Dossier: "Morire di carcere"

 

"Morire di carcere": dossier aprile 2005

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, episodi di overdose

 

Continua il monitoraggio sulle "morti di carcere", che nel mese di aprile registra 7 nuovi casi: 3 suicidi, 2 morti per cause da accertare e 2 per malattia.

 

Nome e cognome

Età

Data morte

Causa morte

Istituto

Domenico Maniscalco

34 anni

03 aprile 2005

Da accertare

Rebibbia (Roma)

Redi Massariol

21 anni

14 aprile 2005

Da accertare

Padova (C.R.)

Emanuela Fozzi

26 anni

16 aprile 2005

Malattia

Rebibbia (RM)

Gioia Tatiana Valleroni

40 anni

17 aprile 2005

Suicidio

Parma

Domenico Gentile

54 anni

23 aprile 2005

Suicidio

Teramo

Ciro, detenuto italiano

40 anni

27 aprile 2005

Malattia

Secondigliano (Na)

Francesco Vedruccio

37 anni

28 aprile 2005

Suicidio

Sulmona

 

Morte per cause da accertare: 3 aprile 2005, Carcere di Rebibbia (Roma)

 

Domenico Maniscalco, 34 anni, viene trovato morto in cella nel carcere romano di Rebibbia. La scoperta è fatta dai suoi compagni di cella al risveglio. Lo hanno chiamato più volte, ma non c’è stato nulla da fare. I detenuti hanno avvisato le autorità penitenziarie, che hanno segnalato la morte, dovuta secondo i primi accertamenti medici ad un arresto cardiocircolatorio, alla magistratura. Il sostituto procuratore Simona Marazza ha aperto un’inchiesta per stabilire le esatte cause della morte. A quanto si è appreso in ambienti carcerari non si sarebbe trattato di suicidio. "I detenuti hanno pregato per lui e gli hanno rivolto lo stesso pensiero che hanno voluto dedicare al Papa ieri nella messa in ricordo del Pontefice", ha detto il capo dei cappellani di Rebibbia don Sandro Spriano. Maniscalco, originario di Roma, era sposato ed aveva una figlia e, come ricordano a Rebibbia, proprio alcuni giorni aveva ricevuto la sua visita e insieme alla madre l’aveva portata nell’area verde, dove i detenuti possono passare un momento di intimità con i loro famigliari. A quanto si è appreso l’uomo stava scontando una pena di due anni per piccoli reati e non era alla sua prima esperienza carceraria. L’inchiesta prosegue anche perché l’uomo non aveva mai lamentato patologie gravi. (Corriere Adriatico, 4 aprile 2005)

 

Morte per cause da accertare: 14 aprile 2005, Casa di Reclusione di Padova

 

Redi Massariol, 21 anni, muore in cella. Era un giostraio che risiedeva con la sua famiglia in Via Parteselle a San Martino di Lupari (PD). La versione ufficiale parla di avvelenamento con il gas di una bomboletta, data in dotazione ai detenuti del carcere Due Palazzi per i fornelletti da campo utilizzati per piccole cotture in cella. L’ipotesi del suicido però perderebbe consistenza considerata la fedina penale e le abitudini di vita del ragazzo. Redi Massariol già in tenera età aveva seguito l’esempio paterno palesando spiccate capacità per ogni tipo di reato, ma era conosciuto dai carabinieri soprattutto per furto e lesioni. Nonostante avesse un lavoro regolare come muratore, appena tornava a casa Redi aveva l’abitudine di bere ed era stato segnalato più volte ubriaco. Non è difficile quindi pensare che da una dipendenza ne possa scaturire presto un’altra che possa fare da palliativo. Nella mente di Redi probabilmente le stesse sensazioni di ebbrezza provate con l’alcol potevano essere facilmente sostituite con il gas, che spesso in cella viene aspirato per gli effetti neurologici che produce. Del resto poi il carcere non concede niente di meglio. Bastava solo calibrare le dosi senza esagerare troppo e non ci sarebbero state conseguenze, ma probabilmente la situazione gli è sfuggita di mano e Redi ha finito con l’avvelenarsi.

Era stato arrestato il 27 dicembre scorso, dopo lunghi periodi passati agli arresti domiciliari per reati che però aveva commesso fuori del territorio comunale, la maggior parte delle segnalazioni infatti, provenivano dalla provincia di Treviso. Da dicembre invece, dovendo scontare un cumulo di pene, era finito in una cella del carcere di Padova, dove sarebbe dovuto rimanere fino al 30 gennaio del 2006. Nello stesso carcere sconta la sua pena anche Cristian, uno dei suoi fratelli mentre un altro, che però risiede in provincia di Venezia, è agli arresti domiciliari. (Il Mattino di Padova, 15 aprile 2005)

Indagato il compagno di cella del giovane suicida in carcere. Ha assistito all’agonia del giostraio dell’Alta senza muovere un dito. C’è un indagato nell’inchiesta sulla morte in carcere di Redi Massariol, il giostraio ventunenne di San Martino di Lupari che nei giorni scorsi si è tolto la vita in carcere con il gas della bomboletta da fornelletto da campo in dotazione ai detenuti del carcere "Due Palazzi" di Padova. Pare fosse dedito all’alcol. Ma sulle modalità del decesso ci sono ancora tante cose da chiarire. L’informazione di garanzia ha raggiunto il suo compagno di cella (L.C., uno straniero dell’Est), nell’ipotesi riferita agli articoli 580 o 593 del codice penale: istigazione o aiuto al suicidio, oppure omissione si soccorso. Egli era comunque presente non aver fatto nulla per impedirla. Sempre se ne sia accorto. Sarà l’inchiesta a fare chiarezza. Inchiesta diretta del Pm Emma Ferrero che ieri mattina ha disposto l’esame necroscopico del cadavere affidandone al medico legale Alberto Raimondo. Ma ha pure disposto consulenza tossicologica, dandone l’incarico al professore Santo Davide Ferrara. Al conferimento dell’accertamento tecnico non ripetibile,con contestuale informazione di garanzia nei confronti del compagno di cella della vittima, c’era l’avvocato Giovanni Lamonica. Nel frattempo è stato però nominato suo difensore di fiducia l’avvocato Orazio Giraldin. (Il Mattino di Padova, 16 aprile 2005)

 

Assistenza sanitaria disastrata: 16 aprile 2005, Carcere di Rebibbia (Roma)

 

Emanuela Fozzi, 26 anni, muore di varicella nel carcere di Rebibbia Femminile a Roma. La donna, malata di Aids, avrebbe contratto il virus della varicella e, proprio a causa del fisico debilitato e privo di protezioni, le sue condizioni di salute si sarebbero aggravate a tal punto da richiedere il ricovero urgente in ospedale. Tre mesi fa era stata dichiarata incompatibile con il carcere per le sue condizioni ma alla fine di aprile è morta. Nel carcere romano infatti sarebbe scoppiata una vera e propria epidemia: la malattia esantematica ha colpito 13 detenute, di cui tre ricoverate in tre ospedali di Roma, e due agenti penitenziari. "Quella donna non doveva essere in carcere - dice il Garante del Lazio per i diritti dei detenuti Angiolo Marroni - era stata dichiarata incompatibile con la detenzione, ma nulla è stato fatto. La responsabilità è di chi non ha ottemperato alla dichiarazione di incompatibilità con il regime carcerario".

Sulla vicenda il ministro della Giustizia Roberto Castelli annuncia un’inchiesta. "Ma condanno - dice - il sistema, che non è solo italiano, che due decimi di secondo dopo che è accaduto un fatto ciascuno ha la propria verità rivelata in tasca. Penso che bisogna stabilire esattamente cosa è accaduto e quindi ci vuole del tempo".

"Qualunque cosa avesse fatto non doveva stare in carcere in quelle condizioni" rincara Francesco Ceraudo, presidente dell’ Amapi, associazione che rappresenta i 350 medici che lavorano nelle carceri. Ceraudo ha ricordato che l’Italia ha adottato il principio che quando un detenuto sieropositivo diventa malato di Aids conclamato deve essere scarcerato, "ma troppo spesso i magistrati di sorveglianza non applicano queste norme e a volte neppure le conoscono".

Anche il presidente del partito dei diritti civili, Vittorio Sgarbi, si chiede perché "quella donna si trovava in cella anche se gravemente malata". "Questo - replica a distanza Castelli - non è competenza del ministero ma del magistrato di sorveglianza. Bisogna vedere se i medici lo hanno segnalato doverosamente e verificare se il magistrato ha preso delle misure o meno". (Il Giorno, 11 maggio 2005)

 

Ma questa è solo l’ultima notizia scandalosa, di Adriano Sofri

 

L’ultima notizia è così scandalosa che fa digrignare i denti, ma è solo l’ultima notizia scandalosa. Viene da Rebibbia, l’avete letta l’altro ieri, 11 maggio, ma Emanuela Fozzi, detenuta di 26 anni di Frosinone, era morta già il 16 aprile scorso. Di varicella, vittima di una di quelle epidemie che in carcere si propagano più prontamente, profittando di un ambiente chiuso e di fibre provate. È scattata una quarantena, per quella varicella che ha investito agenti e carcerate.

L’unico successo del cordone sanitario che siamo in grado di apprezzare sta nel ritardo con cui la notizia della morte di Emanuela è trapelata, corredata da dettagli agghiaccianti quanto abituali. Emanuela era ammalata di Aids, come si dice, conclamato, e per lei, seguendo il dettato della legge oltre che di un’elementare umanità, i medici avevano certificato lo scorso marzo quella condizione che in gergo tecnico si chiama "incompatibilità con la detenzione". Però era rimasta dentro, ad aspettare di ridurre definitivamente di un posto la cifra, record di tutti i tempi, di 58 mila detenuti (mi raccomando, giornalisti distratti: cinquantottomila!

L’ha detto, a denti stretti, il ministro della giustizia). Anche il numero tracimante è ormai un luogo comune, come l’ameno parolone che lo designa, "sovraffollamento", superlativo di un superlativo, perché l’affollamento basterebbe già a far mancare il respiro. Il numero rigonfio va messo in relazione ai tagli al bilancio, che investono strutture e manutenzione (non mi fermerò nemmeno sull’eventualità di speculazioni delittuose sugli appalti carcerari, di cui le cronache riferiscono: non ne so niente, e mi auguro che non sussistano, perché avrebbero, nel contesto della vita dei detenuti e di chi lavora nelle prigioni, una speciale ignobiltà), e investono ancora più seccamente le risorse per la polizia penitenziaria e gli operatori civili, e quelle per un bene primario come la salute. Già dire un’ovvietà come questa - la "salute prima di tutto" - per un’umanità a fondo perduto come il carcere suona stridulo: perché spendere denaro pubblico per la salute dei detenuti appare a troppi come uno scandalo immeritato, e perché si vuole che, trattandosi di malviventi, magari anche solo imputati, sul diritto alla salute debba prevalere la preoccupazione per la sicurezza pubblica. Vedeste in che cosa si traduce tanto spesso: disgraziati da due grammi e quattro soldi appena operati e anestetizzati e con le mani ammanettate alla branda d’ospedale, e scortati da un numero pleonastico e mortificato di agenti.

La questione sanitaria è ai primissimi posti nella lista del dolore carcerario, quel dolore supplementare che si innesta rigoglioso sulla pena senza esservi previsto: perché la pena - parola che basta a se stessa - continua ottusamente a consistere in una belluina reclusione stretta corporale, e su lei, non prevista da costituzioni e codici e sentenze, germoglia e cresce e infesta una selva di odori fantastici, vessazioni fisiche, umiliazioni morali, malattie senza cura né premura. In questo fine settimana i medici e il personale sanitario penitenziario, associati nell’Amapi, tengono il loro congresso a Ischia. La medicina penitenziaria è sballottata da anni in una incertezza da lotteria sul proprio statuto, e oggi si sente in un vicolo cieco. C’è stata, trascinata fino all’estenuazione, la disputa sull’opportunità di tenere la medicina penitenziaria nell’ambito del ministero di Giustizia, che ne garantisse la specificità così peculiare, e di trasferirla al ministero della Salute, che ne assicurasse la parificazione con la sanità offerta all’insieme dei cittadini.

Anni di discussione retorica, anni di pseudo sperimentazione, e infine un ritorno allo status quo, ma ancora più svuotato di identità e di riconoscimento. Poi, una causale applicazione del legame con le regioni che ha reso arbitraria e squilibrata la distribuzione di risorse da un territorio all’altro. Su tutto, una stretta finanziaria che costringeva a ridurre drasticamente la disponibilità di farmaci, compresi quelli di fascia A, le visite specialistiche, la dignità di stipendi e di orari dei medici e infermieri impegnati non di passaggio ma per scelta in questa medicina di guerra.

I medici penitenziari invocano da tempo l’approvazione di un disegno di legge, primo firmatario Mario Pepe, che riconosce finalmente, a loro detta, dignità professionale e tutela dei rischi per medici e infermieri che lavorano nelle carceri. Ora però, proprio alla vigilia del loro congresso, denunciano l’intenzione di contrapporre alla legge un provvedimento che aggraverebbe a dismisura la precarietà e il misconoscimento della loro professione. Esso, dicono, degraderebbe i medici incaricati a medici a convenzione, togliendo loro pensione, tredicesima, ferie e tutele assicurative. Dicono che, costringendo i medici a una rigida incompatibilità, provocherebbe una selezione alla rovescia in favore dell’occupazione esterna. E che affidando la medicina specialistica alle ASL, creerebbe un doppio regime foriero solo di confusioni e sprechi. I medici a congresso spendono parole singolarmente dure contro il progetto e il ministero.

Intanto la progressiva involuzione della popolazione delle carceri, reclutata a man bassa nelle nuove povertà, moltiplicava la diffusione e la virulenza delle malattie e delle invalidità del nostro tempo. Medicina da campo: che, abbandonata a se stessa, conduce inevitabilmente a due opposti esiti, il cinismo o l’abnegazione. Ho detto più volte della condizione fortunata del carcere che abito, dovuta anche al rilievo del suo Centro clinico e alla dedizione dei suoi responsabili. Altrove, vengo sapere si esempi vistosi e dell’abnegazione e del cinismo. Anche del cinismo, o dell’indifferenza, resa più coriacea dalla consuetudine con luoghi infernali. Misuro su me stesso, sulla pelle che i tanti anni hanno conciato, l’assuefazione e quasi il fastidio nei confronti di tanto dolore e pianto e disperazione e inebetimento.

Dall’Associazione dei medici, abusando di una lunga confidenza con il suo presidente e i suoi colleghi della mia galera, mi aspetterei che facesse un maggior conto della propria capacità di ispezionarsi e ripulirsi al proprio interno, per affrontare con tutte le carte in regola i suoi interlocutori, che siano il governo e le sue priorità finanziarie e le sue dilapidazioni retoriche, oppure quella magistratura che tratta le certificazioni cliniche come seccature cartacee, o quella parte di autorità carcerarie che sospettano nella premura per la salute dei cittadini detenuti un attentato alla sicurezza. La giovane donna di Rebibbia è morta di galera, e per giunta non doveva stare in galera (e se state pensando che la morte di una persona detenuta e tossicodipendente, per di più malata e, secondo la ripugnante dizione "terminale", pesi meno di qualunque altra morte, mordetevi la lingua, e vergognatevi!).

Nel suo caso, sembra che i medici che l’avevano in carico abbiano fatto il loro dovere. In altre circostanze non è stato così. L’Associazione dei medici penitenziari è insieme una specie di sindacato, dunque legittimamente impegnato alla difesa della dignità economica e professionale del corpo, e però una comunità di titolari del giuramento di Ippocrate in un luogo nel quale esso riacquista la solennità sacra altrove attenuata dalla medicalizzazione frivola della vita. Il discorso pubblico dell’Amapi e del suo presidente Francesco Cerando sul diritto alla salute e la dannazione patogena del carcere è limpido e coraggioso. Le sue applicazioni non lo sono abbastanza in troppe carceri, e bisogna che l’avarizia dei governanti non diventi un alibi alla distrazione, L’ignoranza o la cattiveria di medici infedeli. La situazione nelle galere è tale da meritare da tempo un’indagine parlamentare vasta come le più degne dell’Italia unitaria, e i titolari della giustizia dovrebbero per primi volerla e promuoverla. Intanto, le persone di buona volontà, ciascuno per la propria competenza, sanitari, agenti, educatori e psicologi, volontari e difensori civili, potrebbero più metodicamente scrutare, ciascuno per il proprio compito, l’universo carcerario, e ascoltare la voce dei detenuti. Ci vuole coraggio, perché l’impulso primo è coprirsi le orecchie.

Lo faccio perfino io,m che vedo accumularsi nel mio infimo spazio centinaia di lettere dalle carceri cui non so e non posso rispondere. Anche l’elenco dei malanni penitenziari è ormai stanco e ripetitivo, come una visita frettolosa a un cimitero metropolitano.Lo ripeterò di nuovo, stancamente, citando l’indizione congressuale dei medici. 58.000 detenuti (di cui solo 2.400 donne. Un dato che aspetta ancora qualcuno che ne voglia trarre le meravigliose conseguenze sociologiche e culturali). 20.000 tossicodipendenti, 21.500 cosiddetti extracomunitari. 8.600 affetti da epatite virale cronica. 4.000 sieropositivi per hiv. Nel corso dell’anno 2004 si sono registrati 52 suicidi, 22 suicidi nei primi 4 mesi del 2005. 1.100 atti definiti tentati suicidi. 6.450 scioperi della fame. 4.850 episodi di autolesionismo. Ora chiudete gli occhi e ripetete i numeri. È un gioco. Tiene allenati contro la smemoratezza. Come dare la testa contro il muro, metodicamente, tutto il giorno, tutti i giorni. Conosco un tipo che fa così. Si tiene in forma. È uno di quelli che hanno rinunciato a chiedere: "E dell’amnistia che si dice?". (Il Foglio, 13 maggio 2005)

 

Suicidio: 17 aprile 2005, Carcere di Parma

 

Gioia Tatiana Valleroni, 40 anni, si suicida nel carcere di Parma. Nessun organo di informazione ne da notizia. La segnalazione ci arriva dalla sorella Cinzia, che manda alla nostra redazione questo messaggio di posta elettronica: "Gioia Tatiana Valleroni si è suicidata nel carcere "La Pulce" il 17.04.05. L’ora del decesso pare intorno alle 4.38 di notte. È una di quelle morti che passano inosservate: i quotidiani non ne hanno fatto parola.

Dove stava il Servizio "di attenzione al disagio psichico"? Nei giorni precedenti al suicidio c’erano stati segni, atteggiamenti e richieste inquietanti, come quella di essere messa in cella da sola; richiesta che è stata esaudita (quanta comprensione…). Nei giorni seguenti al suo arresto (ottobre 2004) il sistema sanitario del penitenziario non ha ritenuto necessaria una cura sostitutiva all’eroina, da lei assunta da oltre vent’anni. Anche durante l’udienza del 22.10.2004 era in evidente stato di astinenza, tanto che il giudice si pose il problema se sospendere o meno la seduta. Adesso a chi chiedere di fare chiarezza? E, soprattutto, cosa fare perché i detenuti vengano tutelati, rispettati e restituiti vivi? Cinzia; sorella di Gioia".

 

Suicidio: 23 aprile 2005, Carcere di Teramo

 

Domenico Gentile, di 54 anni, si impicca con la cintura dei pantaloni alle sbarre della finestra della sua cella. Originario di Fallo (Chieti), ma residente a Pescara, stava scontando una condanna per tentativo di omicidio. Il corpo è stato trovato nel corso del controllo della cella da parte degli agenti penitenziari. L’uomo non ha lasciato alcun biglietto in cui spiega il suo gesto. Gentile era stato condannato il 17 febbraio 2000 dal Tribunale di Pescara a cinque anni e due mesi di reclusione per avere accoltellato una prostituta pescarese di 57 anni. Il fatto era accaduto il 20 aprile 1999. Secondo l’accusa l’uomo aveva tentato di uccidere la prostituta nei pressi della pineta di Pescara, dopo un rapporto sessuale. (Il Tempo, 24 aprile 2005)

 

Assistenza sanitaria disastrata: 27 aprile 2005, Carcere di Secondigliano (Na)

Ciro, detenuto italiano di 40 anni, muore in cella. La notizia viene diffusa da un compagno di cella tramite una lettera a Riccardo Arena, direttore di “Radio Carcere - Radio radicale”. Ecco il testo della lettera: “Volevo raccontarti quello che è successo il 27 aprile nel carcere di Secondigliano e di cui nessuno ha parlato. Il 27 aprile ero detenuto in una cella del carcere di Secondigliano insieme a Ciro, 40 anni. La mattina del giorno dopo Ciro si è sentito male e ha iniziato a vomitare. Io ho pensato che fosse un semplice mal di stomaco, ma così non era. Ciro infatti ha iniziato a diventare cianotico, a quel punto io ho capito la gravità della situazione e ho chiamato l’agente di turno. Erano le 6 di mattina e nessuno mi rispondeva. Dopo circa 13 minuti è arrivato un agente che, viste le condizioni di Ciro, ha chiamato l’infermeria. L’infermiere è arrivato dopo 10 minuti, o forse più e ha deciso di chiamare un medico. Nel frattempo io ero lì che tenevo Ciro tra le braccia, ho iniziato a piangere perché non sapevo cosa fare e Ciro intanto non mi rispondeva più. Dopo poco ho visto il suo ultimo respiro, che non potrò mai dimenticare. Quando si sono resi conto che Ciro era morto hanno aperto la cella e mi hanno fatto uscire. Poi, così come mi trovavo in pigiama e in pantofole, mi hanno messo in un’altra cella, dove sono rimasto per 27 giorni. Non avevo nulla, perché i miei vestiti erano rimasti nella cella dove era morto Ciro e solo grazie alla solidarietà degli altri compagni ho potuto avere un cambio di biancheria e dei pantaloni”. Lettera di un detenuto a Riccardo Arena, di Radio Carcere, 20 giugno 2005

 

Suicidio: 28 aprile 2005, Carcere di Sulmona

 

Francesco Vedruccio, 37 anni, pugliese, si impicca in cella. Il suicidio avviene nel bagno della cella, che l’uomo condivideva con un altro detenuto. Vedruccio, condannato per associazione per delinquere, si impicca alle sbarre della finestra utilizzando il cordone della tuta. Detenuto in alta sicurezza Vedruccio aveva da scontare una pena fino al 2010. A quanto riferito dal compagno di cella l’uomo avrebbe giocato a carte fino ad un’ora prima di decidere di togliersi la vita. A scoprire l’accaduto è stato proprio l’altro detenuto che, insospettito dal fatto di non vederlo più uscire dal bagno, ha bussato ripetutamente alla porta senza avere risposta. Vedruccio - secondo quanto si è appreso - avrebbe avuto problemi familiari, in particolare con un figlio che sembra non volesse più saperne di lui. Sull’accaduto è stata aperta un’inchiesta da parte della magistratura, mentre il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria avvierà un’ennesima ispezione interna.

Al suicidio numero sette nel supercarcere di Sulmona il Dipartimento amministrazione penitenziaria ipotizza uno spostamento di detenuti per alleggerire la pressione da affollamento. Il ministro della Giustizia Castelli e il capo del Dap, Giovanni Tinebra, sono stati costretti a un blitz nel penitenziario abruzzese per il clamore suscitato dalla fine di Francesco Vedruccio, che si è impiccato alla finestra della cella con il cordone della tuta.

"Quello dei suicidi nel carcere di Sulmona - spiega Pierluigi Vigna, procuratore nazionale antimafia - è un caso emblematico, ma non unico, perché mette in evidenza le difficili condizioni che esistono in generale nel sistema carcerario a causa del male endemico del sovraffollamento".

Sono 56.840 i detenuti nei 220 penitenziari, ciascuno può contenerne 40 mila. Anche se il bunker di Sulmona non è al collasso, Tinebra ha ordinato all’amministrazione di ripensare la gestione del carcere dopo avere individuato "particolari criticità", così da intervenire anche attraverso il trasferimento di detenuti. "È necessario - aggiunge Vigna - che si trovino ulteriori istituti, perché si possa dare piena attuazione a1 regolamento carcerario del 2000 che prevedeva condizioni più vivibili". Il direttore del carcere, Giacinto Siciliano, rivendica per la struttura di Sulmona un immagine diversa da quella di carcere dei suicidi. Ma il responsabile dell’area medica, Fabio Federico, solleva un’ipotesi inquietante, confermata dal racconto di un detenuto salvato per un soffio: sarebbe proprio la formidabile eco sulla stampa ad incentivare i tentativi di suicidio. Una spirale perversa, un vero e proprio "effetto domino" innescato dalla morte della direttrice Armida Miserere che, nell’aprile del 2003, si sparò in ufficio. (La Repubblica, 29 aprile 2005)

 

 

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