprattutto argomenti legati all’ambito della tossicodipendenza. Tali presupposti hanno trovato un naturale contenitore all’interno di uno spazio laboratorio che prevede, per ogni gruppo, quattro incontri a tema così suddivisi: la cultura del tatuaggio; i rischi del tatuaggio; i comportamenti a rischio nell’assunzione di sostanze psicotrope; gli interventi di primo soccorso in caso di overdose, coma etilico o effetti acuti dell’ecstasy.

Gli obiettivi del Servizio in questa circostanza sono: conoscere la realtà carceraria che ha al suo interno una ragguardevole percentuale di presenza di persone tossicodipendenti detenute (circa il 30%); farsi conoscere da una parte di queste per essere di riferimento all’uscita dal carcere, nell’eventualità ce ne fosse bisogno; ridurre i comportamenti a rischio derivanti dalla pratica scorretta del tatuaggio, dalle pratiche iniettive e sessuali (sia all’interno che all’esterno del carcere); informare sui rischi di overdose nei primi giorni di uscita dal carcere.

 

Gli obiettivi degli incontri sono finora stati:

entrare nel merito del significato del tatuaggio, a livello personale e nelle varie culture;

far acquisire conoscenze utili a effettuare tatuaggi riducendo i rischi attuali di malattie contagIose;

favorire una discussione, l’acquisizione di conoscenze per evitare comportamenti a rischio nella vita quotidiana e, in particolare, nell’assunzione di sostanze;

far acquisire tecniche e conoscenze per sapersela cavare quando qualcuno sta male in relazione alle sostanze assunte;

informare sul rischio di overdose al momento della dimissione dal carcere;

far esplicitare, elaborare e divulgare, da parte del gruppo di lavoro, le informazioni tecniche acquisite.

 

I passaggi crociati

 

Al momento della prima verifica intermedia di andamento dell’iniziativa sono stati esaminati i passaggi cruciali specifici dell’esperienza che, metaforicamente, possono essere paragonati a delle porte di passaggio, porte di accesso che consentono livelli di approfondimento più elevati.

La prima porta attraverso cui passare è quella della chiarezza della comunicazione, soprattutto nello sciogliere l’apparente contraddizione tra l’attrazione specifica che può suscitare il tema presentato e la complessità degli argomenti effettivamente trattati. Per non correre il rischio di alimentare fraintendimenti, abbiamo predisposto un opuscolo pubblicitario che evidenzia l’ente promotore e il contenuto dell’attività proposta, che si sostanzia, come anticipato prima, in quattro incontri per ogni singolo laboratorio a cui partecipa uno stesso gruppo composto da una decina di elementi al massimo. Al primo incontro ci si presenta come Servizio e si introduce la scaletta degli argomenti che si intendono trattare, la modalità di organizzazione e di gestione degli incontri stessi, lasciando gli interessati liberi di proseguire o meno il percorso con noi. Ora le persone cominciano a partecipare conoscendo già a grandi linee l’organizzazione del corso perché informate dai compagni. Al momento della presentazione del programma e dei partecipanti è dato il necessario spazio perché i dubbi vengano dissipati e le persone abbiano sufficienti informazioni per decidere se continuare o meno a frequentare il laboratorio.

La seconda porta è quella di passaggio da un argomento all’altro. Questo è un momento cruciale che permette di dare un significato di unitarietà ai diversi argomenti affrontati e fornisce la possibilità di vivere come collegate situazioni spesso considerate nella frammentarietà con la quale si presentano. Per esemplificare, faccio riferimento allo spostamento della discussione dal tatuaggio, inteso in alcuni suoi aspetti come atto rituale, al significato e alla pratica dei riti di passaggio in ambienti diversi, alla contaminazione intesa in termini neutri (sia sanitaria, collegandoci per questo alle malattie trasmissibili, sia sociale, entrando nel merito del bisogno di appartenenza e di mescolanza), all’esplicitazione dei codici di comportamento di gruppi diversi, alla tossicodipendenza intesa anche come fenomeno collettivo che risponde talvolta a precisi rituali di gruppo. Insomma, una bella scommessa, che per la verità si è dimostrata finora meno difficilmente realizzabile di quanto pensassimo inizialmente.

La terza porta è quella della presenza eterogenea dei componenti nei gruppi, trattando argomenti trasversali con riferimenti precisi alla tossicodipendenza. Ci è parsa decisamente arricchente e qualificante l’intervento; non si è dimostrata un ostacolo alla fluidità della discussione non inibendo chi vuol parlare in modo sincero e aperto di sé e della propria tossicodipendenza, come pure ha permesso a chi non ha avuto esperienze di tossicodipendenza di intervenire ed esprimersi liberamente.

La quarta porta riguarda il tenore e l’intimità degli argomenti che emergono. Le situazioni che si vengono a creare talvolta sono molto intense, sentite, coinvolgenti. Noi facciamo molta attenzione a non renderle terapeutiche; facciamo attenzione a offrire "vie di fuga" a chi si dimostra in difficoltà, a non aprire "rubinetti" troppo delicati, sapendo bene di non essere nella condizione di applicare (tanto per restare nella metafora) le "guarnizioni" necessarie. Non insistiamo troppo, perciò, nel toccare tasti che reputiamo troppo insidiosi per i singoli e per il gruppo; lasciamo libero, in certi momenti, il movimento dentro e fuori della stanza dove svolgiamo l’attività, per preservare sia chi ascolta e si trova in difficoltà, sia chi parla e desidera essere ascoltato, Le misure adottate in questi primi otto mesi non hanno permesso il verificarsi di situazioni a rischio in tal senso.

La quinta porta riguarda la cosiddetta "presa in carico", termine che impaurisce un po’ chi come noi si presenta in qualità di "operatore leggero", specie in un ambito "mastodontico" come quello carcerario. È sostanziale non creare aspettative irrealizzabili in chi si ritrova recluso e si affida a te; è comunque importante esserci e sperimentarsi accertandosi che non sia "sulla pelle di nessuno".

Noi abbiamo provato a farlo offrendo la nostra disponibilità a fungere da tramite con i servizi specialistici, tenendo conto che tra il carcere e l’esterno le difficoltà di comunicazione non sono solo legate ai consueti intoppi di comprensione e interpretazione, ma pure condizionati imprescindibilmente da necessità di tempi e forme di relazione rassicuranti,

 

Un primo bilancio

 

Nella nostra breve esperienza le occasioni di contatto con i servizi su richiesta delle persone detenute si sono verificate sempre per motivi legati al bisogno di accorciare le "distanze mentali" tra "il dentro e il fuori", alla rassicurazione dell’essere "tenuti da conto" e di non essere abbandonati dagli operatori di riferimento, Così i nostri contatti con i soggetti appartenenti alla rete dei servizi che si occupano di tossicodipendenza in carcere si sono concretizzati a partire dalle richieste specifiche, congruenti alle nostre possibilità di azione, dei detenuti partecipanti ai laboratori.

Con i due servizi principali della succitata rete, questa la situazione: il Ser.T., nella fattispecie la responsabile dell’Unità penitenziaria, ha appoggiato la nuova formula di intervento da noi proposta, facilitando il nostro ingresso in carcere e i contatti di circostanza; la direzione carceraria non è mai entrata nel merito dei contenuti della nostra proposta, ha autorizzato l’inizio dell’esperienza e la sua prosecuzione, garantendo l’appoggio logistico e organizzativo.

Il personale carcerario ha accolto con curiosità l’inizio dell’esperienza, non è stato però possibile avviare un’informazione adeguata sulla globalità dei contenuti che si fanno emergere nel laboratorio; così per la gran parte degli agenti di custodia il nostro è solo uno spazio adibito allo svago e alla decorazione del corpo. Dal punto di vista formale, il Servizio riduzione del danno è ora parte integrante della rete dei servizi del Comune che seguono attività di vario ordine e genere nelle carceri della città.

Alcuni dati relativi a questo primo anno di attività vedono effettuati 9 laboratori, per un totale di 36 incontri, della durata di circa tre ore l’uno. In queste occasioni si sono incontrate 78 persone, di cui 49 tossicodipendenti. Si sono effettuate 8 esercitazioni di primo soccorso in caso di overdose, coma etilico, ipertermia e disidratazione a seguito di assunzione di sostanze sintetiche, cui hanno partecipato 43 persone, 22 delle quali attivamente, sperimentando le attività con un manichino; 58 persone sono state tatuate e 9 hanno imparato a tatuare con l’henne.

 

Affrontare la complessità

 

È emerso recentemente che sono state requisite, all’interno delle celle, due macchinette rudimentali per il tatuaggio tradizionale, che ricordiamo essere vietato in carcere. Questo fatto, unito alla considerazione, espressa da un agente, di aver osservato durante l’estate una più marcata tendenza dei detenuti a mettere in mostra, senza timori, i propri tatuaggi "di sempre", ha fatto inevitabilmente ritenere che il nostro corso di tatuaggi abbia concorso ad attivare un più marcato desiderio di ricorrere alla tecnica del tatuaggio per esprimere la propria trasgressione, il proprio modo di essere, la propria appartenenza, le proprie sfide agli agenti e agli altri detenuti.

Ebbene, ritenendo tale collegamento di pensiero adeguato (e ciò non è affatto scontato, considerando che la rilevazione in parte si basa su percezioni e, in parte, su dati di fatto non confrontabili con situazioni trascorse), si presenta, in tal caso, la consueta problematica insita negli interventi di riduzione del danno; cosa fare in situazioni che evidenziano comportamenti a rischio diffusi, consolidati, che appartengono alla sfera delle consuetudini quotidiane pur proibite, com’è in carcere, dal tempo che fu, per la pratica del tatuaggio?

tenere il coperchio sulla pentola, cercando così di evitare il proliferare di queste pratiche, con il risultato di non riuscire a evitare il perdurare della pratica, ma solo di spostarla a un livello più sommerso, di pratiche estreme, di fascino del pericolo, del clandestino, del proibito; di passaggio di informazioni e conoscenze più frammentate, incomplete, incontrollabili e, a mio parere, più pericolose, più pregne di significati legati alla sfida, all’affronto e quindi, nell’ambiente carcerario, in grado di attecchire con più facilità?

alimentare riflessioni sugli agiti, a partire dalle esperienze personali, discussioni sulle condizioni che provocano certe azioni, considerazioni sulle rappresentazioni e sui significati dati a queste; fornire più informazioni riguardanti i rischi a cui ci si sottopone in determinate condizioni, sulle minime precauzioni da prendere. Tutto ciò accettando che accada che le persone, pur approfondendo argomenti e questioni riguardanti implicazioni e rischi di alcune azioni (come in questo caso quella del tatuaggio eseguito con strumenti enorme igieniche rudimentali), mantengano comunque la consuetudine proibita o effettuino comunque, perché già era latente in loro il desiderio, la sperimentazione su se stessi dell’azione "proibita"?

Solitamente, tra le critiche più ricorrenti rivolte all’approccio della riduzione del danno vi sono: da un lato l’esternazione che la semplice informazione sia ben poca cosa, di fronte alla gravità delle problematiche discusse, dall’altro il timore che il gran parlare di argomenti proibiti possa togliere inibizioni importanti e rappresentare un’evidente tentazione per provare su di sé ciò che si presenta come proibito e pericoloso.

La prima considerazione probabilmente non tiene conto che le informazioni possono essere tanto più significative quanto più emergono all’interno di relazioni significative, di ambiti di comunicazione adatti a mettere il ricettore del messaggio nella condizione di dare all’informazione significati tali da smuovere in lui qualcosa, da far sì che il messaggio gli divenga davvero utile. E questo a diversi livelli di comunicazione e in ambiti differenti: dalla situazione di colloquio terapeutico in un cosiddetto setting adeguato, a quella di colloquio motivazionale in strada, anche tra uno "sbattimento" e l’altro. L’ambito del carcere non è ancora completamente esplorato da un’ampia gamma di possibilità di intervento nell’ambito della tossicodipendenza, per questo forse la nostra proposta può trovare il suo spazio di utilità.

D’altra parte, il timore che semplicemente parlare di un oggetto proibito possa rappresentare una evidente tentazione di impossessarsene per provarlo su di se, non tiene nel debito conto che le condizioni che determinano l’iniziazione o il mantenimento di abitudini "pericolose" e illegali (rimango su questi termini perché credo rispecchino quelli utilizzati in ambito giudiziario) sono assai complesse e vedono intrecciarsi situazioni sociali, familiari, personali a condizionare pensieri e azioni, tanto da far ritenere l’atto d’iniziazione legato a contingenze particolari in cui spirito di emulazione acritica, bisogno di appartenenza o temporanea fragilità psichica, tra altre componenti, si avvicendano. In questo scenario proporre i nostri argomenti di discussione diventa una piccola possibilità di "allargare" i discorsi, di immaginare modi diversi di affrontare le cose, di far esprimere chi è già riuscito a immaginare e realizzare modi diversi di affrontare le cose.

Insomma una piccola cosa, da operatori leggeri, che in un ambito pesante come quello carcerario rischierebbero di farsi schiacciare, se non cercassero di adoperarsi per ricercare accordo e continuità tra le proprie capacità di agire e la competenza nel cogliere i fenomeni e nell’individuare le possibilità di intervenire.

Per questo, al supposto aumento di frequenza della pratica del tatuaggio all’interno del carcere, abbiamo deciso di far fronte con la ripresa, la raccolta, l’approfondimento, la rielaborazione di racconti di forme consuete di tatuaggio praticate in carcere, per predisporre insieme ai detenuti un opuscolo divulgativo che, a partire da un tentativo di non banalizzazione del significato del tatuaggio, tenda a far presenti i vantaggi di un tatuaggio eseguito da professionisti, sia dal punto di vista igienico, che artistico, che di clima di affiatamento tra tatuato e tatuatore (fornendo tra l’altro un indirizzario di laboratori di tatuaggio della zona) e, in ultima istanza, per gli irriducibili, indicando le condizioni igienico - sanitarie irrinunciabili per sottoporsi a un tatuaggio in cella.

Uno strumento, quello dell’opuscolo, che rientra a pieno nella buona tradizione dell’approccio della riduzione del danno, che in questo caso consente di dare e ricevere le informazioni in tempi e luoghi i quali permettono anche il manifestarsi di spazi di riflessione appositi.

L’opuscolo potrà anche essere uno strumento di confronto con l’amministrazione carceraria (attraverso il passaggio formale dell’autorizzazione) e, nel momento in cui venisse autorizzato e circolasse all’interno del carcere di S. Maria Maggiore, potrebbe diventare occasione di confronto con altri interventi simili in altre realtà penitenziarie italiane. Il gruppo di lavoro ritiene utile proseguire l’esperienza estendendola, con i necessari aggiustamenti, anche al carcere femminile della Giudecca e introducendo formule di verifica di apprendimento di informazioni tramite pre e post questionario, oltre a rilevare più precisamente la quantità e la qualità delle attività di ascolto, di discussione di gruppo e di counselling effettuate.

Attraverso questo percorso, il lavoro in carcere è divenuto a pieno titolo parte integrante del lavoro di strada. Si tratterà ora di provare a dare forma più tangibile ai possibili collegamenti tra le attività del laboratorio e le concrete possibilità di contatto e supporto per le persone interessate, sin dal primo giorno di uscita dal carcere.



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