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Viaggio nel mondo delle carceri italiane
"Ramon e gli altri" è un lavoro in costante evoluzione ed aggiornamento. Sarà nostra cura aggiornare l’inchiesta periodicamente, ogni qualvolta emergeranno altri casi specifici o altri dati di interesse generale sull’argomento. Chi volesse formulare osservazioni o fornire il proprio contributo è pregato di mandare una mail all’indirizzo info@ecomancina.com.
La storia di Patty e di Ramon di Francesco Barilli e Francesca Frizzi Maniglio
Genova, 28 dicembre 2003 – intervista a Patricia Retamal
Domanda: Vorrei che fossi tu a fare l’introduzione a questa intervista, dicendo in breve chi sei e perché sei qui in Italia.
Patty: Mi chiamo Patricia Retamal. Sono arrivata in Italia lo scorso 14 novembre, per mio figlio Ramon. Pochi giorni prima mi avevano avvertito che era in coma e ne avevano già dichiarato la morte cerebrale. Ramon aveva tentato il suicidio il 28 ottobre, mentre era in carcere; era già morto il 13 novembre, mentre stavo arrivando in Italia.
Domanda: Quando e per quale reato era stato arrestato tuo figlio Ramon?
Patty: È stato arrestato nell’agosto 2001 per furto d’auto. Lo hanno condannato a tre anni. Viveva a Genova e lo hanno incarcerato all’istituto penitenziario di Marassi; dopo pochi mesi fu trasferito al carcere di Iglesias, in Sardegna, dove si è ucciso.
Domanda: Quali erano le sue condizioni a Marassi? Sei riuscito a sentirlo, in quel periodo?
Patty: Sì, lui mi scrisse. Disse che stava male, che cominciava ad avere problemi di salute… Già a Marassi aveva tentato per due volte il suicidio con il gas; aveva inalato il gas della bombola per la cucina… Mio figlio stava male, ma invece di curarlo lo hanno trasferito ad Iglesias…
Domanda: C’è però un’altra cosa di cui tu mi hai parlato tempo fa: a tuo figlio, mi dicesti, in carcere era stata diagnosticata l’epilessia e prendeva delle medicine per quello. Aveva mai mostrato dei sintomi, in precedenza? E questo tipo di informazioni sul suo stato di salute ti arrivarono solo da lui o anche da personale medico del carcere?
Patty: Non aveva mai mostrato sintomi di epilessia; io ho il ricordo di mio figlio come di un ragazzo pieno di vita… Che gli avessero diagnosticato l’epilessia e che gli dessero dei farmaci per quello l’ho saputo sempre e solo da lui, dalle sue lettere. Certo, fui sorpresa del fatto che il personale dell’ospedale dove mio figlio era morto dicesse invece che Ramon non era epilettico…
Domanda: Tu mi hai detto che ad un certo punto tuo figlio, dopo aver tentato il suicidio per due volte, da Marassi fu trasferito al carcere di Iglesias. Ad Iglesias come cambiano, se cambiano, le sue condizioni, sia dal punto di vista della salute che dal punto di vista del suo morale?
Patty: Lui diceva che lì non veniva curato. Che loro non si preoccupavano del fatto che stava male. Tornando ai nostri contatti, mio figlio mi scrisse una lettera firmandosi con un nome falso (Michael Chavez), quando ancora era in carcere a Marassi. Io risposi intestando la lettera al nome corretto (Ramon Carrasco Retamal) ma la lettera mi tornò indietro perché a Marassi non risultava alcun detenuto con quel nome. In seguito lui mi rispose "Mamma, perché mi hai scritto con quel nome?!". Allora io gli ho risposto seguendo le sue indicazioni… Però questa è una cosa che non ho mai capito, perché lui avesse deciso di dare un nome falso… Lui mi disse che in parte era perché non aveva il passaporto, e soprattutto perché non voleva che il suo vero nome venisse infangato, compromesso da questa storia. Uscito dal carcere avrebbe voluto rifarsi una vita, con il suo vero nome "pulito". Provai ancora ad insistere "Per piacere, figlio mio, dì a quelli del carcere quale è il tuo vero nome! Perché devi mentire su questo?" Lui mi rispose di lasciarlo in pace e di non intromettermi; mi disse che ero sempre preoccupata solo per la storia di quel nome… Io volevo andare al Consolato, quando venni a sapere che Ramon era malato, ma mio figlio mi scrisse in una lettera di non andare al Consolato, perché forse sarebbe stato rimpatriato in Cile.
Domanda: Nelle sue lettere cosa ti raccontava della sua vita in carcere? Tu quante volte sei riuscito a contattarlo, e come? Tramite lettere o ci furono anche telefonate?
Patty: Telefonate no, mai. Non aveva il permesso per telefonare a casa. Sulle sue condizioni, fu proprio in una lettera che mi disse di essere sempre più depresso e che a Marassi aveva tentato per due volte di uccidersi, con il gas. Risposi a quella lettera implorandolo di non fare altre sciocchezze, dicendogli che a casa lo pensavamo sempre e che lo aspettavamo… Dopo tre mesi lo mandarono in Sardegna, per scontare il resto della pena. Dopo altri sette mesi fu riportato a Genova, per il processo d’appello; mio figlio sperava di ottenere i domiciliari o di poter scontare la restante pena in Cile, ma la risposta fu negativa. Ricordo che mio figlio mi raccontò che in quel breve periodo di ritorno a Marassi le guardie lo tenevano sotto controllo costantemente, perché lì aveva tentato due volte il suicidio; e che a Marassi non lo volevano, probabilmente proprio perché lì aveva già tentato di ammazzarsi.
Domanda: Sempre riguardo ad eventuali differenze fra Marassi ed Iglesias: In Sardegna cambia la situazione, riguardo ai vostri contatti? Riesci a telefonargli?
Patty: No, anche in Sardegna le telefonate sono impossibili, ma proseguono le lettere.
Domanda: Lui ti dice qualcosa sulle sue condizioni? Ti parla ancora dei suoi propositi di suicidio?
Patty: Sì. C’è una lettera, che in questo momento non ho (è in mano all’avvocato). In quella lettera dice che vuole suicidarsi e che è disperato perché dopo l’appello non lo hanno rimandato in Cile; che gli mancano le forze e che continua a cadere a terra.
Domanda: Una domanda purtroppo dolorosa ma inevitabile: come hai saputo del suicidio di Ramon, e cosa hai potuto ricostruire dei suoi ultimi giorni?
Patty: Un mese prima della sua morte mi scrisse una lettera; diceva che era molto triste e che avrebbe voluto vedere la sua famiglia. Che non ce la faceva più, che non aveva più forze… Però mi diceva di non piangere, che sapeva che continuavo a piangere, ma che prima o poi sarebbe riuscito a tornare da me, in Cile. Mi diceva che sentiva che stava diventando pazzo; che cominciava a parlare da solo, a sognare morti che gli venivano a parlare, a sognare di morte… Che era sempre solo, perché il suo compagno di cella (un altro cileno) lavorava in carcere, ed aveva degli orari per cui non lo vedeva mai… In quella cella solo due persone!… Non so perché non l’abbiano portato in una cella con altre persone, o in infermeria… Non l’hanno aiutato, hanno aspettato che s’ammazzasse… Mio figlio ormai non era più lucido, si sentiva. Diceva che non riusciva più a chiudere le palpebre… Non so, io penso che ormai fosse la sua immaginazione malata a fargli credere certe cose…
Domanda: Tu hai detto che tuo figlio stesso sentiva che la sua salute mentale era a rischio. In un altro momento m’hai raccontato che ad Iglesias furono le stesse guardie carcerarie a bollarlo come "il pazzo", che ridevano di lui… Vorrei che fossi tu a raccontare questo aspetto della storia di Ramon.
Patty: Sì, mio figlio mi scrisse in un’altra lettera che la polizia carceraria era inumana. Lo chiamavano "il pazzo", e per questo lui non voleva più uscire dalla cella (neanche in corridoio), perché tutti ridevano di lui, e questo non lo sopportava… Quando era già morto ho conosciuto un signore, un barista di quelle parti, che mi disse che le guardie, lì, si ubriacano in continuazione; che chiedevano ai carcerati di procurargli foto pornografiche o foto delle loro fidanzate nude in cambio di sigarette o vino…
Domanda: Tornando agli ultimi momenti di Ramon: mi racconti come e quando sei venuta a sapere del suicidio?
Patty: Mio figlio ha tentato il suicidio all’una di pomeriggio del 28 ottobre scorso. Io l’ho saputo 10 giorni dopo. Mi telefonò mio fratello, che vive in Italia. "Cerca di stare tranquilla… ho una brutta notizia… Tuo figlio si è impiccato. È in coma e ne hanno già dichiarato la morte cerebrale". Fu mio fratello a dirmi che era successo dieci giorni prima. Io non riuscivo a crederci, e non riuscivo a capire perché fosse passato così tanto tempo. "Al carcere non hanno avvisato nessuno", rispose mio fratello. Mi disse che avevano cercato Lisa, la convivente di Ramon: i carabinieri le avevano mandato un telegramma l’otto novembre, dicendole che doveva contattare con urgenza il carcere di Iglesias, ma senza dare altre spiegazioni.
Domanda: E l’avvocato di Ramon? Anche a lui non furono date notizie in quei primi dieci giorni?
Patty: No, neanche l’avvocato Tambuscio sapeva nulla. La prima notizia arrivò l’otto di novembre con quel telegramma… La ragazza di Ramon chiamò subito il carcere di Iglesias, per chiedere notizie, ma le dissero che Ramon non era più lì, e di chiamare subito l’ospedale. Quando seppe che Ramon era già in coma anche Lisa era disperata, e si domandò perché nessuno le avesse detto niente, prima.
Domanda: Sembra tutto assurdo ed ingiustificabile, ma l’amministrazione penitenziaria come spiega quel ritardo?
Patty: Lo giustifica sempre col fatto che Ramon aveva dato false generalità. In carcere però avevano sicuramente un "registro" della corrispondenza dei detenuti; avevano ben presenti gli indirizzi di chi aveva scritto a Ramon, era impossibile che non sapessero chi avvisare, indipendentemente dal fatto che Ramon fosse registrato sotto falso nome. Le guardie avevano di sicuro gli indirizzi e i numeri di telefono miei, di Lisa e dell’avvocato di Ramon.
Domanda: Tu quando arrivi in Italia?
Patty: il 12 novembre, dopo aver raccolto i soldi necessari per il biglietto aereo, sono partita da Talcahuano per Nizza. Io arrivo a Nizza e poi ad Imperia, ma perdo la coincidenza per Genova. Il 13 novembre Ramon muore in ospedale… Il 14 arrivo a Genova e vengo a sapere che Ramon non c’è più…
Domanda: Sei mai riuscita a parlare con personale del carcere?
Patty: Ho parlato con la signora Caterina, un’assistente carceraria. Fu lei a venire a prendermi all’aeroporto. Mi disse in maniera sbrigativa che dovevo dare l’autorizzazione per cremare il corpo. Io non capii subito cosa intendesse. Caterina mi spiegò che per mandare il corpo in Cile ci volevano molti soldi, e che era molto più conveniente farlo cremare. Mi disse che se autorizzavo subito la cremazione ci potevano pensare loro alle spese per un funerale dignitoso. Io gli risposi che di un funerale "dignitoso" non m’importava nulla! Quello che volevo sapere era come era morto mio figlio… Caterina mi rispose che di spiegazioni ne avevano date già abbastanza; che il carcere non aveva nessuna colpa, e che il Magistrato aveva già archiviato l’inchiesta perché era tutto chiaro, si era trattato di un "normale" suicidio…
Domanda: Tu hai sentito il Magistrato in quei giorni? Direttamente o tramite l’avvocato Tambuscio?
Patty: No. E anche Tambuscio seppe della morte di Ramon con grande ritardo. Quando lo sentii mi fece le condoglianze e mi offrì tutto il suo aiuto, e mi confermò che anche lui non era stato avvertito tempestivamente del gesto di Ramon.
Domanda: Tornando a Caterina, che ti dà queste spiegazioni molto generiche. Ti dice che l’inchiesta è già archiviata: quindi tu ora sei già in possesso degli effetti personali di tuo figlio?
Patty: No, al momento non ho nulla; tutto è ancora in mano al Magistrato. Quando parlai con Caterina e le dissi che volevo parlare col giudice mi rispose che non era importante, che il caso era già chiuso. Un avvocato in Sardegna, in contatto con Tambuscio che è di Genova, gli disse però che il caso non era chiuso… Che se avevano detto così a me era solo perché io non insistessi con altre richieste. Penso che questo sia stato fatto per difendere l’amministrazione del carcere, per evitargli problemi…
Domanda: Mi viene spontanea una domanda: pur essendo ignorante in queste procedure, se un caso di suicidio attiva l’interesse di un Magistrato penso che la prima cosa da fare sia l’autopsia… Tu però mi dicevi che non è stata disposta l’autopsia…
Patty: Sì, anche a me sembrava naturale. Sono anche queste risposte che mi attendevo: se mio figlio prendeva delle pastiglie, se queste possono avere influito sulla sua salute, fisica e mentale… Ma cosa è successo a Ramon nessuno me lo vuole dire. Alle mie richieste è stato risposto sempre e solo "no, non si può fare"… No, l’autopsia non si può fare perché non ci sono fondati motivi; no, avere le lettere e gli effetti personali di mio figlio non è possibile, perché è il Magistrato ad avere tutto…
Domanda: Ci sono altre cose che ti senti di dire rispetto a quella che è stata la tua "accoglienza", per così dire, in Italia?
Patty: Sono stata ospitata presso la Caritas per quattro giorni. Dopo quei quattro giorni Caterina mi disse che non potevano più ospitarmi, che tanto non c’era niente da fare per mio figlio, se non firmare per la cremazione e andarmene... Io mi misi a piangere. Volevo restare lì, non mi rassegnavo. Volevo vedere chiaro in quello che era successo… Ma Caterina mi ha ripetuto che lì non potevo più stare. Io mi domandavo il perché di quella insistenza. La Caritas non dovrebbe essere così; la carità lo so anch’io cos’è: la carità è amore, non è quello… Lei mi disse che se proprio non volevo la cremazione, l’unico aiuto che poteva darmi la Caritas era pagarmi la bara per portare il corpo in Cile… Sarebbe triste se, dopo averlo detto, non facessero neppure quello…
Domanda: A me sembra molto importante il discorso dell’isolamento in cui è stato tenuto tuo figlio: il suicidio di Ramon mi sembra dipendere moltissimo dalle condizioni in cui è vissuto in carcere. Ma vorrei che tu mi dicessi cosa è significato PER TE vivere un anno e mezzo senza avere contatti con tuo figlio, e se hai mai riflettuto sul fatto che se anche tu fossi arrivata in Italia prima, quando era ancora vivo, probabilmente non avresti potuto vederlo… Non potervi parlare, non potervi dare conforto reciproco, cosa è significato per te?
Patty: Ricordo i primi tempi in cui Ramon era arrivato in Italia: mi telefonava in continuazione. Cercava di andare avanti in questo nuovo Paese, anche se diceva che non era facile trovare opportunità di lavoro in Italia, per quelli come lui che non avevano il permesso di soggiorno, e che non poteva neppure tornare a casa perché non aveva soldi per il biglietto aereo. Da quando è entrato in carcere non ho più potuto sentire la sua voce… E questo mi mancava, molto… Se a mio figlio fosse stata concessa la possibilità di telefonare anche dal carcere, sarebbe stato diverso; perché sentire la voce della tua famiglia è molto importante. Con le lettere è diverso: le lettere tardano dieci, quindici giorni… Se lui mi avesse detto con la sua voce che era così disperato da pensare al suicidio avrei potuto dirgli qualcosa per farlo desistere… Avrei potuto dirgli almeno quanto gli volevo bene, forse sarebbe bastato…
Domanda: Vuoi dire qualcosa per finire questa intervista, lasciare un tuo messaggio a chi ci sta ascoltando?
Patty: Sì. Vorrei dire qualcosa a "quelli che comandano" le carceri in Italia, a quelli che stanno attenti solo "all’ordine" nelle carceri; a quelli che lavorano in quell’ambiente: che devono pensare anche al lato affettivo dei detenuti. Vorrei dire a questi signori che anche loro hanno dei figli… e i figli crescono, e noi non sappiamo a quali scelte li può portare la vita. Io ho guardato il vostro modo di vivere, i vostri bambini, e so che siamo tutti uguali… Io Ramon ricordo come l’ho allevato, lo ricordo come un ragazzo allegro e pieno di vita… Io dico che la vita è qualcosa che Dio ti dà ed è Dio che ti deve togliere. "Ci sono le leggi", loro dicono… Io dico che le leggi si possono cambiare: che chi ha il potere per cambiarle deve preoccuparsi anche della salute mentale dei detenuti, non solo di dar loro da mangiare tutti i giorni. Devono dare un aiuto anche psicologico a quei ragazzi, non solo rinchiuderli in una cella, con due persone, con una sola ora al giorno per uscire in cortile… Perché adesso che è successo a me io non trovo le parole per dire quanto mi fa male la morte di mio figlio… Ora sono qui, in un paese straniero, senza soldi, e spero solo che qualcuno mi aiuti per l’unica consolazione che mi è rimasta: riportare il corpo di mio figlio in Cile. In una bara, ma riportarlo dalla sua famiglia, non lasciarlo qui… Mi hanno detto di stare zitta, ma io non sto zitta, io voglio la verità. Perché so che lì, in quel carcere dove è morto mio figlio, si sono uccisi anche altri ragazzi, troppi… Lì succede qualcosa di strano, e la giustizia non fa nulla. E allora voglio fare qualcosa io, non solo per mio figlio, ma anche per gli altri che si sono ammazzati, lì…
Abbiamo scelto di aprire questa inchiesta con l’intervista a Patty, madre di Ramon. Le sue parole ci sono sembrate la migliore introduzione possibile a questo nostro "viaggio nel mondo delle carceri italiane", un viaggio che non ha la pretesa di mostrare un quadro esaustivo di quel mondo, ma il solo scopo di amplificare un grido di dolore e di allarme troppo sommesso e che fino ad oggi è giunto ad orecchie distratte. Il caso di Ramon ci è sembrato emblematico. Ne siamo venuti a conoscenza praticamente per caso: persino gli organi di controinformazione on line, sempre attenti e sensibili a queste tematiche, non ne hanno dato notizia; il suo nome non figura neppure tra le statistiche dei suicidi nelle carceri che un sito come www.ristretti.it (lodevolmente impegnato da anni nel documentare le condizioni di vita nelle carceri italiane, e dal quale abbiamo attinto molte informazioni utili per la nostra ricerca) tiene costantemente aggiornate. È bene precisare che nelle nostre parole non c’è alcuna critica né ai siti di controinformazione né a ristretti.it (che anzi ringraziamo per la mole di dati a cui abbiamo potuto attingere per la nostra ricerca): il silenzio sulla vicenda di Ramon non è da imputare certo a loro distrazione o superficialità. La verità è molto più complessa ed inquietante: il ragazzo cileno rappresenta un simbolo di quell’umanità sommersa che affolla le nostre carceri; un mondo che resta troppo distante proprio da quella società civile alla quale le carceri dovrebbero guardare con attenzione, nell’ottica di un futuro reinserimento dei detenuti. Che la nostra società sia strutturata in classi è una verità contestabile solo da chi sceglie di non vedere la realtà quando scomoda. Che questa strutturazione si rifletta, in modo anche più rigido, in un microcosmo quale è il carcere appare altrettanto naturale… Chiunque abbia il coraggio e la voglia di guardare a quel microcosmo lontano e scomodo può dunque immaginare che anche nelle carceri esistono cittadini di serie A e di serie B. Ma se con quel coraggio e quella voglia riusciamo ad andare oltre la superficie del "problema carceri" ci accorgeremo che la stratificazione sociale va ben più a fondo. Esiste una serie C di detenuti, e anche oltre… Potremmo parlare, come nel caso di Ramon, di una sorta di "desaparecidos all’italiana". Di uomini che in carcere non vengono privati della sola libertà, ma pure dei diritti fondamentali che vanno garantiti ad ogni uomo in quanto "soggetto di diritti", indipendentemente dalle colpe di cui si può essere macchiato. Detenuti che vivono in uno stato di totale isolamento dal mondo e dai propri affetti, che possono ricevere visite o fare telefonate con estrema difficoltà… Se la retorica vorrebbe che il carcere abbia compiti non solamente punitivi, ma anche finalizzati al recupero ed al reinserimento dei soggetti nella società, la realtà appare molto diversa. Ed è nostra opinione che la "società civile" stia accettando supinamente, o addirittura approvando in modo strisciante, il giro di vite che negli ultimi anni si è voluto dare al sistema carcerario italiano. Il clima di insicurezza e di precarietà in cui viviamo, in gran parte alimentato ad arte dai media e da certe forze politiche, ci fa forse sembrare che il semplice e rigido isolamento di chi ha sbagliato sia un prezzo accettabile (o addirittura necessario) per ottenere maggiore sicurezza. Che poi questa riduzione dei diritti dei detenuti concretizzi davvero una maggiore sicurezza resta tutto da dimostrare. Sembra invece che quella riduzione dei diritti si traduca in un’ulteriore brutalizzazione dei detenuti, con conseguenti minori possibilità di futuro reinserimento degli stessi nella società. Il caso di Marcello Lonzi, di Francesco Barilli
L’11 luglio 2003, al carcere "Le Sughere" di Livorno, moriva Marcello Lonzi, 29 anni, detenuto con ancora pochi mesi di pena da scontare. Secondo l’autopsia la morte sarebbe avvenuta per cause naturali (infarto), ma quasi subito sono nati forti dubbi sulla versione ufficiale. Su denuncia della madre del detenuto, il PM Roberto Pennisi aprì un fascicolo contro ignoti, per omicidio: la morte di Marcello sarebbe avvenuta, secondo la denuncia, in seguito ad un violento pestaggio, come evidenzierebbero pure le foto dell’autopsia. In data 10 dicembre 2004 il GIP ha però accolto la richiesta di archiviazione presentata dal PM, escludendo ipotesi diverse dalle "cause naturali" per il decesso. Del caso Lonzi ci siamo già occupati, pubblicando una lettera firmata da Sergio Segio (Gruppo Abele di Milano), Patrizio Gonnella (Coordinatore nazionale di Antigone), Franco Corleone (Garante dei diritti dei detenuti di Firenze), Ornella Favero (Ristretti Orizzonti). La trovate qui: http://www.ecomancina.com/lonzi.htm È con viva convinzione che aderiamo all’appello finale di quella lettera, in cui si chiedeva la fattiva collaborazione dei media nel seguire una vicenda che, al di là del provvedimento di archiviazione, presenta molti aspetti a dir poco inquietanti. Forniamo il nostro contributo con un’intervista a Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi.
Pisa, 22 gennaio 2005 – intervista a Maria Ciuffi
Quando fu arrestato Marcello, e per quale reato? Fu arrestato il 3 gennaio 2003, per tentato furto. Lo portarono in Questura, dove fu anche picchiato… Tengo a precisare che su questo aspetto non mi sono mai soffermata più di tanto: forse è vero che al momento dell’arresto aveva bevuto e che fece resistenza, per cui certe conseguenze possono essere comprensibili… Ma il punto è un altro, come ho già detto altre volte ad altri giornali: mio figlio non era un santo, ma non doveva morire in carcere. Aveva preso una condanna per 8 mesi, aveva ancora pochissimo da scontare; presto sarebbe entrato in una comunità, ed aveva tutta la vita davanti…
Dal 3 gennaio, momento dell’arresto, fino al giorno della sua morte, tu riuscisti a vedere tuo figlio in carcere? No, mai.
Ma ti furono posti degli ostacoli alle visite o ci furono altri motivi? Ti dico la verità: all’inizio io e Marcello ci scrivevamo spesso, ed era lui a non volere mie visite, temeva che io ne soffrissi troppo. Poi, dopo molte insistenze, fu lui a dirmi di andare; un giorno mi recai a Livorno, e trovai in attesa di una visita a mio figlio anche lo zio di Marcello e la sua compagna: ci dissero però che in quel momento mio figlio era a colloquio con la sua convivente. Provai ad insistere: io venivo da Pisa, la convivente era anche lei detenuta, per cui mi sembrava naturale che Marcello potesse vedere noi, mentre il colloquio con la convivente poteva avvenire in un momento successivo, ma il rifiuto degli addetti fu fermissimo; ricordo che ci fu anche un breve alterco con le guardie, a causa delle nostre insistenze. In sostanza non riuscii mai a vederlo: pochi giorni dopo quel tentativo di visita lui era morto.
Nelle lettere che ti aveva inviato cosa ti raccontava della sua vita in carcere? Mi scriveva che alle "Sughere" non si trovava bene; che aveva continue discussioni con le guardie carcerarie, che lo avevano già messo diverse volte in isolamento.
Ma questi alterchi con le guardie fino a dove arrivavano, stando alle sue lettere? Ti parlò mai di maltrattamenti? Penso che i problemi fra lui e le guardie fossero caratteriali. Devi sapere che io glielo avevo sempre detto: "Marcello, tu se vai in carcere ci muori…". Lui aveva un carattere che non poteva sopportare la reclusione... Però quel che voglio dirti è questo: per quanto ho potuto sapere in seguito da altri detenuti, Marcello non si era mai "comportato male" con le guardie. I problemi nascevano quando lui faceva delle richieste e il personale penitenziario gli negava le risposte, o gliele faceva sospirare. Ovviamente sto parlando di cose importanti, non di richieste banali; penso all’orario delle terapie. Da quanto ho capito, per farti un esempio, loro se ne fregavano se tu dovevi prendere il metadone ad una data ora, e magari passavano con ore di ritardo… Ed è chiaro che in quel momento nasce la protesta del detenuto e la conseguente reazione delle guardie.
Veniamo ora, purtroppo, all’aspetto più doloroso: tuo figlio muore l’11 luglio. Tu quando vieni avvertita? Il giorno dopo. Alle 13.20 circa.
E come venne giustificato o spiegato quel ritardo? Guarda, a dire il vero la cosa ancora più terribile è che io non fui avvertita ufficialmente, da nessuno, neppure al pomeriggio del giorno successivo… Da me non vennero né carabinieri, né questura, né mi telefonò il personale del penitenziario… Io lo venni a sapere dalla zia di mio figlio. E anche lei fu avvertita verso le 10 del mattino successivo al decesso. Ti racconto un episodio che può chiarirti ancora meglio il clima di quei momenti. Io conoscevo, già prima della morte di Marcello, Maurizio Silvestri, giornalista di cronaca de "Il Tirreno". Lui conosceva sia me che mio figlio, ma non sapeva che Marcello portava il cognome del padre (Lonzi) e non il mio (Ciuffi). Maurizio lo vidi il 12 luglio, e mi disse che già dalle 22.00 del giorno precedente nella redazione del Tirreno circolava la voce che un ragazzo era morto in carcere; tanto è vero che, prima di chiudere l’edizione del giornale, avevano lasciato spazio su una pagina per inserire la notizia, e aspettavano la telefonata dal carcere, per avere dettagli. La telefonata arrivò alle 23.20 e Silvestri si recò alle Sughere; nei primi momenti, mi disse, si parlava di un suicidio, poi di un infarto, e mi raccontò che trovò in corso una durissima protesta da parte dei detenuti della sesta sezione (cosa sempre smentita dal direttore del carcere). Quindi già da quella sera il nome del ragazzo morto era di dominio pubblico (tanto è vero che il mio amico giornalista mi avrebbe potuto avvertire, se solo avesse potuto collegare il cognome di Marcello a me). Ma nessuno pensò di chiamare me o qualcuno della famiglia, fino al giorno dopo. E nessuno ha mai giustificato, neanche successivamente, quel ritardo; e questo nonostante io sia di Pisa e gli altri familiari addirittura di Livorno, vicino al carcere…
E tu ti sei fatta un’idea sul perché di quel ritardo? Di cose, sulla morte di mio figlio, ne ho pensate tante, e ci torneremo in seguito… Sul ritardo mi sono fatta questa idea: che lui sia addirittura morto prima, fra le 17 e le 18. Non potendolo portare fuori, hanno aspettato la sera, e tutti gli altri ritardi vengono di conseguenza. Io penso che Marcello quella sera non abbia neppure cenato. Infatti mi sono sempre chiesta perché abbiano rifiutato di eseguire gli esami tossicologici, nonostante avessero prelevato alcuni organi vitali proprio a quello scopo: malgrado una nostra esplicita richiesta di esecuzione, quegli esami non sono stati mai eseguiti, e gli organi prelevati sono sempre a Pisa, benché io abbia chiesto che mi siano resi.
Tornando all’immediatezza dei fatti: tu vieni a sapere della morte di Marcello; nei primi momenti si parla di suicidio, poi di decesso naturale. Come reagisci, in quelle ore? Mi precipitai subito da Pisa al carcere di Livorno. L’ipotesi di suicidio, conoscendo mio figlio, mi sembrava totalmente irreale; e pure l’infarto, in un ragazzo giovane e in salute, mi destava dubbi enormi. Era il pomeriggio del 12 luglio, quando arrivai alle "Sughere"; ricordo che mi lasciarono fuori in attesa per più di un’ora. Io non mi intendevo affatto dei "meccanismi" o delle "gerarchie" del carcere; volevo parlare con qualcuno che mi spiegasse cos’era accaduto, ma tutti si sottraevano alle mie richieste. Finalmente, verso le 14,30, mi portarono in direzione. Chiesi di vedere il corpo di mio figlio, ma mi risposero che non era possibile, perché il corpo si trovava già all’esterno del carcere e stavano facendo l’autopsia… Anche questa, a pensarci ora, è una cosa molto strana: nessuno mi aveva avvisato, nessuno mi aveva detto che era mio diritto fare assistere all’autopsia un medico di mia fiducia. Più tardi mi dissero che "dovevo essere io a pensarci". Ma come ci dovevo pensare?! In quel momento, dopo che neppure mi avevano avvertito?!… Mio figlio riuscii a vederlo solo il giorno successivo, 13 luglio, composto nella bara. Il giorno dopo lo seppellirono.
Quando hai visto il corpo ti sono venuti subito i dubbi sulla versione ufficiale? Hai visto le ferite? Ti dirò un particolare che mi è rimasto impresso. Io ero fuori, in attesa che lo componessero nella bara. Uscirono dalla sala due addetti che l’avevano vestito. In quell’atrio non ero sola, per cui loro non fecero caso alla mia presenza: non potevano sapere che ero la madre di Marcello, e parlottavano fra loro; sentii che dicevano: "hai visto che buco aveva nella testa, quello?". Quando mi avvicinai per chiedere spiegazioni se ne andarono subito, senza rispondermi. Un altro particolare tragico che ricordo è che, quando lo vidi nella bara, aveva una striscia di sangue che emergeva sul petto, dalla camicia bianca; e non fui la sola a vederla, quella striscia di sangue… Mi sembrava totalmente innaturale… Però, per tornare al senso della tua domanda, a dirti il vero non pensai subito alle guardie. All’inizio pensai ad una lite con qualche detenuto. Il momento cruciale venne in seguito, quando venni in possesso del referto dell’autopsia con relative foto; mostrai il tutto a Silvestri, il giornalista del Tirreno di cui ti ho parlato. Vedendo le foto lui me lo disse subito: c’erano vere e proprie striature viola sulla pelle; quelli erano i segni di botte, date con un manganello o con un bastone. In quei frangenti fui avvicinata anche dall’avvocato di mio figlio. Nel suo ufficio mi disse chiaramente che Marcello era stato picchiato. Io gli chiesi se sapeva il nome dei detenuti che l’avevano fatto. Lui mi guardò stupito: "Ma quali detenuti?!", mi disse, "sono state le guardie, mentre era in isolamento". Aggiunse che a dargli quella notizia erano stati 4 suoi assistiti, detenuti nella sesta sezione, quella di Marcello, e che quei quattro erano disposti a parlare col Magistrato. Ma poi di quelle testimonianze non vidi più nulla…
C’è un momento in cui hai deciso di parlare tu con altri detenuti? Molti di loro vennero spontaneamente a cercarmi, quando uscivano dal carcere. Mi ha fatto piacere, certo, ma alla fine quando gli chiedevo di andare a dire le stesse cose al Magistrato si tiravano indietro. Se c’è una cosa che ho imparato dalla mia vicenda è che l’omertà non è solo, come si dice, una prerogativa del sud; a volte per menefreghismo, a volte per paura, ma l’omertà c’è anche qui da noi, eccome se c’è! Pensa anche all’archiviazione successiva: è basata essenzialmente su quello che ha dichiarato il compagno di cella di Marcello. Lui disse che le guardie erano accorse subito, che era presente un medico e che Marcello fu prontamente soccorso… Il punto è che quella stessa persona, una volta uscita dal carcere, mi ha raccontato una versione ben diversa: mi disse che aveva dovuto urlare per più di mezz’ora e praticargli lui la respirazione bocca a bocca, e che quando arrivarono le guardie non c’era nessun medico…
E a proposito dei maltrattamenti in generale al carcere "Le Sughere" cosa ti dicevano quei detenuti? Da quanto mi hanno raccontato erano un’abitudine. A volte avveniva per punizione, a volte in seguito a banali discussioni: qualche guardia magari aveva bevuto e alla prima discussione con un detenuto prendeva il malcapitato e lo portava via per pestarlo…
Veniamo ad un aspetto solo apparentemente secondario nella tua vicenda. Tu, ad un certo punto, decidi di non accontentarti delle versioni ufficiali, e chiedi che le autorità approfondiscano quanto accaduto. E questa mi sembra una richiesta pienamente naturale e legittima, alla quale anche l’amministrazione penitenziaria dovrebbe sentirsi in dovere di rispondere… Ho saputo che, invece, tu sei stata oggetto di iniziative "discutibili" ed al limite dell’intimidazione; penso soprattutto ad una lettera, che ho vista pubblicata su Indymedia, in cui si parla di contatti da te cercati per inscenare azioni dimostrative davanti al penitenziario. Volevo sapere qualcosa di più sull’argomento. Devi sapere questo: io all’inizio ero completamente sola; non solo "umanamente", ma pure nelle mie rivendicazioni. Poi una sera mi arrivò una telefonata da un altro giornalista del Tirreno; mi disse che il giorno successivo c’era il processo a Paolo Dorigo, e che ci sarebbe stata pure una manifestazione. Mi disse che anche in quell’occasione si protestava per pestaggi e maltrattamenti subiti in carcere: io decisi di andare, e mi presentai col carteggio dell’autopsia di mio figlio. Trovai diversi giovani, principalmente di centri sociali (c’erano i ragazzi del Godzilla di Livorno, ma anche tanti che venivano da Pisa, Bergamo, Milano…). Gli mostrai le foto, gli parlai del mio caso, ed ottenni subito la loro solidarietà. C’era anche l’avvocato Trupiano: fu in quell’occasione che lo conobbi e lui mi offrì la sua assistenza (in modo totalmente spontaneo e disinteressato, e di questo voglio ringraziarlo di cuore…). Poi devi sapere che io, periodicamente, porto un mazzo di fiori fuori dal carcere. La prima volta andai da sola (e dovetti pure discutere con le guardie: chiesero se avevo il permesso del Comune per lasciare i fiori sul suolo pubblico…); l’anno successivo furono proprio i ragazzi dei centri sociali a dirmi che non sarei più dovuta andare da sola. È questo che voglio dirti: grazie a quei ragazzi io non ero più sola, e questo probabilmente ha dato fastidio a qualcuno… Tu pensa che la lettera di cui tu parli io non l’avevo neppure vista direttamente: l’ho scoperta tra le carte del fascicolo su Marcello. Ed è una lettera assurda: si sostiene, in sostanza, che io cercherei appoggi e sostegno nell’area anarco-insurrezionalista. In realtà io devo dire innanzitutto che non si tratta di "terroristi", ma di ragazzi che mi hanno offerto aiuto e solidarietà spontaneamente, senza che io li cercassi o proponessi loro delle iniziative. E, tengo a precisare, per me la vicenda di Marcello non è una "questione politica", ma solo una ricerca della verità su quanto accaduto.
Immagino che per te sia difficile uscire dalla dimensione personale della vicenda di Marcello, però penso che tu (seguendo il caso di tuo figlio, parlando con altri detenuti eccetera) ti sia fatta anche un’idea del carcere più in generale… Sicuramente sì, ed è un’impressione orribile. Se posso parlare "bene" di un carcere, per quella che è la mia esperienza, posso farlo parlando della struttura di Lucca. Molto umani coi detenuti e anche coi loro familiari; lì c’è rispetto e comprensione, mentre a Pisa o a Livorno… Tu pensa che ora anche il mio attuale compagno è in carcere. In un primo tempo lo mandarono proprio a Livorno. Ricordo che, ad un colloquio, hanno fatto una vigliaccata che non scorderò mai. Ci misero a sedere ad un tavolino; lui mi disse: "stai tranquilla, ma ora guarda alle mie spalle: quelle sono le famose celle di isolamento, quelle dei pestaggi…". Mi avevano messo lì affinchè io potessi vedere. Io guardavo le celle e mi dicevo che era in una di quelle che avevano picchiato mio figlio… Mi interessai subito per un trasferimento del mio compagno, e lo mandarono a Lucca, dove (come ti dicevo) le condizioni di vita dei detenuti sono migliori. Comunque anche il mio compagno, durante la sua permanenza a Livorno, ha scoperto alcune cose interessanti su Marcello. Mi raccontò di un detenuto che ebbe una discussione con le guardie; gli intimarono di uscire dalla cella, e lui rispose: "sì, così mi fate quel che avete fatto a Lonzi…". Il mio compagno, durante l’ora d’aria, si avvicinò a quel detenuto (ovviamente senza presentarsi e senza dire che sapeva chi era Marcello), chiedendo cosa fosse successo a quel certo Lonzi. Quel detenuto rispose: "l’hanno menato e l’hanno ammazzato"; poi, ovviamente, anche questo ragazzo ha ritrattato tutto.
Mi rendo conto che è difficile farti questa domanda… Ma, dopo l’archiviazione, hai ancora speranze nella Giustizia? Ed hai speranze, parlando più in generale, nelle istituzioni (so che il caso di tuo figlio è arrivato anche in Parlamento, attraverso alcune interrogazioni a cui il ministro Castelli ha risposto in modo a dir poco vago…)? Te lo dico col cuore: io prima nella Giustizia ci credevo, moltissimo. Ora no, assolutamente. Poi tieni conto che, da quando sono entrata in "questo mondo", oltre alla storia di mio figlio io ho potuto vedere tante cose. Ho visto che chi ha i soldi ottiene i permessi, i privilegi, più rispetto nel carcere... Io invece non arriverò mai a sapere la verità; o, per meglio dire, non vedrò mai riconosciuta ufficialmente la verità che so già. Mio figlio l’hanno picchiato fino ad ammazzarlo, questo lo so; quello che vorrei sapere è il chi e il perché. Vorrei guardare in faccia queste persone e chiedergli il perché di tutta quella violenza… No, nella giustizia non posso più credere. Quando hanno archiviato il procedimento l’ho detto subito: me l’hanno ammazzato un’altra volta. Per quanto riguarda Castelli: il Ministro parlò di lesioni che Marcello aveva riportato al momento dell’arresto… Certo, mio figlio quando è entrato in carcere aveva un ematoma al ginocchio e un taglio, ma erano ferite banali e dovute alla colluttazione al momento dell’arresto, quindi sei mesi prima della morte. Io al ministro Castelli ho scritto, ma non mi ha risposto. Ho scritto anche a Ciampi, il cui ufficio invece, correttamente, mi ha risposto promettendo interessamento… ma senza che quella lettera avesse un seguito pratico…Ma ti voglio raccontare un episodio che secondo me spiega bene la situazione. Tempo fa mi proposero una fiaccolata in memoria di Marcello. Se ne interessarono i ragazzi di Pisa, quelli del Godzilla, e quelli di Rifondazione/Livorno, arrivammo anche ad un paio di contatti con l’ARCI, sempre a Livorno. Il responsabile dell’Arci giunse a dirmi: "lei però mi assicura che nessuno poi se ne esca con slogan offensivi tipo secondino assassino?". Io restai a dir poco sorpresa: non sono "il capo" di quei ragazzi come facevo a dare un’assicurazione del genere? Allora il responsabile dell’Arci mi disse che non poteva darmi il suo appoggio: se succedeva qualcosa con che faccia, mi disse, avrebbe potuto tornare dai responsabili del carcere, con cui aveva sempre contatti? Questo, mi sembra, era il punto, e glielo dissi. Se lui (che entrava ed usciva liberamente dal carcere) aveva "timore reverenziale" verso la direttrice e le guardie, come pensava potessero vivere i detenuti? Quali limiti possono esistere per persone che vivono in un rapporto di inferiorità palese rispetto all’amministrazione del carcere? Inutile aggiungere che la fiaccolata non fu fatta…
Ma, immagino, questo non vuol dire che tu ti fermi nella tua battaglia… Guarda, io lo dissi sinceramente al Dott. Pennisi: "non provi ad archiviare; avevo solo quel figlio, e non ho più nulla da perdere"… No, non lascio correre una cosa così. È troppo grossa, non è da me…
A proposito del seguito che potrà avere la vicenda, riporto quanto ha affermato l’avvocato Vittorio Trupiano: "Il figlio di Maria, per la storia di cui suo malgrado è stato protagonista, è ora patrimonio di tutta l’umanità. Io di questa turpe storia giudiziaria sono stato anche testimone per cui, con o senza Maria, nessuno mi impedirà di portarla avanti al C.S.M., alla Corte Europea, alla Commissione antitortura in forza a questa, e davanti ai giudici di Genova competenti a giudicare i loro colleghi di Livorno se qualcuno li denuncia penalmente". Ringrazio Maria Ciuffi e l’Avvocato Vittorio Trupiano per la pazienza e la disponibilità che mi hanno concesso. Gli auguro che la loro battaglia di verità e giustizia possa avere pieno successo; e questo sia per quanto concerne il risalto mediatico che merita la vicenda, sia per quanto attiene i risultati pratici presso le sedi competenti. L’ospedale Psichiatrico Giudiziario, di Carlo Del Grande intervista al dottor Adolfo Ferraro, direttore dell’Opg di Aversa
Il luogo in cui ci troviamo non è un carcere, né può essere definito propriamente un ospedale, perché il ricovero non è volontario. Può dirci cos’è un Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG)? Ed in cosa differisce dalle più comuni case circondariali? Innanzitutto i soggetti in opg sono internati, e non detenuti (come avviene in un carcere), ovvero sia sottoposti ad una misura di sicurezza psichiatrica, in quanto giuridicamente ritenuti incapaci d’intendere e di volere e socialmente pericolosi nel momento in cui hanno commesso un’azione delittuosa. L’incapacità d’intendere, in senso psichiatrico forense, viene intesa come la valutazione nel soggetto della capacità di capire il valore o il disvalore dell’azione che si trasforma in delitto; l’incapacità di volere valuta invece la capacità di autodeterminarsi nell’evitamento o meno dell’azione delittuosa. Nel momento in cui sono presenti questi elementi di incapacità, viene riconosciuta nel reo una condizione di non imputabilità, quindi non viene applicata una pena, ma, appunto, una misura di sicurezza che può essere di due, cinque o dieci anni a seconda della gravità del reato commesso. Essa prevede un periodo di internamento all’interno di una struttura come l’opg, che non è un carcere in senso stretto per la presenza di questo tipo di ospiti con i consequenziali significati, e non è un ospedale in senso stretto perché non sempre c’è nel paziente, come dicevi, la volontà di essere internati. È una sorta di TSO (trattamento sanitario obbligatorio), come quelli che vengono messi in pratica nelle strutture psichiatriche del territorio, prolungato nel tempo finché non si riduce la pericolosità sociale del soggetto, ovvero la possibilità che questi possa ripetere lo stesso tipo di azione delittuosa per gli stessi motivi precedenti.
Quanti OPG ci sono in Italia? Gli OPG in Italia sono 6. 5 fanno parte dell’Amministrazione Penitenziaria e sono Aversa (il più antico, fondato nel 1876, in provincia di Caserta), Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Montelupo Fiorentino (Firenze) e Reggio Emilia. Il sesto è a Castiglione delle Stiviere (Mantova), ma è una struttura dell’A.S.L. locale che ha da anni una onerosa convenzione con il Ministero della Giustizia e riceve un certo numero d’internati. In tutta Italia gl’internati sono circa 1.200.
Avete problemi di sovraffollamento? Ci sono strutture come quella di Napoli che sono molto piccole ed anguste perché la maggior parte di esse sono state recuperate da vecchi edifici nati con diversi scopi, come conventi, caserme di cavalleria, antichi palazzi nobiliari e simili. Questo di Aversa è sempre stato un OPG ed ha delle strutture organizzate ad evitare i rischi del sovraffollamento, che comunque è presente, in quanto vi sono alcuni reparti chiusi per ristrutturazione (saranno in funzione tra breve). In ogni caso, anche adesso, riusciamo a mantenere gli spazi vitali per ognuno degl’internati.
In un OPG cura e pena sono gli elementi portanti: in che modo possono trovarsi in equilibrio? E, se così non fosse, su quale linea siete orientati qui? L’idea che stiamo portando avanti da 6-7 anni è quella di uno spostamento verso l’aspetto sanitario rispetto a quello custodialistico del significato dell’istituto. Nell’ambiguità di fondo dell’istituzione il concetto di cura rispetto a quello di custodia tendono spesso a sovrapporsi, e sembra quasi che custodire rappresenti già di per sé una forma di cura, il che non è reale, o almeno non in senso stretto. È evidente che nell’ambito di questa condizione ambigua c’è la necessità di fare una scelta, che noi riteniamo essere quella di una sanitarizzazione dell’istituzione, primo passo verso un superamento concreto dell’istituzione così come veniva intesa: privilegiare quindi l’aspetto sanitario piuttosto che quello custodialistico e questo dev’essere realizzato non solo dando una formazione più completa alle figure sanitarie dell’istituto (infermieri, medici, vari consulenti, psichiatri), ma anche dandone una sanitaria agli altri operatori che lavorano nella struttura, compresa la polizia penitenziaria, che c’è e che, se formata adeguatamente, dà dei contributi che possono essere di supporto e di aiuto a quelli sanitari.
In un istituto di pena per così dire "comune" il personale è costituito per la maggior parte da guardie carcerarie. Chi si occupa della sicurezza in un OPG e che tipo di formazione ha? La sicurezza dell’istituto viene affidata al corpo di polizia penitenziaria, ma è evidente che un poliziotto penitenziario che lavora in un carcere ha regole assolutamente diverse da quelle che vi sono in un OPG. Di ciò ci eravamo già resi conto in passato e questa consapevolezza ha acquisito maggiore consistenza negli ultimi anni, tanto che da circa 3 anni stiamo realizzando, con l’Istituto Superiore degli Studi Penitenziari (di competenza del Ministero della Giustizia), corsi periodici di formazione per polizia penitenziaria e non solo. I progetti sono finalizzati alla formazione della polizia penitenziaria che lavora in questi istituti, e fornisce conoscenze di natura giuridica ma anche sanitaria; ad esempio, 2 anni fa abbiamo promosso un corso di formazione, che chiamammo "Le ali ai letti", a cui hanno partecipato la polizia penitenziaria, gl’infermieri e i medici, e che ha portato all’eliminazione, all’interno della struttura, dei letti di contenzione: questo è un istituto in cui non si pratica la contenzione fisica, condizione che, c’è da dirlo, nei servizi di salute mentale territoriali è una prassi comune. Non condividiamo questo aspetto brutale del contenimento, anche se siamo consapevoli che esistono vari tipi di contenzione, dalla farmacologia alla psicologica, ecc. Il fatto è che non condividiamo tutto ciò che in qualche modo umilia il corpo . Siamo infine riusciti a fare sì che la polizia penitenziaria acquisisse delle conoscenze tali da potersi disporre, nei confronti di un paziente – nel momento di una sua crisi potenzialmente aggressiva – in modo da non arrivare a produrre altre esasperazioni che inevitabilmente innestano catene di aggressività subita/espressa, tanto da arrivare alla fine alla necessità di ricorrere alla coercizione fisica del paziente. Se a monte riusciamo a far sì che si costruisca un approccio più sano, più tranquillizzante da parte degli operatori, non si arriva a questo. Ed è quello che sta succedendo ormai da un anno.
Si parla spesso (e giustamente) del disagio dei detenuti, ma anche operatori, agenti di polizia penitenziaria, e in generale tutta l’umanità che gravita attorno al mondo-carcere credo condivida, seppure in forme e per motivi diversi, il disagio del carcere. Vorrei sapere, in base alla Sua esperienza, quale sia la Sua impressione sulla vita quotidiana di queste persone. Il disagio nella vita quotidiana c’è, inevitabilmente, perché per gli operatori che lavorano qui è sicuramente un lavoro duro, con pochi mezzi e spesso senza garanzie per nessuno, ed è per questo che in certe situazioni si sono raggiunti in passato – e si potrebbero raggiungere ancora – degli eccessi. Proprio perché un lavoro è più duro ti costringe ad assumere delle forme di autodifesa dalla brutalità e dalla violenza e ciò crea altra brutalità e violenza. Io credo che chi lavora in un OPG debba essere considerato un professionista e un professionista di per sé è uno che risolve i problemi. E per risolvere i problemi c’è soprattutto il bisogno di conoscerli. Il disagio dell’istituzione si supera nel momento in cui non esistono più comunicazioni errate tra medico-guardia-detenuto-internato-malato, in cui è chiaro a tutti, con una interpretazione sistemico-relazionale, che il comportamento di un elemento produce comportamenti di conseguenza da parte di altri elementi. Se c’è un tentativo di abbassare il livello di tensione, fatto attraverso formazione, conoscenza, colloquio, modalità espressive recepite, un certo tipo di tensione sicuramente si abbassa. Inoltre, nella consapevolezza che si deve riconoscere e gratificare il lavoro degli operatori, stiamo portando avanti proposte per cui chi lavora in un OPG possa avere degli incentivi economici maggiori rispetto a chi lavora negli istituti penitenziari carcerari. È importante, però, che tutti capiscano che si lavora per lo stesso scopo che è anche, giocosamente, quello di cambiare il mondo. Perché la possibilità di cambiare il mondo c’è, se cominciamo a cambiare noi stessi, naturalmente. Il che significa nel caso specifico anche apportare una sorta di "reingegnerizzazione": trasformare un oggetto in un altro oggetto di uguale importanza. Se diciamo: "Questo non è un carcere, ma è una struttura in cui si cura, si parla, ecc.," diamo altra importanza alla cosa ed allo stesso tempo motiviamo le persone che ci lavorano ad avere un ruolo, una figura, una gratificazione maggiore. I risultati si vedono. È chiaro che per ottenere ciò occorrono anni: all’inizio, anni fa, è stata molto dura, perché molti, soprattutto della polizia penitenziaria, erano convinti di lavorare in un carcere e non volevano spostarsi da questo concetto. Quella era la loro formazione basata sul concetto "non ho nessun bisogno di crescere, perché ciò che so mi basta". Riteniamo che in realtà c’è sempre da imparare e da studiare , ed a chi non aveva tale impostazione abbiamo chiesto di adattarsi o di andarsene. Una parte si è adattata, un’altra parte è andata via.
Che tipi di reato hanno compiuto le persone che si trovato in un OPG? Il 46-47% dei soggetti internati qui hanno commesso un reato definito "bagattellare", cioè estremamente lieve, con periodi non superiori ai 2 anni d’internamento. La maggior parte dei reati sono "contro la persona", e per gran parte lievi come il maltrattamento in famiglia, ma vi sono soggetti che hanno commesso omicidi, anche molto gravi; ma sempre in relazione di una condizione psicopatologica di base.
Come si svolge una giornata-tipo di una persona che vive in un O.PG.? Quali sono le attività volte alla guarigione/riabilitazione della persona? Le stanze dei reparti sono aperte dalla mattina alle 7 fino alla sera alle 21/22.30, il 20% degli internati ha un’attività lavorativa interna, come pulire i giardini, trasportare merci e pacchi, e sono regolarmente retribuiti con un regolare stipendio: sono naturalmente i soggetti in migliori condizioni psichiche. Un’altra parte, circa il 40% è impegnato nelle cosiddette "attività trattamentali e riabilitative": queste attività tendono all’uso terapeutico di manifestazioni espressive e si tenta di superare l’azzeramento della personalità prodotto dalla malattia e dalla sua istituzionalizzazione. Si tratta di attività di vario impegno espressivo, che partono da quelle "più morbide" come l’Area Verde (spazio verde in cui gli animali presenti vengono accuditi dagli internati che partecipano a tale attività), passando per il Laboratorio di Colore (dove trovano spazio le capacità espressive in relazione all’uso del colore ), quello di Musicoterapia, fino ad arrivare allo psico-dramma, che è la tecnica terapeutica più impegnativa a causa del coinvolgimento emotivo che rende più dura l’esperienza. Molti nostri internati, ad esempio, vengono da una cultura contadina e recuperare le loro origini serve a recuperare loro stessi: l’Area Verde ha proprio questa funzione. Coltivare 8000 mq di terreno, riprendere contatto con gli animali che sono circa 400, di cui alcune specie in via di estinzione forniteci da WWF e dalla Legambiente, permette di farli riavvicinare alle cose che avevano e che sanno riconoscere. In istituto sono internati, ad esempio, dei soggetti che provengono dalla Sardegna, e che erano pastori: avere delle pecore, ritrovare il gregge, tosarle, parlarci perfino, serve a farli riavvicinare a qualcosa che avevano perso.
Cosa accade una volta scontata "la pena"? La persona può tornare a casa, ad una vita per così dire "normale"? Quando termina la misura di sicurezza si va a rivalutare la pericolosità sociale, cioè ci si accerta che il soggetto sia in condizione di poter evitare per il futuro atti delittuosi, basandosi non solo sulle condizioni psichiche, ma anche sulle strutture su cui possono contare; molte volte la dimissione però non è possibile, in quanto noi cerchiamo di curare, mentre guarire può essere decisamente più complesso ed a volte impossibile. Quando cioè, alla scadenza della misura, ci sono delle strutture sociali (familiari, il Servizio Sanitario Nazionale, strutture di accoglienza o comunità) che possono farsi carico del soggetto nel seguirlo e curarlo, non vi sono problemi alla dimissione. Quando questo non accade il magistrato di sorveglianza, da cui giuridicamente dipende l’internato, è costretto a prorogare la misura di sicurezza. È un’azione dolorosissima, che tra l’altro crea un ingorgo enorme all’interno degli OPG. Noi abbiamo circa il 40% degl’internati che sono in proroga di misura di sicurezza che potrebbero tranquillamente uscire da qui oggi stesso, ma fuori non c’è nessuno che li accolga. Noi li sistemiamo in reparti particolari, senza polizia penitenziaria, in cui si autogestiscono e cercano di vivere, per quanto possibile, una situazione da liberi. Però, fin quando i servizi non sono in grado di stabilire un piano d’azione, l’ingorgo si crea. Per eliminarlo, già da 2-3 anni, abbiamo iniziato a proporre all’Assessorato Regionale Campano (ma recentemente se n’è firmato uno anche con l’Abruzzo) per l’organizzazione di protocolli d’intesa con i servizi di salute mentale dei vari territori nazionali: nel momento in cui l’internato appartenente ad un dipartimento di salute mentale arriva nel nostro istituto, noi avvertiamo quel dipartimento e creiamo un’equipe mista (psichiatri interni ed esterni all’OPG), che segue l’andamento del paziente all’interno della struttura e lo accompagna anche fuori, in strutture preparate dove può essere alloggiato e seguito. Il punto doloroso è che non tutti i dipartimenti di salute mentale sono pronti a questo: su 13 ASL della Campania, solo 3 hanno firmato i protocolli d’intesa. Le altre si sono defilate.
Vorrei alcune Sue considerazioni su un aspetto particolare del "mondo carcere" (sempre riferito alla dimensione "particolare" degli OPG): il volontariato. Negli ultimi anni entra nell’OPG una quantità di persone a cui prima l’ingresso era interdetto, e tra questi i volontari (ma anche i tirocinanti in psicologia, gli specializzandi in psichiatria, laureandi in varie branche etc. ), persone dotate delle giuste competenze: molti lavorano all’interno dell’OPG, molti altri all’esterno. A proposito di questi ultimi, è indicativo il progetto che stiamo conducendo con la locale Caritas che sta organizzando alloggi esterni, in vicinanza dell’OPG, per ospitare gl’internati quando escono o i loro parenti che vengono in visita.
Lei, che è all’interno di una realtà carceraria, vedrà certamente dei problemi e delle disfunzioni. Non crede che parlandone di più si potrebbero affrontare con maggiore efficacia? Perché, secondo Lei, si parla così poco di questo mondo? Credo che se ne parli troppo poco perché questo è uno scheletro nell’armadio, utilizzabile solo se l’ambiguità di fondo permane. Così l’OPG mantiene la funzione di una specie di contenitore per tutti i fallimenti della psichiatria e della giustizia, garantendo che nel momento in cui ci sono necessità di liberarsi di sensi di colpa collettivi, l’OPG funge da spauracchio da tirar fuori al momento giusto. E questa è una condizione a cui non ci vogliamo adattare, non fosse altro che per tutelare i soggetti che qui sono internati. Le nostre iniziative (dal sito www.opgaversa.it, ai convegni di studio, alla sensibilizzazione dei giovani che vengono in istituto a studiare e a formarsi) lo dimostrano. Credo che se si riuscisse a comprendere meglio il linguaggio della malattia mentale, molta gente qui dentro non ci arriverebbe. Riteniamo che l’OPG è una struttura che deve essere superata inevitabilmente e che devono essere reinserite nel tessuto sociale le persone che inutilmente sono qui internate. Così dei 1200 internati attualmente presenti in tutti gli opg di Italia, ne rimarrebbero al massimo 200 di soggetti realmente pericolosi. È un passo da fare con molta calma, perché ritengo che la eventuale chiusura brusca di queste strutture non risolverebbe il problema, ma ne creerebbe altri. Per risolvere il "problema OPG", bisogna capire chi deve stare realmente qui dentro: su un numero ridotto di persone avremmo maggiore e migliore possibilità di prenderle in carico, viceversa diventa molto più difficile svolgere un ruolo ed una funzione che compete alla struttura. Un altro carcere è possibile? di Francesco Barilli e Francesca Frizzi Maniglio
Da un articolo del Magistrato Giovanni Tamburino (fonte: www.ristretti.it): "Il corrispondente canadese del nostro Dipartimento penitenziario si chiama Servizio Correzionale del Canada, in sigla S.C.C. Nei documenti che il S.C.C. diffonde in patria e all’estero, la sua missione fondamentale viene descritta con queste parole: Il Servizio correzionale del Canada, quale parte del sistema della giustizia penale e nel riconoscimento del primato del diritto, contribuisce alla protezione della società incitando i delinquenti a diventare cittadini rispettosi delle leggi, nel tempo in cui esercita su di essi un controllo ragionevole, sicuro e umano". Solo belle parole? Non crediamo… Non crediamo che quelle parole vogliano dire che il carcere in Canada sia una specie di paradiso terrestre; di sicuro non esiste un solo sistema penitenziario in cui il carcere sia qualcosa di diverso da un’esperienza difficile, sia per chi lo subisce sia per chi ci lavora. Ma quelle parole testimoniano un approccio al "problema carcere" distante anni luce da quello italiano. Da noi il carcere è visto solo come una sorta di pattumiera dove la società smaltisce i propri "rifiuti". I diritti dei carcerati sono visti come diritti di serie B, o comunque qualcosa di sacrificabile per ottenere una (presunta…) maggiore sicurezza per la società. In Canada, restando alla enunciazione di principio del S.C.C., quei diritti non sembrano dimenticati, anzi!, risultano centrali nella gestione del mondo dei detenuti. E il carcere sembra avere una missione ben più alta che quella dello "smaltimento dei rifiuti della società"… Ma è davvero utopistico pensare che un modello di carcere "più umano" sia inapplicabile da noi? Le esigenze di una maggiore sicurezza sono davvero incompatibili con il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo (anche quando è un detenuto)? In questa sezione affronteremo proprio questo argomento, grazie ad alcune interviste ad esperti nel settore, a cominciare dal professor Franco Della Casa, docente di diritto penitenziario all’Università di Genova.
Genova, 14 marzo 2004 – intervista al professor Della Casa
Domanda: Una domanda generica, ma che mi sembra inevitabile per aprire la nostra chiacchierata: come giudica le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri italiane rapportate a quelle negli altri paesi cosiddetti "civili"?
Prof. Della Casa: Per quanto riguarda le condizioni di vita dei detenuti in Italia direi che, a partire dalla riforma del 1975, c’è stato un progresso non solo sul piano normativo, ma anche a livello di strutture; nel senso che alcune strutture ottocentesche sono state via via sostituite da altre di concezione più moderna (anche se devo dire che l’architettura delle carceri moderne può risultare, per certi aspetti, più disumana di quella delle vecchie strutture). Facendo un paragone con altri ordinamenti che abbiano un grado di evoluzione paragonabile a quello italiano, direi che dal punto di vista normativo la situazione italiana si colloca in una fascia alta della "classifica"; mentre dal punto di vista delle condizioni materiali restano ancora dei progressi da realizzare; anche se leggendo storie di "cattiva detenzione" che provengono da Paesi quali Francia o Gran Bretagna ritengo che, tutto sommato, l’Italia si collochi in una posizione più avanzata. Se estendiamo l’analisi agli USA il discorso è diverso; nel senso che negli Stati Uniti (ferma restando una serie di limitazioni molto intense verso i soggetti ritenuti ad alta pericolosità sociale) esistono strutture logistiche migliori. Per fare un esempio, credo che al lettore che segua questa materia non sarà sfuggito che Silvia Baraldini, pur essendo molto contenta di essere rientrata in Italia ad espiare il resto della pena inflittale negli USA, faceva notare che dal punto di vista delle attività risocializzanti aveva subito un regresso rispetto alla situazione vissuta in America. Tutto questo, ovviamente, rispetto agli ultimi tempi di detenzione negli USA, in cui la Baraldini ha vissuto una vita carceraria migliore rispetto a quella incontrata poi a Rebibbia, e non certo rispetto al primo periodo di detenzione, quando era ristretta in un carcere di massima sicurezza.
Domanda: Abbiamo aperto la nostra inchiesta con la storia di Ramon, ragazzo cileno suicidatosi nel carcere di Iglesias dove scontava una pena per furto d’auto. Nella sua storia molte cose lasciano perplessità. Fra queste ce n’è una di cui abbiamo parlato anche nell’introduzione: la mancanza di notizie apparse sui media, anche su quelli "alternativi" e molto attenti a queste tematiche. Lei ritiene che i dati (già comunque allarmanti) su suicidi e/o morti "sospette" nelle carceri italiane siano attendibili, o si tratta di cifre sottostimate?
Prof. Della Casa: Il problema degli atti di autolesionismo e, a maggior ragione, quello dei suicidi all’interno delle carceri, siano essi tentati o consumati, è davvero molto grave… Non possiamo ritenere che i dati ufficiali siano esatti, ma sottostimati. Una delle ragioni principali per cui si verifica questa cattiva circolazione delle notizie è data dal fatto che il carcere nasce e "vegeta" come istituzione separata. Uno dei requisiti fondamentali che sta alla base del suo mantenimento è proprio questa separazione; e quando parlo di separazione non mi riferisco solo all’aspetto fisico (quindi i muri, le sbarre che impediscono di evadere), ma anche a quel "muro" (invisibile ma altrettanto consistente quanto i muri di cemento) che impedisce la circolazione delle notizie dall’interno all’esterno. Per quanto riguarda il problema dei suicidi, uno studioso che si è interessato di questo aspetto è stato Luigi Manconi, il quale recentemente ha pubblicato sulla rivista "Politica del diritto" un articolo ricco di indicazioni. Sono state ripetutamente presentate su questo tema anche alcune interrogazioni parlamentari, ma la risposta politica ufficiale è stata una "difesa d’ufficio" dell’Amministrazione Penitenziaria che è in sostanza questa: è vero che il tasso di suicidi in carcere è più alto rispetto a quello rilevato tra la popolazione non detenuta, ma questo sarebbe da rapportare alla tipologia di persone che finiscono nel carcere. Una simile difesa d’ufficio parte da questo assunto: il carcere – su questo non c'è dubbio - funziona come una sorta di "discarica sociale", per cui i soggetti detenuti presenterebbero una maggiore "predisposizione" al suicidio. Però rimane il fatto che il tasso di suicidi nella popolazione carceraria è incomparabilmente più alto rispetto a quello presente nella popolazione non detenuta…
Domanda: C’è un altro aspetto nel caso di Ramon che mi ha sollevato grande indignazione: le limitazioni subite per quanto concerne diritti alle visite e alle telefonate. Credo che anche quelle limitazioni abbiano contribuito a rendere insostenibile per il ragazzo la propria vita nel carcere, spingendolo al suicidio. A livello di questi diritti (telefonate, visite ecc.) come siamo giudicabili, nel paragone con altri paesi europei o comunque di cultura "occidentale"? E come siamo giudicabili riguardo all’equità con cui consentiamo di esercitare questi diritti (paragonando la condizione dei detenuti di nazionalità italiana con quella degli stranieri)? Chiedo questo perché, perlomeno dal caso di Ramon, viene il sospetto che i detenuti stranieri nelle nostre carceri ottengano questi diritti con molte difficoltà in più rispetto a quelle incontrate dai "colleghi" di nazionalità italiana…
Prof. Della Casa: Per parlare dei diritti dei detenuti, da un punto di vista puramente teorico dovremmo cominciare col fare una distinzione all’interno del carcere fra coloro che sono imputati (e godono ancora della presunzione di non colpevolezza) ed i già condannati. Da un punto di vista teorico, dicevo, perché in realtà la maggior parte degli istituti ammassa indistintamente al proprio interno gli imputati e i condannati, i detenuti con basso grado di pericolosità sociale e quelli con pericolosità medio/alta. Questo è un primo dato importante, perché spiega la confusione che si crea all’interno: di fatto le esigenze di sicurezza in un dato carcere vengono "misurate" in base al soggetto più pericoloso ospitato in quel dato carcere; e questo si ripercuote negativamente su persone che potrebbero senz’altro godere di una detenzione più aperta e con maggiori diritti. Il problema dei diritti dei detenuti a mio avviso è importantissimo; anche perché ritengo che in Italia ci si sia concentrati prevalentemente su quei detenuti che possono uscire dal carcere grazie alle misure alternative, e ci si sia disinteressati un po’ troppo delle condizioni di vita di quei soggetti che (per una ragione o per l’altra) in carcere ci devono rimanere, e conseguentemente sono sottoposti a tutta una serie di pesanti limitazioni. Per quanto riguarda i diritti dei detenuti, possiamo distinguere due livelli nel nostro sistema penitenziario. Il primo è quello del riconoscimento legislativo dei diritti della persona privata della libertà personale: da questo punto di vista la nostra legge penitenziaria risente della sua "data di nascita", il 1975, anno in cui su questo tema c’era una sensibilità sicuramente inferiore rispetto ad oggi. Conseguentemente le norme che prevedono delle situazioni soggettive in capo ai detenuti sono state formulate in termini non cogenti per le autorità carcerarie, ma lasciano a tali autorità ampi margini di discrezionalità. In altre parole, già nel linguaggio usato dal legislatore notiamo un tono ben poco tassativo al riguardo: non si dice "a Tizio va riconosciuto il diritto di…", ma si usano espressioni del tipo "a Tizio può essere consentito di…". Accanto a questo primo dato va tenuto altresì presente che la legislazione penitenziaria è come un gioco di scatole cinesi: abbiamo una legge formale (si tratta di un importante conquista risalente alla riforma del 1975); ad un livello inferiore c’è il regolamento d’esecuzione, che contiene una normativa di dettaglio rispetto alle singole previsioni legislative; al di sotto del regolamento d’esecuzione abbiamo poi il regolamento interno di ogni singolo carcere: fonte di grado inferiore, dalla quale però dipendono i concreti connotati della pena detentiva in quella determinata struttura carceraria. Se intervistato, un soggetto che sia stato ristretto in istituti diversi non dirà mai che esiste una pena detentiva, ma parlerà della pena detentiva scontata nel carcere A, di quella scontata nel carcere B, e via di seguito. E questa stratificazione normativa, dalla Legge al regolamento d’esecuzione fino al regolamento interno, genera inevitabilmente problemi di confusione, di sovrapposizione. Intendo dire che per lo studioso non c’è problema a capire che la legge è gerarchicamente superiore al regolamento d’esecuzione, che a sua volta è superiore al regolamento interno, ma nella prassi quotidiana delle carceri non è infrequente che i rapporti vengano sovvertiti. Fermo restando questo dato di fatto, all’interno della popolazione detenuta ci sono poi delle sottocategorie per le quali le restrizioni dei diritti sono ancora più evidenti. Nel senso che a parte le restrizioni derivanti da situazioni oggettive (come l’aver commesso un reato di particolare gravità: ad esempio, sequestro di persona a scopo di estorsione) esistono delle limitazioni che non hanno la loro ragion d’essere nella pericolosità del detenuto, ma derivano dal suo appartenere ad una categoria, per così dire, "svantaggiata". Tra queste categorie possiamo menzionare certamente le donne, che sono "svantaggiate" perché rappresentano una percentuale molto esigua della popolazione detenuta, ed il carcere non è dimensionato sulle loro esigenze. E, accanto alle donne, un’altra componente che ha una consistenza statistica rilevante è quella rappresentata dai detenuti stranieri. Questi si trovano in una situazione oggettivamente diversa da quella degli italiani: generalmente non hanno accanto a sé una famiglia ad assisterli, e di conseguenza vengono spesso trasferiti nelle carceri sulle isole, proprio perché si ritiene che questo possa costituire un peggioramento delle condizioni per un italiano, mentre per uno straniero si ritiene che questo non sia peggiorativo delle sue condizioni. Insomma, possiamo dire che lo straniero abbia una detenzione particolarmente afflittiva; da un lato, perché per lui l’ottenimento delle misure alternative è molto difficoltoso (per ragioni che vedremo in seguito); dall’altro lato, perché queste situazioni oggettive di cui parlavo non vengono compensate con concessioni che attenuino l’impatto delle limitazioni a cui è "fisiologicamente" sottoposto. Faccio solo un esempio: se un detenuto è straniero, per compensare la sua distanza dalla famiglia gli si potrebbe concedere un maggior numero di telefonate, e, nel caso di un detenuto sprovvisto di mezzi economici per fare telefonate all’estero, si potrebbe arrivare ad accordi con i rispettivi Paesi o riconoscergli la gratuità per un certo numero di telefonate. Questo non avviene, ed è solo uno degli elementi per cui gli stranieri vivono una condizione di detenzione molto diversa e molto più afflittiva rispetto a quella degli italiani.
Domanda: Siccome stiamo parlando delle condizioni di vita nelle carceri, vorrei fare un passo indietro: all’inizio di questa intervista lei mi diceva che, anche se può sembrare paradossale, alcune strutture vecchie spesso risultano tecnicamente ideate e strutturate per consentire condizioni di vita più umane rispetto a carceri più recenti. La cosa mi ha colpito perché si tratta delle stesse parole usate, un paio di settimane fa, da un ex detenuto con esperienze di detenzione in svariati carceri. In quel momento a quella affermazione non ho dato troppo peso, ma sentire formulata la stessa osservazione da lei mi spinge a chiederle un breve approfondimento su questo aspetto, seppure marginale alla nostra inchiesta.
Prof. Della Casa: Il discorso è questo: a mio avviso gli architetti che si occupano di edilizia penitenziaria progettano la funzionalità della struttura rispetto alle astratte esigenze di una corretta esecuzione della pena detentiva (ammesso che questo scopo venga raggiunto), e non rispetto alle esigenze di chi dovrà vivere in quella data struttura. Per cui mi è stato riferito che la vita per chi si trova in carceri costruite negli anni più recenti finisce con l’essere più disumanizzata; ad esempio perché il colore assolutamente dominante è il grigio (per questo e per altri numerosi e analoghi motivi si parla di "deprivazione sensoriale"); oppure perché vengono realizzati spazi in cui l’individuo "si perde", spazi che non favoriscono la socializzazione… Insomma, ho l’impressione che gli architetti che progettano queste strutture non tengano in sufficiente considerazione la qualità della vita degli individui che dovranno esservi ospitati, ma solo parametri rigorosamente "tecnici" e/o economici.
Domanda: Tornando a discorsi più importanti rispetto alla nostra inchiesta: lei ha parlato di discrezionalità dei direttori delle carceri nelle varie strutture. Non sarebbe il caso che i diritti dei detenuti venissero salvaguardati attraverso l’istituzione di un organismo super partes? Per fare un esempio, mi sembra paradossale che un detenuto che, in ipotesi, lamenti un torto da parte di una guardia carceraria, debba sperare di vedere riconosciuta la propria ragione dalla sola "rettitudine morale" del direttore, ossia dello stesso soggetto che collabora strettamente con l’apparato di custodia e che, sempre in ipotesi, magari ha avallato quello che, a torto o a ragione, il detenuto ritiene essere stato un sopruso subito.
Prof. Della Casa: Direi che la domanda sul come tutelare i diritti dei detenuti è centrale. Nel senso che possiamo avere dei testi legislativi anche molto avanzati, ma se restano lettera morta non servono a nessuno. L’importante è avere una legge avanzata, certo, ma ancora più importante è che questa legge preveda dei meccanismi di controllo sul riconoscimento effettivo dei diritti stabiliti dalla stessa. Da questo punto di vista l’Italia ha istituito la figura di un Magistrato, il quale in teoria ha il compito di intervenire laddove possono essersi verificate violazioni dei diritti dei detenuti. Quindi il sistema sembrerebbe poter funzionare, perché il detenuto non ha di fronte solo l’amministrazione penitenziaria (nella figura del direttore), ma ha la possibilità di rivolgere reclami ad un Giudice, che gli offre garanzie di imparzialità di giudizio. Questo sistema, però, ha funzionato solo in parte, per una serie di ragioni che si intrecciano fra loro e che è difficile sintetizzare. Una delle ragioni principali è questa: nel sistema ideato dal legislatore questo Magistrato doveva avere una frequentazione assidua del carcere, parlare direttamente con i detenuti, partecipare in modo continuativo alla vita del carcere su cui doveva vigilare. Questo non è avvenuto, e una delle ragioni è che il Magistrato, come formazione culturale, è un giurista, e può ritenere svilente occuparsi di questioni che nell’ambiente detentivo divengono invece di primaria importanza, quali possono essere la qualità del cibo, le condizioni igieniche delle celle, il fatto che l’acqua nelle docce sia fredda o che il numero delle docce sia scarso rispetto alla popolazione detenuta. In secondo luogo, il Magistrato che constatava la violazione di un diritto del detenuto non aveva i mezzi per intervenire direttamente e fare eseguire la propria decisione, ma doveva semplicemente indirizzare una relazione informativa ai vertici dell’amministrazione penitenziaria, che avrebbero dovuto provvedere di conseguenza. Sennonché nella stragrande maggioranza dei casi i vertici dell'amministrazione penitenziaria, pur sollecitati, sono rimasti inerti: ecco quindi un secondo fattore che (unito a quella scarsa propensione del Magistrato alla frequentazione di luoghi come le carceri) sta alla base di un’insufficiente tutela dei diritti all’interno delle carceri. Proprio partendo da questa situazione di fatto, sono in discussione al Parlamento alcune proposte di legge che convergono verso un obbiettivo: quello di istituire una nuova figura di controllore all’interno delle carceri, che sarebbe il Difensore Civico delle persone private della libertà personale. Parlo di "persone private della libertà personale" in quanto questo Difensore Civico avrebbe diritto di accedere NON SOLO alle carceri, ma anche a quei luoghi ove vengono detenuti in attesa di espulsione i cittadini stranieri, o a quei luoghi – ad esempio, le c.d. "guardine" - ove vengono mantenuti (già in stato di privazione della libertà personale) i soggetti in attesa di essere trasferiti in carcere. Questo Difensore Civico avrebbe il compito di intervenire preventivamente, e di svolgere una azione di mediazione tra custodi e custoditi al fine di scongiurare il verificarsi di quelle situazioni in cui si potrebbe configurare la violazione dei diritti del detenuto. Quindi, l’istituzione della figura del Difensore Civico (di nomina parlamentare), con compiti di mediazione e di catalizzatore di dialogo fra le due fondamentali componenti carcerarie, dovrebbe garantire dei passi in avanti in questo settore, analogamente a quanto è accaduto in altri Paesi (quali Gran Bretagna e USA) dove questa figura ha prodotto buoni risultati. E potrebbe rappresentare pure un incentivo per il Magistrato di Sorveglianza, al fine di rilanciare quel ruolo di garante che gli è stato affidato dal legislatore italiano del 1975.
Domanda: Sempre restando al discorso dell’eccessiva discrezionalità di cui godono i direttori delle carceri, vorrei affrontare ora un tema più specifico, ossia quello delle cosiddette "domandine". Ancora prima di questo lavoro mi sono interessato alla storia di Sole e Baleno, i due anarchici suicidatisi in carcere nel 1998, dopo l’arresto nell’ambito delle indagini sugli attentati alla linea TAV della Val di Susa. Un particolare che mi colpì all’epoca (ma che ha assunto maggiore rilevanza interessandomi al "mondo carcere" in generale) fu la lettera di Sole, scritta dopo il suicidio di Baleno. In quella lettera la ragazza scriveva: "La galera è un posto di tortura fisica e psichica, qua non si dispone di assolutamente niente, non si può decidere a che ora alzarsi, che cosa mangiare, con chi parlare, chi incontrare, a che ora vedere il sole. Per tutto bisogna fare una "domandina", anche per leggere un libro.". Sulle "domandine" di cui parlava Sole: come è possibile che il potere discrezionale dei direttori dei carceri sia così ampio? Come è possibile che una richiesta ritenuta concedibile in una data struttura sia ritenuta inaccettabile in un altro carcere? E, a tale proposito: ha qualche aneddoto curioso su qualche "domandina" (per usare il gergo carcerario) che sia stata respinta con motivi futili?
Prof. Della Casa: La cosiddetta "domandina" costituisce un elemento fondamentale della quotidianità carceraria. Tutto quello che noi nella nostra vita siamo abituati a pensare come normale, all’interno del carcere diventa oggetto di una specifica concessione; così, ad esempio: io voglio tenere in cella un personal computer alimentato a batteria? Devo fare "la domandina". Voglio farmi arrivare dall’esterno un cibo o un prodotto di igiene personale che non è in vendita nello spaccio dell’istituto? Devo fare "la domandina", e così via… Quindi la "domandina" è il passaggio obbligato che il detenuto deve cercare di percorrere per rendere la sua vita detentiva leggermente più confortevole. Naturalmente queste istanze hanno come destinatario l’organo che deciderà sul loro accoglimento o meno: il direttore del carcere. Se non sbaglio fu Adriano Sofri a scrivere che già nel termine "domandina" abbiamo una spia linguistica del grado di infantilizzazione del detenuto: una persona in carcere non formula richieste, ma "domandine", come un bambino che si rimette ad un’autorità imperscrutabile e di gran lunga superiore. Oltre a questa spia linguistica, abbiamo il fatto che queste "domandine", quando non vengono accettate, vengono il più delle volte respinte SENZA un'adeguata MOTIVAZIONE; anzi, direi che al di là del singolo direttore "illuminato", che spiega le ragioni di un determinato rigetto, le "domandine" vengono respinte con un NO secco e privo di motivazioni. Ed è questo l’aspetto più intollerabile per il detenuto; più ancora che il ricevere un rifiuto, è frustrante questa imperscrutabilità del potere che hai di fronte, l’essere soggetto ad un'entità onnipotente che non deve giustificare le proprie decisioni. Io credo che il principio della motivazione sia un principio che noi tutti esigiamo quando ci viene opposto un rifiuto: è un principio di civiltà che, nel caso del carcere, viene sistematicamente disatteso. Mi chiedeva di aneddoti emblematici del "sistema delle domandine". Ricordo un caso che si colloca nell’epoca in cui direttore generale dell’amministrazione penitenziaria era il Dottor Coiro, un Magistrato che aveva cercato di limare talune asprezze della vita carceraria, inviando tra l’altro una circolare in cui si diceva che i detenuti avrebbero potuto tenere con sé in cella, previa autorizzazione del direttore, piccoli animali da compagnia, che avrebbero reso meno penosa la loro vita detentiva. Tra questi animali veniva citato l’esempio della vaschetta coi pesci rossi. Un detenuto (mi sembra del carcere di Alessandria), sulla scorta di questa circolare aveva rivolto un’istanza proprio per ottenere una vaschetta con uno o due pesciolini rossi, e questa "domandina" fu rigettata senza alcuna spiegazione delle ragioni che stavano alla base di tale rigetto. In generale il discorso è che di fronte ad un rifiuto le vie da percorrere per un detenuto non sono molte: prima abbiamo parlato del Magistrato di Sorveglianza, ma non esiste "il diritto a tenere in cella un pesce rosso" o "il diritto di tenere con sé un PC"… Quel che intendo dire è che si tratta di richieste a largo raggio, riguardanti il più delle volte concessioni di piccola portata, che non possono essere regolamentate da un testo normativo; neppure con la pazienza di Giobbe si potrebbe compilare un testo che elencasse tutte le possibili richieste, e quindi è chiaro che un margine di discrezionalità resterà sempre. Una parziale soluzione al problema, a mio avviso, sarebbe quella di fare esercitare anche su queste "domandine" un potere di controllo da parte di un organo terzo.
Domanda: Sempre dal caso di Ramon mi è nata una riflessione. Un’altra cosa appare grottesca nella sua storia: la condanna a tre anni di carcere per un furto d’auto… Non è mia intenzione discutere l’entità della pena (problema che, peraltro, starebbe "a monte" del sistema penitenziario): quel che intendo dire è che per un reato che non denota una particolare pericolosità sociale è il carcere in sè ad apparire totalmente inutile o addirittura controproducente (se l’obbiettivo è, come dovrebbe essere, il recupero del soggetto). Volevo quindi introdurre l’argomento delle "misure alternative". Da quanto mi risulta l’esigenza di alternative alla pena detentiva è da tempo materia di discussione in molti stati, i cui codici già prevedono una differenziazione di interventi, alternativi o integrativi alla limitazione della libertà, quali l’obbligo di prestazioni lavorative per pubblica utilità. In base alla sua esperienza: le risulta che queste alternative siano già applicate in molti Stati e (in caso di risposta affermativa) con quali risultati? E soprattutto: quale è la situazione da noi? Infine le volevo chiedere se anche in questo campo ci sia (ovviamente a parità di reato commesso) una disparità di trattamento fra italiani e stranieri, nel poter usufruire di queste misure alternative.
Prof. Della Casa: Innanzitutto partirei da questa considerazione: a livello planetario si è ormai convinti che il carcere debba essere la pena cui si ricorre quando TUTTE le altre possibilità sono venute meno; e anche laddove si ricorra alla pena detentiva questa, nel corso del tempo, dovrebbe subire delle attenuazioni di carattere qualitativo che consentano di ridurre i danni insiti nella sua stessa natura. Ricordo che la pena detentiva è costosissima; e questo sia dal punto di vista economico (mediamente un giorno di detenzione costa allo Stato più di 100 €), sia dal punto di vista delle lacerazioni che provoca nel tessuto sociale. Insomma, anche a livello di legislazione internazionale si conviene sul fatto che la pena detentiva deve essere compressa il più possibile, e che al suo posto dovrebbero esistere delle misure che limitino la libertà personale del condannato in maniera meno totalizzante. Le misure alternative nascono da questa consapevolezza: la pena detentiva si ritorce verso chi la espia, ma anche verso chi la infligge; nel senso che la risocializzazione attuata attraverso il carcere è una contraddizione in termini; questo perché non posso risocializzare una persona tenendola in un ambiente che ha caratteristiche antitetiche rispetto a quelle dell’ambiente dove dovrebbe tornare a vivere quella data persona. Le misure alternative nascono anche da questa consapevolezza e attualmente sono largamente presenti in tutti gli ordinamenti "evoluti". Parlare della gestione di queste misure alternative ci porta a fare innanzitutto una distinzione fra due categorie di detenuti: quella di coloro per cui esse sono una possibilità concretamente a portata di mano, e quella di coloro per cui queste alternative restano un semplice miraggio. Nella prima fascia metterei i condannati italiani che non siano in una condizione particolarmente precaria. Parlo di un detenuto che ha adeguati supporti all’esterno del carcere, che dispone di una residenza da indicare nel caso gli vengano concesse queste misure alternative, che ha un nucleo familiare che si attiverà per procurargli un potenziale datore di lavoro, eccetera. Le misure alternative, infatti, vengono concesse dalla magistratura di sorveglianza proprio a quei soggetti che lasciano supporre che il loro reinserimento nella società sia concretamente possibile (ecco perché avere a disposizione un’abitazione e un posto di lavoro sono elementi di fondamentale importanza). Se partiamo da questi presupposti capiamo perché gli stranieri (che invece di solito sono catapultati da noi "selvaggiamente" e non godono di supporti esterni) sono fra coloro che ricevono pochissime misure alternative, e quando le ricevono è perché, in determinati carceri, l’azione del volontariato supplisce alla mancanza di supporti socio-familiari. Questa del volontariato carcerario è una presenza che dovrebbe essere incrementata, anche se molto spesso il volontariato deve fare i conti con la struttura chiusa del carcere, che vede come un intruso chiunque si avvicina per operare al suo interno.
Domanda: Secondo una convinzione generalizzata il sovraffollamento delle carceri è praticamente un "non problema", perché qualsiasi sistema carcerario tenderebbe al sovraffollamento in modo inevitabile. Questa domanda si collega alla precedente, in quanto mi risulta che, tanto per fare un esempio, in Svizzera, dove è costante l’utilizzo delle misure alternative, i posti-carcere siano liberi al 25%. La questione mi sembra fondamentale, perchè invece in Italia, accanto al sovraffollamento delle carceri (secondo il Ministero della Giustizia al luglio 2003 avevamo più di 56.000 detenuti presenti a fronte di una capienza stimata in 42.000 posti) abbiamo una carenza nel personale di polizia penitenziaria a disposizione, una carenza che spesso è stata segnalata con preoccupazione dagli stessi organismi sindacali. Volevo un suo parere in generale su questo problema del sovraffollamento: oltre all’utilizzo delle "misure alternative" di cui abbiamo già discusso, quali potrebbero essere le soluzioni a tale problema? E quale è il suo giudizio sul recente dibattito in Italia circa le misure "svuota-carceri", che ha prodotto il cosiddetto "indultino"? Prof. Della Casa: Il sovraffollamento carcerario è in effetti un problema che riguarda tutti i Paesi; nel senso che il carcere, nel momento stesso in cui esiste, tende ad essere sovrautilizzato. Il sovraffollamento per il carcere è stato paragonato alla cancrena di un arto per una persona: è qualcosa che paralizza il funzionamento e blocca l’istituzione stessa. Per fare un esempio di ciò che comporta il sovraffollamento basterà ricordare che esso significa l’automatica riduzione delle aree dedicate a spazi ricreativi, che vengono gradualmente assorbiti dall’esigenza di trovare nuovi "posti-letto". Significa più ore di permanenza in cella, perché gli spostamenti dei detenuti divengono più difficoltosi per la custodia e perché in una struttura sovraffollata c’è inevitabilmente una maggiore tensione allo stato latente che si ripercuote su ogni rapporto interpersonale. Insomma, il sovraffollamento è una condizione deteriore che andrebbe assolutamente evitata. Andrebbe evitata ricorrendo innanzitutto ad un minore utilizzo della pena detentiva e della custodia cautelare in carcere. Quindi: anche nel corso di un processo i giudici dovrebbero usare misure cautelari diverse dalla custodia (ricordo che gli imputati in carcere si aggirano attorno al 40-45% della popolazione detenuta); e quando si giunge all’irrogazione della pena bisognerebbe innanzitutto ridurre il più possibile l’uso della pena detentiva per quanto concerne gli illeciti. Si parla molto di depenalizzazione, il che vuol dire che bisognerebbe lasciare colpiti da sanzione penale solo quei comportamenti oggettivamente gravi; ma noi utilizziamo ancora il codice (penale) fascista del 1930, che prevedeva solo la pena pecuniaria e quella detentiva, irrogata con grande generosità anche per comportamenti denotanti scarsa pericolosità sociale. Quindi il problema del sovraffollamento va risolto in partenza: in carcere devono entrare meno persone, perché una volta che vi sono entrate anche il sistema delle misure alternative costituisce una valvola di sfogo insufficiente. Veniamo ora alla sua domanda sull’indultino. È bene premettere che un tempo, per ridurre il problema del sovraffollamento, in Italia avevamo lo strumento dell’amnistia e dell’indulto. Le amnistie si succedevano periodicamente e realizzavano l’obbiettivo di dare un po’ di respiro all’apparato carcerario. Parlo di "un po’ di respiro" perché si trattava pur sempre di una misura che non agiva sulle cause del problema; e, ripeto, non intervenendo sulle cause il sovraffollamento tenderà sempre a riproporsi periodicamente. Ad un certo punto (legge cost. n.1/1992) è stata modificata la norma costituzionale (art.79 Cost.) che prevede la concessione dell’amnistia e dell’indulto, introducendo l’obbligo di maggioranze parlamentari qualificate per la loro concessione (due terzi di ciascuna Camera). Questa variazione ha impedito il coagularsi di maggioranze tali da arrivare alla concessione di provvedimenti generali di clemenza. Conseguentemente, negli ultimi tempi sono emerse parecchie pressioni per cercare comunque di limitare il sovraffollamento carcerario: ricordo tra le varie voci quella del Papa. Si è quindi cominciato a parlare dell’indultino; ossia di un provvedimento non pensato come un vero e proprio indulto (anche se indirizzato allo stesso obiettivo), che quindi non richiedeva per la sua approvazione maggioranze parlamentari qualificate, e che poteva costituire una sorta di "misura alternativa camuffata", permettendo comunque l’uscita di un certo numero di detenuti dal carcere. Ma anche nelle fasi di studio di questo provvedimento (varato poi nell’agosto 2003) abbiamo assistito ad un gioco di veti incrociati da parte di talune forze parlamentari, molte delle quali temevano di apparire, agli occhi dell’opinione pubblica, come "quelli che mettono fuori i delinquenti" , quelli a cui non sta a cuore il principio dell’effettività della pena (principio molto reclamizzato – tanto in Europa quanto al di là dell'Atlantico - che di solito garantisce sicuri vantaggi dal punto di vista elettorale). Questa situazione ha creato una sorta di paralisi nella discussione, per cui possiamo davvero dire che la montagna (ossia questo enorme parlare della necessità di un provvedimento di clemenza) ha partorito un topolino, ossia una legge tale per cui ne hanno beneficiato poche persone. È stato come somministrare ad un malato grave (il sistema carcerario italiano, con il suo sovraffollamento) un paio di aspirine…
Domanda: Facciamo un passo indietro: nel suo racconto mi ha colpito molto la questione delle "domandine"; il fatto che il detenuto veda la sua vita quotidiana totalmente in balia di quanto può decidere il proprio direttore. Lei diceva che è auspicabile l’inserimento di una figura di controllo imparziale, e che però è praticamente impossibile stilare un regolamento che preveda la miriade di richieste che potenzialmente possono avanzare i detenuti, stabilendo per via regolamentare cosa sia possibile concedere. Questo è sicuramente comprensibile, ma su questo aspetto mi restano alcune perplessità: ripenso ancora alle parole di Sole che diceva che per leggere un libro ci vuole "la domandina"… E penso al racconto della mamma di Ramon: uno dei passaggi più toccanti è quando diceva "se mio figlio era malato perché non l’hanno curato?". Accostare il diritto alla lettura di un libro al diritto alla salute può sembrare azzardato, ma quel che intendo dire è che certi diritti non dovrebbero essere affidati al "buon cuore" o alla discrezionalità del direttore del carcere, ma dovrebbero rimanere diritti fondamentali dell’individuo, anche quando questi è un carcerato. Questo mi sembra naturale per una cosa banale come la lettura di un libro, e così pure per un diritto ancora più importante, come il diritto alla salute. Insomma, è proprio impossibile togliere certe concessioni al meccanismo della "domandina"?
Prof. Della Casa: Ribadisco che in alcuni settori un margine di discrezionalità resta ineliminabile. Nel senso che la legge è un provvedimento generale ed astratto, che non può prendersi carico di tutte le situazioni. Ciò premesso, concordo sul fatto che a livello normativo bisognerebbe, tutte le volte che questo è possibile, produrre norme chiare e tassative che eliminino qualsiasi filtro nel riconoscimento di certi diritti, che devono operare automaticamente. Nella legge penitenziaria ci sono già settori in cui questo accade: per esempio, mentre in passato nelle carceri non poteva entrare la stampa (divieto che una volta operava indistintamente, poi per un certo periodo fu rivolto solo alla stampa politica) oggi esiste una norma che consente ai detenuti di ricevere quotidiani, libri e riviste che siano in libera vendita all’esterno. Questo è un diritto che può essere limitato solo per l’imputato che è sottoposto ad indagini (e che quindi, leggendo i giornali, potrebbe ricevere notizie utili per lui e controproducenti per l’inchiesta); ma anche in questo caso è il Magistrato (e non la struttura penitenziaria) a stabilire eventuali limitazioni. Quel che voglio dire è che nel campo dell’informazione il diritto è stabilito direttamente dalla legge. Mentre già a livello di "colloqui" abbiamo una situazione meno favorevole; perché la legge dice che devono essere mantenuti i contatti con la famiglia eccetera, ma il numero esatto delle visite o dei colloqui di cui un detenuto può godere è contenuto nel regolamento d’esecuzione, per cui è come se scendessimo di un gradino nel "livello normativo". E così pure dicasi per altri specifici ed importanti settori. Sono quindi d’accordo sul fatto che, in tutti i casi in cui questo è possibile (a cominciare dal numero dei colloqui) i diritti dovrebbero essere sanciti a livello di legge e non di regolamento, in modo da diminuire il margine di discrezionalità… Ma vorrei anche far notare che questo potrebbe rivelarsi per certi versi un’arma a doppio taglio, perché per modificare poi qualcosa stabilito da una Legge occorre che sia il Parlamento ad intervenire, mentre l’apportare varianti ad un regolamento avviene secondo procedure meno complesse. Quello che a mio avviso non funziona nel sistema è un’altra cosa: il lasciare il detenuto (che nel carcere è un organismo evidentemente molto più debole dell'apparato che lo ha in carico) senza possibilità di attivare eventuali meccanismi di tutela. C’è una supremazia schiacciante dell’apparato penitenziario rispetto al singolo detenuto. Questa situazione è nella natura delle cose; credo che lo capisca bene chiunque abbia vissuto un’esperienza di degenza in ospedale e abbia sperimentato sulla sua pelle lo squilibrio riscontrabile tra il degente e lo staff medico: figuriamoci la situazione di un detenuto in un carcere! Proprio per questo, il detenuto non dovrebbe mai essere lasciato senza tutela; dovrebbe essere messo in grado di attivare una serie di controlli; e questo sia per il tramite del volontariato operante in carcere (che può essere visto anche come un canale attraverso cui si può esercitare il controllo sociale), sia soprattutto attraverso organismi quali il Magistrato di Sorveglianza o il Difensore Civico. E penso che l’esistenza stessa di questa rete di controlli potrebbe servire a scongiurare in anticipo alcuni atteggiamenti vessatori o comunque contrari alla legge che il singolo direttore o il singolo agente volessero, in ipotesi, assumere nei confronti di un detenuto.
Domanda: Abbiamo accennato più volte al volontariato, all’importanza dei volontari nelle carceri. Vorrei chiudere questa intervista con alcune sue considerazioni su questo aspetto particolare del "mondo carcere" e, se possibile, con un suo "messaggio" generale su questo mondo, sconosciuto alla maggioranza delle persone.
Prof. Della Casa: Secondo me una buona rete di volontariato sarebbe una componente importante nell’attuale sistema, e potrebbe riequilibrare la situazione della vita carceraria a favore dei detenuti, supplendo a certe diffuse carenze. Attualmente questo volontariato è prevalentemente di matrice cattolica, e questo è un dato che, a mio avviso, andrebbe riequilibrato; non che il volontariato cattolico non vada bene, ma avere componenti più variegate sarebbe decisamente positivo. Il fatto che non esista questa maggiore varietà nel volontariato potrebbe essere letto come una sottovalutazione del settore carcerario da parte di forze che, pur essendo "progressiste", hanno dimostrato storicamente una scarsa comprensione dei gravi problemi dell'istituzione carceraria. C’è scarsa sensibilità da parte dell’opinione pubblica su questa materia. Penso a quando si era parlato del diritto alla sessualità all’interno del carcere: la prima risposta dell’opinione pubblica più o meno è stata questa: "beh, ma si tratta di gente che ha sbagliato… adesso dobbiamo dargli anche le camere matrimoniali?". Io credo che l'impostazione corretta per stabilire la "misura" dei diritti da riconoscere al detenuto sia questa: il detenuto mantiene in carcere tutti i diritti non incompatibili con l'esecuzione della pena detentiva. Il diritto alla sessualità non ha nulla di incompatibile con la pena detentiva; negarlo ha uno scopo meramente punitivo. Secondo molti chi va a finire in carcere è un criminale a cui danno vitto e alloggio gratuiti, per cui può essere contento e non stare troppo a lamentarsi o a pretendere altro. Salvo che succeda qualcosa di eccezionale che vada a smuovere i "buoni" sentimenti e susciti la giusta commozione. È facile ottenere solidarietà da parte dell’opinione pubblica se si presenta ad essa il singolo caso "umano", ma il "problema carcere" non sta solo nel singolo detenuto che si suicida, ma anche nel soggetto che al suicidio ci ha pensato cinque-sei volte senza poi arrivare a commettere quel gesto… Io penso che il carcere non dovrebbe essere qualcosa di cui si parla solo quando succede un evento commovente; si dovrebbe parlare maggiormente delle problematiche carcerarie, nella società civile. Il carcere non dovrebbe essere qualcosa che allontaniamo e confiniamo nell’angolo più oscuro della nostra coscienza, ma qualcosa che fa parte della nostra società, un’istituzione per il momento necessaria che dovremmo sforzarci tutti di migliorare. Perché il carcere non riguarda solo i detenuti e le loro famiglie, ma tutti noi; solo che troppo spesso ce ne dimentichiamo, e ce ne ricordiamo solo se un detenuto evade o si suicida. Il carcere, oggi come oggi, è un luogo utile solo per le facili commozioni: al posto della commozione sarebbe meglio un impegno civile, costante e continuo. I fantasmi delle carceri, di Sonia Benedetti
Sono migliaia i detenuti nelle carceri italiane; uomini e donne che, all’interno di quelle mura, vengono annullati dalla società come persone; così diventano fantasmi! E questi scomodi fantasmi hanno tante storie da raccontare; sono storie che parlano di violazione, di discriminazione, di intolleranze, di negazione, di sofferenze dalle quali, spesso, questi uomini e queste donne trovano un solo sollievo: la morte! Infatti (come dice Adriano Sofri) la morte in carcere è "un altro modo per evadere"! Sempre più suicidi nelle carceri italiane. E sono aumentati pure gli episodi di autolesionismo. Macabre statistiche di cui ci occuperemo ora (sempre grazie al costante monitoraggio dei casi realizzato dal sito www.ristretti.it) e che in fondo ci parlano solo di una realtà molto semplice: di un carcere che non funziona come istituzione.
I suicidi
Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e spesso in istituti dove le condizioni di vita sono peggiori. Il numero maggiore di suicidi avviene: nel Sud e nelle isole nel reparto "G14" (infermeria) di Rebibbia (RM) nel Nord: carcere Marassi (GE) reparto malattie infettive carcere S.Vittore (MI) C.O.C. (reparto d’osservazione per tossicodipendenti) O.P.G. (Ospedale Psichiatrico Giudiziario)
I motivi che portano a questo ultimo gesto estremo del detenuto sono: le condizioni di isolamento i trasferimenti i ricoveri in psichiatria dove il paziente viene legato al letto attraverso cinghie ai polsi e alle caviglie e imbottito di sedativi perdita della dignità sociale del detenuto in attesa del processo (e non solo): le persone nel momento in cui vengono indagate sono immediatamente associate, da tutta la società, al crimine che presumibilmente hanno commesso la "qualità di vita" all’interno degli istituti penitenziari, resa inadeguata dalla mancanza di operatori, da un’assistenza sanitaria inefficiente, dal sovraffollamento (al 31 gennaio 2003, nelle 205 carceri italiane erano presenti 56250 detenuti, di cui 2509 donne. Vi sono però in totale 205 istituti, che hanno una capienza di 38878 uomini e 2446 donne, per un totale di 41324 "posti") il timore del reinserimento nella società al termine della pena
Circa il 31% dei deceduti è costituito da tossicodipendenti; per quanto riguarda l’età: circa il 36% ha un’età compresa tra i 20 e i 30 anni circa il 28% ha un’età compresa tra i 30 e i 40 anni
Il Regolamento Penitenziario all’art. 77 prevede che il tentativo di suicidio in carcere è punito disciplinarmente (come avviene per l’autolesionismo, il tatuaggio e il piercing) in quanto infrazione per "negligenza nella pulizia e nell’ordine della persona o della camera" attraverso sanzioni decise dal Consiglio di disciplina quali: richiamo, esclusione dalle attività, isolamento; e in quanto infrazione disciplinare questo comporta la perdita dello sconto di pena per buona condotta (liberazione anticipata, nonostante il codice penale non consideri reato il tentativo di suicidio).
Assistenza sanitaria disastrata
Oltre 100 detenuti l’anno muoiono per "cause naturali" nelle carceri italiane; a volte la causa ufficiale è: un infarto un malanno trascurato o curato male malattie croniche che portano ad un lungo deperimento scioperi della fame.
L’art.1 del Decreto Legislativo 230/99 sul riordino della medicina penitenziaria stabilisce che "i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza individuati nel piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali". L’art 146 del Codice Penale prevede il "rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena" quando il condannato è affetto da A.I.D.S. conclamata, o da grave deficienza immunitaria, o da un’altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultino incompatibili con lo stato di detenzione. L’incompatibilità si verifica quando la persona è in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più (secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o di quello esterno) ai trattamenti terapeutici particolari in carcere. L’art. 147 del Codice Penale prevede il "rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena" per "chi si trova in condizioni di grande infermità fisica". La legge non dice nulla per definire meglio il concetto di "grave infermità fisica".
Detenuti tossicodipendenti e malati
Stando alla "Informativa urgente del Governo su un documento riguardante la situazione nelle carceri", illustrata dal ministro della Giustizia alla Camera dei deputati il 3 ottobre 2002, i reclusi affetti da HIV sono almeno 1401, di cui 192 con AIDS conclamata; circa 15000 sono affetti da virus epatici; sono sempre più numerosi i soggetti con forti disagi psichici; un terzo della popolazione carceraria è costituito da persone tossicodipendenti. Al 30 giugno 2002, risultavano 15698 detenuti tossicodipendenti, 856 alcoldipendenti, 1552 in trattamento metadonico. Alla stessa data HIV erano 1401 (di cui 145 donne): 885 asintomatici, 324 sintomatici, 192 affetti da malattie indicative di AIDS. Questi sono numeri che evidenziano la preoccupante situazione presente nelle carceri italiane, nelle quali intanto si verificano forti tagli ai fondi per le cure mediche e al personale specializzato. Secondo dati del luglio 2002, gli assistenti sociali in organico dovrebbero essere 1630, mentre i presenti sono 1235 (-395); gli educatori previsti in organico sono 1376, i presenti sono 557 (-819); psicologi: dei 95 previsti, risultano essere presenti soltanto in 4 (-91). Si riscontrano carenze anche per il corpo di polizia penitenziaria rispetto all’organico. In servizio 42781 agenti di polizia penitenziaria, oltre a 7046 unità di personale amministrativo e tecnico (dovrebbero essere 10025). Inoltre capita spesso che al carcere di destinazione di un detenuto non venga spedita la cartella clinica relativa. Ne consegue la sospensione forzata della terapia, l’annullamento dei risultati raggiunti e il rischio di andare incontro a gravi conseguenze. È da segnalare inoltre come l’infermità psichica non rientri tra i motivi del possibile differimento della pena. Quando l’infermità è accertata nel processo l’imputato viene prosciolto per vizio di mente e, invece della condanna, subisce l’internamento nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario; se un condannato impazzisce durante la detenzione (o rende manifesta una malattia mentale preesistente) l’aspetta comunque il ricovero forzato in un O.P.G. Questa differenza di considerazione fra "malattia fisica" e "malattia mentale" deriva dal fatto che si ritiene che la prima, indebolendo fisicamente il soggetto, renda il detenuto meno pericoloso per la sicurezza sociale e che, al contrario, la malattia mentale rappresenti un elemento di maggior pericolo.
Morti "per cause non chiare" e per overdose
Questa categoria può essere divisa in due gruppi; del primo fanno parte tutti quei casi nei quali la causa della morte non è circostanziata a sufficienza dall’informazione (ossia quei casi dove l’uso di termini generici quali "malore", "arresto cardiocircolatorio", ecc. chiarisce ben poco) e i casi di overdose, provocata da droghe, da psicofarmaci e alcool, dal gas delle bombolette da camping. Nel secondo gruppo rientrano i casi nei quali le versioni ufficiali presentano zone d’ombra ed incongruenze tali da far nascere il sospetto che mascherino episodi di maltrattamenti ad opera di agenti o violenze da parte di altri detenuti.
Alcuni dati e storie
Anno 2003 43 suicidi 9 morti a causa di un’assistenza sanitaria disastrata 8 morti per cause non chiare 6 morti per overdose
Anno 2002 43 suicidi 14 morti a causa di un’assistenza sanitaria disastrata 12 morti per cause non chiare 3 morti per overdose
Anno 2001 70 suicidi 6352 episodi di autolesionismo 852 tentati suicidi
Anno 2000 61 suicidi 6788 episodi di autolesionismo 892 tentati suicidi
Anno 1999 53 suicidi 6536 episodi di autolesionismo 920 tentati suicidi
Grazie all’inchiesta "Morire di carcere – dossier 2002-2004", sempre realizzata da ristretti.it e che vi invitiamo caldamente a leggere integralmente (da tale dossier sono estratti i precedenti dati), vi presentiamo di seguito alcuni casi, che abbiamo ritenuto emblematici, di morti nelle carceri italiane.
Suicidio - 5 maggio 2002, Carcere di Marassi (Genova). Fabio B., di 38 anni, residente a Sestri, si uccide nel Centro Clinico del carcere di Marassi. Le guardie carcerarie hanno trovato il detenuto impiccato con la cintura dei pantaloni usata come cappio. Era stato arrestato la sera del 15 febbraio dello stesso anno nella casa dei suoi genitori, con i quali aveva avuto una violenta lite. Sarebbe stata una lettera della fidanzata a farlo cadere in una depressione ancora più profonda di quella che già lo affliggeva (lo ha rivelato il suo compagno di cella): dopo aver letto la missiva, si sarebbe chiuso in un mutismo assoluto. I tentativi di farlo parlare non avrebbero avuto successo. Questo è stato il terzo suicidio, in cinque mesi, a Marassi e il secondo in due giorni nel Centro Clinico della Casa Circondariale.
Morte per cause non chiare - 13 luglio 2002, Carcere di Cagliari. Luca Saba, 31 anni, muore in cella dopo una settimana dall’arresto. La madre è andata al colloquio, ma Luca non poteva esserci: "Suo figlio è morto, non lo sa?", così l’hanno liquidata sul portone di "Buoncammino", a Cagliari. C’è voluto l’arrivo dell’avvocato per saperne di più: "Il detenuto è deceduto per arresto cardiocircolatorio". Ma nonostante il fisico debilitato, le sue condizioni generali erano buone. Mai avuto problemi cardiaci, nè fastidi che potessero in qualche modo segnalare l’arrivo di un infarto.
Overdose - 8 marzo 2003, Carcere di Aurelia (Roma). Manuela Contu e Franca Fiorini, rispettivamente di 42 e 37 anni, muoiono per overdose. Le trovano abbracciate, in un lettino della loro cella, che non danno segni di vita: l’allarme scatta immediatamente, ma ormai non c’era più nulla da fare. Manuela Contu, di Roma, aveva avuto in passato dei legami con la banda della Magliana e da tre anni era ospite della sezione femminile di Aurelia, per scontare una pena per spaccio di sostanze stupefacenti. Franca Fiorini, di Sezze, era in carcere per furto da circa due anni. La mattina dell’8 la Contu ha ricevuto la visita di Leofreddi, l’uomo da cui aveva avuto un figlio. Nella casa di Leofreddi è stata trovata una lettera della Contu, con tutte le istruzioni per fare entrare due grammi di eroina in carcere. Sia la cella che le due donne, dopo il colloquio con l’uomo, sono state perquisite. Non è stato trovato nulla.
Suicidio - 12 marzo 2003, Carcere di Marassi (Genova). Santo R., 50 anni, si uccide ingerendo una massiccia dose di tranquillanti. L’uomo, accusato di avere violentato una famigliare, non riusciva a parlare con un magistrato: questo sarebbe il motivo che lo ha portato al gesto suicida.
Assistenza sanitaria disastrata - 5 aprile 2003, Carcere di Poggioreale (Napoli). Mariano Maestrino, 35 anni, muore per un collasso cardiaco. Si tratta del secondo detenuto deceduto a Poggioreale in poco più di due settimane e sulla sua fine avrebbe influito negativamente la carenza di cure appropriate. Il 26 marzo Maestrino, sofferente di sovrappeso e che proprio per questo accusava problemi cardiaci e respiratori, aveva partecipato all’udienza per la sospensione della pena, richiesta per il suo delicatissimo stato di salute. La sua obesità non aveva però influito sul regime carcerario, tant’è vero che fino al suo ricovero nel centro diagnostico terapeutico della casa circondariale di Poggioreale era rimasto in regime carcerario ordinario.
Suicidio - 5 maggio 2003, Carcere di San Vittore (Milano). Chamorro Morocho, 30 anni, ecuadoriano, viene arrestato il 3 maggio, per aver ucciso la moglie e ferito il figlio, investendoli con l’auto. Il 4 maggio l’uomo, nella visita di routine dello psicologo, "non dichiara propositi autolesivi", ma il medico, come per ogni protagonista di delitti famigliari, dispone comunque "massima sorveglianza, con controlli ravvicinati". Il detenuto risulta malato di tubercolosi, ma "per mancanza di celle idonee" viene rinchiuso in una stanza di fortuna, ricavata nella sala d’attesa (cella del reparto "nuovi giunti"). Il pericolo di contagio ne imporrebbe "l’isolamento sanitario", ma in quella "piccola cella con i materassi a terra" sono ammassati altri nove detenuti stremati dall’afa. Il 5 maggio l’ecuadoriano si impicca nel bagno con una stringa delle scarpe. (Dopo due mesi di accertamenti, la procura non si limita ad escludere qualsiasi responsabilità degli agenti, per la mancata sorveglianza dell’arrestato, ma elogia la direzione per "l’innegabile attenzione" al problema dei suicidi, fino a concludere che i problemi oggettivi di San Vittore sono tanto gravi da mettere in dubbio perfino l’obiettivo minimo della sopravvivenza: "Le condizioni di sovraffollamento e la cronica mancanza di mezzi in cui versa il carcere rendono sostanzialmente impossibile attuare una politica di reale ed efficace prevenzione degli atti autolesivi e dei suicidi (…) Si tratta di condizioni di detenzione non degne di un Paese civile". Lo stesso direttore di San Vittore spiega che la capienza massima del carcere è di 800 detenuti, mentre la media ordinaria è di 1600 reclusi.)
Assistenza sanitaria disastrata - 13 agosto 2003, Carcere di Catanzaro. Emiliano Mosciaro, 47 anni, muore di peritonite. Stava scontando una pena di sette anni di carcere. Il 4 agosto telefona alla madre, per dirle che non si sente bene e che le cure dei medici del carcere non funzionano. Emiliano soffre di crisi depressive e quei dolori addominali, che accusa da qualche giorno, sono forse scambiati per effetti di qualche forma di somatizzazioni. Il giorno dopo la telefonata alla madre Emiliano viene trasferito d’urgenza all’Ospedale di Catanzaro, su richiesta di un medico esterno che lo ha visitato in carcere. Troppo tardi, la peritonite è ormai in stato di necrosi avanzata. Altre storie di ordinaria inumanità di Francesco Barilli e Sonia Benedetti
Fino ad ora abbiamo trattato (direttamente con l’intervista a Patty o indirettamente grazie alla rielaborazione di dati estrapolati da ristretti.it) casi particolarmente drammatici ed eclatanti. Ma forse la realtà del carcere italiano può essere meglio rappresentata nella sua "ordinaria inumanità" proprio da storie che, fortunatamente, non sono sfociate in epiloghi tragici. Abbiamo cercato persone che avessero voglia di raccontare le loro "storie ordinarie di carcere", e cominciamo il nostro racconto con la vicenda di Ivan Zancolich, una vicenda breve ma significativa, proprio perché narrata da una persona che non avrebbe mai pensato di affrontare l’esperienza carceraria, e che quindi può fornire un punto di vista "diverso" su quella realtà. A seguire l’esperienza di E.G., ex detenuto che ci ha chiesto di mantenere l’anonimato. Nel corso dei futuri aggiornamenti di questa nostra inchiesta contiamo di presentare altre testimonianze, invitando ancora una volta (come fatto in premessa) chi volesse fornire il proprio contributo a mandare una mail all’indirizzo info@ecomancina.com
Padova, 14 gennaio 2004 – intervista a Ivan Zancolich
Domanda: Vorrei che fossi tu ad introdurre la tua storia e a spiegare come e perché sei finito in carcere.
Ivan Zancolich: Mi chiamo Ivan Zancolich, sono uno psicologo e da qualche anno lavoro "nel sociale". La vicenda che mi ha portato in carcere è piuttosto allucinante, a mio avviso. Lavoro in una comunità di minori, e devi sapere che in questo ambiente ci sono delle procedure e servizi particolari, tra cui il cosiddetto "pronta accoglienza". Con questo servizio i minori presi in flagranza di reato vengono portati proprio in comunità di questo tipo e non in carcere (ti ricordo che per legge i minori di 14 anni non possono essere detenuti). Queste comunità non hanno l’obbligo di trattenerli con la forza; la prassi che ho potuto constatare nel periodo in cui ho lavorato in quella comunità era questa, in estrema sintesi: i ragazzini arrivano, si compilano le carte per l’accettazione, ma quando vogliono uscire dalla comunità nessuno li può trattenere; l’unico obbligo a capo del personale è quello di fare un fax alla sede centrale della comunità, che poi attiverà a sua volta le procedure con Questura e Tribunale. Bene, la sera dell’8 dicembre 2003, arrivano due minori scortate dai cc, dopo aver disbrigato le pratiche per l’accettazione, concedo loro di fare una telefonata a casa dopo la quale mi dicono di aver ricevuto indicazioni dai genitori che vogliono che tornino a casa. Così le bambine lasciano la comunità. Poi succede un fatto strano: le bimbe rientrano in comunità dopo poco, molto spaventate dicendo di essere seguite da due brutti ceffi, che poi scoprirò essere uomini dell’arma. Allora esco a controllare e in effetti si ferma una macchina con a bordo due uomini che si qualificano come Cc e quando dico loro chi sono e cosa sto facendo mi salutano e mi lasciano andare. Ah, le bimbe mi avevano chiesto di portarle in stazione e stavo per farlo, ma l’incontro coi cc mi aveva lasciato perplesso, quindi giro la macchina e faccio rientro in comunità. Qui le bimbe richiamano a casa, perché nel frattempo le avevo convinte a rimanere presso la comunità, ma i genitori non lo consentono, così se vanno da sole a piedi verso la stazione. Dopo pochissimo tempo tornano i carabinieri e mi chiedono delle minori, dico loro ciò che è successo ma evidentemente, non conoscendo bene queste prassi, hanno ritenuto che io avessi commesso il reato di abbandono di minori. Beh, tutto in realtà è più complicato, ma per sommi capi questa è la storia. La cosa assurda, dal mio punto di vista, è che io sono stato arrestato mentre stavo semplicemente facendo il mio lavoro.
Domanda: Indipendentemente da quella che vedremo in seguito essere la tua "storia di carcere", tu ti senti mancante in qualche aspetto (a livello di procedure amministrative, intendo)? Mi hai parlato, per esempio, dell’obbligo di un fax…
Ivan Zancolich: In realtà le cose sono un po’ più complesse. Nella prassi operativa di tutti i giorni, con 7 o 8 ragazzini da gestire, ci possono essere dei ritardi nell’occuparsi di un adempimento burocratico quale può essere il fax. Comunque, a questo proposito, ci tengo a precisare che io in quel periodo ero "in prova" e supervisionato da un altro operatore più anziano, che avrebbe potuto/dovuto in qualche modo tutelarmi e spiegare a chi di dovere come erano andate le cose. E se non poteva farlo a titolo personale, poteva intervenire la Comunità. E questo non è avvenuto per nulla.
Domanda: Torniamo a quella che è l’esperienza più direttamente attinente la nostra inchiesta. Vieni quindi tradotto in carcere: dove? Ti viene subito spiegato il motivo per cui vieni tratto in arresto?
Ivan Zancolich: Da Mestre, dove sono stato arrestato, dopo il disbrigo delle prime procedure (impronte digitali, foto ecc.) sono stato tradotto al carcere di Santa Croce di Venezia, dove arrivo a mezzanotte. Lì vengo accettato dalle guardie carcerarie. Passa un’altra oretta di procedure (perquisizione ecc.) e alle tre di notte entro in quella che sarà la mia "casa" per i successivi tre giorni. Una cella con sei compagni, di circa 20 metri quadrati.
Domanda: In quei tre giorni hai potuto parlare con qualcuno?
Ivan Zancolich: Alla fine dei tre giorni sì; ho parlato con l’avvocato perchè era arrivato il PM per interrogarmi.
Domanda: Per i primi tre giorni quindi nessuno è venuto a sentire le tue ragioni, la tua versione dei fatti?
Ivan Zancolich: No. La prima persona che vedi con il "potere" di scarcerarti è il PM… Devo dire che tutte queste procedure di legge me le hanno insegnate i miei compagni di cella, io ero totalmente a digiuno delle procedure burocratiche inerenti quel mondo… Mi hanno spiegato loro che ci sono 48 ore entro le quali la persona fermata vede il PM; se questo non ti rilascia ci sono altre 48 ore entro le quali dovrebbe venire ad interrogarti il GIP e decidere l’eventuale scarcerazione. A me è andata bene, come ti dicevo, perché il PM ha deciso di scarcerarmi senza porre altre limitazioni (tipo obbligo di firma, arresti domiciliari o cose del genere).
Domanda: C’è una cosa che mi lascia perplesso: tutta la tua accoglienza mi sembra approssimativa (come atteggiamento della amministrazione carceraria nei confronti di un "nuovo arrivato", intendo): tu vieni inserito in un mondo totalmente alieno per te, eppure nessuno a livello ufficiale ti spiega quali sono i tuoi diritti e i tuoi doveri, le dinamiche all’interno del carcere, le mille cose spicciole che "costruiscono" la quotidianità di vita nel carcere. E poi: dell’avvocato mi hai già detto. Ma in quei tre giorni hai avuto altri contatti con l’esterno? La tua compagna Valentina, i familiari, intendo…
Ivan Zancolich: Solo i compagni di cella mi spiegano "come ci si deve comportare", quali sono le prassi da seguire, cos’è "l’ufficio matricola", tanto per dire… Io ero totalmente all’oscuro di queste procedure interne. Sono loro che mi danno tutte le informazioni necessarie. Per quanto riguarda altri contatti con l’esterno: no, non ne ho avuti; perché quando vieni arrestato non puoi parlare con nessuno finchè non vedi il PM, perché ci sarebbe la possibilità di inquinamento delle prove. E questa devo ammettere che mi sembra una prassi comprensibile. L’unico contatto che si può avere, e solo in entrata, sono i telegrammi. Valentina mi mandò un telegramma con il nome dell’avvocato da nominare (chiaramente nel momento in cui ero stato arrestato non avevo un avvocato di fiducia, non avevo mai pensato di poterne avere bisogno…).
Domanda: Tutta la tua esperienza in carcere deve esserti sembrata estranea e ostile rispetto al tuo modo di vivere consueto, ma c’è qualcosa che ti ha colpito particolarmente?
Ivan Zancolich: Beh, tutto è particolare e "curioso", perché all’interno del carcere si creano delle dinamiche particolari, quasi fosse un mondo totalmente a sé. Non riesco ad isolare un singolo aspetto che mi abbia colpito in particolare. Anche perché tu prova ad immaginare come può sentirsi uno che viene preso e portato in carcere mentre sta lavorando, e senza sentire in coscienza di aver fatto nulla di male! Non riesco, insomma, a focalizzare un solo aspetto. Posso dire che quello che più mi è rimasto di questa esperienza è stato il contatto con gli altri carcerati. Perché tu arrivi lì dentro e sei come un bambino, non sai niente di quel mondo, e quella sarà, per i giorni successivi, la tua famiglia. Ti consolano, ti dicono "come muoverti"… Questa è la cosa che mi ha colpito di più. Ma io penso di essere stato molto fortunato ad incontrare persone così umane, che mi hanno aiutato a superare quei momenti.
Domanda: Quindi tu, per quanto hai potuto vedere nella tua limitata esperienza, non hai vissuto esperienze ostili; non hai visto episodi di "nonnismo" o forme di sopraffazione fra i detenuti, ma hai vissuto anzi un ambiente "di accoglienza"…
Ivan Zancolich: Guarda, il nonnismo credo proprio che esista anche nel carcere, anche in base a quanto mi hanno detto i miei compagni di cella. Furono le stesse guardie carcerarie, dopo aver espletato tutte le formalità per la mia accettazione, a dirmi che mi avrebbero messo in una cella di "definitivi", ossia persone che hanno già avuto la condanna e sanno "cosa li aspetta", per cui con un livello di ansia e di aggressività inferiore rispetto a quello della popolazione carceraria in attesa di giudizio e che non sa ancora a quale pena andrà incontro. Mi diceva un ragazzo che nelle celle "dei negretti" (come li chiamava lui), ossia abitate da soli extracomunitari, a volte la situazione era insostenibile. Perché questi non hanno soldi, capiscono a malapena la lingua… Ripeto, so di essere stato fortunato ad essere messo in cella con persone che avevano già consolidato le proprie dinamiche interne al carcere e sapevano già quanto dovevano rimanere lì dentro, per cui accettavano quella vita; non dico che l’accettavano serenamente, ma se ne facevano una ragione. Chi è lì e non parla l’italiano, non ha un avvocato, non ha soldi, non sa bene quali siano le sue prospettive… Beh, credo che per quella gente la realtà sia molto più dura …
Domanda: Volevo chiedere una cosa alla tua compagna, Valentina. Abbiamo sentito come ha vissuto la sua storia Ivan. Abbiamo detto che la sua è stata un’esperienza "aliena". Ma penso che il termine "aliena" o "estranea" possa definire anche la tua esperienza… Per cui volevo sapere la tua storia: come e quando hai saputo dell’arresto, quali sono state le tue reazioni eccetera.
Valentina: Io vengo a sapere dell’arresto il giorno stesso, alla mezzanotte dell’8 dicembre. Doveva essere una serata tranquilla, ricordo che avevamo in programma di vedere la seconda puntata de "La meglio gioventù". Ivan doveva arrivare verso le nove e mezza di sera. Alle dieci e mezza ho cominciato a preoccuparmi: so che alla Comunità può sempre succedere qualche imprevisto, ma lui in questi casi mi chiama sempre; e poi quando ho provato a chiamarlo non rispondeva al cellulare. Ad un certo punto ho chiamato anche la sede della comunità, ma mi hanno risposto genericamente che c’era stato qualche contrattempo e che non dovevo preoccuparmi. Dopo pochi minuti mi telefona un Commissario che mi dice "la sto chiamando per notificarle l’arresto di Ivan Zancolich". Io in quel momento non riuscivo a realizzare l’accaduto, pensavo addirittura ad uno scherzo di qualcuno della comunità, e mi sono fatta ripetere il suo nome un paio di volte. "Sono il commissario D., dei carabinieri di Cessalto"… Tra l’altro devi sapere che Ivan lavora a Marghera, mentre Cessalto è in provincia di Treviso, per cui non riuscivo a capire cosa potesse essere successo. Chiedo quindi informazioni più precise al commissario, che mi risponde "Zancolich è stato arrestato per abbandono di minore". A quel punto ho richiamato la Comunità, ma loro non ne sapevano nulla. Ed è a qui che è cominciata una vicenda che posso solo definire, per quel che mi riguarda, assolutamente kafkiana. Non ho dormito tutta la notte. La mattina dopo ho telefonato ad un amico per raccontare la storia. Ero sconvolta, era la prima volta che mi capitava di dover assistere una persona arrestata. Può sembrare assurdo, ma ricordo che ho pensato che la vicenda non doveva essere tenuta segreta, ma che era talmente assurda che dovevo far sapere la notizia a più persone possibili. Quindi, dopo aver chiamato questo mio amico e dopo aver trovato un avvocato per Ivan, ho chiamato la Comunità, che mi ha lasciato completamente "a piedi"… Devi sapere che si tratta di una IPAB; un istituto di matrice religiosa che ha un sacco di "comunità satelliti" (sia per il recupero di minori, sia di richiedenti asilo), quindi è una comunità molto nota e influente nell’ambiente. Probabilmente non sapevano bene neppure loro come erano andati i fatti, ed hanno pensato bene di scaricare tutta la responsabilità su Ivan e di dirmi che loro, in ogni caso, non potevano farci nulla. Poi c’è l’aspetto finanziario (pagare l’avvocato eccetera): io ho solo una borsa di studio e Ivan faceva l’operatore in prova, per cui anche l’aspetto economico poteva diventare un problema. Devo dire che abbiamo avuto massima solidarietà dagli amici, dai compagni che ci sono stati vicini, dall’associazione per cui avevamo lavorato in passato entrambi, per cui non mi sono sentita sola… La cosa peggiore è che non potevo comunicare con lui. In quei momenti ti vengono in mente le cose più banali, le esigenze che poteva avere Ivan e che io non potevo soddisfare. Per esempio, Ivan è miope e porta le lenti a contatto, e pensavo a come potevo fargli avere gli occhiali perché non poteva stare con le lenti per tanti giorni. Non sapevo se avesse soldi con sé, sicuramente non aveva indumenti per cambiarsi… E io mi sentivo impotente, non sapevo cosa potevo fare per lui, e questa è stata la cosa peggiore, per me.
Domanda: Tornando ad Ivan: dopo questa brutta avventura hai avuto anche ripercussioni negative a livello lavorativo?
Ivan Zancolich: Beh, chiaramente non me la sono più sentita di tornare in quella Comunità… Altre ripercussioni non le so e non le posso ancora sapere, perché la storia è ancora troppo fresca. Sto cercando un altro lavoro, sempre nel mio campo, e gli articoli denigratori che sono usciti sui giornali in quei giorni (cose allucinanti, del tipo "mandava a rubare le bambine zingare invece di educarle"…) non so cosa potranno portare nel mio futuro. In questo caso spero che la memoria della gente sia breve, per cui spero che articoli apparsi solo per due-tre giorni non lascino il segno.
Domanda: Una domanda che è estranea alla nostra inchiesta, ma che mi sorge spontanea vista l’assurdità della tua storia: pensi che dietro al tuo arresto possa esserci stata qualche "manovra strana" nei tuoi confronti?
Ivan Zancolich: Sinceramente penso di no. Non credo ci sia stato un disegno per incastrarmi. Credo semplicemente che i carabinieri di Cessalto non conoscessero bene le procedure operative che sono all’ordine del giorno e ben conosciute dai tribunali dalle questure e da chi opera in questi settori. Penso che quei carabinieri abbiano vissuto un senso di frustrazione nel portare quelle bambine alla Comunità e nel ritrovarsele dopo una settimana a rubacchiare in giro… Quindi credo che abbiano fatto partire una loro indagine autonoma e che la "sfortuna cosmica" abbia voluto che ci finissi di mezzo io, l’operatore che stava seguendo proprio quel caso.
Valentina: Rispetto alle prassi e al lavoro in questo settore volevo aggiungere una cosa. Il fatto che la gestione di servizi di questo tipo (comunità di minori, nel nostro caso) non avvenga tramite strutture pubbliche, ma venga lasciata a soggetti privati o semi-privati comporta a mio avviso anche una minore tutela dei lavoratori. Ivan si è trovato in questa situazione e nessun ente ha voluto/potuto tutelarlo. Anche perché in questo campo non ci sono leggi o regolamenti precisi, ma solo prassi consolidate di queste comunità che vengono poi condivise dai soggetti pubblici che gravitano attorno a questa realtà (tribunale, comune di Venezia ecc.). I carabinieri di Cessalto probabilmente non erano a conoscenza di questa prassi; per cui anche dal punto di vista legislativo ci sono lacune e scollegamenti fra apparati che invece dovrebbero dialogare ed interagire. Per cui immagino che se invece dei carabinieri di Cessalto Ivan avesse incontrato quelli di Marghera le cose sarebbero andate diversamente, perché questi ultimi conoscono già bene questa realtà e sanno come comportarsi…
Domanda: Volevo soffermarmi sull’aspetto più puramente umano ed emozionale: cosa hai provato quando sei stato arrestato e quali sono state le tue reazioni a livello emotivo in quei tre giorni?
Ivan Zancolich: Quando mi hanno arrestato la mia reazione è stata di incredulità. Devo avergli risposto qualcosa tipo "ma state scherzando?!". Successivamente non ho avuto un "crollo emotivo", ho sempre cercato di mantenermi lucido e razionale. Ho cercato di capire se c’era il modo di dare le spiegazioni giuste ai carabinieri, magari mettendoli in contatto con l’altro operatore alla comunità, però era tutto inutile. A quel punto, quando ho capito che la decisione dell’arresto era irrevocabile, ho smesso di parlare e mi sono semplicemente sottoposto alle procedure per la traduzione in carcere… Lì per lì non ci credevo, mi sembrava solo un brutto sogno… Il brutto viene quando entri in cella. Le prime 24 ore emotivamente sono state davvero brutte. Non riuscivo a parlare con nessuno perché mi veniva "il magone"; mi sentivo vittima di un torto enorme… Le emozioni non riesco a descrivertele bene Una sensazione di impotenza, di sopruso subito, di rabbia, di preoccupazione per chi stava fuori (perché sapevo che anche per loro sarebbe stato un colpo molto duro)… E poi preoccupazione per me, per il futuro, perché io lavoro con i minori ed è un lavoro che amo molto, ed ho pensato che in seguito all’arresto magari non avrei più potuto lavorare con i minorenni, con i bambini… Tutto un turbinio di sensazioni, non mi è possibile isolarne una…
Domanda: Volevo chiederti un’ultima cosa. Mi hai detto che per alleviare questa tua brutta esperienza ti è servito molto l’aver trovato contatti umani significativi con i tuoi compagni di cella: sono poi proseguiti una volta che hai riacquistato la libertà, o è stata un’esperienza confinata a quei soli tre giorni?
Ivan Zancolich: No, l’esperienza non è finita lì. Anche perché io sento un dovere di riconoscenza verso queste persone e i contatti continuano tramite lettere. Loro in quei giorni (visto che eravamo vicini a Natale) mi hanno chiesto se potevo mandargli delle cartoline che poi loro avrebbero spedito a parenti ed amici, e questo l’ho fatto con piacere: ho comprato buste e cartoline natalizie e gliele ho spedite. Poi ho cercato di aiutare economicamente uno di quei ragazzi, che sotto quell’aspetto era messo molto male. Ma sono cose che mi sembrano naturali: così come loro hanno aiutato me in quei momenti, le piccole e poche cose che potevo fare per loro "da fuori" le ho fatte e le farò volentieri. E adesso continuo questo rapporto epistolare (specie con uno di loro, un ragazzo che deve farsi dentro un bel po’ di tempo), perché ho capito che per loro è importante scrivere e ricevere lettere, avere un contatto con chi sta fuori, con chi vive la libertà, con chi "vive il mondo": ricevendo una sua lettera è come se una parte di quel mondo libero ti entrasse in carcere… E poi l’opportunità di scrivere e di esternare i sentimenti è importante in quell’ambiente. Molti mi dicevano che diventa difficile farlo in un ambiente chiuso ed aggressivo come il carcere. Riuscire a comunicare è difficile quando non hai neppure la libertà per fare quattro passi dentro il carcere, per cui ti devi inventare mille scuse per farti un giro e così fermarti a parlare con chi sta facendo le pulizie… Poi, ripeto, io ho visto solo una realtà, e credo sia stata la migliore che potesse capitarmi in quel frangente, perché tutto sommato in quella cella l’aria che si respirava era quella di una comunità , di una piccola famiglia… Loro una sera me ne parlarono proprio così: "Qui la famiglia siamo noi. Se non ci aiutiamo, io con te e tu con me, se non ci passiamo le sigarette quando siamo senza o non ci diamo una mano l’uno con l’altro, che fine facciamo, visto che siamo nella stessa barca?"…
25 febbraio 2004 – intervista a E.G.
Domanda: Quando sei stato incarcerato per la prima volta? E, in seguito, quali sono state le tue esperienze nei penitenziari italiani?
E.G.: Il 25 aprile 1975, per detenzione e spaccio stupefacenti. Poi, sempre quell’anno, a luglio, ancora per detenzione e spaccio. Poi tante altre volte, o per "roba" o per furti. Di carceri ne ho visti tanti. Cremona, Brescia, Mantova, San Vittore, Opera, Busto Arsizio, Gallarate, Brescia, Bologna, Reggio Emilia, Piacenza, Massa Carrara, Pisa, Livorno…
Domanda: Immagino che avrai trovato esperienze e contatti umani molto diversi in questi anni. C’è qualche cosa che ti ha colpito particolarmente, sia riguardo al rapporto fra detenuti, sia riguardo al rapporto con gente che lavora nel carcere (agenti, volontari ecc.)?
E.G.: Guarda, posso dirti che tra i detenuti ho visto sempre molta solidarietà. Le "cose che non vanno bene", quelle che non si devono fare… Beh, si sanno subito. Certi soprusi tra detenuti io li ho visti solo nei film americani.
Domanda: Tu dici: prepotenze fra detenuti non ne ho viste…
E.G.: Beh, un attimo: ne ho viste, ma ho visto anche le conseguenze che subiva chi, fra i detenuti, commetteva quelle prepotenze ai danni di altri: scattava sempre la solidarietà.
Domanda: Okay. Ma soprusi da parte di guardie carcerarie nei confronti dei detenuti, invece?
E.G.: Sì, ne ho visti. Si trattava sempre di episodi commessi in modo che dopo si potesse imboscare tutto. Non ti dico di "cose eclatanti", ma di botte sì, tante. Ho visto gente picchiata di brutto.
Domanda: E per quali motivi?
E.G.: I motivi? Beh, di versioni ce ne sono sempre due: quella del carcerato e quella della guardia!… Qualche botta l’ho presa pure io. Ricordo di una volta che avevo chiesto una pastiglia per il mal di testa e non me la portavano. Allora cominci a lamentarti dopo mezz’ora… Poi dopo un’ora…. Dopo due ore cominciano a volare le parole, poi ti lascio immaginare…
Domanda: E gente che si è ammazzata in carcere ne hai vista?
E.G.: Sì. Ma pochi e sempre "a cose fatte". Atti di autolesionismo sì, tantissimi… Però, ti dirò, credo che se uno vuole morire si ammazza e basta. Gli atti di autolesionismo spesso sono un modo per attirare l’attenzione su di sé; un modo disperato per dar forza a certe richieste.
Domanda: Parlami dei contatti con l’esterno: visite telefonate…
E.G.: Ci sono i colloqui e le telefonate stabilite per legge ogni mese. Se non sbaglio adesso sono cinque colloqui al mese, più tre telefonate di sei minuti l’una, sempre al mese. Poi dipende dal tuo comportamento: se non hai ammonizioni o roba del genere possono concederti qualche colloquio in più… Poi dipende anche dal carcere; in un "penale" hai qualcosa in più. Ti ricordo che esistono due tipi di carceri. In quello circondariale ci vai appena arrestato, poi c’è il processo e se prendi una condanna "consistente" non puoi stare in quel tipo di carcere. Nel "penale", insomma, ci vai se hai preso una condanna definitiva di una certa entità; e lì hai qualche agevolazione in più.
Domanda: Immagino che, nelle tue esperienze di carcere che si snodano lungo quasi trent’anni, avrai notato che la percentuale di carcerati extracomunitari è aumentata moltissimo.
E.G.: Sì, adesso saremo attorno al trenta per cento o giù di lì…
Domanda: Il trattamento riservato loro è analogo a quello riservato agli italiani?
E.G.: Beh, il trattamento dovrebbe essere uguale. Poi "si recita a soggetto": c’è l’agente che ce l’ha con i detenuti in generale, quello che odia i marocchini, quello per cui tutti sono uguali... Poi, chiaro, se guardi l’ordinamento, i diritti sono diritti, e dovrebbero essere garantiti per tutti.
Domanda: Hai mai visto direttori di carceri prendere provvedimenti nei confronti di guardie che avessero commesso abusi nei confronti dei prigionieri?
E.G.: Sì, la direttrice che era al carcere di Cremona fino ad un po’ di tempo fa. Lei guardava dove era il torto e dove la ragione, e se era il caso difendeva il detenuto. In linea generale, tieni conto innanzitutto di una cosa: nel carcere c’è il direttore, sì, ma c’è anche un maresciallo, un responsabile delle guardie; ed è lui il responsabile della sicurezza nel carcere. Il direttore "conta" più del maresciallo, chiaro, ma la sicurezza ce l’ha in mano quest’ultimo, e se lui dice che una certa guardia si è comportata in un certo modo per "motivi superiori di sicurezza", perchè altrimenti poteva succedere un’evasione, una rivolta o cose del genere… Beh, la scusa per l’agente è già trovata, e il direttore può dire quello che vuole! Insomma, se una guardia fa qualcosa di male ad un carcerato per avere ragione ce ne vuole; se invece sei tu che fai qualcosa di male ad una guardia, sei mesi in più di galera te li becchi subito… Sei mesi me li sono presi pure io, in quel modo…
Domanda: Cosa avevi fatto?
E.G.: Gli avevo tirato una bottiglia in testa. Mi aveva esasperato… A me sembrava di avere ragione, ma i sei mesi me li sono beccati subito. E sono finito a Busto Arsizio, in un "punitivo".
Domanda: La nostra inchiesta è rivolta soprattutto a chi in carcere non c’è mai stato e ne ha un’idea vaga e magari pensa che le carceri italiane siano, come disse il Ministro Castelli, "hotel di lusso". Ti senti di dire qualcosa, al proposito?
E.G.: Alberghi di lusso… già, lo disse a Cagliari, in visita al Buoncammino… Beh, lasciando stare le provocazioni, ti dico che uno che in carcere non c’è mai finito deve preoccuparsi innanzitutto… di non andarci!!! Ma se ci finisci dentro (ed è più facile di quanto si possa pensare…) devi innanzitutto preoccuparti di capire come ci si deve comportare, lì. Convivere con altra gente, con la testa diversa dalla tua, non è semplice anche fuori; ma in carcere di problemi ce n’è anche di più… Ma se non sei un bastardo qualcuno che ti dia una mano, lì, lo troverai. Fra i detenuti troverai come una "società del mutuo soccorso interno". Insomma, se ci finisci dentro, non contare tanto sul tuo avvocato, ma cerca di capire innanzitutto l’aria che tira e cosa è bene e cosa non è bene fare, lì dentro… Il carcere visto da…, di Francesco Barilli
In questa sezione vedremo di affrontare il "mondo carcere" assieme a chi ha vissuto questa realtà "dall’altra parte della barricata" (direttori di istituti, assistenti sociali, agenti di polizia penitenziaria), o assieme a chi il carcere l’ha conosciuto come detenuto, ma ha deciso (sia durante che dopo l’esperienza detentiva) di impegnarsi in prima persona nel difficile tentativo di migliorare le condizioni di vita nelle carceri, o comunque di denunciare le innumerevoli storture di questa istituzione. Apriamo questa parte della nostra inchiesta con una testimonianza che rientra nella seconda possibilità; la testimonianza di Sergio Segio, dell’Associazione "SocietàINformazione". Si tratta di un personaggio già noto per i lettori che si sono interessati delle problematiche carcerarie; per quelli che non lo conoscessero, rimandiamo alla sua prima risposta, che costituisce anche una presentazione della sua esperienza umana e del suo impegno civile. Di seguito potete trovare un contributo che rientra nell’esperienza di chi il carcere lo conosce bene dopo averci lavorato per molti anni, sempre impegnato nell’obbiettivo di costruire un carcere migliore e più umano. Si tratta di Luigi Pagano, a lungo direttore di San Vittore e oggi Provveditore regionale delle carceri lombarde. Ringraziamo di cuore Sergio Segio e Luigi Pagano per la pazienza e la disponibilità che ci hanno concesso.
Milano, 2 luglio 2004 – intervista a Sergio Segio
Domanda: I media che parlano di lei spesso partono con una presentazione comune, parlando quasi con curiosità di "Sergio Segio, ex terrorista che in seguito, all’interno del carcere, ha scoperto l’impegno sociale a fianco dei detenuti". Al di là della banalità della definizione, come è maturata dentro di lei la decisione di questo impegno civile?
Sergio Segio: Potrà forse scandalizzare qualcuno, ma l’impegno sul/contro il carcere è un tratto di continuità nella mia biografia individuale e politica. Nei primissimi anni Settanta militavo in Lotta continua che, unico tra i gruppi dell’allora sinistra extraparlamentare, aveva un forte intervento di sostegno ai detenuti. In seguito, con Prima linea, l’organizzazione armata che fondammo a metà degli anni Settanta, la critica contro l’istituzione totale carcere si fece ancor più radicale. Successivamente, ho scontato complessivamente una pena di 22 anni. Pur se ho maturato da tempo una convinzione nonviolenta, conoscere dall’interno la prigione ha rafforzato la mia visione critica di questa istituzione, la cui funzione è sempre più identificabile quale quella di contenitore di povertà, sostituto autoritario alle politiche di welfare. È anche per questo, oltre che per solidarietà umana verso chi vive l’esperienza della prigionia, che da anni svolgo attività di volontariato sui temi del carcere e della giustizia. Sono stato per molti anni responsabile del Gruppo Abele per queste problematiche, faccio parte del direttivo della Conferenza nazionale volontariato giustizia e di Forum Droghe. Ma l’attenzione e impegno su questa difficile problematica attraversa anche le mie altre attività pubblicistiche e di ricerca. Uno dei capitoli del Rapporto sui diritti globali, promosso da una rete di associazioni (CGIL, ARCI, Antigone, Legambiente, Coordinamento nazionale comunità di accoglienza), che curo e realizzo annualmente attraverso il centro studi della mia associazione, SocietàINformazione, è dedicato proprio al carcere e alle giustizia. Mi scuso per aver citato le cose che faccio, ma è per dire che mi pare vi sia da parte mia linearità e non "folgorazione" al riguardo. Del resto, anche da dentro le carceri, con i miei compagni, alla metà degli anni Ottanta avevamo sviluppato una forte dialettica con i parlamentari, ma anche gli enti locali, per promuovere la riforma, che poi venne varata nel 1986, e per una maggior apertura e comunicazione tra interno ed esterno. In ogni modo, credo che il carcere sia e debba essere considerato, non a sé stante, ma come un capitolo delle politiche sociali. Quindi, l’impegno sul carcere è per me parte di un più complessivo impegno contro l’esclusione e per una maggior giustizia sociale.
Domanda: Uno degli aspetti che più colpisce nel carcere è questo: la presenza di un alto tasso di recidivi. Molti attribuiscono questa recidività a una predisposizione naturale di quei soggetti verso il crimine: mi sembra una spiegazione, oltre che banale, molto comoda. In questo modo, infatti (attribuendo cioè questo mancato recupero alla semplice predisposizione al crimine) si nasconde il fallimento del carcere come istituzione che dovrebbe tendere al recupero del detenuto. Secondo lei cosa manca al carcere (come istituzione) affinché si possa parlare davvero di una struttura che tende al futuro reinserimento dei soggetti nella società?
Sergio Segio: Il fallimento è reale ed evidente. Alcuni, la destra, ne traggono una considerazione di impossibilità. Ad esempio, AN ha depositato il 28 aprile 2004 una proposta di legge, primo firmatario Cirielli, che tende addirittura a modificare l’articolo 27 della Costituzione, a favore di una concezione della pena come deterrenza ed esemplarità. In sostanza, come pura e semplice ritorsione sociale o, più crudamente ma realisticamente, come vendetta, come incapacitazione selettiva delle fasce sociali più a rischio e meno integrate. Esattamente come avviene negli USA, dove ormai con oltre 2 milioni di persone in carcere e altri 5 milioni sottoposte a controllo penale esterno (probation, libertà sulla parola, ecc.), si è raggiunto un impressionante primato. In quel Paese il 12,9% dei giovani neri, di età compresa tra i 25 e i 29 anni, è in carcere. Tra i bianchi della stessa fascia d’età, la percentuale è dell’1,6%. È insomma evidente la funzione di contenitore e di ghetto in cui rinchiudere chi disturba. Cifre così imponenti, peraltro, falsano anche i dati sull’occupazione e la stessa platea elettorale, perché si tratta di milioni di persone che di fatto o per legge non possono votare. Il carcere, in particolare negli ultimi decenni, è diventato un deposito di quelli che il criminologo abolizionista Nils Chistie ha efficacemente definito "nemici perfetti", vale a dire di quei soggetti e gruppi sociali facilmente stigmatizzabili e da sempre oggetto di processi di esclusione: tossicodipendenti, immigrati, senza dimora, giovani delle periferie urbane, ecc. Dunque, il penitenziario è al contempo un modello sociale incapacitativo e un business che naturalmente tende a incrementare se stesso. L’Italia è dichiaratamente e da tempo indirizzata a un’emulazione di tali logiche. Sia sul versante dell’ipertrofia del sistema che del business. Il ministro Castelli, inaugurando recentemente un nuovo carcere in Campania, a San’Angelo dei Lombardi (ci sono voluti 19 anni per costruirlo) ha annunciato che 23 nuove strutture carcerarie saranno realizzate nei prossimi 10 anni. Costo previsto 1,7 miliardi di euro! (di cui 1,2 di fondi pubblici). Per il programma ordinario di edilizia penitenziaria, istituito con la legge 1133/1971 sono stati sinora stanziati (sino alla finanziaria del dicembre 2001) ben quasi 3 miliardi di euro. Insomma, cifre enormi, che non risolvono alcun problema e che di fatto vengono sottratte a politiche sociali, alla prevenzione e reinserimento, che diversamente potrebbero avere grande efficacia dal punto di vista anche del contenimento del crimine e dell’abbattimento della recidiva. Deve essere chiaro che questo significa tolleranza zero, come dimostra l’esperienza della città di New York che di tali politiche è stata la culla all’inizio degli anni Novanta, quando in 5 anni ha quasi raddoppiato il budget della polizia, portandolo all’equivalente di oltre 5.000 miliardi di lire (quattro volte tanto gli stanziamenti invece concessi agli ospedali pubblici) e aumentandone gli organici di 12.000 unità; nello stesso periodo, il budget dei servizi sociali è stato decurtato di un terzo, con la perdita di 8.000 operatori. In virtù di questi spostamenti di risorse, dallo Stato sociale si è passati allo Stato penale, dove il carcere diventa semplicemente un contenitore. In realtà, la recidiva è la spia di una contraddizione insanabile. Il carcere non è la medicina bensì la malattia. Nella visione rieducativa e correzionalistica, il contatto con la società è visto come "medicina" che recupera e rieduca il "deviante". Al contempo, tale "medicina" viene prima traumaticamente negata mediante la separazione forzata e l’internamento e, poi, irragionevolmente centellinata e diluita sino a rendere inefficace il principio attivo del "farmaco". Diversamente, l’eziologia del "male" che ha portato al crimine, se indagata, quasi sempre rivelerebbe nel singolo individuo un deficit pregresso di socialità e di opportunità: cioè di quanto, di nuovo, gli viene negato in forza e nelle forme della pena reclusiva, aspettandosi - o fingendo di attendersi - che ciò possa contribuire alla sua "guarigione", che si possa cioè reinserire senza aver prima mai inserito ma, all’opposto, emarginato. La stragrande maggioranza della popolazione detenuta proviene dai ceti sociali più svantaggiati, economicamente e culturalmente. Il sistema penale e penitenziario, insomma, conserva una logica e caratteristiche, ma anche una funzione, di classe. Basti guardare al grado di istruzione: sui 54.237 detenuti in carcere al 31 dicembre 2003, infatti, 457 risultavano laureati, 2.277 con diploma di scuola media superiore, 1.953 con diploma professionale, 20.570 con licenza di scuola media inferiore, 15.102 con quella di scuola elementare, 3.423 privi di titolo di studio, 767 analfabeti (per 9.688 il dato non è stato rilevato). Per quanto invece riguarda la situazione lavorativa precedente alla carcerazione, solo 13.953 risultavano avere una precedente occupazione, 13.791 erano disoccupati, 1.405 in cerca di occupazione, 350 erano casalinghe, 452 studenti, 328 ritirati dal lavoro, 9 in servizio di leva, 493 di altra condizione, mentre per 23.456 il dato non era stato rilevato. Se non si pone mano ai nodi che queste cifre sottolineano il reinserimento rimane una parola vuota. Ma questa è questione e deficit che riguarda non tanto l’istituzione carcere quanto la responsabilità politica, le istituzioni all’esterno, che devono investire in politiche sociali, in opportunità sul territorio, in percorsi di inclusione.
Domanda: Avendo vissuto il carcere in prima persona credo che lei si sia reso conto, oltre che del disagio dei detenuti (di cui fino ad ora abbiamo parlato abbondantemente nella nostra inchiesta), anche della vita di operatori, agenti di polizia penitenziaria, e di tutta l’umanità che gravita attorno al mondo-carcere. Credo che anche queste persone condividano, seppure in forme e per motivazioni diverse, il disagio del carcere, e volevo sapere, in base alla sua esperienza, quale sia la sua impressione sulla vita quotidiana di queste persone. In altre parole: esistono, a suo avviso, delle lacune nell’istituzione-carcere che rendono in qualche modo "difficile" la vita anche a chi nel carcere opera quotidianamente?
Sergio Segio: È indubbio che il degrado e il disagio connesso a una gestione disastrosa e disastrata dell’amministrazione penitenziaria si ripercuotono in primo luogo sui reclusi ma anche e contemporaneamente su chiunque vive e lavora in carcere. Ad esempio, l’altra faccia del sovraffollamento è il carico di lavoro ulteriore ed eccessivo che grava su un numero di operatori che, diversamente, sono già cronicamente sotto organico. Anche qui valgano alcune cifre: per quanto riguarda le sedi dirigenziali, la presenza effettiva è di 69 unità su un organico complessivo di 385 posti; su 204 istituti 49 risultano privi di direttore titolare. Gli educatori sono tradizionalmente la "cenerentola" del sistema: 558 su un organico previsto di 1.376. Ancora peggio è la situazione degli psicologi e, in generale, del personale sanitario. Migliore è l’organico degli agenti di polizia penitenziaria: 42.781, oltre a 7.046 unità di personale amministrativo e tecnico (ma dovrebbero essere 10.025). Pur se mal distribuito, il numero degli agenti è decisamente superiore alla media degli altri Paesi. Ma nel loro caso il disagio viene dalle condizioni di lavoro, rese difficoltose dai problemi strutturali, nonché da quelle abitative. E, ancora di più, c’è un problema di formazione insufficiente, per non dire inesistente.
Domanda: Tornando al suo impegno nel carcere: quale è stata l’iniziativa o l’esperienza che più la rende orgoglioso di quel suo impegno civile?
Sergio Segio: Su un problema così difficile e trascurato da tutti, sinistra e movimenti compresi, le cose che si fanno sono sempre insufficienti e quasi mai portano a risultati concreti e duraturi. Sul carcere, del resto, vale la legge non scritta che per fare le riforme, per migliorare la situazione occorrono decenni, mentre per le controriforme, le chiusure, bastano pochi mesi: un paio di fatti di cronaca nera e qualche campagna allarmistica sui media. Anche la campagna per l’indulto-amnistia e per il "piccolo Piano Marshall per le carceri" che, assieme ad altri, promossi nel 2000, in occasione del Giubileo, ma che continuò incessantemente per 3 anni, non ha portato ai risultati auspicati. Il gioco dei veti incrociati, un cinico ping-pong che quasi tutte le forze politiche misero in campo, mandò deluse le aspettative. L’indulto alla fine non si fece e anche il piano Marshall non poté decollare perché, nonostante le promesse che ottenemmo dall’allora governo Amato e dal centrosinistra di inserimento di apposite risorse nella Finanziaria 2001, la fine anticipata della legislatura e, di nuovo, la disattenzione se non indisponibilità di gran parte del Parlamento, portò il tutto su un binario morto. Pure, credo che quella lunga campagna e le tante iniziative che portammo avanti, riuscendo a coagulare un cartello di forze composto da tutte le maggior organizzazioni sindacali, del volontariato, della cooperazione sociale e delle piccole imprese, sia comunque servita a togliere dall’isolamento e dall’invisibilità le problematiche penitenziarie e a gettare le basi, anche all’interno, di una maggior coscienza e capacità di rivendicare diritti e cambiamento. A quella nostra proposta, peraltro, e a proposito della domanda precedente, aderirono anche i maggiori sindacati della polizia penitenziaria, che si dichiarano a favore dell’indulto-amnistia e del piano Marshall, come precondizione per l’affrontamento dei problemi strutturali del sistema. Fu un risultato non da poco, che ha contribuito a cambiare un po’ anche la loro cultura e le spinte corporative.
Domanda: Volevo un suo parere in generale su uno dei problemi che, quando si parla di questo mondo, ricorre più frequentemente: il sovraffollamento. Oltre ad un utilizzo più intenso delle "misure alternative", quali potrebbero essere le soluzioni a tale problema? E quale è il suo giudizio sul recente dibattito in Italia circa le misure "svuota-carceri", che ha prodotto il cosiddetto "indultino"?
Sergio Segio: L’indultino, ribattezzato dai detenuti "insultino", è stata una vera e propria truffa. Sia perché, come avevamo inascoltati da subito denunciato, non avrebbe portato nessun beneficio: chiunque conosca la materia sapeva bene che quella legge non avrebbe potuto fare uscire un solo detenuto in più, semmai qualcuno in meno, di quanti sarebbero comunque usciti con le misure alternative già in vigore. I dati lo hanno poi dimostrato. Come ha recentemente dichiarato il vicecapo dell’amministrazione penitenziaria Di Somma, "Appena 4.000 detenuti sono stati liberati: esattamente la metà rispetto alle previsioni". Altro che svuotamento delle carceri. Fatto sta che oggi siamo di nuovo tornati a superare i 56.000 detenuti a fronte di 42.000 posti. Esattamente come prima dell’indultino. Quello che Di Somma non dice è che gran parte dei 4000 usciti, sarebbero usciti comunque in affidamento al servizio sociale, una misura alternativa già esistente e assai meno vessatoria delle norme introdotte dall’indultino. L’altro motivo per cui parlo di vera e propria truffa è che si è spacciato per provvedimento di clemenza quello che, come giustamente e autorevolmente ha commentato Emilio Santoro, docente universitario di Firenze e direttore del Centro di documentazione "L’altro diritto", era in realtà «un provvedimento antirecidiva ispirato a una logica puramente repressiva». Peraltro e in verità, se l’indultino sicuramente ha rafforzato la logica repressiva, attraverso il sistema rigidissimo di controlli e prescrizioni che ha introdotto, diversamente non ha avuto né poteva avere efficacia antirecidiva, la quale ha bisogno di sostegno al reinserimento socio-lavorativo non di controllo poliziesco. Affossata, grazie a quella legge-truffa, ogni ipotesi di indulto-amnistia, ora il problema del sovraffollamento è diventato ancor più esplosivo. Le soluzioni possibili stanno sì in una rivitalizzazione delle misure alternative, ma anche in un progetto serio di depenalizzazione. Rivolto però non già ai reati economico-ambientali e a beneficio dei più forti, come temo questo governo e l’attuale commissione per la riforma del codice penale vogliano perseguire, bensì a quelle leggi ingiuste che, da sole, producono la gran parte delle carcerazioni: in primo luogo la legge sulle droghe (che per giunta Fini e il governo vorrebbero peggiorare, rendendo le pene più pesanti, da 6 a 20 anni, colpendo anche il consumo personale ed equiparando droghe leggere e pesanti), ma anche le norme sull’immigrazione.
Domanda: La scarsa conoscenza dell’universo penitenziario porta spesso l’opinione pubblica a pensare che le carceri siano quasi degli "alberghi di lusso", come infelicemente sintetizzò il ministro Castelli in visita al Buoncammino di Cagliari un paio di anni fa. A questo proposito mi viene in mente il prof. Della Casa, docente in diritto penitenziario, il quale ha amaramente detto: "… il carcere non dovrebbe essere qualcosa di cui si parla solo quando succede un evento commovente; si dovrebbe parlare maggiormente delle problematiche carcerarie, nella società civile. … il carcere non riguarda solo i detenuti e le loro famiglie, ma tutti noi; solo che troppo spesso ce ne dimentichiamo, e ce ne ricordiamo solo se un detenuto evade o si suicida. Il carcere, oggi come oggi, è un luogo utile solo per le facili commozioni: al posto della commozione sarebbe meglio un impegno civile, costante e continuo.". Nella visione distorta, distratta e parziale che l’opinione pubblica ha del carcere, quali sono, a suo avviso, le colpe della politica, e quali quelle dei media?
Sergio Segio: Le responsabilità sono indubbie ed enormi. La politica ha l’aggravante di legiferare su una materia come questa che spesso non conosce e non vuole conoscere. Ma tra media e politica (di centrodestra così come di centrosinistra) in questi anni si è costruito un sistema di gioco di specchi, che ha fatto della strumentalizzazione della paura e dell’enfasi securitaria un paradigma culturale e una centralità politica che ha reso il carcere un "valore", una panacea per qualsiasi problema e contraddizione sociale. A differenza del professor Della Casa, temo che del carcere non si parli e non ci si interessi neppure in occasioni di eventi che dovrebbero commuovere. Basti vedere la cappa di silenzio che nasconde i suicidi e le tante morti evitabili che succedono nelle celle (13 nel solo mese di giugno 2004). O basti pensare che, nonostante l’apposita legge varata nel marzo 2001, in carcere continuano a esserci i bambini e le loro madri. E nessuno o quasi ne vede e dice lo scandalo. Le logiche, le politiche e la cultura della tolleranza zero, la criminalizzazione delle povertà hanno prodotto una devastazione culturale e morale anche a sinistra e hanno corroso la capacità di "commozione" dell’opinione pubblica. E si tratta di guasti per riparare i quali occorreranno decenni. Il ministro Castelli esprime, magari in maniera più rozza, un sentimento di egoismo sociale e di concezione dei poveri e degli emarginati quali, appunto, "nemici" da allontanare e rinchiudere, che appartiene a pezzi non indifferenti di opinione pubblica e delle stesse forze politiche.
Domanda: Trovandomi ad intervistare ex detenuti mi è spesso sembrato naturale e scontato chiedere quale fosse stato il primo impatto con l’ingresso in carcere. Mi sembra ugualmente naturale chiederlo a lei, seppure con sfumature diverse: nel senso che questa domanda sul primo impatto si impernia generalmente sulla "sorpresa" (un uomo generalmente non si aspetta di finire in carcere, o perlomeno spera di non finirci mai), mentre con lei mi sembra giusto un approccio diverso. Senza voler rivangare un periodo della sua vita del quale credo non voglia parlare, immagino che un uomo come lei avesse "messo in preventivo" che il carcere poteva essere un’esperienza probabile, se non inevitabile. Quale è stato, quindi, il suo primo impatto con il carcere, nel confrontare la realtà con ciò che fino a quel momento aveva solo immaginato?
Sergio Segio: Per me è sempre valsa la convinzione che un rivoluzionario che non è stato in carcere non è un buon rivoluzionario. E in ogni caso anche prima delle scelte, che ora giudico sbagliate, di radicalizzazione armata che mi portarono in carcere, pur se per periodi ben più brevi, l’esperienza della carcerazione era abbastanza consueta e connessa alle lotte operaie e studentesche della fine anni sessanta-inizio settanta e, come dicevo, già presente come area di intervento e militanza dentro Lotta continua. Dunque, nessuna sorpresa. Certo il carcere speciale della fine anni settanta e degli anni ottanta era sensibilmente diverso e ben più disumano di quello precedente. Ci sono molti carceri assai diversi, ancora oggi. Variano da regione a regione, da regime a regime. In ogni modo, la qualità della vita in carcere – mi si passi l’ossimoro - non dipende tanto dalle strutture fisiche quanto dal tipo di gestione e dagli input politici che a essa vengono dati.
Milano, 11 settembre 2004 – intervista a Luigi Pagano
Domanda: Come ho già detto nell’intervista a Sergio Segio, incontrando ex detenuti mi è spesso sembrato naturale chiedere, per prima cosa, quale fosse stato il primo impatto con l’ingresso in carcere. Mi sembra ugualmente naturale partire in modo analogo con lei, seppure con sfumature diverse: nel senso che questa domanda sul primo impatto si impernia (nel caso di un detenuto) sulla "sorpresa". Per un uomo come lei che si trova (immagino in giovane età) ad avere il primo incarico come direttore di un carcere, credo invece che questo primo incarico voglia dire innanzitutto il confrontare la realtà dei fatti con la teoria che fino a quel momento si è studiata. Quale è stato, quindi, il suo primo impatto con il carcere?
Luigi Pagano: Il primo approccio è stato catastrofico… Nel senso che mi ero laureato in Legge nel 1977, con una tesi in antropologia criminale ed uno studio sul sistema della probation, ossia sulle esperienze all’estero di applicazione di misure esterne al carcere. Da poco tempo queste misure (parlo della cosiddetta "messa in prova", della semilibertà ecc.) avevano cominciato a prendere piede pure in Italia, dopo che nel ’75 era stata varata la Legge di riforma dell’ordinamento penitenziario, in cui si parlava anche della necessità del rapporto fra il carcere e la società esterna. E invece nel 1979 mi ritrovai a Pianosa, un’isola dell’arcipelago toscano, in un carcere con sezioni di massima sicurezza: era l’antitesi di quanto avevo studiato e teorizzato… E poi erano gli anni del terrorismo, di problemi che avevo studiato ma con cui ora mi trovavo a confrontarmi quotidianamente… I primi giorni furono davvero difficili; poi, mi dissi, quello era il mio lavoro, e da allora molte cose sono cambiate…
Domanda: Lei è stato per molto tempo direttore del carcere di San Vittore. Un carcere da sempre "rinomato", ma che è rimasto sotto i riflettori nel periodo di tangentopoli, quando ai detenuti classici si è mescolata la novità dei "colletti bianchi". La cosa ovviamente ha destato clamore: ricordo distintamente che in quel periodo si tornò a parlare (in modo in parte strumentale) di sovraffollamento e degli altri problemi carcerari. Questo ha prodotto qualcosa di positivo nella realtà di San Vittore? E, sempre a proposito di "colletti bianchi": ci furono difficoltà riguardo la convivenza fra questi ed i detenuti "normali"?
Luigi Pagano: La presenza dei "colletti bianchi" non poteva cambiare assolutamente nulla… Poi, le dirò, non è del tutto corretto parlare di un loro numero massiccio: le presenze giornaliere, rapportate alla popolazione totale del carcere, erano in realtà poche. La Giustizia in generale in quel momento era nell’occhio del ciclone e giornalmente sotto l’attenzione dei media. Basta ricordare le traversie che interessarono le proposte dei Ministri Conso e Biondi, in quel periodo… Quindi la presenza di "detenuti eccellenti" non poteva cambiare niente, perché qualsiasi provvedimento sarebbe apparso come funzionale ad una certa categoria di persone. Ma se parliamo di sovraffollamento mi sembra che si debba sottolineare innanzitutto un fatto: all’epoca di tangentopoli esistevano le stesse leggi in vigore oggi; se le applicassimo (o, per meglio dire, se potessimo applicarle…) il problema del sovraffollamento sarebbe inferiore. L’opinione pubblica si interessa di questo problema solo in certi momenti, ma in realtà si tratta di una questione che da sempre preoccupa l’Amministrazione Penitenziaria. Tornando alla presenza dei "colletti bianchi", direi che NON SOLO la loro presenza non poteva cambiare nulla, ma non so neppure cosa avrebbe potuto cambiare; ripeto: già in quel momento avevamo a disposizione molte Leggi che avrebbero perlomeno potuto limitare il sovraffollamento. Anzi, per paradosso forse l’effetto è stato l’inverso, per il detenuto comune in genere. Tanto per farle un esempio banale, il ragionamento di fondo era questo: se la Giustizia non risparmia nemmeno i "privilegiati", quale garanzia o tutela in più potevano esserci per il piccolo tossicodipendente, tanto per dire? Il carcere "appartiene" da sempre a certe categorie storiche, e questo non cambiò certo con tangentopoli. Per l’opinione pubblica può esserci stata l’impressione contraria, ossia che mani pulite avesse avuto delle conseguenze serie anche riguardo la composizione della popolazione penitenziaria; ma per le categorie sociali che storicamente affollano le carceri non c’era nulla di nuovo. Tanto è vero che i detenuti comuni (e qui vengo alla seconda parte della sua domanda) non si mescolavano più di tanto con quelli di tangentopoli. I detenuti comuni intuivano, in parole povere, che per i colletti bianchi si trattava di un momento di passaggio, che era impensabile rimanessero in carcere per lunghi periodi e si integrassero col resto della popolazione detenuta. Le faccio un esempio concreto: in genere, per una sorta di legge non scritta, chi parla in carcere (intendo dire chi "fa dei nomi", chiamando in correità altri imputati) non viene visto di buon occhio e deve essere isolato dagli altri: le chiamate di correo non sono gradite agli altri detenuti, sono considerate un tradimento. Invece gli imputati di mani pulite (nonostante le numerosissime chiamate di correità) vivevano tranquillamente all’interno dei penitenziari. Dico "tranquillamente" nel senso che, passato il primo periodo, i detenuti comuni concessero molta solidarietà agli "eccellenti", mantenendo però sempre un certo distacco… Sembrava che la popolazione carceraria consueta accogliesse i nuovi arrivati capendo che queste persone stavano provando un’esperienza totalmente inattesa e traumatica, e gli concedesse la propria solidarietà; una solidarietà magari distaccata, ma mai segnata da disprezzo. E devo dire pure che molti "colletti bianchi" hanno trovato più solidarietà all’interno che non all’esterno del carcere; Sergio Cusani è il caso più conosciuto, ma le assicuro che molte persone, una volta tornate in libertà, continuarono a mantenere contatti con i detenuti comuni, offrendo loro tutto l’aiuto possibile.
Domanda: La nostra inchiesta è nata dal caso di Ramon, ragazzo cileno suicidatosi nel carcere di Iglesias. Un aspetto che ci ha particolarmente colpito nella sua storia è quello delle limitazioni da lui subite per quanto concerne diritti a visite e telefonate; limitazioni che crediamo abbiano contribuito a spingere il ragazzo alla disperata scelta del suicidio. Rivolgo quindi anche a lei alcune domande fatte al prof. Della Casa: a livello di questi diritti (telefonate, visite ecc.) come siamo giudicabili, nel paragone con altri paesi europei o comunque di cultura "occidentale"? E come siamo giudicabili riguardo all’equità con cui consentiamo di esercitare questi diritti (paragonando la condizione dei detenuti di nazionalità italiana con quella degli stranieri)? Analogamente, volevo chiederle se detenuti italiani e detenuti stranieri ricevano un uguale trattamento riguardo la concessione delle misure alternative. E, in caso di risposta negativa, quali sono i motivi per cui agli immigrati queste alternative alla pena detentiva vengono riconosciute con più difficoltà?
Luigi Pagano: Innanzitutto direi che come sistema legislativo l’Italia non teme paragoni con altri Paesi. Abbiamo la Legge penitenziaria, la Gozzini, la Simeone, la Legge sulle donne madri, quella sull’aids… Abbiamo un panorama normativo valido, che dice esplicitamente che il carcere dovrebbe essere un’extrema ratio, una soluzione cui ricorrere quando tutte le altre misure risultano inapplicabili… Eppure, paradossalmente, abbiamo un costante aumento dei detenuti. Ma se andiamo a vedere "che tipo" di detenuti affollano le nostre carceri cominciamo a capire meglio la situazione, e cominciamo a capire pure perché le misure alternative, che dovevano servire anche da valvola di sfogo dei penitenziari, non sono servite allo scopo. E questo nonostante attualmente il numero di soggetti in misura penale esterna sia più o meno analogo a quello dei soggetti che abbiamo internamente al carcere. Il problema è questo: abbiamo un ottimo sistema normativo, ma parametrato sul detenuto comune italiano. Ossia su un soggetto che in qualche modo ha una casa ed una famiglia, e che un lavoro potenzialmente può trovarlo… Per cui per le pene medio-brevi (inferiori ai tre anni) questo soggetto-tipo le misure alternative riesce ad ottenerle. Invece gli stranieri per la maggior parte sono irregolari. La logica delle misure alternative è questa: l’arresto domiciliare lo concedi a chi ha un domicilio certo all’esterno; il lavoro all’esterno lo dai a chi ha già un lavoro (o una prospettiva concreta di lavoro): per questo lo straniero, non potendo vantare questo tipo di condizioni, spesso non riesce ad accedere alle misure alternative. A questo punto, per risolvere almeno parzialmente il problema, non si deve intervenire sul sistema penale (come qualcuno pensa o finge di pensare), ma sulle condizioni sociali all’esterno, che favoriscono questo tipo di problema, o ne rendono difficile la soluzione. Arriviamo ora al discorso telefonate e visite: anche qui c’è un problema di limitazioni, è vero. Cominciamo però col dire che un minimo di controllo ci deve essere, su questi contatti. Moltissimi detenuti sono clandestini, il che vuol dire che non si hanno notizie su di loro dalle ambasciate, non si hanno a disposizione documenti identificativi validi, eccetera. Molte volte è dunque difficile valutare quale sia il reale tasso di pericolosità di queste persone, e vedere quindi per chi e fino a che punto sia ragionevole porre limitazioni e per chi sia invece inutile ed ingiusto. Le racconto un episodio: quattro anni fa un gruppo di 8 persone tentò un’evasione da San Vittore. Era implicato come capo del tentativo un detenuto che lavorava nel carcere, un addetto alle pulizie. Seppi solo successivamente che quell’uomo (che si era presentato come volenteroso e che godeva della fiducia di tutti all’interno dell’Istituto) era implicato in grossi traffici di droga… È solo un esempio, ma le assicuro che non è raro scoprire che persone che sono in carcere per un furto hanno alle spalle carriere criminali notevoli ed allarmanti… È chiaro che la presenza in carcere di molti stranieri è fonte di problemi. Esistono aspetti che all’esterno possono sembrare banali, insignificanti, ma che nella realtà quotidiana di un penitenziario sono importantissimi. Penso al cibo: adesso ci siamo adeguati, con menù appositi per chi professa la fede islamica, ma all’inizio le assicuro che questo era un grosso problema, di cui non si capiva appieno la valenza culturale o religiosa… Per non parlare della lingua; e quando parlo della lingua non intendo solo un ovvio problema di traduzione, ma parlo di un modo di esprimersi diverso dal nostro. Il problema di capire che a volte discussioni a voce alta non erano il segno di una rissa, ma un modo "naturale" di comunicare; il problema di capire che a volte gli stranieri imparavano come prima espressione italiana una bestemmia, e anche qui si innescavano banalmente dei conflitti… Non dobbiamo dimenticare che nel carcere si concentrano determinate fette della società, e che il fenomeno della stigmatizzazione finisce col farti sentire "diverso" e "negativo" rispetto a chi sta all’esterno. Vede, in fondo nel carcere si crea una riproduzione limitata ed in negativo della società, con le sue contraddizioni e le sue difficoltà di integrazione. E le peculiarità dell’ambiente contribuiscono a rendere la situazione ancora più deteriorata.
Domanda: Mi sembra evidente che nel sistema penitenziario l’amministrazione (direttore più custodia) abbia una supremazia schiacciante rispetto al detenuto. Questa, voglio precisarlo, non è una critica, ma una constatazione sulla natura delle cose. Il prof. Della Casa, a tale proposito, ripone molta fiducia nell’introduzione del Difensore Civico, come figura super partes che costituirebbe un elemento di mediazione fra custodi e custoditi. Volevo conoscere le sue valutazioni su questa nuova figura.
Luigi Pagano: Io sono scettico… Torniamo a quanto dicevo in precedenza: se lei va a vedere il sistema di garanzie presente nella Legge lo trova già valido; non sono le Leggi ad essere inadeguate: il punto è che non sono applicate o che, per meglio dire, si creano le condizioni per cui diventano inapplicabili. Esistono già figure che hanno reali poteri per intervenire a tutela del detenuto: il giudice comune, il magistrato di sorveglianza, il TAR… La figura del Difensore Civico esiste già, nei Comuni per esempio, ma non è che funzioni molto; figuriamoci in un ambiente come quello carcerario… Una figura del genere come la costruisci? Con quali poteri di incidenza? Come la integri con un sistema di garanzie che già allo stato attuale non funziona NON per mancanze legislative? Un Difensore Civico, necessariamente con poteri limitati, potrebbe servire da mediatore, certo… Però poi ci deve essere qualcuno che risponde alle esigenze dei detenuti.
Domanda: Quando si parla di carcere, uno dei discorsi che ricorre più frequentemente è quello sul sovraffollamento, di cui abbiamo già parlato in questo nostro articolo. Ripeto dunque a lei una domanda che ormai mi esce "automatica": oltre ad un utilizzo più intenso delle "misure alternative", quali potrebbero essere le soluzioni a tale problema? E quale è il suo giudizio sul recente dibattito in Italia circa le misure "svuota-carceri", che ha prodotto il cosiddetto "indultino"?
Luigi Pagano: L’indultino non poteva produrre nessun serio effetto. In definitiva si è trattato di un atto di cortesia verso l’appello del Papa, e nulla più. Ma in realtà anche un indulto o un’amnistia non sarebbero serviti a nulla. Si torna sempre al concetto di cui parlavamo prima: per risolvere il "problema carcere" ci vuole un intervento innanzitutto della società esterna. Bisogna far sì che la società esterna dimostri una sensibilità più attenta e meno episodica verso il carcere. Svuotare le carceri senza creare le condizioni di accoglienza nella società significa mandare allo sbaraglio le persone; significa aumentare (direttamente o indirettamente) la conflittualità sociale, e comporta un’onda di ritorno senza precedenti… Torniamo al discorso precedente sulle misure alternative: trovo assurdo che con tutte le misure alternative alla detenzione già esistenti non si riesca a creare una valvola di sfogo per le carceri. Anche con una misura specificamente indirizzata allo svuotamento dei penitenziari cosa succederebbe? La maggior parte dei detenuti stranieri hanno subito condanne per reati minori, hanno pene brevi, e quindi costituirebbero la maggior parte dei beneficiari: dopo una misura seriamente "svuota carceri" dove andrebbero?… Io penso fosse molto meglio l’idea proposta da molte associazioni, Gruppo Abele in testa, che si interessano di questi problemi quotidianamente: "adottiamo un detenuto". In altre parole, queste persone devono uscire perché alla base c’è un serio progetto di reinserimento. Dovrebbe essere la società a dare una mano al carcere. Svuotare i penitenziari senza che la società sia prima attrezzata significa, ripeto, mandare allo sbaraglio delle persone, che finiranno inevitabilmente col tornare in carcere… Le cito un dato: noi abbiamo avuto l’ultima amnistia nel 1990. San Vittore contava circa 2000 presenze e si ridusse a 1300… per tornare in beve tempo allo stesso numero di presenze… Il carcere non è la risoluzione dei problemi sociali: il carcere è un problema sociale da risolvere. Da risolvere con misure preventive, innanzitutto; investendo maggiormente sulle ASL o sulle comunità (se pensiamo alla tossicodipendenza), o su tutte le Associazioni che si interessano seriamente di inserimento nel mondo del lavoro… Le misure alternative alla detenzione vanno bene, ma sono sempre una misura a posteriori: bisogna invece lavorare sulla prevenzione. Io dico sempre che prima di arrivare all’art. 27 della Costituzione Italiana (quello sulla responsabilità penale e sul divieto di trattamenti penali contrari al senso di umanità), dovremmo rileggerci bene l’art. 3 (quello che dice che è compito della Repubblica "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…") e cominciare ad applicarlo.
Domanda: Ho letto, grazie al sito ristretti.it, un interessante articolo di Roger Matthews (Centre for crimonology, Middlesex University) sull’esperienza in Gran Bretagna e negli USA di parziale privatizzazione delle carceri. C’è un aspetto nell’intervento di Matthews che mi ha preoccupato: secondo l’autore "L’impatto più significativo della privatizzazione è stato lo sviluppo di un sistema carcerario più impersonale ed automatizzato. … Questa strategia si presta ad una politica di ‘inabilitazionè dei detenuti e di pura custodia, con scarsa incentivazione allo sviluppo di programmi riabilitativi …. Gli imprenditori privati hanno poco interesse alla rieducazione dei detenuti e alla riduzione dei tassi di recidiva". Mi è sembrato giusto introdurre anche questo argomento perché trovo un’allarmante analogia sulle riflessioni che facevamo sulla "filosofia" imperante da noi circa un carcere meramente punitivo, i cui obbiettivi di recupero vengono in subordine rispetto alle esigenze di "ordine e sicurezza": secondo lei la strada della privatizzazione (anche parziale) è sbagliata in ogni caso, oppure potrebbe essere un modello da seguire, seppure con particolare attenzione e con particolari correttivi rispetto al modello proposto in Gran Bretagna e negli USA? Le chiedo questo perché ultimamente anche il Ministro Castelli ha cominciato a parlare di una possibile e parziale privatizzazione delle carceri in Italia.
Luigi Pagano: Non credo, ma è mia considerazione personale, che quello della privatizzazione sia un obbiettivo primariamente perseguito dal Ministero. La privatizzazione di certi servizi, invece, potrebbe essere un discorso interessante; specie se parliamo di affidamento di alcuni servizi a cooperative di detenuti. Il rischio di una privatizzazione totale è quello a cui accennava lei, la possibilità che il privato possa, anche in buona fede, avere come obiettivo più il proprio utile che il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti o il percorso di reinserimento sociale, fatto che potrebbe portare a storture e ad eccessi … In Italia non credo esistano le condizioni per una privatizzazione. E, francamente, resto convinto che, anche per questioni di principio, l’esecuzione penale debba essere affidata in via esclusiva allo Stato.
Domanda: Restando all’aspetto più grave del "problema carceri", ossia all’elevato numero di suicidi e di atti di autolesionismo: in base alle statistiche di ristretti.it il fenomeno appare diffuso in tutte le strutture penitenziarie italiane, ma in alcune di queste i casi si presentano con una frequenza ancora più preoccupante. Al di là del fatto che ogni caso sarebbe da approfondire singolarmente, le risulta che ci siano dei "buchi neri" nelle strutture penitenziarie italiane, ossia istituti di pena in cui il fenomeno dei suicidi (o delle "morti sospette") sia riconducibile proprio a condizioni particolarmente inumane o degradanti?
Luigi Pagano: Credo che il carcere in sé sia una grossa tentazione, perché fatalmente lascia l’uomo abbandonato a se stesso, cella, monastero, penitenza, penitenziario, linguaggio, termini comuni e questo innesca dinamiche difficili da affrontare, perché riguardano la dimensione individuale e difficilmente si possono trovare soluzioni applicabili indistintamente a tutti. Ultimamente come Amministrazione Penitenziaria è stato creato un gruppo di studio proprio per cercare di affrontare e prevenire questo fenomeno. Ma ci rendiamo conto che è difficile trovare "la causa" del suicidio: per ogni caso c’è una dimensione individuale che incide pesantemente. Bisogna riconoscere che non esiste la possibilità di andare realmente a capire cosa sta succedendo nella testa di ogni persona: ogni individuo è talmente unico che può succedere in ogni momento, tanto per fare un esempio, l’arrivo di una notizia avversa che lo stato detentivo (già di per sé frustrante) amplifica nell’animo di quel dato individuo e funziona da detonatore. Il discorso è che dal momento del suo ingresso in carcere una persona non ha più la sua vita precedente, ma "un’altra vita". È significativo che il fenomeno dei suicidi interessa spesso non chi è già abituato alla vita del carcere, ma soggetti che trovano particolarmente traumatico l’approccio con la nuova realtà. È chiaro, allora, che l’articolazione di tutta una serie di attenzioni può avere effetti positivi, un po’ come quando si butta un sasso nello stagno e le onde vanno a cerchi concentrici, perché l’effetto positivo raggiunga tutti i detenuti anche quello che non conoscerai mai. Forse è solo empirismo, non si potrà creare una realtà scientifica, ma il criterio sembra funzionare se è vero che questo anno c’è stata una tendenza generale all’abbassamento del numero dei casi; parlando di San Vittore, che ovviamente è una realtà che conosco bene, ad esempio, abbiamo avuto un solo caso. È chiaro: l’obbiettivo deve essere quello di arrivare a nessun suicidio, ma il risultato sin qui ottenuto significa comunque che, anche in questo campo, prestare attenzione al fenomeno in fase preventiva funziona… Sicuramente una vita diversa,poi, in carcere potrebbe limitare il fenomeno. Io non credo alle "carceri modello", lo trovo utopistico, ma un carcere che citerei come esempio è quello di Bollate. Nel senso che si tratta di un Istituto nato per rendere concretamente migliore la qualità di vita al suo interno; è nato pensando PRIMA a creare certe condizioni "di vita" (trattamento, lavoro, ecc.) e DOPO alle regole vere e proprie del carcere. Io credo infine, ma è banale come pensiero, che se il detenuto viene impegnato in una serie di attività "positive" alla fine ha un ritorno favorevole anche la società. Diminuiscono i costi sanitari (perché a volte questi costi non sono dovuti, come si potrebbe pensare, a patologie preesistenti, ma alle caratteristiche intrinseche del carcere stesso), aumentano le possibilità di un reinserimento futuro, eccetera… Però la gente deve capire prima questo (e torniamo ad un discorso che abbiamo già fatto): il carcere non è un’isola a sé, ma fa parte della società, e quindi è necessario un maggiore interesse alla risoluzione delle sue problematiche. Il carcere deve funzionare come "trattamento", ai fini della riduzione della pericolosità sociale di certi soggetti; il carcere visto come luogo di punizione, dove ci si limita a "far passare il tempo" per detenuti, non serve a nulla… Anzi, diventa un’istituzione costosa per la società, che rischia di creare criminalità (invece di diminuirla), e dove si innescano dinamiche negative che portano all’elevato numero dei suicidi eccetera. Se il carcere esiste, deve esistere all’interno di un contesto sociale che lo accetta, lo conosce e partecipa alla sua vita perché ne riconosce l’utilità. Tante volte sento parlare di inasprimento delle misure repressive, di carcere duro, di massima sicurezza: si tratta di realtà che abbiamo già sperimentato. Fino al 1975 esisteva già il carcere come certi vorrebbero tornasse; i Vallanzasca, i Turatello e tutta una serie di grandi criminali, sono nati proprio all’interno di quella realtà. Il sistema attuale sembra non funzionare, è vero, ma bisogna ammettere che non ci si è mai sforzati di farlo funzionare. Per esempio con tutte le collaborazioni e le interazioni fra Enti Locali che andavano attivate. Oggi si parla molto di federalismo, di decentramento di certe funzioni; la Sanità è competenza della Regione, la formazione professionale è competenza della Provincia: quindi è necessaria la loro collaborazione se, ripeto, come è naturale sia il carcere fa parte della società… E poi bisogna studiare pene diverse: è assurdo detenere nella stessa struttura persone che devono scontare poche anni, se non mesi, e persone condannate all’ergastolo. Non dico che non si debbano punire i reati minori, ma bisogna studiare altre pene NON come semplice alternativa alla detenzione, ma IN VIA PRIMARIA, arrivando ad un sistema che sia più elastico e reattivo, con una pena che sia costruttiva e che in questo modo pensi non solo al colpevole ma anche alla vittima. Capisco che questo può sembrare paradossale, ma trovo che l’attuale sistema non restituisca nulla, né alla vittima né alla società, se non un qualche senso di rivalsa e di vendetta. Le faccio un esempio banale: se uno ha rubato in un supermercato forse è meglio farlo lavorare per un paio di mesi in quel supermercato, piuttosto che metterlo in carcere per lo stesso periodo…
Domanda: Una curiosità finale: parlando con ex detenuti ho trovato alcune preoccupanti analogie nei loro racconti. Ad esempio tutti descrivono come particolarmente angosciante il proprio primo impatto col carcere; ma soprattutto tutti dicono di aver appreso da altri detenuti "le regole di comportamento" interne dell’istituto penitenziario. Io penso che sia normale che l’ingresso in carcere per una persona sia traumatico, ma proprio per questo riterrei naturale che sia l’amministrazione penitenziaria ad occuparsi dell’impatto psicologico sui "nuovi arrivati". E questo specialmente perché, secondo i dati estrapolati da ristretti.it, risulta che i suicidi riguardano spesso soggetti giovani e/o appena entrati in carcere. Questo servizio di "prima accoglienza" o di "assistenza psicologica" verso i nuovi arrivati esiste nelle carceri italiane? E, nel caso in cui esista, quali sono a suo avviso i motivi per cui non funziona adeguatamente?
Luigi Pagano: In realtà il servizio esiste, e così pure l’attenzione per i nuovi arrivati, perché come dicevo in precedenza conosciamo la delicatezza dell’inserimento nei primi momenti. A San Vittore abbiamo pensato intenzionalmente di utilizzare per questo servizio non soltanto il volontariato esterno, ma gli stessi detenuti, proprio per la loro conoscenza già approfondita della vita carceraria. Il nuovo arrivato, dal suo ingresso in matricola e per i primi dieci/dodici giorni, oltre ad essere sottoposto a visite mediche e psicologiche viene seguito da un volontario, che lo affianca e lo segue per questo periodo. A dire il vero i suicidi non interessano solo i nuovi arrivati, ma si collocano anche in momenti successivi, proprio perché è sempre possibile che si inneschino quelle situazioni imprevedibili di cui parlavamo prima (l’arrivo di una notizia sgradita, il cui effetto negativo viene amplificato dal trovarsi in un ambiente ostile come quello del carcere). Però è chiaro che il momento dell’ingresso è delicato, e che a volte basterebbe un po’ più di sensibilità e di attenzione per evitare certi episodi… E fermo restando che la soluzione al problema non è semplice; perché è vero che bisogna sforzarsi di far sì che i nuovi arrivati si adattino al carcere, ma è anche vero che il carcere vive di paradossi: uno di questi è che più ti adatti alla vita in carcere più ti sarà difficile il momento del reinserimento nella società esterna… E qui torniamo al discorso sull’importanza del rapporto con la società: io credo che l’opinione pubblica deve decidersi e dire quale carcere vuole. Se l’opinione pubblica partecipasse maggiormente al "mondo carcere", e non solo sull’onda emotiva di certi momenti, sarebbe buona cosa. Non è possibile che l’opinione pubblica si schieri in termini teorici in un dato momento e poi basti un episodio a farle cambiare orientamento. Invece, a fronte magari di tanti casi di detenuti che escono e si reinseriscono, trovano lavoro eccetera, si enfatizza magari il caso di chi, appena uscito dal carcere, commette un crimine magari peggiore di quello per cui era stato condannato. Ed ecco che l’opinione pubblica, che prima chiedeva misure svuota carceri, torna a chiedere più rigore e severità… Ya fucking basta di Francesca Frizzi Maniglio
Abbiamo aperto questa nostra inchiesta sul mondo delle carceri italiane con la storia di Patty. E vogliamo chiuderla allo stesso modo… Nei futuri aggiornamenti vi racconteremo gli sviluppi di questa vicenda. Ma la storia di Patty ha una valenza che trascende il livello "personale"; è una storia che ci ha aperto gli occhi (come speriamo abbia fatto per voi) su una realtà di soprusi, di diritti negati, di disparità di trattamento fra cittadini… In attesa, dunque, degli sviluppi sulla vicenda di Ramon e di Patty, eccovi questo commento "a caldo" dal quale, in fondo, sono nate le idee per questa inchiesta.
Non sono un operatore sociale, non lavoro nelle carceri e in carcere non ci sono mai finita, né ho mai avuto occasione, qui in Italia, di andarci per trovare un amico. Eppure occasioni se ne sono già presentate. Ma in Italia non si può. Ho abitato però sei anni negli USA (dal 95 al 2001) e lì ho vissuto più da vicino la condizione dei carcerati, in quanto questi, a differenza dei detenuti italiani, non sono isolati dalla società civile come succede da noi, hanno il diritto di ricevere visite e di fare telefonate. Ho avuto modo di andare a trovare più di una persona e di avere un costante contatto telefonico ed epistolare. Patty, così si fa chiamare la giovane mamma di Ramon Enrique, vuole gridare il suo dolore; e il suo grido mi ha definitivamente svegliata da un torpore che è durato fin troppo a lungo. Patty, venuta dal Cile nemmeno un mese fa, per scoprire che suo figlio è morto come un cane abbandonato, vuole gridare il suo dolore a tutta Italia… Chi osa fermarla? Io la incoraggio: grida mamasita, grida perché non sei sola, abbiamo bisogno di ascoltare il tuo grido di dolore, aiutaci tu a capire, a farci capire, a farli capire. Chi lavora come operatore, spesso è rassegnato allo status quo… ogni giorno vede il dolore, i soprusi, le piccole ingiustizie quotidiane e forse non ci non crede più che le cose possano cambiare, perché tutti i giorni vive e vede situazioni di questo tipo, ma dobbiamo crederci per poter vincere, dobbiamo vincerla questa battaglia, la situazione può e deve cambiare proprio perché ha mietuto e continua a mietere un numero assurdo di vittime. Gli operatori, gli assistenti sociali ci aiuteranno a contattare persone, raccogliere testimonianze, racconti, esperienze, il vissuto. Ma lasciate a noi la grinta di sognare un carcere diverso, riformato, umanizzato, possibile, necessario, indispensabile. Puntiamo il dito sulle carceri americane e sulla loro pena di morte (giustamente!), eppure noi, nel nostro paese, permettiamo che dei ragazzi per reati minori (spesso spinti a compierli per situazioni di povertà, per mancanza di alternative) muoiano sepolti vivi. E dire sepolti vivi non è una forzatura o un’esagerazione, ritengo invece che sia il nocciolo del problema! In Italia i detenuti sono in un continuo stato di isolamento dal mondo, se poi capita che sia uno straniero (e qual è la percentuale di stranieri nelle carceri italiane?) l’isolamento è ancora più totale. In USA quando non ricevi una telefonata per più di 10 giorni da un carcerato sai il perché: è in isolamento, idem vale per le visite… l’isolamento è messo in pratica come castigo per cattiva condotta e in questo caso niente visite, si va in the hole, nel buco. Ma in Italia i carcerati sono sempre in isolamento, sono sempre in punizione: possono telefonare e ricevere visite solo dai familiari (perché mai?) e solo se in possesso di un regolare permesso di soggiorno! Come a dire: "se non hai famiglia, o se sei immigrato, impiccati pure! Perché tanto qui dentro sei sepolto vivo! Non esisti più!" Se Patty fosse arrivata in tempo per Ramon Enrique, non le avrebbero concesso la visita molto probabilmente! Perché tutto questo? Perché brutalizziamo così chi ha sbagliato? Perché questa forma di tortura costante e micidiale? Perché? La detenzione non implica l’isolamento, eppure da noi in Italia sembrano essere sinonimi. Accenno a questo problema perché è quello che ho potuto toccare con mano e ritengo che sia una delle cause dell’elevato numero di suicidi. Inoltre se vogliamo cambiare le cose dobbiamo assolutamente fare delle richieste specifiche, che partano dalle esigenze della vita di tutti i giorni, denunciando gli abusi ai diritti umani, i diritti fondamentali della persona. Anche chi ha compiuto un crimine è e rimane un soggetto di diritti, una persona, un essere umano. Non è più ammissibile che: i detenuti in quanto a regole siano in balia dei direttori del carcere, che non esista un regolamento di tutela dei diritti dei detenuti uguale per tutti gli istituti, che le morti in carcere non facciano notizia, che Amnesty International abbia dichiarato che in Italia nelle carceri vengono violati i diritti umani. Non è ammissibile che tutto ciò continui a succedere giornalmente senza che si levi forte e chiaro un basta da parte della società civile. Occorre informare e sensibilizzare l’opinione pubblica, stimolare i parlamentari, umanizzare il problema, prescindendo dal colore politico. Qui stiamo parlando di diritti umani!!! Cose specifiche, esempi, una lista degli abusi e dei rispettivi diritti che dovrebbero essere tutelati anziché infranti in continuazione. Il diritto ad essere curati, il diritto alla salute, il diritto a non essere sepolti vivi, il diritto per gli immigrati ad essere trattati come gli altri detenuti!… Quale può essere il nesso tra riabilitazione e isolamento dal mondo? Quale se non un abbrutimento della persona? Una tortura gratuita e ingiustificata? I diritti fondamentali devono essere uguali per tutti, il diritto a essere curati, a telefonare e ricevere visite inclusi, perché queste privazioni sono letali e i suicidi ne sono la conferma! Perché per chi ha compiuto reati non violenti anziché il carcere e l’isolamento (che nulla hanno di riabilitativo ma anzi accrescono odio, risentimento, emarginazione e comportamenti devianti) non si pone come alternativa lo svolgimento di lavori socialmente utili da compiere nel territorio (manutenzione e pulizia dei parchi, pulizia delle strade) come avviene nei paesi ‘civili’, affiancando ai carcerati, nello svolgimento di questi lavori, assistenti sociali che lavorino fianco a fianco con questi ragazzi, permettendo attraverso la frequentazione di modelli positivi di percorrere un autentico percorso riabilitativo e di integrazione? Patty nel suo funesto viaggio a Iglesias ha saputo che prima di Ramon altri due ragazzi nel giro di pochi mesi si erano tolti la vita. Nemmeno un mese dopo la morte di Ramon, il 30 novembre si è impiccato Gabriele Pasceddu, un 35enne, in un carcere di Cagliari, anche lui in carcere per reati minori. E chissà quanti altri nomi sfuggono alle cronache!…
Uniamo le forze, iniziamo il tam tam, la situazione delle carceri italiane è il peggio che abbiamo in questo paese, grida vendetta al cospetto di Dio. Si tratta della violazione dei diritti umani fondamentali! Ya basta! Facciamo sì che la morte di Ramon non sia stata vana. Uniamoci al grido di dolore di Patty e di tutti quelli che da dentro non possono gridare, non possono parlarci, non possono comunicare con l’esterno se non attraverso il gesto estremo. Io alzo il mio grido contro una situazione intollerabile, disumana che non può e non deve più continuare. Unite anche voi il vostro grido al mio e a quello di quanti hanno collaborato e collaboreranno in questa inchiesta! Facciamolo ahora, adesso. Da adesso. Tutti. Per vincere la battaglia per i diritti umani nelle carceri italiane.
"Ramon e gli altri" è un lavoro realizzato per Ecomancina.com da (in ordine alfabetico): Francesco Barilli Sonia Benedetti Francesca Frizzi Manigilio David Santi
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