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"Morire di carcere": dossier giugno 2005 Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, episodi di overdose
Nel mese di giugno abbiamo raccolto le storie di altri 6 detenuti "morti di carcere": 4 suicidi, 1 morto per malattia e 1 per "cause non accertate".
Suicidio: 7 giugno 2005, carcere di Bollate (MI)
Andrea Rigardi, 21 anni, si impicca nel bagno della sua cella. Il giovane, che era stato trasferito il giorno prima da San Vittore, doveva scontare ancora sei mesi per detenzione di stupefacenti. Regondi era finito in carcere perché aveva già goduto dei benefici della sospensione condizionale poco più di un anno fa quando subì un’altra condanna ad un anno per fatti analoghi. L’avvocato Francesco Elia ha annunciato che chiederà che venga predisposta l’autopsia, perché il suo assistito non aveva mai manifestato alcuna tendenza suicida. (Ansa, 8 giugno 2005)
Assistenza sanitaria disastrata: 9 giugno 2005, carcere di Saluzzo (CN)
Francesco Cardone, di 53 anni, viene trasportato d’urgenza all’ospedale di Saluzzo, dove giunge in fin di vita. L’autopsia accerta che la morte è dovuta a cirrosi epatica (per cui pare non sia stato mai curato in carcere). I familiari non hanno reclamato il cadavere del congiunto, che è quindi stato tumulato nel cimitero di Saluzzo dal cappellano del carcere (Segnalazione di Paolo Romeo, assistente volontario).
Suicidio: 10 giugno 2005, carcere di Ancona
Andrea Novelli, 33 anni, muore dopo 3 giorni di coma nella rianimazione clinica dell’ospedale di Torrette di Ancona Il 7 giugno scorso aveva tentato di impiccarsi con un lenzuolo nella sua cella del carcere di Montacuto. Le sue condizioni erano subito apparse disperate. Solo il pronto intervento degli agenti di polizia penitenziaria ha scongiurato la morte immediata, ma i legacci intorno al collo hanno bloccato, con il sangue, l’afflusso di ossigeno al cervello, danneggiandolo in maniera irreversibile. Novelli era stato condannato a 14 anni di reclusione, per aver ucciso un vicino di casa ed era stato riconosciuto dai giudici seminfermo di mente. (Ansa, 11 giugno 2005) Andrea Novelli, muratore, era un ragazzo difficile e disturbato. Vedeva tutti con occhi ostili, riusciva a convivere con se stesso soltanto nella "sua" grotta sul Conero in cui - in preda ad un’ossessione mistica - andava a pregare arrancando con un bastone in compagnia del suo cane lupo. Franco Barbadoro, che allora aveva 52 anni ed era andato in pensione da cinque mesi, ebbe il solo torto di imbattersi con Novelli impegnato nella sua sola escursione mistica. Forse solo uno sguardo mal interpretato, o forse nulla. Il sirolese colpì con il bastone immaginando che l’altro, impegnato nel riparare la sua auto, gli avesse fatto chissà quale affronto. L’omicidio avvenne il 7 settembre 2002 e il giudice di primo grado inflisse 14 anni all’imputato riconoscendo proprio l’attenuante della seminfermità mentale. Pena poi confermata in appello. Andrea Novelli, subito auto-accusatosi dell’omicidio, in un primo momento disse di aver picchiato a morte Barbadoro per vendicarsi con l’ex operaio del cantiere, che alcuni mesi prima lo avrebbe malmenato ed umiliato davanti ad un gruppo di persone. Accuse risultate completamente inventate durante le indagini e partorite dalla mente di una persona giudicata paranoica, psicotica e tendente al delirio dagli psichiatri che lo hanno analizzato. Il Novelli arrivò anche a dichiarare di aver ucciso dopo aver sentito la voce del diavolo, uno stato mentale talmente sconvolto che richiese una lunga detenzione nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. Poi il miglioramento, per cui è stato deciso il trasferimento nel carcere di Montacuto in modo che la famiglia e il suo avvocato Gianni Marasca potessero stargli più vicino. Nel frattempo i due processi hanno delineato uno scenario tragico con due vittime: ovviamente Barbadoro, il "gigante buono" sempre pronto ad aiutare tutti ed incapace di fare del male ad una mosca, e lo stesso Novelli, perseguitato dagli spettri della sua mente malata. (Il Messaggero, 11 giugno 2005)
Cause non accertate: 14 giugno 2005, carcere di Trieste
Paolo Palma, 30 anni, viene trovato morto nel bagno della cella che divideva con altri detenuti triestini. Avevano cenato, avevano chiacchierato, avevano guardato la tv. Poco dopo le 23 Paolo Palma è entrato nel bagno. Hanno sentito un tonfo, l’hanno trovato a terra. Hanno gridato, hanno chiesto aiuto, hanno cercato di rianimarlo con la respirazione bocca a bocca. Sono accorsi gli agenti e il direttore Enrico Sbriglia. Poi sono arrivati gli infermieri del 118. Il tentativo di rianimarlo si è protratto per mezz’ora. Nulla da fare. È stato avvisato il pm Maurizio De Marco ed è arrivato il dottor Fulvio Costantinides, medico legale. Infine il direttore ha avvisato la famiglia. Nelle prossime ore la Procura dovrebbe disporre assieme all’autopsia anche una serie di analisi tossicologiche. Paolo Palma, molti anni fa, aveva avuto a che fare con l’eroina e ieri notte per estrema precauzione gli uomini del 118 gli hanno iniettato anche del "Narcan", un antagonista degli oppiacei che, se assunti in dosi massicce, rendono difficoltosa la respirazione fino a bloccarla. Nulla però fa ritenere che Paolo Palma l’altra sera ne avesse fatto uso. Nella perquisizione della cella non sono state trovate né siringhe, né lacci, né cucchiaini. Palma si era curato al "Ser.T." con una terapia a scalare di metadone. Era uscito da quell’incubo e aveva ricominciato a vivere. Qualche mese fa gli era stata notificato un ordine di carcerazione per una antica condanna passata in giudicato. L’ipotesi più accreditata parla di un arresto cardiaco tanto improvviso, quanto non reversibile. Sarà l’inchiesta della magistratura a far chiarezza. "Non credo, anzi sono certo che la morte del detenuto non abbia nulla a che fare con la sua storia pregressa" ha affermato il direttore Enrico Sbriglia. "Vorrei sottolineare la grande disponibilità e umanità dei compagni di cella che si sono prodigati in tutti i modi per cercare di salvarlo". (Il Piccolo, 16 giugno 2005)
Suicidio:
24 giugno 2005, Carcere di Benevento Osvaldo, 61 anni, si uccide in cella. Un compagno di detenzione ne scrive a Riccardo Arena, direttore di “Radio Carcere - Radioradicale”. Ecco il testo della lettera. “Carissimo Riccardo, sono tre anni che sono nel carcere di Benevento e ti posso dire che ora si sta arrivando veramente al limite. Già qualche settimana fa ti ho scritto dei numerosi tentativi di suicidio accaduti qui nel carcere di Benevento. Purtroppo tra tanti tentativi ce ne uno che è riuscito. Il 24 giugno alle ore 17.00 infatti è morto nella sua cella Osvaldo. Io ci ho parlato con Osvaldo e, credimi, era stanco e abbattuto. Osvaldo era anziano (64 anni) e malato un mese fa era andato a Napoli a discutere una detenzione ospedaliera ma gli era stata rigettata perché, secondo i giudici, Osvaldo poteva essere curato in carcere. Ma chi conosce il carcere sa che così non può essere. Osvaldo è morto nelle nostre braccia. Erano già 10 giorni che sveniva ma nessuno ha dato credito alle nostre richieste di aiuto. Osvaldo è stato portato in ospedale quando era già morto. Osvaldo si poteva salvare e allora perché non è stato fatto nulla? Quanta gente deve ancora morire in carcere?”. (Un detenuto di Benevento, 22 luglio 2005)
Suicidio: 30 giugno 2005, Bergamo (arresti domiciliari)
Enrico Viberti, 57 anni, si è impicca ad un albero nel giardino della Comunità "Oasi 7/A", in cascina Saracinesca, ad Antegnate (Bergamo), gestita dalla cooperativa sociale onlus "Rinnovamento", dove era agli arresti domiciliari dal primo giugno. "A fare la scoperta è stato un nostro educatore - ha detto la presidente della Comunità, la dottoressa Myriam Gaforelli -. Avevamo accettato di buon grado il professor Viberti nella nostra struttura: era una persona educata, lavorava al computer, appariva sereno. Solo mercoledì scorso, al ritorno dall’udienza in tribunale ad Alba, era turbato. Aveva amici che venivano a fargli visita, che l’hanno accompagnato". Il 29 giugno era iniziata in tribunale l’udienza preliminare davanti al gip, Francesca Di Naro, per decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio di Viberti presentata dalla Procura per tentato omicidio della moglie separata, maltrattamenti in famiglia e porto abusivo di arma. L’ex moglie e i figli si erano costituiti parte civile e su richiesta della difesa era stato disposto il rinvio al 28 settembre. Al termine dell’udienza Viberti si era sentito male, un’ambulanza l’aveva portato al Pronto soccorso dell’ospedale. Dimesso nel pomeriggio, aveva raggiunto la Comunità che lo ospitava. Viberti aveva ottenuto gli arresti domiciliari il primo giugno, dopo cinque mesi nel carcere di Alba, dove pare avesse già tentato il suicidio. Era stato arrestato la mattina del 27 dicembre dai carabinieri nella casa della moglie separata, dove si era presentato con una pistola con cinque proiettili nel caricatore. Secondo l’accusa l’avrebbe puntata alla tempia dell’ex moglie mentre era ancora a letto: la donna sarebbe riuscita a disarmarlo con l’aiuto della figlia, che ha chiamato i carabinieri. Dalle indagini era anche emerso che prima di arrivare a casa della consorte, anche lei insegnante alle Medie, Viberti aveva fatto tappa in alcuni bar per consumare bevande alcoliche. Secondo la perizia psichiatrica chiesta dalla Procura e affidata dal gip Carlo Gnocchi ai periti Ugo Fornari e Silvia Ornato, Viberti quando impugnò la pistola e la puntò alla tempia dell’ex moglie "era parzialmente incapace di intendere e di volere". La vicenda ha suscitato molto scalpore in città. Enrico Viberti era conosciuto nel mondo scolastico per essere stato prima insegnante di Lettere, poi preside alle Medie. Alla "Vida-Pertini" di Alba era dirigente da un anno e mezzo. In precedenza era stato preside alle medie "Macrino" di Alba, di Cherasco, Bra e Canale. I funerali si svolgeranno a Monticello, suo paese d’origine, in data ancora da stabilire. (La Stampa, 4 luglio 2005)
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